Black Rebel Motorcycle Club

Black Rebel Motorcycle Club

Garage-rock per il nuovo millennio

Vestita rigorosamente di pelle nera, la band californiana s'impose al cambio di millennio come una delle migliori realtà garage-rock, contribuendo all'affermazione su larga scala del nuovo rock americano degli anni Zero. Debitori della lezione hard-blues-rock'n'roll dei Rolling Stones e delle atmosfere wave dei Jesus & Mary Chain, seppero sterzare verso sonorità roots, per poi fare ritorni sulla strada maestra

di Claudio Lancia

I Black Rebel Motorcycle Club sono una band californiana fondata nel 1998 da Peter Hayes (chitarra), Robert Levon Been (basso) e Nick Jago (batteria, l’unico inglese del trio). All’alba degli anni Zero si imposero per la straordinaria capacità di fondere la lezione rock-blues-rock’n’roll dei Rolling Stones con gli aromi new wave di diretta provenienza Jesus & Mary Chain, ai quali spesso vennero paragonati. Vestiti rigorosamente di pelle nera e amanti delle atmosfere dark, mutuarono il proprio nome da una delle gang di motociclisti protagoniste de “Il selvaggio”, capolavoro cinematografico datato 1953, interpretato da Marlon Brando.
Peter Hayes aveva alle spalle dei trascorsi negli iper-psichedelici Brian Jonestown Massacre, ma aspirava a costruire un proprio progetto musicale, e scelse di condividerlo assieme al compagno di studi Robert Levon Been, con il quale si distribuì le parti vocali. Nei primi due album Been decise di comparire con lo pseudonimo Robert Turner, per non approfittare del proprio cognome, noto nei circuiti underground in quanto il padre (Michael, scomparso nel 2010 a seguito di un infarto durante il Pukkelpop Festival mentre faceva il sound engineer proprio dei BRMC) aveva un passato come leader dei Call.

Messa sotto contratto dalla Virgin, il 3 aprile del 2001, la band lanciò sul mercato il mirabile omonimo esordio. B.R.M.C. in breve tempo divenne uno dei manifesti del nuovo (anche se revivalista) rock americano, allora ricco di una serie di compagini (fra le quali vanno citate almeno Strokes, White Stripes, Interpol e Kings Of Leon) che ne stavano disegnando l’estetica ispirandosi a significativi modelli del passato. Il grosso del movimento si sviluppò intorno a New York, ma Hayes e compagnia ne costituirono il fiero avamposto sulla costa pacifica. Il disco conteneva una serie di canzoni perfette per assurgere al ruolo di inni generazionali, fra queste spiccarono subito per efficacia la simil-punk “Whatever Happened To My Rock’n’Roll” e l’iper-trascinante “Spread Your Love”. Altre frecce appuntite erano l’iniziale “Love Burns”, la successiva “Red Eyes And Tears” e soprattutto “White Palms”, caratterizzata da un basso roboante.
Come contraltare, per conferire grande equilibrio al progetto, furono inseriti dei notevolissimi mid-tempo (“Awake”, “Rifles”) più un paio di avvolgenti e intense ballad elettriche ad alto contenuto emozionale (“As Sure As The Sun”, “Head Up High”). La conclusiva “Salvation” preannunciava scenari polverosi che sarebbero stati adeguatamente approfonditi un paio di album più tardi.
B.R.M.C. fu subito apprezzato sia dai fan che dalla critica, risultando uno dei picchi musicali del 2001, imponendosi come lavoro vibrante, a tratti persino selvaggio, denso di riff contagiosi e linee di basso torbide e sensuali. Le figure melodiche venivano sovente sfigurate dai feedback delle chitarre, eccellenti nel miscelare new wave e garage-rock, proponendo quello che diventerà il riconoscibile marchio di fabbrica della band, in procinto di affrancarsi dagli scomodi paragoni con i miti del passato, i già citati Jesus & Mary Chain in primis.

Due anni più tardi arrivò la conferma che non si trattava di un fuoco di paglia: Take Them On, On Your Own ribadì la medesima formula costituita da arrembaggi elettrici (con l’iniziale “Stop” programmatica in tal senso) alternati a emozionanti modern ballad elettricamente tese (“In Like The Rose”, “Shade Of Blue”, “Suddenly”). Il piglio dark viene sottolineato sin dall’immagine scelta per la copertina, un omaggio al celebre “Il terzo uomo”, noir del 1949 (con Orson Welles e Alida Valli) considerato fra i migliori film inglesi di tutti i tempi.
Assieme all’esordio, Take Them On, On Your Own delineò alla perfezione l’estetica garage-psych-rock dei Black Rebel Motorcycle Club, proponendo un suono maturo e vitale, come ben evidenziato da “Six Barrel Shotgun”, dura, depravata, iper-cinetica, nella migliore tradizione del Detroit sound portato al successo da Stooges e MC5. Nell’arsenale della band sono presenti anche speziature british, palesi ad esempio nell’alt-pop dell’orecchiabilissima “We’re All In Love” e l’espressione del disagio generazionale dell’epoca, manifestato in particolare nella coinvolgente “Generation”.
Le liriche si arricchiscono di qualche spunto politico, come nel caso di "Us Government", scheggia antigovernativa scartata due anni prima sull'onda emozionale post-11 settembre. Le leziosità acustiche di “And I’m Aching” e l’andamento indolente di “Ha Ha High Baby”, avvolta in una coltre di loop e rumorismi, non possono certo scalfire la grandezza di un album che trova proprio in questi episodi le giuste pause per poter ripartire in maniera ancor più diretta. Tanto che la tracklist va a chiudersi con tre tracce al fulmicotone: “Rise Or Fall”, “Going Under” e i sette minuti di delirio psicotico di "Heart + Soul", con tanto di coda noise, suggellano un’opera seconda che conferma tutto ciò che si era detto di buono sui Black Rebel Motorcycle Club due anni prima, spedendoli meritatamente sul podio del nuovo rock a stelle e strisce.
Take Them On, On Your Own è un album che pur mostrandosi a tratti levigato (si avverte la mano di ingegneri del suono navigati come Richard Simpson - già insieme a John Denver e Christian Death - Michael Been e Ben Thackeray, quest’ultimo già assistente al suono di Coldplay e The Music),  non compromette mai l'indole "lo-fi" della band, e in tal senso risultò premiante la scelta di mantenere ben cinque tracce nella medesima versione presente nei demo originali, evitando quegli eccessi di iper-produzione che avrebbero potuto minare la punk-attitude della band.

I lavori che condussero al terzo album dei Black Rebel Motorcycle Club non furono semplici. I ragazzi maturarono l’idea di dare una sterzata al proprio sound, per evitare di ripetersi all’infinito. Le operazioni furono complicate dall’abbandono del batterista Nick Jago, e per un breve periodo circolarono persino voci di un probabile scioglimento. Le fiammanti Harley Davidson questa volta restarono parcheggiate, e la band si immerse in una situazione più american roots.
Howl, reso disponibile dall'agosto 2005, aprì un nuovo corso, più lento e riflessivo, ricco di sfumature radicate nel traditional folk, lasciando nelle retrovie le aggressioni pirotecniche per lasciare spazio a nuovi sapori intrisi di polvere, sudore e bourbon. Il brano chiave del disco, ideale ponte col passato, è la title track, ballata agrodolce che seppe concretamente dimostrare da dove provenivano e dove volevano dirigersi i Black Rebel.
Il fascino del progetto complessivo è notevole: chitarre acustiche e slide punteggiano tutto il lavoro, mentre l’armonica è pronta a sottolineare i momenti più dusty già dalla programmatica “Shuffle Your Feet”. Se “Devil’s Waitin’”, “Fault Line”, “Restless Sinner” e la conclusiva “The Line” potrebbero apparire troppo pedanti per i fan della prima ora, “Ain’t No Easy Way” è divertimento allo stato puro e “Still Suspicion Hold You Tight” mette in riga gran parte dei neo-cantautori americani. Il citazionismo è spinto ma regala frutti intensi: “Promise” è la loro “Perfect Day”, “Weight Of The World” la loro “One”, “Gospel Song” la loro “Everybody Hurts”, “Complicated Situation” non ha nulla da invidiare al primo Dylan.
Howl riuscì nell’intento di imporre un sano cambiamento, dimostrando sia la grande duttilità della coppia Heyes/Been (da qui con il suo vero nome), sia il loro coraggio nel mettersi in discussione nonostante il successo raggiunto con i primi due dischi. Da questi solchi emerge un’anima quasi spiritual, densa di un desiderio di libertà, pronta a sposarsi con un senso di malinconica nostalgia. Un’anima consacrata alla grande tradizione folk americana.
Ulteriori sei trace, che non riuscirono a trovare posto nella tracklist, furono pubblicate qualche mese più tardi nel mini Howl Session Ep.

Con il successivo Baby 81, pubblicato nel 2007, si tornò a respirare elettricità. Il reintegro di Nick Jago dietro la batteria potrebbe aver contributo a rispostare l’asse sonoro della band californiana verso i due primi dischi. Baby 81 si contraddistingue per essere il lavoro più completo e ricco di sfaccettature dei Black Rebel Motorcycle Club, l’ideale summa dei tre precedenti, anche se privo del dirompente effetto sorpresa provocato qualche anno prima. Il brano di apertura, "Took Out A Loan", è quello che più si riallaccia agli esordi, ennesima eccellente reinterpretazione in chiave moderna del più classico garage-sound. I ragazzi suonano come farebbero i Rolling Stones se esordissero negli anni Zero ("Berlin"), senza disdegnare quegli inni in grado di far saltare in aria stadi interi ("Weapon Of Choice", il primo singolo estratto, e "Need Some Air", due pezzi che si prestano a essere cantare a squarciagola).
I BRMC si confermano campioni di melodia ("Window", “Not What You Wanted”, “All You Do Is Talk”) e fuoriclasse assoluti quando spingono al massimo sui distorsori, avvicinandosi persino a certi suoni grunge mai sperimentati prima: ascoltare per credere il ritornello simil-Nirvana di "Cold Wind". Alcuni momenti richiamano Howl ("666 Conducer", il falsetto di "Killing The Light", la conclusiva "Am I Only"). Ma il vero tripudio risiede nel trionfo lisergico–psichedelico degli oltre nove minuti di "American X". Baby 81 è un disco sincero, praticamente privo di sbandamenti, nel quale si viaggia a tutta velocità tenendo bene le curve; un disco "sostanzioso", senza riempitivi, ricco di canzoni indubbiamente riuscite. E' solo rock'n'roll, ma continua a piacere dannatamente.
Anche questa volta alcune tracce escluse dal disco, assieme a b-side e versioni alternative di brani già editi, vennero riunite in un mini, intitolato American X: Baby 81 Sessions Ep, arricchito anche dalla presenza del cortometraggio “American X”.

Nel 2008 il batterista Nick Jago decise di abbandonare definitivamente la band (dalla quale si era già allontanato durante le session di Howl), sostituito da Leah Shapiro.
Nello stesso anno i BRMC contribuirono con “Berlin” e “The Shows About To Begin” a uno split realizzato assieme ai Kings Of Leon, diffuso su iTunes.
Alla fine del 2008 il trio diffuse in downloading sul web un cervellotico e inconsistente esperimento strumentale intitolato The Effects Of 333. Dopo una serie di vicissitudini con le proprie case discografiche, prima la Virgin poi la britannica Echo, il nuovo lavoro venne sostanzialmente autoprodotto e pubblicato dalla loro etichetta, la Abstract Dragon. Il disco lasciò del tutto indifferenti sia i fan che la critica, senza imprimere tracce memorabili nella discografia della band californiana.

Nel 2009 una composizione dei Black Rebel, “Done All Wrong” venne inclusa nella colonna sonora del film “New Moon”, uno degli atti della saga “Twilight”, ma furono molte le canzoni della band che finirono nelle soundtrack di pellicole cinematografiche, serie televisive, spot pubblicitari e videogame.
Nello stesso anno Black Rebel Motorcycle Club Live (registrato fra Berlino, Dublino e Glasgow, e arricchito da un bellissimo booklet fotografico) rappresentò il resoconto dal vivo del tour a supporto di Baby 81, quindi con Jago ancora dietro la batteria. Un’istantanea a suggello del periodo più creativo della band, capace di passare in rassegna alcuni fra gli episodi più amati della loro produzione. Il live desta interessa più che altro per il documento video che lo accompagna, al cd è infatti allegato un doppio Dvd che rende il box imperdibile per i fan. Certo che riempitivi come questo (e come il preoccupante The Effects Of 333) lasciavano trapelare un momento di evidente stallo compositivo.

E in affetti il successivo Beat The Devil's Tattoo, pubblicato nel 2010, non brillò certo per originalità e idee, attestandosi su un rimpasto edulcorato delle esperienze precedenti. Qualcosa di root resta fra le pieghe della title track, e anche se la lama inizia a essere meno affilata, il sound resta tagliente. I BRMC hanno ormai un suono riconoscibilissimo, e dal loro trademark prendono forma brani come “Conscience Killer”, “Mama Taught Me Better” o “Shadow’s Keeper”: tutto molto orecchiabile ma spesso poco a fuoco, e non servono a molto certe sfuriate chitarristiche che tentano di dare un senso a episodi tutto sommato modesti, come “River Styx”.
A volte si ricercano soluzioni più rotondamente alt-rock, rasentando però la banalità (“Bad Blood”, “0,077083”). I consueti siparietti acustici sono assicurati dalla presenza di “Sweet Feeling” e “The Tall”, mentre su “Long Way Down” è il piano a farla da padrone, per una ballad dal vago sapore lennoniano. Il trio cerca di essere imperioso su “War Machine” o “Aya”, ma finisce per girare intorno alla stessa idea per diversi minuti senza grosso mordente, fino a raggiungere il picco dell’esagerazione negli oltre dieci minuti di “Half-State” uno psych-shoegaze-rock-blues che non resterà certo fra i frangenti indimenticabili dei californiani. “Martyr” chiude egregiamente i giochi sotto un diluvio elettrico, ma Beat The Devil’s Tattoo è la dimostrazione di quanto i Black Rebel abbiano prodotto le migliori portate nel decennio precedente.

Non andò meglio con il successivo Specter At The Feast, pubblicato a inizio 2013. Questa volta si parte con la psichedelia di “Fire Walker”, ma a prendere il centro della scena è l’omaggio al recentemente scomparso papà di Been, concretizzato nella rilettura di “Let The Day Begin”, brano dei Call risalente al 1989. Attraverso una partnership con il magazine inglese Q, venne distribuito un Ep promozionale contenente la suddetta canzone, ma tali guizzi di marketing non potevano certo essere in grado di proiettore il disco verso i piani alti delle chart, visto che la materia musicale lasciava troppo spesso a desiderare. L’alt-pop svenevole (anche se arricchito di distorsioni e slide) di “Returning” e “Lullaby” faceva perdere punti alla band rispetto a qualsiasi disco precedente, e il mestiere riusciva a sopperire soltanto parzialmente al calo di ispirazione. Fra l’altro, l’album in corrispondenza delle atmosferiche “Some Kind Of Ghost” e “Sometimes The Light” perdeva definitivamente mordente.
Specter At The Feast non è considerabile un disco riuscito, almeno per gli standard che la band aveva saputo garantire in passato: logori giacchetti di pelle e sguardi da belli e dannati non sono più sufficienti a garantire l’autosussistenza a un progetto che inizia a mostrare la corda. Peter Hayes e Robert Levon Been, muniti del medesimo look del 2000 da eterni rocker "motorizzati" non riescono a mascherare il vistoso calo di idee. L’aggancio ai consueti cliché garage-psichedelici da Rolling Stones del nuovo millennio garantisce ormai risultati pericolosamente alterni. Sarà il caso di escogitare nuove soluzioni in future per riuscire a mantenere accesa la fiamma.

Live In Paris, pubblicato a metà 2015 e il resoconto di una serata tenuta al Teatro Trianon di Parigi. La tracklist alterna brani spediti a momenti di grandissima intensità, ispirati dalla particolare atmosfera del teatro. Tanto le avvolgenti “Returning“ e “Lullaby” quanto le brumose “Some Kind Of Ghosts”, “Sometimes The Light” e “Screaming Gun”, tanto la rotonda “Lose Yourself” quanto le acustiche “Mercy” e “Shuffle Your Feet” si ritrovano a dare il mood a gran parte del disco, sapientemente intervallate agli afflati garage di “Hate The Taste” e “Rival”, alle selvagge “Teenage Disease” e “Conscience Killer”, e alle sane schitarrate di “Sell It” e “Berlin”.
Dopo aver dato spolvero ad alcuni brani meno scontati, nella parte finale della scaletta prendono posizione molti dei classici più celebrati della band, tracce immancabili in grado di scatenare l’apoteosi, quali “Rifles” (niente lacrimuccia però, mi raccomando), “Stop”, “White Palms”, “Spread Your Love” e “Whatever Happened To My Rock’n’Roll”, che chiude lo show sotto scroscianti applausi. Live In Paris si ritrova così ad assurgere al ruolo di documento celebrativo di una band che ha scritto una quantità impressionante di belle canzoni in circa quindici anni di carriera.
Nella ricca confezione, oltre al doppio album, è presente anche un dvd con le immagini del concerto ed il documentario “33,3 %”, diretto da Yana Armur, che scava nel dietro le quinte ritraendo il trio in maniera intima.

Dopo cinque anni di assenza, a settembre 2017 la band diffonde "Little Thing Gone Wild" il singolo che anticipa il nuovo album Wrong Creatures, pubblicato il 12 gennaio 2018. Wrong Creatures si impone come la loro miglior produzione degli ultimi dieci anni. Il mood è quello conclamato, in costante equilibrio fra brani che intendono rinnovare la grande tradizione del rock’n’roll più elettrico e viscerale (“King Of Bones”, “Carried From The Start”) e momenti ultra carichi di solenne intensità (“Echo”, con un incipit molto U2 ballad e il basso plasmato sul Lou Reed di “Walk On The Wild Side”, la conclusiva “All Rise”).
L’album non ha la forza di ripetere i risultati dei primi due lavori, ma per una “Calling Them All Away” o per una “Circus Bazooko” che avrebbero al massimo potuto ambire al ruolo di accettabili b-side, ci imbattiamo in almeno una traccia contenente i crismi dell’eccellenza, fra le migliori mai scritte dal trio, la notturna “Haunt”, carica di quell’epicità che seppe caratterizzare i momenti migliori dei BRMC. Fra spunti crepuscolari (l’oppiacea “Ninth Configuration”), rodate schitarrate (“Spook”, “Little Thing Gone Wild”) e frangenti psych oriented (“Question Of Faith” si posiziona dalle parti dei Black Angels), il mestiere conduce in porto un disco studiato per ridestare l’interesse di chi li seguì con passione al cambio di millennio.

Nonostante i cali di tensione presenti nella produzione più recente, i Black Rebel Motorcycle Club non possono non essere considerati fra i protagonisti assoluti dell’ondata revivalistica che ha caratterizzato il nuovo rock americano dall’anno Duemila in poi. Pur proponendo una rivisitazione di cliché ben noti (il rock’n’roll Rolling Stones-style, le ambientazioni darkwave), hanno avuto la capacità di attualizzare, attraverso la produzione di materiale inedito trascinante e di grande qualità, il sound dei propri miti ad uso e consumo del pubblico degli anni Zero. Pur non brillando per originalità, meritano senz’altro di essere annoverati nel ristretto alveo delle migliori garage-rock band degli ultimi anni.

Black Rebel Motorcycle Club

Discografia

B.R.M.C. (Virgin, 2001)8
Take Them On, On Your Own (Virgin, 2003)7,5
Howl(RCA/Echo, 2005)6,5
Howl Session Ep (ep, RCA/Echo, 2006)5,5
Baby 81 (Island, 2007)7
Napster Live Session(live, Island, 2007)6,5
American X: Baby 81 Session Ep(ep, Island, 2007)6
Kings OfLeon / BRMC(split ep,Island, 2008)6,5
The Effects Of 333(Abstract Dragon, 2008)3
Black Rebel Motorcycle Club Live(live,Abstract Dragon, 2009)6
Beat The Devil's Tattoo (Abstract Dragon, 2010)6
Live In London (live, Abstract Dragon, 2011)6
SpecterAt The Feast (Abstract Dragon, 2013)5
Live In Paris (live, Abstract Dragon, 2015)6,5
Wrong Creatures (Pias, 2018)6,5
Pietra miliare
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