Califone - Red Red Meat

Califone - Red Red Meat

Schegge di memoria

Dallo spirito avanguardista dei Red Red Meat all'Americana destrutturata dei Califone, le metamorfosi musicali di Tim Rutili hanno sempre avuto un punto in comune: il legame con le radici, frammentate e ricomposte secondo una sensibilità tutta post-moderna. Fino a far divenire le sue visioni in chiave folk un vero e proprio punto di riferimento nel connubio tra tradizione e sperimentazione

di Gabriele Benzing e Lorenzo Righetto

Da dove nascono i Red Red Meat? Li si può associare a qualcosa che non sia poltiglia, prima di tutto di carne, ma poi anche di annunci di giornale, insegne al neon, bibite grondanti, bar sporchi e tutto l’immaginario pigro e assolato, devastato e sogghignante delle viscere dell’America?
Il nome nasce da una ditta di pulizie di camion, ma potrebbe essere l’enigmatica effige a pennarello di un bagno di una stazione di servizio nel mezzo dell’Arizona, là dove, se capita la luna giusta, si può accedere al privè più esclusivo dell’inferno.

La band di Tim Rutili nasce nei dintorni di Chicago, a Addison, IL, non frutto dell’ozio arrabbiato di qualche ragazzo ma dell’incontro tra studenti di cinema e musicisti, a dimostrazione di quanto impulsività e costruzione intellettuale si confondano nella musica dei Red Red Meat: Tim e Glynis Johnson, che ai tempi suona il basso. A loro si aggiungerà più tardi Ben Massarella alla batteria.
Red Red Meat nascerà tra le mani di Brian Deck, poi anche lui membro della band.
Un olezzo narcotico spira dalle chitarre fangose di questo torrido esordio: “Sister Flossy” ondeggia tra afa e improvvisi accessi tonanti, clichè blues-rock anni 70 vomitati sulla porta di casa che improvvisamente diventano suoni lontani di lamiere e poi tornano come imponenti simulacri, divinità mute e ottuse.

Certo, Red Red Meat è il disco meno sperimentale, più acerbo della band, come dimostrano l’iniziale blues-punk di “Robo Sleep”, telefonato incubo motorizzato, o il larvale mantra grunge-blues di “Cellophane Man”, o più generiche farneticazioni rabbiose come le Stones-iane “Grief Giver” e “Snowball”.
Ma un po’ tutta la musica dei 90, post-Sonic Youth e l’epopea trasandata dei Red Red Meat si delineano in questo esordio, che non a caso permette alla band di agganciare la nascente scena di Chicago (Smashing Pumpkins su tutti), che accompagnerà in tour traendone benefici ancora da identificare, non fosse per il contratto con la Sub Pop.

Jimmywine Majestic è il primo prodotto di questa collaborazione, e le cose appaiono già cambiate già dall’iniziale “Flank”, che appare normalizzata nella pulizia della produzione e nel rallentamento dei tempi, che mettono però in risalto la forma schizoide, degenerata della canzone, l’arbitrarietà caotica della sua melodia, l’impeto bestiale e cruento delle chitarre. E, soprattutto, il suo avventurarsi profetico, sciamanico, in fondo disinvolto per i territori semi-esplorati del gotico americano.

Frozen in your headlights, glowing red
She knows you'll wait in the bruise, colored pale
Wet your mouth and lie to me
(“Stained And Lit”)

Bagliori lontani incorniciano paesaggi devastati dagli elementi, scheletri di prefabbricati ondeggianti grottescamente: ma è solo nell’acustica sdentata di “Braindead” che si può visualizzare quello che sarà, poi, la musica dei Red Red Meat. In Jimmywine Majestic la destrutturazione delle canzoni è ancora allo stadio in cui la composizione sembra solo un po’ stramba, e gli intermezzi strumentali pause di riflessione in cui la band suggerisce, e ogni cosa finisce per sembrare il contorno di qualcosa che non arriva mai (la lunga digressione di “Moon Calf Tripe”).

“Wings on fire, the stars are out”

Voglio dire, pensavo stessimo facendo un disco classic rock.
Tim Rutili

redredmeat_iEra proprio così, nonostante Bunny Gets Paid sia il disco in cui la personalità e l’agio con la costruzione e l’esecuzione musicale dei Red Red Meat si realizzano completamente. Visioni lisergiche come il famoso “tappeto di cavalli” osservato dal finestrino di una aereo (“Carpet Of Horses”), inaspettate, ermetiche elegie (la storica “Gauze”) formano il frammentario pantheon d’immagini che viene cullato dalle intuizioni della band: la raucedine rissosa – con tanto di bottiglie rotte – di “Rosewood, Wax, Voltz+Glitter” che si ricompone in un demenziale ballo sanguinante post-grunge.
Oppure la claudicante, scheletrica bellezza di “Buttered”, che confessa velatamente il dolore per la morte di Glynis, di Aids, quando lei era ormai fuori dalla band e nelle Gore Gore Girls e il rapporto con Tim era finito da tempo: “Falling sickness faked, unkind/Drawn to your sore lip, shallow/Holy water's low tide/Another fixture waiting”. Un po’ tutto il mood del disco ostenta una stranita amarezza, che trascolora nell’inedia funerea di “Sad Cadillac”, o nel brindisi corale, già ebbro di “There’s Always Tomorrow”.

Rutili guarda, ispeziona il dolore dei viventi con l’impassibilità di un biologo, o piuttosto di un profeta, di un angelo caduto, pronto come i migliori artisti a prendere su di sé una bella parte del carico. “Mi ricordo di adorare quel disco, di esserne davvero fiero, e poi, quando iniziammo a fare concerti a seguito di quel disco, ricordo uno farsi avanti fino al palco e appoggiare una nota ai miei piedi, che diceva: ‘Finitela con l’eroina e suonate un po’ di rock’.”
Non basteranno inni gothic-blues come “Chain Chain Chain”, il guizzare psicotico di “Idiot Son” a raddrizzare le antenne degli spettatori: i Red Red Meat sono troppo ambigui, in un ambiente dove il dramma è lì, tangibile a ogni angolo, a volte impossibile da discriminare dall’espressione musicale tout court e il pubblico sembra bramarlo, famelico, e vuole che ogni concerto sia uno sfogo bestiale di rumore violento.

Bunny Gets Paid scompare ben presto dalla distribuzione, per approdare nel 2009 alla prevedibile santificazione postuma a opera della Sub Pop, con l’immancabile corredo di outtake (da sottolineare la cover di “Words” dei Low) e di attestati di stima (Isaac Brock e Joe Pernice, ma avrebbero dovuto chiedere anche a Jeff Tweedy e DEE).
Ma ormai il dado è tratto, e anche There’s A Star Above The Manger Tonight sarà un buco nell’acqua ampiamente previsto. Poco male, perché quest’ultimo disco dei Red Red Meat, pur non avendo il tremore sottocutaneo del precedente, rappresenta un consolidamento evidente della padronanza della band rispetto alla propria musica. Tim lo definisce il loro miglior album, e si capisce perché.

Spinto ancor di più sui versanti di sperimentazione rumoristico/acustica che saranno un cardine della seguente carriera dei Califone, questo quarto disco del gruppo ospita larvali strimpellate al banjo (la struggente “Second Hand At Sea”) ma anche veri e propri sabba informi, ammutoliti come “Paul Pachal”, e blateranti distorsioni annebbiate (l’eterna “Like Eggs On Stilts”).
There’s A Star Above The Manger Tonight è insomma incomparabilmente più indigesto e intransigente di Bunny Gets Paid, a tratti davvero farneticante e ossificato, tanto che la melodia si dissolve in un esile percussione (“All Tied”). Dopo le iniziali “Sulfur” e la title track, fino a “Chinese Balls” (quasi più vicina agli inizi da maudit del blues-rock) e “Second Hand Sea”, naturali prosecuzioni dei racconti dal deserto oscuro dell’entroterra americano del disco precedente, la musica dei Red Red Meat si sfilaccia, come in una mutazione mostruosa in cui Tim pare perdere via via le normali capacità linguistiche e musicali, per reimpararle distorte e slegate dalla propria forma semantica. Borborigmi stomp (“Bury Me”) e messe autistiche (“Airstream Driver”) rappresentano una realtà strappata, sulla quale fisica e logica non hanno più potere, ma che tenta di ricomporsi sul sostrato emozionale e sulle rimembranze per immagini di “Quarter Horses”.

Ed è in questo marasma di strumenti rotti, ululati, in questo rumore di realtà deflagrata che avviene in There’s A Star Above The Manger Tonight – e nel tour seguente – che naufraga lentamente il progetto Red Red Meat, naturalmente dissolto dopo l’ennesima delusione. Ma non tarderà molto perché rinasca in qualcosa di nuovo.

“Mean little seed”

RoomsoundOlogrammi di un passato contemporaneo, reperti di un futuro remoto. Spiriti della terra che si nutrono di polveri astrali. Nella nuova incarnazione di Tim Rutili, folk e blues assumono i tratti di maschere ancestrali, riportate in scena attraverso un processo di destrutturazione e ricomposizione: questione di vento e silicio, corde e laptop, Dock Boggs e Phil Elvrum.
Lasciatasi alle spalle l’esperienza dei Red Red Meat, Rutili riparte dal versante più personale della propria vocazione musicale: “L’idea era quella di creare piccole canzoni pop fatte di pezzi raccattati in giro; tutto si è sviluppato lentamente da quello che doveva essere solo un piccolo progetto casalingo”. Nascono così, tra il 1998 e il 2000, due Ep che recano entrambi come titolo semplicemente il nome della sua nuova creatura artistica: Califone. Il riferimento è tutto un programma: “Califone è il nome di una ditta che produceva giradischi portatili molto solidi ed efficienti per le scuole. Ne avevamo uno con noi mentre incidevamo e ci abbiamo fatto passare attraverso ogni cosa: voce, batteria, effetti… veramente tutto!”.
All’inizio i Califone sono fondamentalmente solo Rutili e il suo computer, ma ben presto ad affiancarlo si riunisce un gruppo di vecchi collaboratori, tra cui Ben Massarella, Tim Hurley e Brian Deck. Negli Ep d’esordio (raccolti nel 2002 in un unico volume, con il titolo Sometimes Good Weather Follows Bad People), il suono del “giradischi portatile” di Rutili si presenta come una sorta di versione lo-fi degli ultimi Red Red Meat: a partire dall’iniziale “On The Steeple With The Shakes (Xmas Tigers)”, la voce strascicata di Rutili tratteggia un songwriting sghembo alla Lou Barlow, in cui le impalcature acustiche di brani come “Silvermine Pictures” vengono sporcate di deviazioni beckiane. Se il secondo Ep rivela più esplicitamente le sue ascendenze appalachiane (da “St. Martha Let It Fold” a “Don’t Let Me Die Nervous”), un ruolo centrale in entrambi i lavori spetta alle ritmiche, che in “To Hush A Sick Transmission” riecheggiano come incubi partoriti dalla mente di Tom Waits.

Dopo una lunga gestazione, nel 2001 arriva per i Califone il tempo del debutto sulla lunga distanza, con l’album Roomsound. “È più di ogni altro il mio disco”, confessa Rutili. “Avevo appena divorziato, vivevo da solo per la prima volta in vita mia e avevo smesso di bere. Completare questo disco è stato come una sorta di terapia”. Il marchio di fabbrica del gruppo si riconosce immediatamente tra le pieghe di “Trout Silk”, con un vibrare di corde acustiche che va a rifrangersi in un blues post-moderno. Ma subito i cori di “Bottles And Bones (Shade And Sympathy)” suggeriscono nuove aperture melodiche, segnando la metamorfosi rispetto ai primi passi dei Califone. Tra le ruvidezze scheletriche alla Will Oldham di “Fisherman’s Wife” e gli echi dei Red Red Meat che si ritrovano nei contorni più taglienti di “Slow Right Hand”, la formula di Roomsound non raggiunge ancora una piena coesione, ma mette in mostra tutta la ricchezza dei suoi spunti (emblematica in questo senso la lunga coda finale di “New Black Tooth”).

L’anno successivo, Rutili si avventura al fianco dei Califone a esplorare un’altra delle sue passioni musicali: quella per le colonne sonore cinematografiche. “Avevamo fatto un concerto di musica improvvisata in cui immaginavamo un accompagnamento live al film “The Mascot” di Ladislas Starevich. Il risultato ci piacque moltissimo e decidemmo di modellarlo in forma di album”. Nasce così Deceleration One, omaggio al lato più incline all’astrazione dei Califone, cui segue a breve un secondo volume (Deceleration Two), ispirato stavolta alle pellicole di Brent Green e Jeff Economy, oltre che alla “Salomé” degli anni Venti di Charles Bryant. “Lavorare con le immagini è qualcosa di totalmente istintivo”, riflette Rutili. “Per me la musica e persino le parole dei brani sono già in principio molto visive, per cui le colonne sonore sono uno sbocco naturale”.

Ma è con Quicksand/Cradlesnakes, nel 2003, che i Califone si spingono a scavare nel più profondo delle radici di cui è intessuta la storia americana, fino a polverizzarle in una miriade di schegge acuminate e ricomporle secondo la propria peculiare sensibilità: “Tradizione e sperimentazione si nutrono a vicenda continuamente”, osserva Rutili, “e questa frizione crea nuova energia”.
Nessuno stereotipato tentativo di revival, insomma, ma una volontà appassionata di riappropriarsi del proprio bagaglio di memoria. “Non si tratta di una questione di imitazione, ma di ritrovare dentro sé stessi una musica che fa inevitabilmente parte del proprio Dna, una musica che suona come se fosse sempre esistita, attraverso l’accettazione delle proprie origini e il loro superamento, senza perderne la familiarità e la bellezza”.
Così, l’introduzione di un liquido tappeto di pulsazioni radioheadiane lascia subito spazio alle note pianistiche di “Horoscopic. Amputation. Honey”, la cui morbida melodia finisce per infrangersi in un finale rumoristico degno di certe divagazioni di Jim O’Rourke. Gli arpeggi acustici di “Michigan Girls” si frammentano tra le percussioni di Ben Massarella, che a loro volta si destrutturano nel breve intermezzo strumentale “Cat Eats Coyote”.
È il continuo e ricercato equilibrio tra la forma della tradizione e lo spirito dell’avanguardia a rendere pieno di fascino ogni spezzone sonoro della musica dei Califone in Quicksand/Cradlesnakes. Se chitarre e schemi di stampo classico costituiscono la trama essenziale dell’album, la costruzione non lineare dei brani sfugge continuamente alla prevedibilità, reinventando il passato con la freschezza di una creatività mai fine a sé stessa. Tra le pieghe del disco non c’è solo lo sporco blues elettrico di “Your Golden Ass” o il profumo country di “Mean Little Seed” e “Million Dollar Funeral” (una nemesi del “$ 1000 Wedding” di Gram Parsons?), ma si passa in pochi istanti dal ritmo spettrale e ossessivo di “(Red)” alla pop song piena di leggerezza di “Vampiring Again”.
Come nello strampalato cartoon contenuto come traccia video nel cd, quello che emerge dalle note di Quicksand/Cradlesnakes è un moderno immaginario popolato dagli echi di ancestrali storie di fantasmi e peccatori, di cui non resta che il ricordo di qualche frase spezzata e apparentemente priva di senso, rimasta imprigionata al confine tra deserto e grattacieli. Un confine dove il riflesso di ieri e l’ombra di domani si uniscono lungo la linea dell’orizzonte.

“Sharpening the edges of your grace”

Heron King BluesUna creatura senza volto, metà uomo e metà uccello: è l’incubo che abita le notti di Tim Rutili, il Re Airone scaturito dai meandri delle leggende celtiche. Una visione profetica o soltanto l'ombra di un inganno?
Il mito racconta che i Britanni sarebbero stati sconfitti dai Romani proprio con lo stratagemma di un finto Re Airone, terribile divinità di cui i conquistatori seppero sfruttare l'immagine per incutere terrore negli avversari: così, la creatura che alberga nel profondo delle nostre paure può rivelarsi essere solo un travestimento fatto di un paio di trampoli e di qualche straccio, come la figura che si aggira negli irreali paesaggi della copertina di Heron King Blues.
I nostri incubi possono essere usati contro di noi. Oppure possiamo essere noi a decidere di farne uso per esprimere noi stessi. Con Heron King Blues, i Califone decidono di scegliere la seconda strada, lasciando che siano i riflessi dell'inconscio di Rutili a fare da guida alle loro improvvisazioni. Il risultato è un album dal fascino notturno e oscuro, ma meno convincente del suo predecessore, in cui le note sembrano a tratti disperdersi in un'irrisolta frammentazione.
L'iniziale "Wingbone", con la sua chitarra acustica frastagliata e la sua melodia di inattesa morbidezza, sembra fluire direttamente da Quicksand/Cladlesnakes, come se fosse un'outtake interpretata da un Robert Johnson sotto sedativi. Ma già con "Trick Bird" l'atmosfera si fa più cupa e rallentata, lasciando spazio alla voce apatica di Rutili e alle frammentazioni percussive di Massarella. E dopo uno sviluppo sempre più stridente, ecco giungere "Sawtooth Sung A Cheater's Song" a porre ancora di più l'attenzione sui dettagli: venature di organo, wurlitzer e violoncello screziano la superficie sfaccettata di un brano nella cui lentezza le parole sembrano il respiro dell'animo, fino ad abbandonarsi a una coda di percussioni che diventa sabba rarefatta e multiforme.
Sulle pulsazioni dei loop magnetici e palpitanti di "Apple", la voce si riduce a un mantra circolare, mentre la chitarra apre improvvise vie di fuga nell'eterno ritorno del proprio tema denudato. Poi, in "Lion & Bee", rimangono di nuovo solo pianoforte e chitarra per una ballata che potrebbe appartenere ai Red House Painters, se non fosse per il farsi strada di un sottofondo di interferenze elettroniche vagamente minacciose.
La vera statura di Heron King Blues sta però nei due brani che concludono l'album, prima della "Outro" che fa da congedo strumentale: non si può infatti fare a meno di restare spiazzati di fronte alla sorpresa di "2 Sisters Drunk On Each Other", con le sue chitarre funkeggianti che danzano su caldi loop pronti a schiudersi in lussureggianti corolle di fiati, fino a inacidirsi in un soul apocalittico.
E prima che lo stupore si estingua, c'è spazio ancora per i quasi 15 minuti della title track, che parte come un blues dalla sporcizia waitsiana, con una voce filtrata fino a divenire un'eco aliena, e lascia sfogare i fraseggi obliqui della chitarra sugli accenti incalzanti della batteria. Poi tutto sembra liquefarsi e perdersi nelle proprie spirali, fino a evaporare nel riflesso di quella voce indifferente, che riemerge accompagnata da un violino che sa di tempi dimenticati.
Così, veleggiando su un afflato di jazz spaziale sempre più tagliente, si arriva al caotico finale, con un velo di rimpianto per quella discontinuità che impedisce al Re Airone di mantenere tutte le proprie promesse.

“Dream for me dreamless”

Roots & CrownsRiappropriarsi della tradizione ricevuta in eredità, senza accontentarsi di una stantia riproduzione del passato: sin dall’inizio della loro carriera, è sempre stata questa la sfida dei Califone. Nel 2006, questa vocazione diventa il tema portante di Roots & Crowns: “Unire quello da cui vieni – le tue radici – con quello verso cui ti sforzi di arrivare – il coronamento”.
L’ispirazione trae origine dalle pagine di un romanzo dello scrittore canadese Robertson Davies, “The Rebel Angels”, ironica vicenda di pulsioni omicide all’interno del microcosmo universitario, in cui le ambizioni accademiche di una delle protagoniste si trovano a fare i conti con le radici di un’origine zingara: “le nuove canzoni riguardano proprio questo: da dove vieni, dove sei, dove stai andando”, spiega Rutili.
Non c’è da stupirsi, allora, che il brano maggiormente rappresentativo di Roots & Crowns sia in realtà una cover: i Califone rendono omaggio alle influenze della loro musica con una trasognata resa di “The Orchids” degli Psychic Tv, che Rutili racconta di avere ascoltato senza sosta durante la lavorazione dell’album, trovando tra le pieghe di quella soffice melodia lo spunto per ricominciare a scrivere canzoni.
Brani nati da melodie canticchiate al volante e catturate dal registratore di un cellulare, suggeriti da conversazioni ascoltate per caso, costruiti su disordinate raccolte di loop e field recording, innervati di palpiti e fruscii trovati tra le mura dello studio: “Ci siamo presi il nostro tempo per plasmare e manipolare un collage di suoni maggiormente sperimentale e tradurlo in solide melodie e in strutture di canzoni più concise”, racconta Rutili.
I tribalismi ritmici di Ben Massarella introducono il ribollente incipit di “Pink And Sour”, trafiggendo uno scheletro blues di schegge elettriche fulminee come pallottole vaganti. Ma subito il tono si distende inaspettatamente con “Spider’s House”, una delle composizioni più lievi e ariose mai realizzate dai Califone, con il prezioso contributo di una sezione di fiati presa in prestito dagli amici Bitter Tears e con un pianoforte reso acuminato dall’uso di nastro adesivo e graffette applicate alle corde.
Tra le ombre scarne e vibranti delle chitarre acustiche che guidano i mosaici di brani come “Sunday Noises” e “Our Kitten Sees Ghosts”, a spiccare sono i clangori e le distorsioni della tagliente “A Chinese Actor”, accanto alle deviazioni ed ai cambi di ritmo di “Black Metal Valentine”, incalzante rassegna di drumming plastico e sibili sintetici. Invenzioni percussive e chitarre frastagliate, insieme al mormorio brumoso di Rutili, avvolto dall’accompagnamento di diafani cori, sono il tessuto connettivo di Roots & Crowns, che i Califone immergono in una costante nebulosa di indecifrabili interferenze.
La danza atavica di un violino folk accompagna il breve intermezzo strumentale di “Alice Crawley”, lasciando spazio alla voce d’oltretomba e ai battimani zombie di “Rose Petal Ear”. Ma è con “3 Legged Animals”, nuova versione di un brano scritto originariamente da Rutili per il thriller-horror “The Lost”, che l’equilibrio formale raggiunto da Roots & Crowns arriva a conquistare davvero una compiutezza degna degli Wilco, tratteggiando un desiderio di rinascita che sembra scaturire dalle tracce di “A Ghost Is Born”: “Leave your memories, we’re almost new/ sleep for me sleepless/ dream for me dreamless”.

“All my friends are half-gone birds”

All My Friends Are Funeral SingersDopo anni di carriera e almeno due opere chiave come Quicksand/Cradlesnakes e Roots & Crowns, è sin troppo facile cadere nella tentazione di dare per scontata la genialità decostruzionista dei Califone: una capacità con pochi eguali di smontare il mosaico della tradizione americana per ricomporlo secondo nuove prospettive, senza mai cedere al gioco della cerebralità.
Tuttavia, in All My Friends Are Funeral Singers (che nel 2009 segna il passaggio del gruppo tra le fila della Dead Oceans), la consueta sapienza di Rutili e soci nel mescolare i tasselli del puzzle non corrisponde sempre a una altrettanto brillante sensibilità nella ricostruzione complessiva del quadro: questione di sfumature, di fronte a un lavoro che continua comunque a sviscerare con passione e inventiva gli archetipi della famigerata forma-canzone, anche se con risultati appena meno a fuoco rispetto al diretto predecessore.
Distorsioni fluttuanti, reiterazioni magmatiche, improvvisi squarci di interferenze al servizio di un beat più plastico che mai: l'iniziale "Giving Away The Bride" sembra fatta apposta per spiazzare. Il resto del disco, però, prosegue lungo coordinate più familiari alla traiettoria dei Califone. Sulla scia di Roots & Crowns, la band rimane fedele all'intento di importare ingredienti popular nella propria centrifuga folk: ecco allora nuove aperture melodiche prendere forma tra le chitarre asciutte e i feedback di "Polish Girls", mentre "Krill" sembra voler indire un immaginario convegno tra Will Oldham e Jason Lytle.
Il passo diretto di "Funeral Singers" porta impresso il marchio inconfondibile dei classici della band americana: del resto, i mormorii pensosi di Rutili, le percussioni di Ben Massarella e la produzione di Brian Deck sono i tratti costanti di una personalità e di una coerenza immediatamente riconoscibili. Al cuore del disco c'è sempre la dimensione folk in tutte le sue molteplici sfaccettature, dagli arpeggi circolari di "1928" al blues dalla lama affilata di "Salt", passando attraverso il ballo agreste (post-bluegrass?) di una "Ape-like" intorno a cui turbinano banjo, organo e feedback. Ogni brano sembra sospeso in un pulviscolo di suoni e ritmi, scampoli di elettricità e ceppi acustici sporcati di intromissioni digitali: c'è sempre un filo sottile, però, a tenerlo ancorato alla terra, con una cura dei dettagli dalla sorprendente ricchezza.
All My Friends Are Funeral Singers nasce come un progetto cinematografico, destinato a fare da colonna sonora al primo, omonimo lungometraggio firmato da Rutili, presentato al Sundance Festival del 2010. Una vocazione al rapporto tra musica e immagine che non è certo nuova per i Califone e che è testimoniata in questa occasione dai tre brevi strumentali inseriti nel disco e da una "Buñuel" che rende omaggio al regista spagnolo ("Every camera loves you better/ When you quit trying to play"), alternando una danza di fiddle a un tagliente spirito rock degno del passato dei Red Red Meat.
Immagini e visioni, del resto, sono la sostanza della musica dei Califone e i sogni sono da sempre i migliori amici di Rutili: "All my friends are weeds and rain/ All my friends are half-gone birds, are magnets/ All my friends are words", sussurra in "Funeral Singers". Alberi che crescono dalle tombe, gettando le radici nelle nostre stesse ossa; mangiatori d'oppio e macerie di guerre civili; caleidoscopi dai colori cupi, popolati di animali, esorcisti e spose. Apparizioni antiche e postmoderne, inestricabilmente intrecciate tra di loro.

“Watching the new world die”

Stitches
Istanti. Frammenti. A volte la vita sembra fatta di brevi attimi che si susseguono uno dopo l’altro senza soluzione di continuità. Quello che conta è il filo che tiene legate le pagine, la trama capace di ricondurre ogni cosa ad unità: cuciture, rammendi, suture. Stitches, il titolo scelto nel 2013 da Tim Rutili per il ritorno dei Califone dopo quattro anni di pausa, si rifà proprio a questo: ai legami che tengono uniti i pezzi, ai punti che richiudono le ferite. A ciò che può infondere all’individualità di un pugno di canzoni l’appartenenza a una visione comune.
Ha un’anima multiforme, Stitches. “Abbiamo trattato ogni brano come un pianeta a sé stante”, afferma Rutili. “Volevo che questo fosse un disco più schizofrenico, capace di unire insieme trame ed emozioni confliggenti”. Da qui la scelta di allontanarsi da Chicago e di lasciare che le registrazioni si articolassero senza un baricentro unitario, tanto dal punto di vista geografico quanto da quello umano. California, Arizona, Texas. Nella cabina di regia, rispettivamente, Griffin Rodriguez, Michael Krassner e Craig Ross. “Coinvolgere persone differenti e registrare in luoghi differenti ha contribuito a conferire una certa tensione all’insieme”.
L’approdo segna un ulteriore avvicinamento del gruppo alle architetture più classiche della canzone: lo testimonia subito lo spoglio incipit acustico di “Movie Music Kills A Kiss”, con una linearità di sviluppo appena screziata dall’insinuarsi di punteggiature di tastiera. Gli accenti rock in chiave Wilco si fanno più marcati che mai sulla batteria carica di enfasi di “Frosted Tips”, mentre la title track si avviluppa vaporosa a un beat dal passo lieve.
Sono però gli orizzonti desertici di “moonbath.brainsalt.a.holy.fool” a tratteggiare nella maniera più emblematica i paesaggi di Stitches, evocando le visioni di frontiera di Howe Gelb sul suo srotolarsi polveroso, tra echi di armonica e di pedal steel.
Il vento porta con sé storie che vengono da lontano, intessute di suggestioni bibliche. L’andamento pianistico di “Magdalene” si accompagna di fiati e cori come una sorta di country-gospel agnostico, il cammino verso la terra promessa si dipana attraverso gli archi cinematografici di “Moses”. Individui unici e archetipi universali, i cui volti si sfaldano tra i suoni liquidi della conclusiva “Turtle Eggs / An Optimist”.
Eppure, nel suo procedere dal multiforme all’uno, Stitches sembra fermarsi a un punto incompiuto: il progressivo accostarsi dei Califone a fisionomie più consolidate trasfonde solo in parte la personalità del gruppo. Al di là degli intenti, resta quasi un pudore di Rutili a rivelarsi fino in fondo troppo apertamente, che lascia le canzoni di Stitches sospese tra concretezza e astrazione.
La trama dei Califone a venire è un filo ancora da intrecciare.

"Maybe everyone involved in this project is an abstract painter"

Echo-mineEcco, partiamo da questa frase. Si badi bene: astratto sta per afigurativo, non anti-figurativo. Una rappresentazione destrutturante non basta a negare la forma del soggetto in posa davanti al cavalletto. Dubbi sul fatto che la tradizione musicale USA sia concreta come una botte di bourbon, e che i Califone siano pittori astratti? Bene, procediamo.

Teniamo come punti fermi l'inizio e la fine, intendendo il titolo e l'ultimo brano (e primo singolo) dell'album. Una prima considerazione è d'obbligo: bisogna poterselo permettere di mettere un pezzo come "Snow Angel" in fondo alla scaletta, nonché di spoilerarlo poco prima con una subdola versione unplugged. Quanto diamine è bella quella canzone? Un autore più furbo e meno dotato l'avrebbe senza esitazioni sganciata in apertura, ma Tim Rutili è troppo dotato per giocare a fare il furbo. Cos'hanno in comune questo "angelo di neve" e l'eco riverberato dall'intestazione? Il primo è una matita che cancella il suo stesso tratto, comunque destinato alla dissoluzione per opera della gomma solare; il secondo è un fenomeno acustico che, rimbalzando su una o più superfici, si degrada fino a scomparire, come c'hanno insegnato Arthur Russell prima e William Basinski poi. 

Figure sbiadite, che non lasciano tracce durature ma, nell'istante in cui si manifestano, possono togliere il fiato. Se ci si pensa, è un po' il programma dell'intera dottrina-Califone: frammenti di vite precedenti, moncherini di statue un tempo animate, moscerini spalmati sul vetro di un'auto in corsa. Gli ultimi fumi dalle macerie di un impero, aggrappati al presente come vernice su una tela: da questo punto di vista, la musica di Rutili & co. è un atto al contempo lirico e resistenziale, un diario di trincea di cui Echo Mine costituisce una nuova, ermetica pagina.

La differenza, stavolta, è il rigore geometrico della messa in scena, disposta come una fuga jazzistica: le canzoni vere e proprie sono le fette di pane alle estremità, gli esperimenti la farcitura nel mezzo. L'incipit dice già tutto sul mood che ci attende, perché non ci vuole un sensitivo per capire che "Romans" vada letto come "romance" e, a mali estremi, l'invito del ritornello spazza via ogni dubbio residuo: "Kill the algorithm". Nella traversata del deserto che porta fino all'angelo di neve (pur sapendo che, all'arrivo, si sarà già sciolto!) troveremo le prede abituali del loro carniere, e molto altro: rasoiate di slide, saturazioni younghianekrauti sott'aceto, oscillatori, filtri, rumore. Mostruosità alchemiche, esposte in un museo o miscelate nelle provette di qualche scantinato clandestino.

Poi ci sarebbe il balletto di Robyn Mineko Williams di cui questi dieci bozzetti costituiscono il commento, ma non lo voglio vedere: preferisco fantasticarli, quei passi di danza, magari mimandoli in prima persona. Sono loro stessi a suggerirmelo, d'altronde: "When you're feeling down and you feel yourself slipping/ You have to access that inner actress in you".

Il punto non è che Echo Mine rappresenti chissà quale passo avanti nel loro ormai ultraventennale percorso: il punto è che è l'ennesimo disco inclassificabile di una band preziosa come le acque del lago Michigan. Niente male, per un Frankenstein rattoppato. Ma forse siamo volati troppo oltre, torniamo a terra con qualche domanda retorica da critico di terz'ordine: è meglio emozionare o sperimentare? "Tradizione" o "innovazione"? Meglio essere Tim Rutili, sempre e comunque. Provateci, se vi riesce.

La conferma della ritrovata ispirazione giunge tre anni dopo con Villagers, nove brani che riconfermano una solidità ed una varietà di scrittura che non rinnega passate tentazioni di musique-concréte, incastrandole nella pagina apparentemente più pop del disco, una sterzata melodica che in mani più scaltre poteva aspirare a ben altre glorie (“The Habsburg Jaw”), o rimestandole nei sette minuti di “Mcmansions”, un trip emotivo profondamente viscerale che racconta il calvario di chi è vittima della droga.
Nell'affrontare la decadenza della vecchia America i Califone raccontano l’avvento della vecchiaia attraverso la fragile icona del giovanilismo nella mesta goth-ballad “Halloween”, citano Burt Bacharach nel graffio soft-jazz-pop di “Ox-eye” e nell’arrendevole simil bossa nova di “Sweetly”.
Con Villagers i Califone riconquistano senza più indugio alcuno un posto di rilievo nella scena alt-rock americano con un set di canzoni intelligentemente agrodolci (“Eyelash”), brani ricchi di reminiscenze passate e fugaci progetti per il futuro che raccontano una realtà fatta di sentimenti, riflessioni e caos.  

Contributi di Ossydiana Speri ("Echo Mine"), Gianfranco Marmoro ("Villagers")

Califone - Red Red Meat

Discografia

RED RED MEAT
Red Red Meat(Perishable, 1992)6
Jimmywine Majestic (Sub Pop, 1993)6
Bunny Gets Paid(Sub Pop, 1995)8
There's A Star Above The Manger Tonight(Sub Pop, 1997)6,5
CALIFONE
Califone (Ep, Flydaddy, 1998)7
Califone (Ep, Road Cone, 2000)7
Roomsound (Thrill Jockey, 2001)

7

Deceleration One (Perishable, 2002)

6,5

Sometimes Good Weather Follows Bad People (Road Cone, 2002)

7

Quicksand/Cradlesnakes (Thrill Jockey, 2003)

7,5

Deceleration Two (Perishable, 2003)

6,5

Heron King Blues (Thrill Jockey, 2004)

6,5

Roots & Crowns (Thrill Jockey, 2006)7,5
All My Friends Are Funeral Singers (Dead Oceans, 2009)7
Stitches (Dead Oceans, 2013)6,5
Echo Mine(Jealous Butcher, 2020)7,5
Villagers(Jealous Butcher, 2023)8

Pietra miliare
Consigliato da OR

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Stained And Lit
(da "Jimmywine Majestic, 1993)
Chain Chain Chain
(da "Bunny Gets Paid", 1995)
Fisherman's Wife
(da "Roomsound", 2001)
Silvermine Pictures
(live, da "Sometimes Good Weather Follows Bad People", 2002)
Michigan Girls
(live, da "Quicksand/Cradlesnakes", 2003)
3 Legged Animals
(da "Roots & Crowns", 2006)
The Eye You Lost In The Crusades
(da "Roots & Crowns", 2006)
Spider's House
(da "Roots & Crowns", 2006)
Funeral Singers
(da "All My Friends Are Funeral Singers", 2009)
Better Angels
(da "All My Friends Are Funeral Singers", 2009)
Snow Angel V2
(da "Echo Mine", 2020)

 

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