Deftones

Deftones

Crossover al rumor bianco

Tra i primi a mescolare i ritmi sincopati del rap alla forza d'urto del metal anni Novanta, i californiani Deftones virarono verso lidi deserti con "White Pony", partorendo uno dei migliori lavori di un'intera scena musicale

di Danny Stones

Contaminazione, crossover, fusione di generi opposti in un plurale nuovo ibrido, neologismi improbabili occorsi a classificare nel tempo la musica dei Deftones, band rispettata e di riferimento di una scena cui probabilmente non hanno mai fatto parte, se non agli esordi.
Se c'è un'etichetta che arreca confusione - e ormai spesso disgusto - tra critica e fruitori di musica rock, è certamente il volgarmente detto nu-metal, in realtà generico sinonimo della combinazione fra musica rap e funk con la forza d'urto del metal che, dai Fishbone fino a giungere ai Faith No More di "Angel Dust", se non addirittura ai Primus di "Pork Soda", ha influenzato una serie di band poi divenute a loro volta molto influenti, come Rage Against The Machine, Korn e appunto Deftones, abili, in modi e misure diverse, ad aver portato alle estreme conseguenze quanto di buono avevano seminato nell'underground californiano gli artisti di cui sopra. A ben vedere gli stessi Black Flag, come anche e differentemente i Jane's Addiction qualche anno più tardi, avevano lavorato d'astuzia, incrociando il punk alla vena hard delle loro composizioni, fondendo quindi diverse esperienze in una sorta di crossover primordiale.

La retrovisione fin qui intrapresa mostra come un'etichetta su un genere ampio e non facilmente definibile possa risultare ancor più fuorviante e scatenante incomprensioni di quanto non sia già accaduto sin dalla sua coniazione con il termine grunge, sotto cui risiedono band enormemente distanti fra loro quali Mudhoney e Alice In Chains, che a conti fatti in comune avevano soltanto la città di provenienza. L'equazione con il grunge, tuttavia, ci tornerà utile per dimostrare come da circostanze e posizioni diverse possano fermentare situazioni equivoche e giustificanti il disgusto di cui si accennava.
E in questo caos di definizioni si presentano sulla scena i Deftones da Sacramento, combo multietnico che cresce come band prodigio di una comunissima high-school americana. Giovanissimi quindi, intraprendono il loro percorso musicale suonando tutto ciò che amano, senza badare più di tanto a crearsi un sound né tantomeno una direzione specifica da seguire.

Il cantante e leader della band è Camillo Wong Moreno, soprannominato Chino dalla stessa madre per via dell'aspetto fisico che negli anni dell'infanzia lo faceva assomigliare a un perfetto bambino cinese; Chino ha la prima vocazione per la musica quando a 15 anni assiste a un concerto dei Cure di Robert Smith nella sua città. Diventa quindi, in ritardo con la tendenza essendo troppo giovane ai tempi dell'esplosione del movimento, appassionato del fenomeno new wave, che successivamente influenzerà anche la musica del suo gruppo. Se Moreno vive la sua adolescenza addormentandosi sui Joy Division, sui Depeche Mode, o addirittura sui Duran Duran, gli altri ragazzi della band crescono coi riff metallici di Iron Maiden e Metallica, in altre parole i nomi più rappresentativi di un genere che negli anni Ottanta ha visto la sua prima vera forte esplosione. Parallelamente alle prime esibizioni, i Deftones iniziano a prestare orecchio ai richiami provenienti dalle scene alternative rock di Los Angeles e San Francisco. Saranno soprattutto i Faith No More la grande e mai nascosta fonte di ispirazione del gruppo, che però trasporterà in tutt'altre direzioni il crossover funk/metal della band di Mike Patton, aggiungendo alla dose diverse esperienze del tutto estranee alle combinazioni schizofreniche del gruppo di San Francisco.

Siamo alla vigilia della morte del grunge e nel momento di maggior attenzione per il crossover, quando arriva nei negozi il primo e omonimo album dei Korn di Jonathan Davis, prodotto dal guru Ross Robinson, che estremizza radicalmente la lezione rap combinato a heavy-metal proposta dai nomi precedentemente accennati, e in parte fa perdere punti in termini di effetto-sorpresa alle prime composizioni dei Deftones, ormai pronti al debutto con quelle che diverranno le canzoni di Adrenaline. In realtà, Moreno e soci capiscono di non essere i soli ad aver maturato un determinato sound partendo dalla stessa formula, e la buona compagnia li aiuta piuttosto a trovare subito un contratto discografico con la Maverick - etichetta nientepopodimeno che di Madonna - forti anche del buon riscontro di pubblico, che partecipa con interesse alle loro prime esibizioni.
La Maverick mette a disposizione del gruppo il produttore Terry Date, arcinoto nell'ambiente per album come "Vulgar Display Of Power" dei Pantera, come anche "Badmotorfinger" dei Soundgarden, e iniziano le registrazioni di un album completato in breve tempo e con una minima parcella di spese nello studio Bad Animals di Seattle.

Adrenaline giunge silenziosamente nei negozi nel settembre del 1995 e vi rimane altrettanto silenziosamente per molto tempo. Solo un estensivo tour e il relativo successo del seguente album comincerà a smuovere l'interesse per un esordio che passa quindi inosservato, nonostante la carica emotiva di alcuni brani poi destinati a diventare dei veri cavalli di battaglia della band. A oggi, per la cronaca, Adrenaline è il secondo album più venduto dei Deftones negli Stati Uniti. Impensabile all'epoca un exploit europeo - gli stessi Faith No More e Red Hot Chili Peppers ancora stentavano a entrare nelle chart d'oltreoceano - Adrenaline avrebbe potuto comunque conquistare il pubblico americano, ma non ha usufruito dell'appoggio dei giusti canali mediatici. L'album è un vero assalto frontale, e presenta in nuce tutte le caratteristiche della band: tempi dispari e ritmi sofisticati da parte del batterista Abe Cunnigham, i riff rabbiosi e aggressivi della chitarra di Stephen Carpenter, il basso portentoso ma meno sporgente rispetto a quello di tutti gli altri gruppi crossover del periodo di Chi Cheng, e il curioso modo di cantare di Chino Moreno, che anziché abbandonarsi agli scioglilingua sincopati del rap, sceglie prevalentemente un cantato sospirato e riflessivo, spesso filtrato, che sfocia in grida di rabbia repressa pronta a esplodere senza mai farlo risultare banale o patetico. L'album presenta dieci brani - più uno nascosto prodotto proprio da Ross Robinson - che passano dal crescendo triste e desolante di "Bored", alla cadenza irregolare di "Minus Blindfold", al perfetto connubio hardcore/metal di "Nosebleed", fino all'esilarante e irresistibile marcetta di "7 Words", probabilmente ancora oggi il brano simbolo del gruppo, e una delle tracce fondamentali di un intero movimento. Giunti al refrain, si intuisce chiaramente il motivo per cui Mtv scelse di non passarne il video.

Sono trascorsi due anni, prevalentemente passati in tour (anche di spalla ai Korn), quando è pronto il nuovo album del gruppo, Around The Fur, che stavolta riesce faticosamente a conquistare la ventisettesima posizione nella chart di Billboard. I Korn hanno raggiunto una popolarità non immaginabile al loro esordio, i Faith No More si adattano al trend dando alle stampe il loro album più heavy con "King For A Day, Fool For A Lifetime", e i Sepultura, raggiunto l'apice del successo con "Roots" (cui partecipano anche Mike Patton e Jonathan Davis), si sciolgono.
La nuova opera è ancora prodotta da Terry Date, ed è di nuovo registrata a Seattle, ma stavolta nello Studio Litho, base dei Pearl Jam che vi si alternano ai Deftones per incidere quello che diventerà "Yield". Around The Fur è un album che non lascia indifferenti, a partire dalla cover frontale, che vede rappresentata una giovane e sorridente ragazza in bikini. Un'immagine al limite del volgare e apparentemente senza senso che offende più di un benpensante.
Max Cavalera dei Sepultura è ospite dei Deftones nella disperata "Headup", che recita "I never said or got to say bye… …Soul fly high, fly free", versi da cui nascerà il nome Soulfly, band tutt'oggi in attività. Ma il succo di Around The Fur è soprattutto nell'alternanza fra atmosfere di stasi desolate e l'aggressività sonora dei riff tipicamente metal che imperversano in tutto l'album, ancora riconducibili all'album d'esordio. Quello di "My Own Summer", brano remixato anche dai Nine Inch Nails, diventa la sigla della nota serie televisiva "The Osbournes", che prendono sotto la loro ala protettrice - la moglie di Ozzy è stata per molti anni una manager affermatissima - la band di Chino Moreno, inserendoli nel cartellone dell'Ozzfest, crocevia e trampolino di lancio per molti gruppi del campo hard e heavy. L'altro brano più rappresentativo dell'intero lotto è sicuramente "Be Quiet And Drive", un altro dei loro picchi artistici: una cavalcata post-metal sul tema dell'alienazione del protagonista, che si eleva come migliore composizione di un album dove, fra le altre, spiccano anche l'inquietudine della title-track, e Mascara, il primo segnale tipicamente darkwave, influenza poi destinata a rimodellare il sound della band.

I Deftones partecipano quindi alla carovana del Family Values, una sorta di sostituto del Lollapalooza ideato da Perry Farrell, insieme alle mediocri band nate per seguire le orme degli originali, ai giovanissimi Incubus e agli stessi Korn. Per recuperare punti nei confronti di chi a conti fatti ha inventato un suono che ha fatto scuola, molti nuovi gruppi crossover (da qui in avanti definiti nu-metal) inseriscono nelle loro fila una nuova discussa figura: il deejay. Succede così che musicisti spesso non in grado di replicare le gesta dei loro padri putativi riescono tramite altra via a ricondursi verso un sound altrimenti lontano e irraggiungibile, arricchendolo anzi di una componente hip-hop che ne ha fatto ottenere il successo anche presso le nuove generazioni di teenager. Siamo prossimi anche alla decadenza dei maestri del genere, che lasceranno il passo ai nuovi ibridi super-sponsorizzati dai media e dalle radio americane. Tornando quindi al paragone iniziale con il movimento grunge di Seattle, non possiamo non notare delle analogie evidenti con ciò che è stato il crossover/nu-metal nella seconda metà degli anni Novanta. Infatti, come dal successo di "Nevermind" sono fioriti in ogni parte del mondo, Seattle compresa, ragazzi in camicie di flanella con scarpe Dr. Martens (Candlebox, Silverchair, Bush e successivamente Nickelback e Puddle Of Mudd, per citare solo qualche nome rappresentativo), nell'altra scena di cui trattiamo, in molti, troppi hanno ottenuto il successo con le idee degli altri, mancando ingiustamente di rispetto nei confronti di chi in realtà aveva davvero creato qualcosa di nuovo.

In questo contesto, non perdiamo di vista il percorso dei Deftones, che alla vigilia delle registrazioni del loro terzo album in studio, annunciano l'allargamento a cinque membri della loro line-up, per l'ingresso in pianta stabile del Dj Frank Delgado, già collaboratore della band. La notizia inizialmente suona come una rincorsa patetica all'ultima tendenza: la musica dei Deftones fino ad allora non aveva bisogno di nessun deejay. Il nuovo album tuttavia rivelerà come Delgado più che un domatore di scratches sia un abile manipolatore di suoni, campionando gli strumenti in modo da catturare quelle sonorità insite nei Deftones sin dai loro esordi e sorgenti dalle loro influenze precedenti.

White Pony (2000) è il capolavoro dei Deftones, e porta la band spanne sopra la volgare massa cui si accennava precedentemente. Un lavoro ambizioso e riuscito in ogni suo dettaglio, che, trainato dal video di "Change (In The House Of Flies)", raggiunge inizialmente il successo non solo negli Stati Uniti dove debutta direttamente al terzo posto, ma anche nella vecchia Europa che fino a questo momento era rimasta a guardare disinteressata. L'album è ricco di sonorità più orecchiabili e atmosfere dark, immobilizzate entro melodie eteree e sognanti, miste a potenti sferzate di rabbia come nella schizofrenica "Elite", vincitrice poi di un Grammy Award quale miglior performance hard rock/metal. I temi affrontati nelle canzoni riguardano spesso ricordi dell'adolescenza, interpretati secondo uno spirito non lontano dal genere emo di cui Chino Moreno si dichiara candidamente estimatore. "Digital Bath" raggiunge una maturità impensabile per un genere che fino a pochi anni prima era funk/metal o morte, mentre "Rx Queen", la cui melodia viene scritta a quattro mani da Chino con Scott Weiland degli Stone Temple Pilots che vi avrebbe dovuto duettare, torna ancora a riflettere quelle strutture non lontane dai Cure cui i nostri sembrano voler ambire. Non fallisce invece il duetto con Maynard James Keenan, voce di Tool e A Perfect Circle, nella splendida "Passenger", dove Moreno e Keenan - autore anche del testo del brano - sono alle prese con una canzone che sembra avere lo stesso significato socio-musicale che aveva avuto "Hunger Strike" dei Temple Of The Dog quasi dieci anni prima. E' davvero inutile dilungarci passando in rassegna ogni brano di questo album, essendo tutti ammirevoli e riusciti.

Il tour dei Deftones passa in due occasioni anche in Italia: storica la performance all'Indipendent Days Festival di Bologna, dove la band, ripresa anche dalle telecamere di Videomusic, lasciava il palco sotto l'ovazione del pubblico; ovazione che si tramuta in fischi e lancio generalizzato di oggetti contro i successori a salire sul palco, che elegantemente scegliamo di non menzionare.
Tuttavia il successo a livello di critica e di vendite di White Pony coinvolge solo parzialmente gli States, maggiormente concentrati sulle prove di Creed e Limp Bizkit.
A distanza di tre anni esatti, e dopo un Ep prevalentemente trascurabile, arriva il lungamente atteso nuovo album dei Deftones, prodotto per la quarta volta consecutiva da Terry Date, registrato e posticipato varie volte, a causa di problemi all'interno delle famiglie dei membri del gruppo. Inizialmente intitolato "Lovers", poi stampato senza alcun titolo, l'album omonimo Deftones del 2003 sembra voler a tutti i costi dimostrare alle schiere di teenager che hanno trovato nei Linkin Park il loro gruppo da venerare cosa significhi essere heavy e padroni (come i self-proclaimed "untouchables" Korn) di un genere. Il disco però risulta paradossalmente debole e testardo, proprio perché, al cospetto di White Pony, le nuove canzoni sembrano partorite controvoglia dalla mente di un gruppo che aveva trovato in altri lidi la sua forma estetica migliore.
In Deftones non mancano episodi degni di nota, come il singolo "Minerva", variante dell'esemplare perfetto di canzone à la Deftones del nuovo corso, "Hexagram", la cui potenza hardcore è seconda solo alla "Elite" precedentemente menzionata, "Deathblow", che ripercorre invece la vena darkwave del gruppo, e la sorprendente "Anniversary Of An Uninteresting Event", un dolce brano ambient-rock, che crea atmosfere del tutto impensabili immerso nel contesto devastante del disco. L'album esordisce al numero due di Billboard, ma crolla rapidamente fino a risultare un mezzo passo falso anche in termini di vendite. Successivamente a un estenuante tour americano ed europeo (quest'ultimo, che non toccherà l'Italia, con gli A Perfect Circle come supporter), la band trova giusto il tempo di partecipare alla serata celebrativa di Mtv per i Cure, dove i Deftones interpretano dignitosamente "If Only Tonight We Could Sleep", applauditi da Smith, Gallup e compagni.

Dopo innumerevoli rinvii dovuti alla mancanza di una casa discografica, presto potrebbe vedere la luce il side-project Team Sleep, dove Chino Moreno, in compagnia di nuovi fidati collaboratori, esplorerà sonorità ambient e trip-hop, senza rinunciare a un moderato utilizzo di chitarra. La direzione intrapresa potrebbe non distaccarsi molto da composizioni quali "Teenager" o "Lucky You" del gruppo madre. All'album, i cui demo da almeno due anni circolano felicemente in rete, dovrebbero partecipare l'onnipresente Mike Patton e - si vocifera - anche Davis dei Korn.

Dopo un nuovo periodo di pausa di tre anni, arriva Saturday Night Wrist (2006). Da subito sembra di ascoltare una replica di Deftones, solo sottoposto a una stretta reazionaria ancor più decisa. "Rapture", una delle tracce forti, è riff death-metal con elementare evoluzione emo e voce filtrata (un po’ rap alla Rage Against The Machine, un po’ ossesso thrash), dissonanze dello skretch, batteria brutale e chitarre scurissime. "Mein" accorpa distorsioni annacquate stile tardi Soundgarden a un ritmo sostenuto e a un chorus incisivo, introdotto da uno stacco acrobatico, pure annoverando una sorta di drone-ambient nello sfondo. "Kimdracula" riduce ulteriormente l’originalità del riff, e "Rats! Rats! Rats!" alza tiro, velocità e furia, intervallando strutture electro e rulli compressori di power-chord . Spetta in ogni caso agli esercizi timbrici (pure una commistione tra elettronica e chitarra vicina a certi Limp Bizkit) della lunga introduzione strumentale di "U, U, D, D, L, R, L, R, A, B, Select, Start" di far risalire la china dell’interesse.
Qualora non ci sia nulla da eccepire sull’apertura di "Hole In The Earth", quasi un manifesto del nuovo corso (e forse una loro versione della ballata pop), i pomposi tempi lenti di "Cherry Waves" e "Beware" (esplosioni a go-go nel chorus ), il noioso numero glam-industriale di "Pink Cellphone", la melodia neo-prog senza vita di "Xerces", la minestra riscaldata crossover di "Combat" e i lagnosi singhiozzi di fuzz della conclusiva "Riviere" invogliano a rispedire tutto al mittente.
Amorfo tour de force di produzione dal quale in realtà si salva tutto e niente, che rialza la posta dell’ambizione (dando pure una parvenza d’utilità all’altrimenti futile progetto parallelo Team Sleep), consolida la competenza, tralascia la concisione e fa spallucce dell’alta prevedibilità. L’equilibrio instabile tra artifici di furbizia melodica da videoclip e spigoli screamo non riesce sempre a sostenere il peso degli stereotipi. Ci sono di nuovo furia e urgenza (anche se dettate da non si sa bene cosa), nonostante tutto.

Sesto album degli alfieri del nu-metal, Diamond Eyes è un lavoro che ha una storia travagliata. Il disco sarebbe dovuto uscire nel 2009 e avrebbe dovuto intitolarsi "Eros". Ma il grave incidente automobilistico di cui è rimasto vittima il bassista Chi Cheng ha spinto la band ad annullare la pubblicazione e registrare nuovo materiale con Sergio Vega (ex-Quicksand). Il cantante Chino Moreno ha spiegato che "Eros" non rappresentava più la vera essenza della band.
L'album segna il passaggio dalla Maverick, etichetta che ha lanciato i cinque di Sacramento con il seminale "Adrenaline", alla Velvet Hammer. La partenza (la title track) non è delle più esaltanti, ma la band si riprende subito con l'ottima "Royal", classico stile Deftones e finale di grande potenza. La terza traccia, "Cmnd Ctrl" inizia subito aggressiva, per poi proseguire con una spruzzata di elettronica, che resterà l'unica dell'album, a differenza dei dischi precedenti. Si continua con "You've Seen The Butcher", bel pezzo d'atmosfera, a cui segue "Beauty School", brano simile al precedente nella struttura ma che non convince. La successiva "Prince" alterna parti morbide ad altre più dure, con Chino che urla a squarciagola nel finale. "Rocket Skates", primo singolo, è una traccia senza infamia e senza lode, seguita dalla discreta ballata "Sextape". Anche il nono brano, "Risk", presenta ritmi abbastanza lenti, così come il successivo "976 Evil". Ambedue le tracce scorrono senza lasciare segni. Chiude il disco il minaccioso, ma solo nel titolo, "This Place Is Death".
La sensazione generale è che Diamond Eyes sia il lavoro meno ispirato della carriera dei Deftones, forse anche a causa della sua travagliata gestazione.

Sostituito il bassista Chi Cheng con Sergio Vega, preso in prestito dai post-hardcore Quicksand, i Deftones tornano nel 2012 con Koi No Yokan, un album che conserva tutte le classiche prerogative del loro sound, ma le amplifica verso contestualizzazioni che lasciano intravedere nuovi margini di novità e sviluppo.
L'impasto di una buona fetta di canzoni è in perfetta tradizione deftoniana, come dimostrato dall'opener “Swerve City”, dal chorus imbattibile, oppure da "Leathers" e "Polterheist", preziosa doppietta di crossover come in pochi sanno ancora oggi fare.
Tuttavia, a un ascolto privo di sovrastrutture dettate dai mostruosi predecessori editi nel quinquennio tra il 1995 e il 2000, riescono a intraversi iridescenze alternative-rock (“Tempest”), sprazzi shoegazing (“Rosemary”, forse la migliore traccia tra le undici inserite), accenni "post" e furenti accelerazioni tra Meshuggah e Glassjaw (“Gauze”) che ne impreziosiscono la scala cromatica. Per finire, anche l'istrionismo vocale di Chico Moreno emerge prepotentemente, qui e lì, traendo linfa vitale ora dai suoi “amici”, Mike Patton, Maynard James Keenan o Jared Leto che siano, ora dai suoi vari side-project (Team Sleep o Crosses, ad esempio in “Entombed”), ora dallo storico “rivale” Jonathan Davis, laddove non cerca di elevarsi come guru del disagio giovanile fine a sé stesso ma si sforza a interpretarlo attraverso racconti che parlano di vita, sofferenza e alienazione.
La rinascita dei Deftones potrebbe partire proprio da questi solchi qui.

Prima di proseguire con l'ultimo disco, intitolato Gore, bisogna ritornare al 2008, quando il bassista Chi Cheng rimase vittima di un incidente stradale che lo portò in coma. Come già detto il gruppo mise in stato di standby il disco a cui stava lavorando in quel momento, "Eros", con l'intento di pubblicarlo quando Chi Cheng sarebbe tornato a camminare per suonarlo assieme in un nuovo tour, ma purtroppo questa speranza si è infranta nel 2013 con la sua morte. Il fatto si riflette tanto nelle sonorità, più cupe e conflittuali tra loro, quanto nel songwriting, che cerca al tempo stesso di mantenere legami con la propria identità e di andare oltre per proseguire un discorso autonomo. Come a dire che il passato non si dimentica e non si deve dimenticare, ma che bisogna alzare la testa e guardarsi avanti.
Il disco è meno raffinato e compatto del predecessore, suona anzi con un piglio un po' più da jam session e per certi versi più spontaneo, alternando momenti diversi tra loro, ma in generale proseguendo con le aperture verso le influenze shoegaze, per mantenere il suono corposo, tra atmosfere sognanti e una raggiunta consapevolezza artistica. 
Il fulcro di tutto è l'equilibrio tra dinamismo sonoro e atmosfericità, in cui i Deftones sono ormai maestri. Al tempo stesso, il gruppo sembra ormai preferire viaggiare su rotte più sicure, senza osare più come in passato, avvicinandosi agli sperimentalismi emotivi di dischi come Saturday Night Wrist o del loro capolavoro White Pony, e gli spunti che caratterizzano l'album non sono vere novità essendo piuttosto il completamento di una tendenza già avviata. 
In conclusione un disco di mestiere, che dà il meglio di sé quando si concentra sulla melodia e l'atmosfera, mentre appare meno ispirato nei momenti più distorti. Un lavoro che all'occorrenza richiede qualche ascolto in più per essere assimilato da chi si aspettava maggiori cambiamenti.

L'opera numero nove, che potenzialmente poteva arrivare già nel 2019, ma approdata nei nostri timpani solo sul finire del 2020, si intitola Ohms. Un ritorno atteso, che peraltro è prodotto dallo stesso Terry Date che non era in cabina di regia per la band dai tempi dell’album, poi mai pubblicato, “Eros” (2008). La suggestiva copertina, firmata da Frank Maddocks, prosegue invece una collaborazione ormai ventennale, visto che sua è l’iconica grafica di White Pony (2000) e di tutte le opere successive. Tutti elementi di continuità, e non solo mera aneddotica, che ci permettono di inquadrare l’opera ancor prima di premere il fatidico play. La questione non è poi così scontata, visto che eventi luttuosi e qualche tentativo di modifica a livello di sound c’è pure stato, nel corso della lunga carriera. Questa volta, invece, i Deftones proseguono con l’assestamento già intravisto in Gore, cercando di declinare la loro peculiare miscela di violento e malinconico, distorto e melodico, muscolare e intimista. Tagliate ormai le tendenze più esplosive, quelle che portavano l’intensità dalle parti dell’urlo e del frastuono e che qui si ascoltano soprattutto in “This Link Is Dead”, gli statunitensi non fanno molto per sorprendere ma cercano piuttosto di sistematizzare in modo maturo e coerente la loro gamma emotiva e stilistica. Lo fanno nel corso di 10 brani in 46 minuti, procedendo a velocità di crociera e senza particolari scossoni. Familiare negli arrangiamenti e riconoscibile nello stile, con tutti gli elementi caratterizzanti di una lunga e proficua carriera, Ohms ci ricorda che i Deftones sono ancora in forma, anche se non guideranno nessuna nuova innovazione musicale. L’ascolto è rassicurante, privo di brani trascurabili e tuttavia nulla di quanto presentato pare poter fare alcuna differenza, nella loro carriera e, ancora meno, per la musica in generale. L’entusiasmo della critica internazionale, certificato da un Metascore a quota 88/100, è almeno in parte giustificato dal fatto che della loro generazione sono fra quelli invecchiati decisamente meglio. 


Contributi di Michele Saran ("Saturday Night Wrist"), Michele Lo Presti ("Diamond Eyes"), Giorgio Moltisanti ("Koi No Yokan"), Alessandro Mattedi ("Gore"), Antonio Silvestri ("Ohms")

Deftones

Discografia

Adrenaline (Maverick, 1995)

6,5

Around The Fur (Maverick, 1997)

7

White Pony (Maverick, 2000)

8

Back To School (Ep, Maverick, 2001)

5,5

Deftones (Maverick, 2003)

5

Saturday Night Wrist (Maverick, 2006)

5,5

Diamond Eyes (Reprise, 2010)

5

Koi No Yokan (Reprise, 2012)

7

Gore(Reprise, 2016)

6,5

Ohms(Warner Bros., 2020)

6

Pietra miliare
Consigliato da OR

Deftones su OndaRock

Deftones sul web

Sito ufficiale
Testi
Foto