Green Day

Green Day

Un assalto pop-punk all'idiozia americana

Partiti nel lontano 1986 dal sobborgo californiano di Rodeo, in oltre trenta anni di carriera i Green Day hanno contribuito, insieme ai colleghi Offspring e Blink-182, a portare il pop-punk in cima alle classifiche di tutto il mondo. Veicolando messaggi semplici, ma attuali e capaci di catturare gli umori di masse di giovani, Billie Joe, Mike e Tré hanno conquistato più di una generazione

di Michele Corrado

Attivi da ormai oltre trenta anni, i californiani Green Day hanno portato il punk, o perlomeno il pop-punk – sottolineatura necessaria a tacitare i puristi del genere - in cima alle classifiche dell’intero globo. Forgiata insieme ai colleghi Offspring, la declinazione da classifica del punk avrebbe fatto scuola e numerosi proseliti, per almeno una quindicina d’anni; i Green Day ne sarebbero stati i rappresentanti più longevi e di successo.

Nel corso della loro lunga carriera, Billie Joe Armstrong, Mike Dirnt e Tré Cool sono rimasti sempre fedeli all’elementarità della loro formula punk-rock: due, massimo tre accordi di chitarra, la batteria e il basso sempre belli ruspanti e una melodia chiara, rovesciata giù tra mille parole, un po’ incazzate e un po’ divertite. Hanno però spesso provato a cambiare o aggiungere qualche dettaglio, consegnando così al pubblico album molto diversi tra loro, senza aver mai troppa paura di tradire chi aveva amato quello precedente. Nonostante la straordinaria performance commerciale del loro esordio su major, il leggendario Dookie del 1994, Armstrong e compari non si sono adagiati sugli allori e si sono rinnovati sempre, sin dal successivo Insomniac che suonò inaspettatamente dark. Le contaminazioni confluite in Nimrod, apice sperimentale della band, e l’approdo a una vera e propria rock-opera compiuto con American Idiot furono ancora più sorprendenti; le novità apportate in quest’ultimo caso furono in grado di ribaltare la parabola discendente che la band aveva imboccato e di donarle una seconda giovinezza. È forse proprio grazie a questa predisposizione alla mutazione e a un’innata capacità di veicolare messaggi semplici, ma sempre al passo con i tempi, che i Green Day sono stati idolatrati da ben più di una generazione. In poche parole: per una buona ventina di anni i Green Day invecchiavano, ma il loro pubblico rimaneva giovane.

Il loro approccio al punk, molto melodico e levigato, unito al fatto che la band non abbia mai nascosto l’intenzione di puntare a grandi masse di ascoltatori, ha fatto sì che i Green Day si guadagnassero anche una nutrita schiera di detrattori – specie tra chi ne aveva seguito i primi passi da idoletti underground e avrebbe voluto ricordarli per sempre alla stregua dei vari Rancid e Pennywise. Anche la critica, pur riconoscendone l’importanza perlomeno generazionale, non è mai stata eccessivamente benevola con il trio di Rodeo, che del resto di capitoli poco a fuoco – quando non terribili – non ne ha scritti soltanto un paio. Come sempre, la verità sta nel mezzo: i Green Day non sono mai stati dei raffinatissimi scrittori di canzoni, ma di certo hanno un talento per la melodia raro, che unito all’abilità di Billie Joe di interpretare, con la sua voce dolce e burlona, i sentimenti rabbiosi che i più giovani nutrono sovente contro società e istituzioni, ha dato forma a una ricetta vincente. Ma andiamo per ordine, che trent’anni e oltre sessanta milioni di dischi, non sono semplici da raccontare...

1986 – 1990: tre giovani punk e una chitarra di nome Blue

Il punk che avrebbe segnato la vita di suo figlio era molto lontano dai suoi gusti, ma il padre di Billie Joe, camionista e nel tempo libero jazzista, ha giocato un forte ruolo nell’appassionamento alla musica del più giovane dei suoi sei figli. Di certo gliene ha fatta ascoltare tanta e poco prima di morire, quando Billie aveva soltanto dieci anni, gli ha regalato la sua prima, adorata chitarra, che il piccolo avrebbe chiamato Blue.
Più o meno due anni dopo, nella caffetteria della scuola, Billie fece amicizia con quello che sarebbe stato l’amico e il bassista di una vita, Mike Dirnt. I due iniziarono presto a passare lunghi pomeriggi a (non) studiare insieme e il comune interesse per la musica punk e ska li portò, era a questo punto il 1986, a fondare la loro prima band: gli Sweet Children.

L’atmosfera in cui i giovanissimi Sweet Children mossero i primi passi era rovente, la Bay Area era in fermento, totalmente in preda a una nuova febbre punk. Band come Rancid e Operation Ivy dominavano la scena e avrebbero fortemente influenzato il gusto e le scelte stilistiche di Billie Joe e Mike. Nel 1988 Larry Livermore della Lookout! Records, per la quale incidevano anche gli Operation Ivy, vide gli Sweet Children esibirsi durante uno dei loro primissimi live e, conquistato dall’energia e dal talento melodico dei ragazzi – ai quali nel frattempo si era aggiunto l’ex-batterista degli Isocracy John Kiffmeyer - offrì loro un contratto che i tre accettarono in men che non si dica. Nel 1989 il loro primo Ep 1.000 Hours era pronto, ma il trio decise di cambiare il proprio nome prima di rilasciarlo, in modo da evitare confusioni con un’altra band locale chiamata Sweet Baby. La scelta cadde sul moniker che ne avrebbe segnato la leggenda, Green Day. Il perché di questa decisione è di dominio pubblico: a Billie Joe e Mike è sempre piaciuto molto fumare cannabis e Green Day è un’espressione slang usata per indicare un’intera giornata a fumarne a pacchi.

Il 1990 sarebbe stato per la neonata band un anno cruciale. Lookout! avrebbe infatti non solo pubblicato il loro primo Lp, intitolato 39/Smooth, ma aggregato quest’ultimo ai due Ep precedenti in quello che è tutt’oggi considerato il primo tassello della discografia dei Green Day: 1,039/Smoothed Out Slappy Hours. Ne fanno parte diciannove fulmini punk-pop ancora rozzi, spesso troppo, e molto simili tra loro, ma che osservati a posteriori rivelano il potenziale immane della band. Le melodie di “At The Library” e “Going To Pasalaqua”, così come il loro riffing, sono facili ed efficaci e i testi di Billie Joe, arrabbiati, ma mai veramente cupi, rendono il loro ascolto facile e divertente. È assolutamente da ascoltare anche “Green Day”, che senza troppi giri di parole spiega la ragione sociale della band.

1991 – 1993: un nuovo amico, un tour che non accenna a finire e Kerplunk

Green Day1,039/Smoothed Out Slappy Hours non era nulla di trascendentale, ma suonava fresco e il timbro cantilenante e smargiasso sfoggiato da Armstrong conquistò schiere di fan con gran facilità. Nel giro di un anno, le presenze dei Green Day in giro per i festival punk degli Usa crebbero a vista d’occhio e finirono col diventare un vero e proprio tour in giro per il paese. Dopo quasi un anno di incessante girovagare da un palco all’altro, John Kiffmeyer capì che la vita in tour non faceva per lui. Prese dunque una pausa dalla band intenzionato a proseguire gli studi universitari. Fu presto sostituito dal batterista dei Lookout Trè Cool; il celere rimpiazzo consentì alla band di continuare la tournée che ne stava segnando l’ascesa.
L’intesa tra Billie Joe, Mike e il nuovo drummer fu micidiale sin da subito, tanto che John Kiffmeyer fu immantinente informato dai compagni che Cool lo avrebbe sostituito in pianta stabile. La decisione fu accettata da John a cuor sereno… chissà cosa ne avrebbe però pensato una decina di milioni di dischi venduti dopo.

L’ingresso di Trè Cool in formazione – della quale era peraltro il membro con più esperienza - portò nuove idee e soluzioni, dando inizio a un periodo di creatività torrenziale, che nel 1991 portò alla produzione del secondo Lp del trio.
Fu presto chiaro che Kerplunk sarebbe stato l’ultimo disco indipendente dei Green Day e, al contempo, che oltre al punk nelle vene del trio scorreva, copioso, il pop. Anche grazie a un artwork che fece scalpore – la sua copertina raffigura una ragazzina bianca che sorridendo impugna una pistola fumante, mentre il retro svela la vittima di quest’ultima con la schiena sfondata da un proiettile di grosso calibro - il disco catalizzò subito le attenzioni della stampa specializzata e di varie major.
Lo schema attuato è lo stesso del disco d’esordio, ma tutto appare molto più ponderato e – per quanto possibile in ambito punk – raffinato. Le melodie sono qui ancora più nitide, spesso sfociano in assoli di chitarra liberatori e Mike rimpolpa i ritornelli di Billie Joe con coretti e controcanti destinati a divenire il marchio di fabbrica di un’intera carriera. “One For The Razorbacks” e “80” sono numeri da singalong istantaneo, così come “Welcome To Paradise” – che sarebbe stata riproposta in una versione più potente e sfacciatamente radiofonica in Dookie – ha uno dei ritornelli più appiccicosi che Armstrong abbia mai scritto.
“Dominated Love Slave” è un allegro divertissement country-punk che svela un insospettabile interesse dei Green Day per la tradizione musicale americana, mentre “No One Knows” abbassa il ritmo del disco e, nonostante un riff piuttosto marcato, è a tutti gli effetti la prima ballad del gruppo. Non tutto funziona bene come negli episodi citati, ma tanto bastò a Kerplunk per vendere cinquantamila copie e pompare a dismisura l’attenzione creatasi attorno ai Green Day. Tanto che tra il 1992 e il 1993 il loro tour raggiunse, per numerose date, anche l’Europa.

1994: Dookie!

Tra tutti i produttori che dopo il botto di Kerplunk si interessarono al trio di Rodeo, ad avere la meglio fu Rob Cavallo, che scritturò i Green Day alla Reprise Records, la costola alternative del Warner Music Group. Cavallo ci aveva visto lungo, ma si fa molta fatica a credere che abbia potuto anche lontanamente immaginare quanto sarebbe successo di lì a poco. Sarà stato il momento particolarmente propizio – del resto qualche mese dopo “Smash” degli Offspring avrebbe fatto numeri simili - sarà stata l’heavy rotation su Mtv del video di “Basket Case” o una tenuta del palco micidiale, fatto sta che i Green Day passarono, di punto in bianco, dalle cinquantamila copie vendute da Kerplunk agli oltre dieci milioni di Dookie. Una performance commerciale letteralmente devastante. Ma anche un’ambiziosa scommessa vinta. Dopo l’abbandono di Lookout! per approdare a Reprise, la vecchia fanbase voltò le spalle al trio, numerosi punk-club avrebbero attaccato l’adesivo sell-outs sulle loro facce e rifiutato il loro ingresso – famosa a tal proposito la disputa col 924 Gilman Street Music Club di Berkley. Come Armstrong ha dichiarato in numerose interviste: scelta vincente o meno, i Green Day non avrebbero potuto più fare ritorno alla scena punk. Si erano giocati praticamente il tutto per tutto.

Ciononostante, il legame tra i Green Day e la scena punk di San Francisco scorre forte in Dookie. È infatti proprio la Bay Area il soggetto dell’iconica copertina disegnata da Richie Bucher – vecchio amico della band e noto punk. Certo, un manipolo di scimmie e cani la stanno bersagliando con bombe e palle di merda ed è nascosta dal fumo una gran bell’esplosione, ma tra i personaggi a fumetto che la popolano è facile riconoscere volti della zona. Il titolo del disco è invece un riferimento indiretto all’intensa, estenuante attività live che lo ha preceduto. Liquid Dookie – abbreviato poi dalla Reprise in Dookie per non scoraggiare gli ascoltatori più suscettibili – è un'espressione slang che sta per diarrea, della quale i Green Day hanno sofferto a lungo a causa del junk food ingurgitato barcamenandosi da un lato dell’America all’altro.

Registrato in sole tre settimane presso i Fantasy Studios di Berkley con l’ausilio di Cavallo e con Jerry Finn (Blink-182, AFI, Sum 41, Alkaline Trio, Morrisey) dietro al mixer, Dookie è stato interamente scritto e cantato da Billie Joe Armstrong – ad eccezione della ghost-track “All By My Self”, scritta e interpretata da Trè Cool - e suonato solo e soltanto dal trio, che difatti si presentò in studio di registrazione con le canzoni già fatte e finite. Ascoltata la cassetta che le conteneva, Rob Cavallo rimase impressionato dal materiale di cui disponeva e decise di dedicarsi unicamente a una nuova incisione dei brani. Il suo lavoro è però chiaro sin dalle prime due pennate della opening track “Burnout”, che introduce un suono molto meno granuloso che in passato, mi si passi il termine: ripulito. La voce è molto più fuori dalla musica che in precedenza, il basso e la chitarra meno sbavati, le rullate di batteria ancora potentissime, ma precise e secche – il lavoro di stop and go effettuato in “Having A Blast” svela le considerevoli doti tecniche di Trè Cool. Dirnt manco scherza: andatevi a riascoltare come le due bellissime linee di basso – la seconda delle quali concepita, si dice, sotto l’influenza di Lsd – di “Chump” e “Longwiew” sfociano l’una nell’altra, connettendo i due pezzi in uno scatenato unicum pop-punk.
Della crescita di Billie Joe in sede di scrittura non dovremmo neanche disturbarci a scriverne, i ritornelli di “Basket Case”, “When I Come Around” – punteggiata da un riff al ralenti che ha fatto scuola - e “She” li conoscono a memoria almeno tre o quattro generazioni e ancora li suoniamo alle feste. La melodicissima “Pulling Theet” è un notevole hook indie, probabilmente influenzato dalla coeva scena college rock – i Weezer non sono lontanissimi da qui - che farebbe la fortuna di tante band odierne.

Insomma, l’ossatura punk-rock era rimasta intatta, ma il suono tirato a lucido in uno studio come si deve e le melodie cristalline tradivano a ogni nota un’anima pop inconfutabile. Anche il modo scanzonato che Billie Joe ha di svuotarsi di rabbia e angosce è facilmente assimilabile. Nei quattordici pezzi di Dookie vengono affrontati temi come crisi nervose, attacchi di panico, dolorose rotture, masturbazione, stragi, ma il tono rimane sempre lieve, non sfociando mai nel nichilismo tipico del punk. È probabilmente questo equilibrio inedito il vero segreto del successo dei Green Day, che aprirono così il varco a decine di epigoni destinati a infestare le classifiche globali per una buona quindicina di anni – Good Charlotte e Simple Plan, per dirne un paio.
Con buona pace degli intestini dei tre, dopo il successo di Dookie la loro attività live si intensificò ancor più, dando vita a performance leggendarie come quella di Woodstock '94, dove un Billie Joe coi capelli blu e dalle movenze dinoccolate scatenò una leggendaria guerra col fango contro il pubblico – durante lo scontro Mike Dirnt ci avrebbe rimesso due denti. Il successo di Dookie non fu però soltanto di pubblico. Anche la critica, pur facendo fatica a riconoscere il terzo disco dei Green Day come un lavoro punk, ebbe una reazione positiva quasi unanime.

1995 – 2002: reazione, contaminazione e una piccola flessione

Green DayInizialmente i Green Day non risposero alla critica e ai vecchi fan che, più o meno duramente, ne rinnegavano l’estrazione punk. Tuttavia, dopo l’uscita di Insomniac, Mike Dirnt dichiarò che il suono più duro e a tratti dark del quarto disco dei Green Day era proprio una reazione a questo tipo di esternazioni.
Così come era accaduto con Dookie, i Green Day scrissero Insomniac tutto da soli e lo registrarono sotto l’egida di Cavallo e Finn, entrambi confermati. Il primo lavorò intensamente con Billie Joe sulla scelta degli amplificatori al fine di ottenere un suono di chitarra che fosse il più muscoloso possibile, il secondo alzò i volumi del suo mixer al massimo. Ma le soluzioni adoperate per ottenere un suono vigoroso non furono soltanto tecniche. Subito prima di ogni sessione di registrazione, i Green Day ingollarono enormi quantità di caffè in modo da accumulare energia e scaricarla fulmineamente sui propri strumenti. Merita un discorso a parte Trè Cool, che in Insomniac pesta la sua batteria più forte che mai: colpa o merito, avrebbe dichiarato, non solo della caffeina, ma anche della recente paternità che gli causava non poco nervosismo e, manco a farlo apposta, insonnia.
I risultati di questa “cura” sono evidenti in ogni brano: i riff di chitarra sono duri, la batteria e il basso spingono come uno schiacciasassi. L’opening track “Armatage Shanks” e, soprattutto, la granitica “Geek Stink Breath” sono due colpi punk sotto la cintura a tutti quelli che li avevano chiamati venduti. Anche l’ironia dei testi di Billie Joe è qui più affilata che in passato e gli oggetti delle sue invettive vengono identificati con maggior chiarezza. Una canzone come “86”, attacco frontale al 924 Gilman Street Music Club, anche solo un anno prima sarebbe stata impensabile. Nella lunga introduzione di “Panic Song” – ennesima incursione dei Nostri nel mondo dei disordini psichici – Dirnt e Cool riproducono, sfregando febbrilmente le corde del basso e mimando con la grancassa un battito cardiaco alterato, un attacco di panico; il ritornello è invece uno dei momenti più melodici del disco.

Uscito a poco più di un anno dal suo predecessore – era l’ottobre 1995 - Insomniac ne fu un degno follow-up, ma non vide i numeri di Dookie neanche col binocolo. Raggiunse come quest’ultimo la seconda posizione della Billboard Chart dei dischi, ma con circa dieci milioni di copie vendute in meno.
La causa del ridimensionamento commerciale dei Green Day è probabilmente da ricercarsi nella minor appetibilità di un suono così robusto, specialmente presso il pubblico generalista che aveva decretato il successo di Dookie, ma anche nell’assenza quasi totale di ritornelli facilissimi – gli unici davvero immediati sono quello di “86” e della conclusiva “Walking Contraddiction”.
Merita una citazione la copertina, per chi vi scrive la migliore della carriera dei Green Day. Titolato “God Told Me to Skin You Alive” – in omaggio a “I Kill Children” dei Dead Kennedys - il collage realizzato dall’artista Winston Smith mette insieme ritagli di vecchie copertine punk e opere d’arte, molti dei quali nascosti e visibili soltanto inclinando la copertina verso diverse angolazioni. Ma mentre nell’opera originale di Smith la donna impugna una chitarra classica, nella copertina di Insomniac quest’ultima brandisce invece l’amata Blue.

Il periodo successivo alla pubblicazione di Insomniac fu molto stressante. Le vendite del disco non erano state pienamente soddisfacenti e la band non si trovava pienamente a suo agio nel suonare in arene sempre più grandi e sempre più lontane da casa. Billie Joe era nel frattempo diventato padre e, così come Trè Cool, voleva passare più tempo con la famiglia. Arrivò così, sul finire del 1996, la drastica decisione di cancellare il tour europeo. Il tempo trascorso a casa fu però subito foriero di ispirazione per Billie Joe, che si trovò presto con decine di nuove canzoni per le mani, per lo più trattanti temi come crescita e paternità, tematiche molto diverse e molto più mature di tutto quanto trattato fino a quel punto.
Nonostante l’insuccesso di Insomniac – sempre se due milioni di copie possono chiamarsi insuccesso - Rob Cavallo era ormai considerato una sorta di quarto Green Day e fu chiamato a produrre anche Nimrod. Del resto, per un progetto così ambizioso – Bilie Joe si era messo in testa di registrare il loro “London Calling” - che avrebbe mescolato al tradizionale pop-punk di casa Green Day elementi surf, ska e chi più ne ha più ne metta, ci voleva un produttore con esperienza e ben conscio delle oggettive capacità del gruppo. Ovviamente tutta questa ambizione e le numerose novità che i Green Day avrebbero dovuto affrontare durante le lunghe sessioni di registrazione – andavano da mezzogiorno alle due di notte - misero alla prova i loro fragili nervi. Tutti e tre iniziarono a bere più che mai, Mike Dirnt passò una notte aggirandosi completamente nudo per i corridoi dell’hotel dove alloggiavano – il Marquis Hotel di Los Angeles – bussando alle porte di tutte le camere, Trè Cool lancio un televisore giù dalla finestra della sua stanza. La situazione non era delle più facili, ma Rob Cavallo, sicuro della qualità dell’operazione che stava conducendo, non si perse d’animo e assoldò suo padre per fare da severa balia alla band.

Le novità che Nimrod presenta, spalmate lungo ben diciotto pezzi e cinquanta minuti di musica, sono invero tante. Il primo brano a suonare totalmente inedito rispetto agli standard Green Day è “Hitchin’ A Ride”, dove dopo una fugace intro d’archi, il basso ringhiante di Dirnt guida una marcia rock stradaiola e rissosa. La strumentale “Last Ride In” è una rilassata cartolina surf-rock, una tranquilla serata californiana con in sottofondo una placida tastiera sixties e qualche delicata innaffiata di fiati qua e là. Una splendida armonica western impolvera le strofe dell’intimistica “Walking Alone”, nel mezzo della quale Billie Joe si produce anche in un caldo assolo di chitarra, fluido come non gli era mai riuscito. Lo ska, pallino della band sin dagli esordi, fa la sua comparsa nella ruspante “King For A Day”, una festa animata da un basso croccante e ottoni scintillanti. “Good Riddance (Time Of Your Life)” è la ballad più famosa e intensa dei Green Day, è stata scritta da Billie Joe, ma è grazie alla caparbia di Rob Cavallo se suona esattamente come la amiamo. I tre si opposero fortemente all’idea del produttore di adornarla con quei carezzevoli archi che la rendono così malinconica, ma questi insisté, mandò la band a giocare a biliardino e li incise nel giro di una ventina di minuti.
“Platypus (I Hate You)” e “Take Back” sono invece due tra i pezzi più aggressivi mai scritti dai nostri, con la seconda che, specie per il modo per cui è cantata, si inoltra senza troppa ritrosia in territori hardcore. Anche i pezzi più tipicamente pop-punk del lotto sono più particolareggiati del solito, basti pensare ai numerosi cambi di marcia dell’allegra “Nice Guys Finish Last” o alle chitarre dell’altro singolone “Redundant”, che sfrigolano un po’ come quelle dei Big Star e un po’ come quelle dei Replacements.

Non è di certo “London Calling”, ma Nimrod è un gran bel lavoro nonché, senza ombra di dubbio, il disco più sperimentale mai realizzato dal trio. Allargati gli orizzonti delle proprie scelte stilistiche, Billie Joe dimostrò infatti di essere molto di più che un ex-punk finito quasi per caso in cima alle classifiche di tutto il mondo, bensì un fantasioso scrittore di canzoni, capace di mescolare stili e influenze senza perdere un grammo di personalità. Nonostante la maggior accessibilità e leggerezza del suo sound, il quinto disco dei Green Day non migliorò però la performance di vendite di Insomniac. Pubblicato nell’ottobre 1998, Nimrod raggiunse soltanto la posizione numero dieci della classifica di Billboard U.S.. Lo zoccolo duro dei fan dei Green Day rimase loro fedele, ma semplicemente non era più il loro tempo. Almeno per un po’.

Considerato molto spesso e a torto un disco minore del catalogo GD, Warning del 2000 ne è invece uno dei titoli più preziosi, nonché importante crocevia per l’evoluzione della formazione. American Idiot è a tutti gli effetti il primo disco interamente e sfacciatamente politico dei Green Day, ma è in Warning che la coscienza sociale di Billie Joe e soci inizia a scalpitare e a farsi sentire con prepotenza tra i loro versi. Prima e durante la sua registrazione, Armstrong ha ascoltato ossessivamente “Bringing It All Back Home” di Bob Dylan finendo con l’appassionarsi fortemente alle protest songs. L’influenza di questo filone non si fa sentire soltanto da un punto di vista lirico, ma anche da quello musicale, che vede Warning contenere un’inedita mole di chitarre acustiche e armoniche, oltre ad ampliare ulteriormente il bagaglio di influenze immagazzinato ai tempi di Nimrod.
Impernata su di un vivace riff di chitarra acustica alla Violent Femmes, “Warning” è l’allegra introduzione a una serie di invettive indirizzate non solo ai politici di turno ma anche alle più disparate categorie umane, dai bigotti alle cosiddette fashion victim. Uno dei brani-cardine del disco è senz’altro la grandiosa “Misery”, che tra una punteggiatura di chitarra vagamente balcanica, una strombazzata tex-mex e un finale mariachi fa letteralmente il giro del mondo della canzone di protesta.
L’instant classic “Minority” diventò sin da subito un cavallo di battaglia live nonché uno degli slogan definitivi della band: “I want to be the minority/ I don’t need your authority”. Come sempre semplici, concisi ed efficaci. Chiude le danze la sconsolata ballad “Macy’s Day Parade”, che si interroga sulla possibilità di una nuova speranza su cui puntare in un epoca segnata consumismo. Non manca però la consueta dose di colpi elettrici ben assestati per non scontentare i fan più legati al pop-punk di Dookie – “Castaway” e “Blood, Sex And Booze” su tutte.

Primo disco del lungo sodalizio tra i Green Day e la Reprise a non essere prodotto da Rob Cavallo – che però mise lo zampino in diversi pezzi - Warning fu anche il punto più basso della china commerciale imboccata sin da Insomniac. Data la qualità dell’opera, è chiaro che il disco non sia stato un insuccesso per demeriti dei Green Day, ma a causa di quelle che all’inizio del millennio erano le nuove tendenze in voga tra i giovani in cerca di sonorità heavy. Era infatti il tempo di nu e rap metal. I Green Day capirono l’antifona e per quattro anni non rilasciarono altro che una raccolta di B-side e rarità intitolata “Shenanigans”.

2004 – 2009: “la carriera politica”

Green DayChe poi il settimo disco dei Green Day neanche si sarebbe dovuto intitolare American Idiot. Quando la band e il redivivo Cavallo si recarono in studio dopo quattro anni di iato, il progetto su cui iniziarono a lavorare si intitolava “Cigarettes And Valentines”. I quattro non erano però convinti di come le sessioni di registrazione erano iniziate e così, quando il master dei primi pezzi del disco fu rubato, piuttosto che reincidere il materiale perduto, decisero di ricominciare da capo.
Se per registrare Insomniac i Green Day assunsero ingenti dosi di caffeina, in American Idiot sfoggiano un suono così pompato ed epico che per ottenerlo potrebbero aver assunto eritropoietina – in realtà bastò assumere a tempo fisso un secondo chitarrista, il bravo e fedele Jason White, che li seguiva in tour già dal 1999. Girando il mondo per suonare la loro rock-opera, la band iniziò a indossare quella che era quasi un’uniforme combat-rock – un look total black spezzato soltanto dalla cravatta rossa di Billie Joe – e ad adoperare toni da comizio, arrivando a utilizzare un megafono per strillare gli attacchi rivolti al governo Bush di “Holiday”. Erano diventati a tutti gli effetti una band da grandi arene, ma complice l’età ormai matura – avevano tutti superato i trent’anni – e il ritrovato successo globale (chiusero il 2004 in cima alle classifiche di più o meno ovunque) riuscirono a gestire il ruolo molto meglio che in passato, incendiando per anni un esercito di fan indossanti la maglietta con l’iconica heart shaped grenade.

Rock opera anticipavamo, American Idiot lo è a tutti gli effetti. Nei suoi 57 minuti, il disco sviluppa una vera e propria trama, calando alla maniera degli Who – dei quali la band all’epoca studiò per benino la discografia – l’antieroe adolescente Jesus Of Suburbia nei tempi di Bush Jr. Praticamente un coming of age punk all’epoca della guerra in Iraq. La storia di Jesus è però soltanto la metafora di un decadimento più grande; American Idiot arriva infatti a teorizzare una connessione tra la disfunzione sociale americana e l’elezione di George Walker Bush.
Diviso in cinque movimenti e lungo quasi dieci minuti, “Jesus Of Suburbia” è uno dei brani più ambiziosi della carriera dei californiani e mescola rock’n roll, punk, pianoforti e xilofoni, coprendo umori e toni disparati con gran destrezza. “Homecoming” è altrettanto lunga e aggiunge alla ricetta enfatici cori da stadio, campane e un sassofono scalmanato alla Clarence Clemons Jr.. Marziali e dirette, la title track e “Holiday” sono due cannonate pop-punk destinate a canalizzare la rabbia di un’intera generazione. La stessa generazione che si sarebbe commossa ogni volta – tante, invero - che Mtv avrebbe passato il video della dolcissima ballata “Wake Me Up When September Ends”. Un altro numero fantastico del lotto è “Boulevard Of Broken Dreams”, spazzolata per la sua interezza da un serpeggiante riverbero di chitarra che soffia negli occhi di chi l’ascolta la polvere di tutte le strade dimenticate d’America.

Quasi a volersi prendere una pausa dal successo ottenuto da American Idiot e dalla conseguente sbornia live, nel 2007 i Green Day assoldarono Jason Freese e Kevin Preston del gruppo rockn’roll Prima Donna, insieme al solito Jason White, per formare un side-project garage-rock chiamato Foxboro Hot Tubs. Ne venne fuori un divertente Lp intitolato Stop Drop and Roll!!!, in cui la formazione allargata fece confluire tutta la passione per garage e rock’n roll da sempre leggibile tra le linee di numerose canzoni dei Green Day. Sono assolutamente da recuperare la stessa “Stop Drop and Roll!!!” e l’irresistibile singolo “Mother Mary”. Il resto è divertente, ma ha spesso il sapore di un passatempo.

E difatti di divertissement si trattava. Il 2009 sarebbe stato presto segnato dalla seconda rock opera dei Green Day: l’ambizioso ma poco riuscito 21st Century Breakdown. I riferimenti agli Who sono qui ancora più chiari, basti pensare all’ariosa partenza babaorileyana della title track, invero uno dei pochi momenti davvero da ricordare di un disco piuttosto pretenzioso, pieno di idee, ma disordinato e inefficace nell’attuarle. Qualche demerito nella gestione delle idee va probabilmente attribuito a Butch Vig, che subentrato a Cavallo in cabina di regia, non ha saputo gestire la creatività torrenziale, ma spesso grezza, di Billie Joe.
Un altro grande problema di 21st Century Breakdown è la sua incapacità di identificare un nemico. Mentre l’amministrazione Bush e l’America che l’aveva votata era il bersaglio nitido e inconfutabile degli attacchi di American Idiot, l’ottavo disco dei Green Day mette in bocca ai suoi protagonisti Christian e Gloria blaterazioni generaliste e incompiute indirizzate a chiunque, dalla Chiesa ai media, manipoli le masse – l’effetto finale è difatti un po’ troppo ndo cojo cojo. In questo fiume in piena di diciotto tracce, c’è però qualche frammento da salvare. “21 Guns” è ad esempio un singolo molto bello che usa strofe molto pulite per incamerare tensione – un po’ come succedeva in “Boulevard Of Broken Dreams” - per poi scaricarla in un ritornello fragoroso, ma deliziosamente melodico. O “!Viva La Gloria!”, briosa piece condita da coretti e archi che sembra strappata a un coinvolgente musical.

2012 – 2016: un’impresentabile trilogia, qualche problema di dipendenza e la rimonta in sella

Il periodo precedente al rilascio di ¡Uno!, ¡Dos! e ¡Tre! fu segnato da dichiarazioni piuttosto altisonanti da parte della band, che sbandierava a mezzo mondo di trovarsi in quello che veniva definito un periodo di zenith creativo. A sentire Armstrong, la band era in stato di grazia e sfornava canzoni nuove ogni giorno. Come se non bastasse, suddette canzoni venivano identificate come le migliori che la band avesse mai scritto. In linea con cotanto zelo, quello che venne annunciato non fu un solo disco, ma il celebre, tracotante tris.

L’insuccesso dell’infame trilogia con le copertine raffiguranti le facce dei tre Green Day – quasi come a coronare l’attacco di narcisismo compulsivo che afflisse la band nel 2012 - fu imputato alla mancanza della consueta promozione live dei dischi, causata dai seri problemi di dipendenza dall’alcol che all’epoca tormentavano Billie Joe. Ma la realtà era ben diversa e ben più semplice: si tratta, senza troppi giri di parole, di tre dischi brutti e innocui. Così sciapi che dedicare un’analisi a ciascuno di essi ci pare un esercizio inutile. ¡Uno! è in tutta probabilità la parte peggiore dell’intera trilogia e i pezzi che avrebbero dovuto trainarlo in cima alle classifiche - “Nuclear Family” e “Kill The Dj” - sono blande rivisitazioni delle staffilate che caratterizzarono la prima fase della loro carriera. ¡Dos! fu anticipato da un trailer con in sottofondo “Fuck Time”, un pezzo contenuto nel disco ma già eseguito dalla band nei panni dei Foxboro Hot Tubs. Era una chiara indicazione di quello che sarebbe stato il disco: un minestrone di schitarrate acustiche e riferimenti al caro rock’n’roll degli anni Cinquanta. Gli intenti erano anche buoni, ma anche questo secondo capitolo soffre della mancanza di efficacia di ¡Uno! e così la rumorosa “Bay Eye”, divertito omaggio a Screamin’ Jay Hawkins, e “Amy”, brano dedicato invece alla compianta Amy Winehouse, risultano oasi nel deserto. Le cose vanno decisamente meglio, ma non così meglio da fargli meritare la sufficienza, nel tomo conclusivo della saga. Troviamo qui in tavola numerose ballad, tra le quale spiccano le amarognole “Brutal Love” e “The Forgotten”.
Piccola curiosità: nonostante questi non appaia su nessuna delle copertine della trilogia, si tratta degli unici tre dischi in cui Jason White è accreditato come membro ufficiale della formazione.

Quattro anni dopo, in seguito alla disintossicazione di Billie Joe Armstrong e a un lungo periodo di riflessione, i Green day inaugurarono il loro studio di registrazione di proprietà incidendo quello che è ad oggi l’ultimo capitolo della loro discografia: Revolution Radio. Un po’ grazie al ritorno nella loro comfort zone – la consueta alternanza di riffoni scoppiettanti e ritornelli catchy - ma probabilmente anche grazie al ridimensionamento delle aspettative, ne risultò un buon lavoro, il migliore dai tempi di American Idiot.
La title track è ad esempio un’ottima canzone da battaglia, certo, nulla che possa eguagliare la potenza anthemica di una "Holiday", ma funziona. Così come ha un bel tiro anche l’attacco a un'America sempre più – e sempre più facilmente - armata intitolato “Bang Bang”. In Revolution Radio è presente anche una vera e propria gemma. Quella “Outlaws” dal cui ribollente magma chitarristico si leva una malinconica melodia che riassume trent’anni di carriera: “Outlaws, when we were forever young/ When we were outlaws/ We're outlaws of redemption, baby/ Hooligans/ We destroyed suburbia/ When we were outlaws/ Outlaws of forever”.

Con ventisei minuti di durata, Father Of All... si aggiudica il primato di disco più breve della carriera dei Green Day, che nonostante gli intenti punk non hanno mai fatto della sintesi una propria virtù. Data la parziale bontà  del prodotto, probabilmente ottenuta proprio rinunciando a dilungarsi in assenza di ispirazione, enumeriamo la durata come primo pregio del disco.
Gli altri sono sicuramente l’immediatezza e la voglia di giocare con più generi, tanto che alcuni momenti del disco guardano sfacciatamente al progetto parallelo Foxboro Hot Tubs o ai tentativi garage’n’roll dell’infame trilogia numerica. Se infatti Revolution Radio del 2016 è un disco tipicamente Green Day, che quasi tentava di riappropriarsi del sound e della mission originali della band, “Father Of All…” è molto più divertito, spontaneo e ha un raggio d’azione meno circoscritto e prevedibile.
Sarà anche un mezzo plagio del modus operandi degli Hives, ma “Fire, Ready, Aim” ha davvero un bel tiro, così come la title track, che sfodera un coinvolgente ritmo e un contagioso hand clapping. Bello anche il basso fragrante della giuliva pop song “Meet Me On The Roof”, così come funziona a dovere il groove rockabilly di “Stab You In The Heart”.
Un po’ troppo simile alle inquiete “Desolation Road” e Jesus Of Suburbia, ha però il suo perché anche “Junkies On A High”, che sfodera  un’atmosfera desolata e un pianofortino drammatico. Rispetto alla potenza innodica di America Idiot la canzone è debole, ma la buona melodia ne ce la fa annoverare tra i pezzi buoni.
Molto male invece tutti i pezzi più tipicamente pop-punk (“I Was A Teenager”, Sugar Youth”, “GRaffitia”) davvero buttati giù col pilota automatico.
Ad ogni modo, Father Of All… non è assolutamente un disco da cestinare a priori come in molti suggeriranno.


Il 2024 è un anno di grandi celebrazioni per i Green Day. Sorpassati ormai i 30 anni di attività, il power trio pop-punk più famoso del mondo quest’anno festeggerà con un tour sia il trentennale del disco che li ha lanciati, il capolavoro del genere Dookie, che il ventennale di quello che invece, dieci anni dopo, li ha confermati come istituzione transgenerazionale, la rock opera American Idiot.
Sul finire del 2023, la band si è anche lanciata in un mini-tour a sorpresa in venue di bassa capienza, come ad i nostrani Magazzini Generali di Milano, affinché Billie Joe, Mike e Tré Cool potessero riassaporare il brivido delle gig scatenate degli esordi. È chiaro dunque che per il trio sia un momento di bilanci, confronti e riflessioni. E che questi li abbiano finalmente portati a trovare una quadra, a giungere finalmente, dopo una buona quindicina d’anni, a una versione di sé che non fosse anacronistica, che potesse trovare uno scopo nel contesto musicale contemporaneo.
E non è un caso, dunque, che Saviors sembri collocarsi proprio al crocevia tra i due dischi da festeggiare. I Green Day sentono ancora la responsabilità da agitatori rock del 2004, ma hanno rinunciato a prendersi troppo sul serio, recuperando però un po’ dell’ironia degli esordi, debitamente filtrata dal sarcasmo e dal senno di poi da cinquantenni.I frutti più immediati di questo nuovo equilibrio sono “The American Dream Is Killing Me”, una “Strange Days Are Here To stay” col ritornellazzo a presa rapida e la sfavillante traccia che dà il titolo al disco. Difficile non venire rapiti immediatamente anche dal coretto killer di “One Eyed Bastards” o finire sotto a “Coma City”, sul cui finale basso e batteria picchiano come ai bei tempi.
L’età porta anche un po’ di malinconia, che debitamente accompagnata dal gigantesco talento melodico di Armstrong produce varie ballad, come la pregevole “Suzy Chapstick” e la (forse un po’ troppo) smielata “Father To A Son”. Immancabile una citazione per “Bobby Sox” classico istantaneo che non avrebbe sfigurato in Nimrod e che ribadisce una parentela dei Green Day con i primi Weezer.
Saviors non è un disco perfetto, ci mancherebbe, e forse ha qualche pezzo di troppo. “Look Ma, No Brains!” e “Fancy Sauce” non aggiungono che minuti a una scaletta che forse un po’ alleggerita avrebbe funzionato ancor meglio. Fa però un gran piacere ritrovare una delle più iconiche band pop rock degli anni ’90 in questo stato di forma e freschezza, nuovamente a suo agio e carica di senso e contestualità che sembrava aver smarrito.

Green Day

Discografia

GREEN DAY
39/Smooth (Lookout, 1990)

5,5

Kerplunk (Lookout, 1991)

6

Dookie (Reprise, 1994)8
Insomniac (Reprise, 1995)7
Nimrod (Reprise, 1997)8
Warning (Reprise, 2000)

7,5

American Idiot (Reprise, 2004)

7,5

21st Century Breakdown (Reprise, 2009)

5,5

¡Uno! (Reprise, 2012)4
¡Dos! (Reprise, 2012)
4,5
¡Tré! (Reprise, 2012)5
Revolution Radio (Reprise, 2016)6
Father Of All (Reprise, 2020)5,5
Saviors (Reprise, 2024)7

FOXBORO HOT TUBS
Stop Drop and Roll!!! (Reprise, 2008)

6



Pietra miliare
Consigliato da OR

Green Day su OndaRock

Green Day sul web

Sito ufficiale
Facebook
Testi