Horrors

Horrors

Storie di fantasmi e di specchi

Originario di Southern-on-Sea, il quintetto inglese è evoluto da band citazionista a faro della scena alternativa britannica. La parabola artistica, camaleontica quanto coerente, ha declinato tutte le possibili mutazioni del pop, ponendosi come autentico specchio dei nostri tempi. Simile a tutti e a nessuno, ha finito con il coniare un sound personale e inconfondibile

di Francesco Giordani, Claudio Lancia

La storia degli Horrors prende il via nei primi anni del nuovo millennio, dall'incontro fra Faris Badwan (futuro cantante del gruppo), il bassista Tom Furse (fratello del chitarrista dei Vaccines Freddie Cowan) e il tastierista Rhys Webb. I tre trovarono argomenti comuni nell'amore per il garage-rock e il post-punk, e quando nel 2005 incrociarono gli strumenti con il chitarrista Joshua Hayward e il batterista Joe Spurgeon i giochi erano praticamente fatti, almeno dal punto di vista della line-up.
Le prime esibizioni della neonata band si svolsero in un locale di proprietà di Webb, il Junkclub, aperto nel 2002 a Southend-On-Sea assieme al dj Oliver Abbott, e rapidamente divenuto uno dei centri propulsori della nuova scena musicale londinese. Inizialmente in repertorio c'erano cover di Sonic ("The Witch") e Screaming Lord Sutch ("Jack The Ripper"), ma velocemente i ragazzi approntarono una serie di brani autografi attraverso i quali iniziarono a far parlare di sé.

Proprio "Jack The Ripper" fu scelta come b-side dell'infuocata "Sheena Is A Parasite" (evidente il riferimento ai Ramones di "Sheena Is A Punk Rocker"), il primo singolo ufficiale degli Horrors pubblicato il 10 aprile del 2006. Tre mesi più tardi arrivò un secondo singolo, "Death At The Chapel", con sul secondo lato "Crawdaddy Simone", al quale fecero presto seguito una copertina sul New Musical Express e The Horrors Ep, inizialmente lanciato sul mercato discografico americano, poi su quello inglese (il 24 ottobre 2006), e successivamente su quelli giapponese e australiano (con una copertina alternativa).
The Horrors Ep raccoglieva il materiale dei primi due singoli editi, più l'inedita "Excellent Choice" e il videoclip di "Sheena Is A Parasite", diretto da Chris Cunningham, con la partecipazione del Premio Oscar Samantha Morton. Le coordinate musicali furono subito chiare: un garage-rock che strizzava da un lato l'occhio al punk e dall'altro a certi suoni di derivazione sixties. Una genuina ispirazione "garagista", svezzata a suon di "Nuggets" e pomeriggi interi spesi alla ricerca di misconosciuti vinili d'epoca in microscopici negozi di dischi. Considerati da questa prospettiva, i primi Horrors apparvero come un filologico remake hollywoodiano dei Fuzztones (quindi un revival del revival), imbacuccato per giunta da un pacchianissimo se non demenziale look di ispirazione gotica, volutamente esagerato e pagliaccesco (e per molti decisamente poco credibile). Uno scapestrato manipolo di teppistelli dispettosi dediti a una forma di onesto garage psychobilly vagamente cacofonico e infarcito di citazioni che andavano dal proto-punk ai Cramps, passando per Suicide, Pussy Galore e Gun Club.

Gli Horrors divennero velocemente una delle più acclamate next big thing del circuito britannico, e tutte le aspettative vennero confermate dal primo album Strange House, pubblicato dalla Loog il 5 marzo 2007, contenente quattro tracce del precedente Ep (restò esclusa soltanto "Crawdaddy Simone") più otto nuove composizioni. Programmatico il sottotitolo scelto per il disco, formulato da due fan su espressa richiesta di Badwan, inoltrata attraverso il forum ufficiale del gruppo: "Psychotic Sounds For Freaks And Weirdos".
Apprezzabile e musicalmente solido, l'esordio degli Horrors mise in evidenza un gusto trasversale per le citazioni e una discreta fantasia compositiva in grado di rinnovarsi a ogni canzone, caratterizzandosi per una originalità e vastità di riferimenti abbastanza insolita nel panorama indie-rock contemporaneo. Nei dodici brani che lo compongono la gramigna urticante dei Jesus And Mary Chain tornò a germogliare nell'asfittico sottobosco dell'underground indie, l'urlo sfibrato e nevrastenico dei Birthday Party e dei Gun Club risuonò nuovamente dopo anni di impenetrabile letargo.
Nonostante alcune riserve di ordine formale, non si faticò a riconoscere la bontà delle canzoni con le quali gli Horrors decisero di arredare la loro Strange House, rifugio di ogni tipo di bizzarria musicale, a cominciare dal brano di Screaming Lord Sutch, "Jack The Ripper" (sì, ancora lui, quello che figurava nel primo singolo), che arranca zoppicante su una voce sin troppo simile a quella del mai troppo lodato Peter Murphy, per poi ululare in un ritornello lacerato da chitarre stridenti come un nerissimo stormo di corvi affamati. Il fittissimo reticolo di organetti e sintetizzatori vintage che innerva la struttura del brano costituisce il telaio portante di quasi tutto il suono dell'album. Con la successiva "Count In Five" ci si accorge subito che il passo dai Klaxons agli Horrors non è affatto più lungo della gamba, basti prestare attenzione agli schizzi di sangue multicolore rigurgitati dalle tastiere sulla vorticosa e ubriacante voragine di basso e batteria. Un'ulteriore prova la fornisce "Drown Japan", adagiata su una linea di synth mandata in loop, trapanata da chitarre perforanti e tocchi di tastiere sinistramente orrorifici.
Con "Gloves", la vocazione garage-rock psichedelica torna a macinare riff contorti ed è come se i Bauhaus iniziassero a farsi sbranare dai Cramps più torridi. "Excellent Choice" è più che altro recitata e abbellita da ghirigori di tastierine sixties (per la gioia di qualche inguaribile collezionista di anticaglie), gli spasimi della convulsiva "Little Victories" e i suoi scomposti contorcimenti in una torbida fanghiglia ribollente regalano godimenti intensi, "She Is The New Thing" è una meteora di glam infuocato espulsa dalla nebulosa stoogesiana di "Raw Power", la già nota "Sheena Is A Parasite" è una scatarrata di due minuti che infila nei jeans dei fratelli Ramone un candelotto di dinamite ripieno di distorsioni.
Tuttavia, fra le pieghe di Strange House, si cela anche qualche episodio un po' meno riuscito: "Thunderclaps" vorrebbe assomigliare a un sabba o a un rituale dionisiaco, ma stavolta il tutto sbanda verso una sorta di polka sbrindellata, "Gil Sleeping" è un siparietto strumentale visionario abbastanza inutile e compiaciuto, che serve più che altro a diluire la durata del disco, la conclusiva "A Train Roars" cerca di scatenare le orde del male, ma dopo una buona preparazione giocata su un possente graffio di chitarra, l'annunciata apocalisse non arriva.

Approdati alla label XL e forti del buon riscontro ottenuto, Badwan e compagni decidono di alzare ulteriormente le proprie ambizioni. Sotto l’egida dell’architetto del suono Portishead, Geoff Barrow, il 21 aprile 2009 pubblicano Primary Colours, album cardine della loro carriera. Quella che solo due anni prima era una formazione punk orrorifica tanto curata quanto unidirezionale diventa un gruppo arty sofisticato, composito, in grado di gestire la complessità della contraddizione approdando a sintesi inedite.
Infatti, sin da “Mirror’s Image”, traccia d’apertura, è chiara l’intenzione di inghiottire coltri di chitarra shoegaze dentro marziali pattern ritmici post-punk e lugubri atmosfere gothic rock. L’operazione è ad alto rischio, se si pensa a quanto in contrasto siano storicamente le rispettive estetiche: onirica e sfumata quella shoegaze, macabra e tagliente quella post-punk dalle tinte gotiche, esse s’incontrano in un impensabile sposalizio nelle chitarre di Joshua Hayward, autentico scienziato di pedalboard da lui stesso assemblate, e nella voce profonda e baritonale di Faris Badwan. Il primo spazia senza problemi da tessiture in reverse di chitarra elettrica arpeggiata a saturi accordi di glide guitar, stile reso celebre tra anni 80 e 90 da Kevin Shields dei My Bloody Valentine, mentre il secondo muta decisamente il canto urlato del primo disco in uno declamatorio, sapientemente in grado di sfruttare le spezzature della voce per accrescere l’effetto drammatico. Per niente secondario è poi l’apporto degli altri tre musicisti, che sono anzi essenziali  alla riuscita musicale complessiva: la sezione ritmica, composta dal batterista Joseph Spurgeon e dal bassista Rhys Webb, è metronomica, con il primo a creare martellanti figure tra cassa, rullante e hi-hat, e il secondo a prodursi in implacabili toniche di basso in ottavi, mentre le tastiere di Tom Furse - che da questo album abbandona il basso, lasciandolo a Rhys Webb - dipingono dapprima una lunga e pacifica introduzione ambientale, quasi new age, per poi fare più volte capolino con un ossessivo tema di sintetizzatori.
“Three Decades” esaspera ulteriormente la glide guitar e tradisce la chiara devozione del cantante per Peter Murphy, mentre “Who Can Say”, secondo singolo estratto dall’album, è una nenia da incubo: la linea vocale e il tema di tastiere sono orecchiabili e in maggiore, ma l’una è filtrata da una decisa distorsione e l’altra utilizza un suono di sintetizzatore con armonizzazioni leggermente stonate, dall’effetto molto sinistro. Il basso e la chitarra violentano ogni forma di possibile delicatezza con distorsioni e feedback. Il giro armonico e la melodia tradiscono tuttavia una chiara ispirazione vocal/girl group, resa palese dall’esplicita citazione presente nel testo  a “She Cried” dei Jay and the Americans, anche nota per una cover delle Shangri-La’s (ribattezzata per l’occasione “He Cried”):

And when I told her I didn’t love her anymore, she cried
And when I told her her kisses were not like before, she cried
And when I told her another girl had caught me eyes, she cried
And then I kissed her with a kiss that could only mean goodbye

Per chi fosse curioso, è piuttosto esilarante raffrontare la vecchia canzone con la sua post-moderna e spiritata controparte.
“New Ice Age” ha una lunga intro in cui l’elettrica suona ostinatamente un riff con un intervallo di tre toni (il tipo di distanza tra note che se suonate contemporaneamente va a formare il cosiddetto ‘accordo del diavolo’), con gli altri strumenti a creare un esasperato e maligno crescendo. “Scarlet Fields” è il banco di prova per la sezione ritmica, che governa la canzone a livello dinamico lasciando libero spazio alle pennellate astratte di chitarra e synth, mentre la linea vocale è paradigmatica del nuovo approccio più melodico di Badwan. “I Only Think of You” è una litania tossica alla Velvet Underground, dove non a caso Spurgeon suona un pattern ritmico estremamente semplice e tribale, quasi a ricordare lo stile di Moe Tucker. “I Can’t Control Myself” è il legame residuo con lo psychobilly/garage che li ha visti emergere, suonato prediligendo la sofisticazione sonora all’aggressività, mentre la title track fa sfoggio di organi neo psichedelici e chitarre noise su un ritmo di batteria quasi motown.
L’album si conclude con “Sea Within a Sea”, che nonostante la sua durata di otto minuti è stata il primo singolo di presentazione dell’album. Scelta senza dubbio estrema, com’è prassi per la band, ma sostanzialmente inevitabile, dal momento che questa sorta di mini-suite ne è probabilmente il brano più rappresentativo dell’intera discografia. L’incipit mette subito le cose in chiaro: il battito motorik di Spurgeon e le toniche suonate in ottavi da Rhys Webb sono così precise e inesorabili da risultare come una sorta di presenza costante per la quasi totalità del pezzo. Nel minuto abbondante di introduzione l’atmosfera è quanto di più vicino a una sorta di versione smooth delle epiche cavalcate spaziali degli Hakwind; l’atmosfera è resa ancor più sospesa dalla frase di tre note identiche mandata in loop dalla chitarra elettrica. Fa quindi il suo ingresso Badwan, a declamare un testo dal tono messianico:

Marciando verso il mare
I loro sogni restano nelle ombre
I loro sogni restano fermamente radicati nelle secche
Vedi il cielo che raschia
Vedi la mia destinazione, vedi la mia destinazione qui stanotte. 

La voce intona una melodia in maggiore, mentre a livello armonico l’intera strofa gira attorno agli accordi di Fa diesis e Sol con quinta diminuita, una sequenza armonica essenziale ma in grado di fornire un forte senso di irresolutezza e sospensione. Conclusa la sezione cantata, si apre una breve esplosione di suoni cosmici e dissonanti, suonati sia da pad di tastiera sia dalla chitarra elettrica, caricata a tal punto di effetti di vario tipoda risultare quasi irriconoscibile. A seguito di una breve pausa ad appannaggio di cassa e basso, con i due musicisti trasformatisi ormai in metronomi umani, fa capolino un’inaspettato sequencer dal suono Chicago house, parente prossimo di quello che apre la mitologica “Your Love” di Frankie Knuckles (di cui non a caso gli Horrors daranno una loro interpretazione nel 2014). Torna quindi la melodia vocale, sempre nella stessa scala, ma l’atmosfera attorno è cambiata: la band suona ora un giro armonico di Fa diesis maggiore, senza tensioni o diminuite, restituendo una sensazione solenne. Il lungo finale si ripete in loop, con la sezione ritmica che progressivamente sfuma, lasciando spazio a una coda ad appannaggio del solo Tom Furse, e al suo gusto nella ricerca timbrica.

 

Dopo un album così complesso e totalizzante, le aspettative nei confronti dei cinque albionici divennero elevatissime e la band si trovò di fronte allo snodo delicato di una carriera fulminante, iniziata appena cinque anni prima. La risposta arrivò portando il discorso da tutt'altra parte, attraverso un disco denso e labirintico, immaginato e costruito ingranaggio su ingranaggio nel nuovo studio di proprietà, in completa autarchia creativa. Skying, questo il titolo prescelto, arrivò nei negozi nel luglio del 2011, anticipato a trombe spiegate dall'incredibile singolo "Still Life", un brano più U2 degli ultimi U2.
Skying dimentica le distorsioni e il rumore granuloso ripiegato a falde e strati spessi del lavoro precedente, per cercare altrove nuovi spunti e soluzioni. La band aveva sempre fatto del camuffamento un'arte raffinata e temeraria, ogni loro creazione è infatti una ri-creazione e ogni loro suono una magnifica ri-sonanza di altri suoni galleggianti come spettri nella nostra memoria inconscia. In tutto ciò risiede la potente contemporaneità della band che da questo punto di vista restò perfettamente coerente alla poetica che sin dall'inizio ne ha ispirato le gesta, riposizionando stavolta i propri territori di caccia in un immaginario new wave che non potrebbe intendersi e volersi più classico e ortodosso. L'immaginario romantico e declamante dei Simple Minds (sentite la splendida "I Can See Through You", quasi un omaggio programmatico) così come di Psychedelic Furs, Chameleons, Danse Society, Theatre Of Hate o Sad Lovers And Giants, tanto per intenderci.

Degli antichi retaggi sopravvivono certe code o ouverture psichedeliche tendenti all'ampia veduta strumentale, che mettono bene in evidenza il gusto e la raffinata eleganza esecutiva dei cinque musicisti (fra i momenti migliori si considerino l'atmosferica "Endless Blue", la bellissima "Moving Further Away", con le sue liquide pennellate di synth in dissolvenza, o "Oceans Burning", ai limiti del dream-pop) ma, nel complesso, Skying brilla di una bellezza propria e diversa, né superiore né inferiore rispetto a quanto già dimostrato dalla band in passato. Si dirà forse che c'è meno introspezione e più forma, meno dolore e più superficie, ma canzoni come "Dive In", "Monica Gems" o "Wild Eyed" parlano da sole: il gruppo ha ormai conseguito un'identità che si compone di infinite e vertiginose similitudini, consegnando alle orecchie dell'ascoltatore un frutto maturo e agrodolce, generato da innesti multipli di sapori ed essenze combinate tra loro.

I membri degli Horrors hanno dato vita nel tempo a numerosi side-project, fra i quali merita di essere nominato almeno il duo Cat's Eyes, formato dalla coppia Faris Badwan / Rachel Zefira, polistrumentista e compositrice dalla caratteristica voce soprano. Cat's Eyes, uscito a inizio 2011, ha ricevuto positive recensioni dalla critica e si è imposto come lavoro decisamente riuscito, permeato di un visionario vintage pop d'autore.
A dicembre del 2012 da segnalare la pubblicazione in formato digitale di Higher, una raccolta di remix delle tracce contenute su Skying. Qualche mese più tardi, a marzo 2013, venne commercializzata la versione fisica, costituita da un box a tiratura limitata comprendente quattro vinili in dodici pollici, due cd ed un dvd.

La frenetica pre-release di Luminous, il quarto album in studio degli Horrors, pubblicato il 5 maggio 2014, è stata segnata da innumerevoli interviste, con dichiarazioni variopinte di vivacità creativa e voglia di mescolare le carte: tante frasi quanta poca musica, praticamente un solo brano suonato dal vivo in varie occasioni. Finché il primo singolo "I See You" è stato programmato in radio e, con buona pace di chi prevedeva una fase calante, sin dai primi ascolti si è assestata tra i classici della band: sette minuti di futuristiche contaminazioni disco, electro e space, a far da supporto a uno dei loro testi più eterei e adolescenziali. La carta vincente di Luminous risiede nel suo essere frizzante, arioso, ma senza correre mai il rischio di inconsistenza, suonando invece vitale in ogni sua stilla.
Faris Badwan, da stregone della generazione post-Strokes, è diventato ormai un angelo capace di interpretazioni raffinate e sognanti: il premio su questo aspetto va sicuramente a "Change Your Mind", una ballata di tale bellezza da rimanere stupefatti, che si svolge languida nel bel mezzo di suoni psichedelici stratificati. Impossibile cogliere tutte le sfumature con un ascolto superficiale, ma è chiaro come il nuovo corso della band sia classificabile nell'alveo di una neo-psichedelia dal sapore spaziale, che sa essere danzereccia (c'è chi ha parlato di Cut Copy, ci può stare) ma anche carezzevole, a seconda del contesto d'ascolto. È musica che non dà punti di riferimento, generando paradossalmente l'effetto opposto: a ogni angolo pare di sentire echi di band anteriori. La verità è che gli Horrors ormai suonano uguali solo a se stessi, e l'eclettismo, quasi progressive, è diventato la loro cifra caratteristica.
Rispetto ai lavori precedenti qui emerge sensibilmente il basso di Rhys Webb che ricama linee sinuose, ipnotiche, nonché ampiamente ballabili (sentire il tortuoso groove di "In And Out Of Sight" per credere). L'intersezione tra synth e chitarre è spinta al limite, fino al punto che a fatica si distingue dove finiscono gli uni e iniziano le altre. In "First Day Of Spring" è certo che si parte con le chitarre, ma poi sembra quasi che vengano risucchiate da un gorgo di flanger e altri effetti, fino a perdere il proprio timbro caratteristico (tutto poi ritorna nella splendida coda, dove la chitarra riacquista, quasi di prepotenza, il suo posto). Non da meno in tal senso è l'accoppiata centrale "Jealous Sun"/"Falling Star" (sorprendentemente giapponese nel mood), in cui ritornano reminiscenze shoegaze tra goticismi stemperati da fascinazioni esotiche e melodie che mettono in luce la nuova sensibilità compositiva di Badwan.
Titolo e cover esemplificano la sensazione di essere al cospetto di un album giocato sulle sfumature cromatiche, come quelle che si vedono sull'indistinguibile oggetto della copertina, e sulla luminosità intesa come il tramite per svelare mondi nuovi e trame in filigrana. Suoni che possono essere vagamente terzomondisti, come nella splendida intro di "Chasing Shadows" (perfetto contraltare a "Changing The Rain", pezzo d'apertura di "Skying") o squisitamente dance, come nel singolo "So Now You Know". Anche i brani che inizialmente sembrano dire di meno, come "Mine And Yours" o l'atmosferica e sonnacchiosa "Sleepwalk", alla fine si ritagliano uno spazio tutto loro, chiudendo il disco con un caldo e tenero abbraccio.

A questo punto della carriera agli Horrors spetta di diritto un posto tra i big della musica britannica, e non solo di questi ultimi anni. Viene davvero difficile trovare simili quaterne iniziali di dischi tutti azzeccati e ciascuno con la sua precisa individualità. Ogni nuovo lavoro non disdegna quanto fatto in precedenza, ma al contempo aggiunge preziosi tasselli, evidenti novità. Più di ogni altra band odierna, proprio gli Horrors incarnano plasticamente il gesto più radicale della nostra contemporaneità musicale: nelle loro mani la "storia del rock" diventa un concetto fluido e malleabile, libero da gerarchie, cui la fantasia attinge per evocare scenari di senso ed associazioni d'idee sempre nuove, imprevedibili. Simili a tutti e a nessuno, gli Horrors hanno finito con il coniare un sound inconfondibile, all'altezza delle sfide più stimolanti del nostro tempo.

Dopo aver dato prova delle propria immensa versatilità tirando fuori dal cilindro una cover come quella di "Your Love" del rimpianto e inarrivabile Frankie Knuckles, gli Horrors tornano in pista con il quinto album in carriera, intitolato semplicemente V, tre anni dopo i fasti del bellissimo Luminous. Il disco è stato registrato a Londra dal celebre produttore Paul Epworth (FKA Twigs, Adele, London Grammar, Coldplay, U2, Paul McCartney e tanti altri), e la band, sempre più capitanata dal buon Faris Badwan, per l'occasione ha deciso di stravolgere ancora una volta l'impianto sonoro, sganciando una dietro l'altra canzoni che ora prediligono una vocazione maggiormente elettronica per certi versi "danzante", ora invece si tingono di cyberpunk duro e puro, con chitarre abrasive, capaci di creare uno squarcio indelebile e per certi versi indefinibile.
Bastano poi i primi istanti di "Hologram", con la sua andatura contorta, deviata e disturbata per assaporare la nuova ricetta della band dell'Essex. Sembra quasi di ascoltare un'intrigante stropicciatura al rallentatore di "Army Of Me" del folletto islandese. Ma siamo solo all'inizio. La successiva "Press Enter To Exit" continua a sciogliere i nodi di una nuova legatura voltaica, avanzando a passo lento prima di aprirsi nel ritornello centrale con il consueto carico di luci e ombre, synth e chitarre. Un'ulteriore e autentica magia la regala "Ghost" con i suoi cinque minuti di pura ossessione electro-rock. Chitarre taglienti, vortici sintetici da tappeto e un crescendo tanto imperioso, quanto calamitoso fungono da mescola perfetta. V non contiene cali considerevoli ed è semplicemente l'ennesimo centro di una band che non ha ancora esaurito la propria spinta propulsiva, il proprio serbatoio di intuizioni e melodie coinvolgenti.

A marzo 2021 vengono diffuse tre tracce, sufficienti per scuotere fan vecchi e nuovi, contenute nell'Ep Lout. Non tutti si troveranno concordi con le scelte del gruppo, ma per ingannare l’attesa che li separa dal prossimo album, gli Horrors confezionano poco più di undici minuti che non lasciano dubbi: “Lout”, “Org” e “Whiplash”, questi i titoli delle tre tracce contenute nell’Ep, sono inequivocabilmente industrial, un suono aggressivo, ruvido, scuro, nasty and heavy, che rimanda direttamente a un ibrido anni 90 figlio di Trent Reznor e Killing Joke. Faris Badwan e soci hanno più volte cambiato pelle nel corso della propria carriera, e scorgere rinnovata cattiveria nel loro songwriting è senz’altro sintomo di vitalità.
E’ il risultato di un esperimento, di un giochino consumato in modalità casalinga durante il lockdown da Covid-19, nella consapevolezza che in quel momento, dopo il buon ritorno di “V”, la band non aveva oramai più nulla da dimostrare, e soprattutto non subiva pressioni dal mondo discografico per produrre una hit. Si è così materializzata la sfida: riuscire a creare qualcosa di vigorosamente vitale anche da remoto, privati dell’energia che di solito viene sprigionata quando si suona tutti all’interno della stessa stanza. Nostalgie nineties condensate in due brani cantati più uno strumentale, musicalmente molto affini, ma in quest’ultimo - “Org” - emergono anche chiari riferimenti ai Prodigy e alla rave culture.

Lout potrebbe essere percepito come un lavoro fuori dal loro perimetro abituale, e resta il dilemma se trattasi di una sfida verso (per loro) nuovi orizzonti sonori o piuttosto di un semplice divertissement concepito per occupare il tempo fra un album e il successivo. Si presenta come un lavoro forte e di grande coerenza interna, ma saranno le prossime canzoni ad assicurarci una risposta definitiva...

 

Contributi di Giacomo Rivoira ("Primary Colours"), Gioele Sforza ("Luminous"), Giuliano Delli Paoli ("V")