Indelicates

Indelicates

Songs For Swinging Listeners

Nati come passatempo per pure ragioni sentimentali, gli Indelicates sono diventati presto cantori tra i più sinceri e corrosivi del clima da basso impero che ha contagiato come un morbo l'Occidente, su entrambe le sponde dell'Atlantico

di Stefano Ferreri

When Simon Met Julia...

Non poteva che nascere per ragioni di natura sentimentale una band ruvidamente romantica come gli Indelicates. Julia Clark-Lowes e Simon Clayton si conobbero in occasione di un certame di poesia a Brighton che vide trionfare il secondo. Era il 2005 e quell’avventura, oltre ai tanti interessi in comune, li unì fatalmente. Sembrò un incredibile azzardo la scelta di lei, appassionata fotografa, documentarista ma soprattutto cantante e musicista, di lasciare il girl group che aveva contribuito a fondare, The Pipettes, proprio a un passo dall'esordio discografico e dal relativo clamoroso successo commerciale. L’intento era quello di dedicarsi pienamente a un nuovo e più intrigante progetto assieme al compagno appena incontrato sulla propria strada, personaggio già molto attivo nella scena artistica locale come autore di musical e cabaret di sapore brechtiano. Col senno di poi, almeno per i futuri ascoltatori, non si può proprio dire che sia stata una scelta sbagliata. Assunto il cognome fittizio di Indelicate, Julia e Simon hanno iniziato a lavorare alacremente per trovare il giusto denominatore stilistico tra le rispettive personalità, scoprendo nelle canzoni folk di protesta ma anche nelle derive twee e nell’amore per certa new wave più impegnata un terreno assai fertile su cui esercitare la loro passione per la musica. Il risultato di questa fase burrascosa ed embrionale per gli Indelicates fu la registrazione in proprio di alcuni demo, messi poi a disposizione dei fan in download gratuito sul loro sito.
L’esperienza non sarebbe andata oltre questa prima arruffata avventura, se Simon e Julia non avessero avuto dalla loro quel talento innato nello scrivere canzoni intelligenti interpretandole poi con il giusto carattere. Al di là del taglio ancora amatoriale, al loro arco avevano già diverse frecce molto interessanti: un inno giunto in largo anticipo sui tempi e vergato in chiave punk-pop per questi anni di sfacelo generalizzato e di sogni infranti senza preavviso (“The Recession Song”); un paio di affondi micidiali contro la demagogia bugiarda dell’amministrazione Blair durante la guerra in Iraq (“The British Left In Wartime”, “The Last Bombed City”); una splendida metafora della perdita dell’innocenza in campo musicale, con Bob Dylan trasfigurato sotto le spoglie di un Peter Pan definitivamente negatosi ai suoi piccoli ammiratori (“The Sequel To Peter Pan And Wendy”).

With Godless America

indelicates_270x220_ivMa c’era già anche molto di più. La consapevolezza della bugia di fondo per l’attuale sterile etichetta di indie, un genere che si vorrebbe estraneo alle logiche di mercato del pop commerciale ma che funziona in realtà allo stesso modo, solo con edulcoranti semantici un tantino più raffinati, condannando di fatto chiunque ci si adegui (e loro in quanto artisti per primi) a un compromesso senza grandi speranze. E, seguendo questo ragionamento, un’amarezza a tutto campo riservata a tutti gli attori del circo e dell’industria discografica, in primis alle giovani generazioni spogliate del loro ruolo naturale di fruitori con una propria coscienza critica e destinati a trasformarsi in consumatori passivi, annoiati e senz’anima, all’interno di un meccanismo trito e perverso. Questo il senso dietro pezzi velenosissimi come “The Last Significant Statement To Be Made in Rock’n’roll”, “Fun is for the Feeble Minded”, “We Hate the Kids”, tra i più sinceri e i meno banali che gli Indelicates abbiano mai scritto. Nessun miglior riguardo per i creativi, in un proscenio dove non è rimasto più nulla da inventare (“New Art For The People”), né per i burattinai dello showbiz, spacciatori di ribellismo da operetta e giostrai alquanto avidi nel reiterare l’instancabile, deleteria idolatrizzazione delle popstar. Era questa, su per giù, l’allusione nascosta dietro un’invettiva caustica ma non cinica come “Waiting For Pete Doherty To Die”, episodio – tra i numerosi lanciati online ancor prima di diventare una vera e propria band – che fu inesorabilmente equivocato ma ebbe l’indubbio merito di regalare agli Indelicates una certa popolarità, seppur sotterranea.

La provocazione diede i suoi frutti. Persuasi dai crescenti riscontri positivi suscitati nella loro ristretta nicchia, Simon e Julia estesero alle dimensioni di un gruppo con tutti i crismi l’originario duo, arruolando tra i titolari i musicisti che già da un qualche tempo li accompagnavano dal vivo (e il fratello di Simon, Alastair, tra loro in qualità di secondo chitarrista), per registrare il loro disco d’esordio che vide la luce nell’aprile del 2008, pubblicato dalla piccola Weekender. Sfilacciato ed emotivo, scapigliato e orgoglioso, naif e un tantino snob, American Demo presenta i suoi autori e interpreti esattamente per quel che sono: diversi e fieri di esserlo, talentuosi per la scrittura di facile impatto e soprattutto per quella loro vena letteraria che sceglie di nobilitare i testi, finalmente, come elemento determinante al pari della musica. Si tratta di un disco provocatorio ma onesto (perché mai ruffiano), vizioso e lucidissimo, decadente e corrosivo con predilezione per il registro umoristico, infarcito di citazioni più o meno colte e impregnato da un’aura romantica retrò (con evidenti debiti nei confronti di Morrissey, ma non solo), che nell’asfittica scena inglese di quegli anni irrompe suggerendo l'opportunità di un sentiero stilistico ancora poco battuto.

Capita di rado di imbattersi in gruppi con due personalità espressive tanto marcate e coinvolgenti, facilmente identificabili nelle splendide voci di Simon e Julia oltre che nei rispettivi strumenti feticcio, la chitarra e il pianoforte, indiscussi coprotagonisti dell'album. Gli Indelicates sfruttano al meglio il potenziale di questa doppia polarità, insistendo con ostinazione sul felice contrasto tra le due anime, facendo di tale dialettica il loro personale marchio di fabbrica: broncio e grazia, spleen alcolico e sofisticata delicatezza, elettricità e tonalità color pastello sono gli estremi estetici che si incontrano e si completano armonicamente, elevando tutti i brani di American Demo al rango di gemme autentiche, problematiche ed emozionanti. indelicates_270x220_vDiversi tra i primi pezzi della compagine di Brighton sono ripresentati con la dovuta enfasi in termini di qualità del suono, frutto delle sedute in un vero studio di registrazione: inutile dire che guadagnano moltissimo in profondità e impatto, specie quelli più muscolari e rumorosi, ma la rivisitazione potenzia anche gli episodi di più marcata (e felice) inclinazione pop come “Sixteen” e “Julia, We Don't Live In The '60s”. Aggiungendo all’elenco l’inedita “Stars”, splendidamente agrodolce nelle sue riflessioni su un amore fatto di sopraffazione e brutalità, sono questi i frangenti in cui Julia ha modo di liberare tutto il proprio talento poliedrico e quella grazia estenuata ma non falsa.
Nello stesso genere, restano purtroppo fuori dalla tracklist “Burn All The Photographs” (una delle prove più intense della Clark-Lowes) e la notevole cover di “A New England”, così come il giù citato divertissement sull’ex-frontman dei Libertines. Nel calderone c'è però molto altro. Una nuova arguta boutade piazzata ad arte come “Heroin”, per esempio, o il feroce disincanto nell’attacco frontale alla sudditanza politica (ma soprattutto culturale) pagata dagli inglesi nei confronti di quella Godless “America” che resta l’implicito termine di riferimento per ogni analisi; e poi la minacciosa attualità politica allegorizzata dietro l’allusivo mood malinconico di “Unity Mitford”, dove il racconto della pazzia autodistruttiva di una donna infatuata di Hitler diventa il pretesto per parlare dei rigurgiti neofascisti e della rinnovata intolleranza dei nostri giorni; o la tagliente essenzialità negli insegnamenti di un grande maestro – immancabilmente accreditato – come Billy Bragg, il cui vetriolo polemico è stemperato con “Better To Know” in un pop-rock di bella presenza che riporta alla mente quello sferzante e disilluso dei primi Hefner o degli scozzesi Ballboy. E infine una perla come “If Jeff Buckley Had Lived”, riservata a tutti quelli che, come loro, hanno amato veramente il figlio di Tim ma anche a coloro che, come da preventivo, li avrebbero poi accusati di sciacallaggio. Una canzone amarissima e non consolatoria che mira a riscattare il lato umano dell'artista in una prospettiva demitizzante: il Simon più intenso di American Demo spara senza riserve sulla critica musicale e sull’industria discografica che hanno fatto di Buckley una vittima da deificare, un vuoto simulacro di cliché maledetti, oggetto di culto da sfruttare fino in fondo. 
Questa la (tantissima) carne al fuoco in un esordio che è riduttivo definire sorprendente e che avrebbe portato, appena un paio di anni dopo, nuovi preziosi sviluppi.

Greeks in the age of Rome

No, Julia e Simon Indelicate non sono per niente delicati. Possono nascondersi dietro uno spirito cabarettistico, affettando accento balcanico nella marcia circense di "Be Afraid Of Your Parents", ma il loro sarcasmo rimane un pungolo che si incastra nel costato anche quando l'attenzione vorrebbe lasciarsi andare. Gli Indelicates rappresentano una realtà purtroppo ancora un po' in ombra nel panorama internazionale: eppure il loro esordio, American Demo (così chiamato perché tali sarebbero quasi tutti gli esordi delle band britanniche oggi), ha rappresentato un raro esempio di azzeccato intreccio tra immediatezza, abilità compositiva, fervore intellettuale e verve cantautorale. Certo, si trattava di un lavoro piuttosto lontano dal gusto imperante nel mondo indipendente attuale, ammiccando più che altro al pop-rock inglese alternativo degli anni 90 (con una punta dei primi Manic Street Preachers, qui più evidente in "Your Money"), mantenendosi tutto sommato a distanza dai richiami nu new wave o folk-pop che sarebbero le soluzioni più facili per un gruppo alle prime armi in Inghilterra.
Ma, con le strade più sicure, Simon e Julia hanno scarsa dimestichezza. Per questo Songs For Swinging Lovers i due hanno lasciato l'etichetta che aveva pubblicato "American Demo" per fondarne una, la Corporate Records, e votarsi a un nuovo, moderno modello di marketing: il download a offerta libera. Songs For Swinging Lovers mantiene evidenti punti di contatto col lavoro precedente, sia dal punto di vista stilistico che nei temi, fortemente polemici ma sempre intrisi del loro caratteristico humour, caustico e amaro.

indelicates_270x220_viPrendiamo ad esempio il salto geografico che introduce il disco, dall'"America" (pezzo di American Demo) all'"Europa" ("Europe" introduce invece Songs For Swinging Lovers): dal militaresco inno di estrema alienazione (se l'Inghilterra è "squallida e meschina", parteggiare per lo spettro di un'America "senza Dio" pare la perfetta chiusura dell'incubo) alla teatrale invettiva contro un Vecchio Continente svuotato, "ubriaco di stile e classe ereditati". Prese testualmente dal libro pubblicato dal gruppo inglese (e già esaurito) in occasione dell'uscita di questo secondo disco, le parole con cui Simon spiega la scelta di aprire con un brano così opprimente, dallo spirito che realmente evoca i fantasmi di un'Europa avviluppata da fumi marcescenti, risuonano della sua inconfondibile schiettezza: "Volevamo che ["Europe", ndr] suonasse il più sgradevole e disgustoso possibile. [...] Se sembra affrettato disprezzare un continente in modo così radicale, beh, lo è in effetti. [...] Ma c'è qualcosa da cui guardarsi. [...] L'orribile mancanza di gusto della moda "alto"-europea con i suoi tailleur rifiniti e le sue pietre levigate del tutto inutili. Il modo in cui ci aggrappiamo a un comodo pacifismo pur affidandoci a obblighi e trattati con l'America per gestire la nostra sicurezza". 
E' inevitabile quindi, in questa visione del mondo certamente non diplomatica ma neanche macchiettistica, che il disco acquisisca, rispetto all'esordio, un'atmosfera forse un po' più malinconica, meditabonda; perde in aggressività (che, riguardo ad American Demo, aveva attirato qualche riferimento al mondo punk  inglese), recuperando in termini di spessore negli episodi in cui Julia prende il timone nei "suoi" pezzi al pianoforte. Oltre alla già citata "Europe", la maestosa murder ballad al pianoforte di "Roses" la mostra più ammaliante che mai (una Kate Bush dei tempi d'oro), nella sinistra progressione che racconta di un sensuale assassinio notturno ("The stark composition of essence and parts/ I gathered your limbs for a final dance/ A silent waltz to your songs unsung/ As the lifeblood seeps from your punctured lung/ Do you bleed diamonds/ Do you bleed rubies/ Do you bleed roses ").

indelicates_270x220_iSongs For Swinging Lovers non è solo corrosiva presa di posizione, non è solo piacere intellettuale ma anche, al solito, pura soddisfazione pop. La tripletta di "We Love You, Tania", "Ill" e "Flesh" fa sobbalzare sulla poltrona non solo per la riuscita melodica, per la semplicità non banale degli arrangiamenti, ma soprattutto per la fusione ormai allo stadio finale tra due personalità musicali e non solo. Pura ballata à-la Billy Bragg la prima (dal testo e atmosfera riecheggianti "Singer Songwriter" degli Okkervil River), si procede poi con un'altra "agiografia polemica", la rappresentazione dell'uomo moderno come incubo huxleyano, un misto di dipendenze varie e tendenze suicide narcotizzate dall'assuefazione, nella solarità elettroacustica di "Flesh" ("Because you'll never take enough of those pills/ You know you're too clever to be mentally ill/ You'll never fashion your damaged soul/ Because you're too clever to lose control"). 
Riferimento a "Brave New World" ripreso esplicitamente in "Savages", in cui il connubio tra Simon e Julia viene sostanzialmente sancito, non solo dal punto di vista musicale (che mostra qui chiare inflessioni eighties, anzi propriamente synth-pop). In una sorta di dialogo tra i due, viene infatti qui promosso come rivendicazione "identitaria" ("And the world has no need/ Of the songs that we sang/ We are savages, you and I/ And we will hang, hang, hang"): cantori feroci perché genuini in un mondo appiattito sugli standard di un buonismo nauseante, di un “felice oscurantismo”, senza un posto in cui stare, una casa dove tornare, una Itaca cui tendere. E’ anche una canzone che racconta del proprio irriducibile senso di inadeguatezza (“We are Greeks in the age of Rome”), di un’appartenenza negata assieme all’armonia (“We are ornamental swords, forged for the peace after the war”) e di tutto ciò che le inevitabili contrapposizioni comportano. 

indelicates_270x220_iiVa annotata solo una lieve, a dir la verità quasi inspiegabile, flessione in "Sympathy For The Devil" (solo una citazione), motivetto country-pop gradevole, ma non di più. Più convincente la coinvolgente chiassosità popolare di "Jerusalem", con tanto di strombazzate a rimbeccare il duetto sbarazzino tra Simon e Julia, che piazzano una delle loro stilettate ("We all love The Smiths, and we dig The Clash/ But the smell of leather is intoxicating/ Brilliant minds, we are genii/ We excel at drama and formal debating") e non possono non risultare simpatici per questa consueta dose di (auto-)ironia che riesce, va detto, più naturale che in altri più incensati autori (Will Sheff, per dirne uno, tra questi).
Non poteva mancare, dopo i titoli che da soli valevano il prezzo del biglietto di American Demo, una chiusura affidata al testamento in tre quarti di "Anthem For Doomed Youth", trattato di sconfitta e disillusione per una generazione "che non ha subito abbastanza torti per essere punk", "né affamata, né in lotta, né credibilmente povera". Una generazione "condannata" in partenza, che Simon e Julia raccontano con leggerezza, piccoli riff acustici e volteggi pianistici che si alternano e sfociano nello ieratico valzer finale.
Una leggerezza, una sapienza compositiva a conferma di una band che potrebbe fornire più di una soddisfazione negli anni a venire, se riuscisse ad avere un supporto più consistente della comunque preziosa (e prevedibile, dati i tipi umani) amicizia con Eddie Argos degli Art Brut. Non andrà, come vedremo, esattamente così.

Un'altra storia americana

Il mondo visto attraverso un pensiero talmente controverso da giustificare la sua eradicazione attraverso la violenza. La linea sottile tra ciò che è lecito e socialmente accettabile e ciò che va represso senza possibilità di replica. La deriva settaria del concetto religioso americano, le psicosi collettive. C'è tutto questo - e anche di più - a stuzzicare gli animi di Simon e Julia Indelicate, che si gettano anch'essi, a un solo anno di distanza dal disco precedente, il loro secondo, nella costruzione di una country opera che trova corrispettivi recenti in, ad esempio, "Hadestown" di Anais Mitchell (si veda la riproposizione, in questo disco, del canto gospel tradizionale "John The Revelator").
David Koresh è l'erede designato a prendere le redini di questa setta protestante, l'ennesima, che dal 1959 predica un'imminente Seconda Venuta di Cristo - in questo caso, sarà lui stesso a prendersi la responsabilità di dichiararsi nuovo Messia, praticando la poligamia anche con minorenni e facendo incetta di armi ed esplosivi. Il 28 febbraio 1993 il Bureau for Alcohol, Tobacco and Firearms, organismo federale per il controllo delle irregolarità nel possesso dei tre di cui sopra, irrompe con tanto di mandato nel "Ranch Apocalypse" per una perquisizione. Ne scaturisce una sparatoria che sfocerà in quattro vittime tra gli agenti del BATF e sei tra i Davidiani. Da qui in poi l'FBI sarà autorizzata a un assedio in piena regola di Mount Carmel (ubicazione del ranch-comunità, poco distante da Waco, Texas), che durerà cinquanta giorni, compreso uno stallo in cui Koresh dichiara di voler completare un'opera sull'Apocalisse che lo stesso Padreterno gli starebbe dettando. Alla fine l'FBI passerà all'azione e, in un controverso incendio della chiesa del ranch, moriranno tutti gli abitanti dello stesso: settantasei vittime (compreso lo stesso David Koresh), delle quali una ventina per colpi d'arma da fuoco sparati a chi fuggiva dalle fiamme.

indelicates_270x220_viiUn racconto doveroso, che mette in luce tutta la carica drammatica della storia scelta dagli Indelicates. Della storia non sopravvive però questa drammaticità, in un disco che rimane a metà strada tra il greve apparato dei contenuti e lo spirito irriverente della band, un po' combattuta nel bivio tra i due possibili travestimenti del lavoro. Mai veramente caustico, David Koresh Superstar non riesce mai a spostare la barra emotiva, che resta rigida e compressa a causa della poca brillantezza delle composizioni.
Il disco sviluppa infatti in particolar modo la vena più acustica del gruppo, a volte quasi country ("The Road From Huston To Waco"), quella che in Songs For Swinging Lovers rappresentava forse la parte più prevedibile e meno interessante della musica degli Indelicates (la non più che simpatica "Sympathy For The Devil", qui peraltro semi-replicata in "A Single Thrown Grenade"). Anche la caratterizzazione più "operistica" di certi pezzi - ad esempio in "Something Goin' Down In Waco" - non pare più che una rappresentazione didascalica e superficiale, anche nel pezzo programmatico "I Am Koresh". Se le riflessioni mancano, ma possono anche essere legittimamente ritenute non necessarie per un lavoro artistico, non può non far storcere il naso l'assenza di un gusto del racconto, il quale in questo caso pare limitare l'altrimenti grande capacità lirica di Simon e Julia.
Pallidi e prevedibili voli à-la Bacharach (la strumentale "The Siege"), i giri di basso e chitarra di "McVeigh" e "A Book Of Seven Seals" mettono in luce, in realtà, più che una varietà di scrittura, una semplicità che sconfina nello scolastico. 
Il risultato finale è la dissoluzione di questo carico d'ambizione, nei temi e nei contenuti, in uno scialbo lavoro pop, che non ha dalla sua né la delicatezza della pietas umana né l'ardore dell'indignazione.

L'amarezza è la risposta giusta (quando è l'unica che si ha)

Persi di vista nelle secche della loro ambiziosa quanto controversa country-rock-opera, ritroviamo oggi gli Indelicates in una fase di assoluta bagarre espressiva e repentino ripiegamento stilistico: orgogliosi come sempre della propria diversità e allo stesso tempo condizionati da un coacervo di irriducibili contraddizioni, esplosivi per attitudine ma irrimediabilmente auto-sabotati da quella loro cronica incapacità di scegliere una direzione chiara per seguirla poi con abnegazione e profitto. Gli Indelicates tornano sulla lunga distanza con la versione assemblata dei tre Ep intitolati Diseases Of England, finanziati con i fondi dei preorder e pubblicati nell’arco degli ultimi sei mesi dall’etichetta di famiglia, la Corporate, seguendo un ordine bislacco (esordio con la seconda parte, poi la prima, quindi la terza) solo in apparenza, vista la differenza qualitativa (e il relativo trend decrescente) delle singole porzioni.
Ricomposto secondo la scaletta originariamente preventivata, il quarto album della band del Sussex si offre in una successione graduale che valorizza l’impronta eterogenea portata in dote dalle canzoni presentandola in una forma sì iridescente ma armonica e lineare, nei limiti del possibile. La partenza, occorre dirlo, è di quelle spiazzanti ma non particolarmente convincenti. “Bitterness Is The Appropriate Response” introduce l’ascoltatore nel clima da basso impero della morbosa Inghilterra cui allude il titolo della raccolta, ma lo fa dirottando la vena arrabbiata del gruppo verso un electro-rock non proprio entusiasmante, spianato da ritmiche martellanti e sporcato da screziature di synth scure e pacchiane, per quanto funzionali, che si rivelerà col senno di poi il solo (e necessariamente il più ardito) approccio evolutivo a livello di sound dell’intero disco. Ne esce una tirata delle loro, rutilante e fin troppo eccessiva a differenza della susseguente “Pubes”, proposta in un’insolita veste dark-wave e puntellata a dovere dall’estro schizoide di Julia come dal gustoso falsetto di Simon che ne esaltano tutta l’ironica ostilità.

indelicates_270x220_viiiVolgarità, ignoranza, cinismo e vacuità, promossi dallo strapotere di media vecchi e nuovi, tornano a vestire con prepotenza i panni degli indiscussi protagonisti in uno spaccato polemico che conserva intatto l’acume delle loro prove migliori. Per fortuna è assai rimarchevole anche il prolungato frangente in cui riprende ad assisterli, quasi fosse una benedizione, quell’equilibrio prezioso che nelle prime battute – sull’onda lunga di David Koresh Superstar – pareva essersi perso. Non è solo questione di tematiche. E’ la loro indole a costringerli su binari attraversati già più e più volte. Nell’amarezza non dissimulata ma neppure esacerbata di un autoritratto come “We Are Nothing Alike” si recupera la leggerezza di alcuni degli episodi di Songs For Swinging Lovers, ed è un bel (ri)sentire. Allo stesso modo la paradigmatica “Everything Is Just Disgusting”, a chiusura di una seconda frazione davvero superlativa, consente agli Indelicates di perseverare anche nel nuovo lavoro con uno dei loro inconfondibili inni da beautiful losers (sul filone delle “We Hate The Kids” e delle “Anthem For Doomed Youth”), impregnati di struggente nichilismo e sconfinata disillusione quanto basta per intossicare chi ci si affezioni.
In “Class” prevale invece la vocazione a una cupa e truce teatralità – brechtiana, rimarcherebbero loro – con Simon chiamato a rispolverare le inflessioni sgradevolmente corrosive della vecchia “Europe”, prima di stemperarne il livore in quella sorta di vaudeville espressionista e crepuscolare che è da sempre nelle loro corde. E sempre Simon gioca da mattatore quando in “Le Godemiché Royal” parla senza freni di vibratori e voyeurismo con voce da crooner à-la Morrissey, abbracciando quasi con avidità il cliché e lasciandosi sospingere dall’alito di un romanticismo affettato e prossimo ad avvizzire. Ancora una volta l’enfasi decadente dona una marcia in più al gruppo inglese, colpevole sin qui forse solo d’eccessivo autocitazionismo, ma senz’altro convincente. Julia, va detto, non resta a guardare. Serve al meglio il compagno d’arte e di vita tra pianoforte, fiati e cori, prima di riprendere il timone in una doppietta da knock-out tecnico. Comincia con l’elegante inno all’amore maltrattato di “All You Need Is Love” (nessun richiamo ai Beatles), affidandosi a una posa melodrammatica che evita con talento la maniera e rifulge nell’accompagnamento dell’harpsichord e di un mandolino svolazzante. Rincara quindi subito la dose nel voce e piano malinconico d’altri tempi di “I Used To Sing”, con l’incanto della sua grazia a tutta, dal quale esce credibile quanto una Neil Hannon in gonnella: in entrambi i casi una prova di virtuosismo cristallino e felice scrittura pop, cui giova senza dubbio la sapienza nel non farsi prendere la mano e forzare.

indelicates_270x220_iiiIn Diseases Of England risplende insomma tutta la superba arte di una delle compagini più dotate e coraggiose dell’attuale panorama alternativo inglese. Peccato che con le innegabili discontinuità affiorino anche tutti i loro limiti conclamati, in un disco che cala alla distanza e arriva al traguardo con il fiato corto e con più mestiere che cuore. Dopo un segmento centrale di grande suggestione, classico e imprevedibile, raffinato ma antiaccademico, arriva la maggior essenzialità di un fragile duetto (“Enemies”) che ricorda le primissime cose della band e deprime un po’ l’atmosfera: apprezzabile come pegno d’autodisciplina, destinato però a sfigurare per la sua indubbia consistenza da filler.
In “Dirty Diana” Julia si rifugia nella sicurezza e negli automatismi di un nuovo, svenevole capriccio, ma i suoi ghirigori vocali in sinergia con i mugugni nel sottofondo baritonale curato dal compagno non riscattano il brano da una pesante sensazione di artificio didascalico che non desta meraviglia. Simon prova a emendarsi con un passaggio molto più asciutto, il voce e piano col freno a mano tirato di “Not Alone”, in cui il gruppo pare specchiarsi non senza compiacimento. Manca un po’ di mordente. E la situazione non migliora in chiusura con il folk dal sapore fortemente british di “Dovahkiin”, che ambisce al sing-along, ma si perde in una pozzanghera didascalica e autoindulgente. La vistosa flessione finale limita insomma le potenzialità di un album comunque, come da tradizione del gruppo di Brighton, interessante e ricco di spunti anche colti.

Gli Indelicates restano una gemma da custodire gelosamente e per la quale è difficile non provare una genuina simpatia. Questa volta non si può nascondere però anche un pizzico di delusione, avendo i Nostri nuovamente fallito l’appuntamento con il possibile disco della consacrazione. Scommettere su di loro, d’ora innanzi, potrebbe comportare maggiori azzardi.

Contributi di Lorenzo Righetto ("Songs For Swinging Lovers", "David Koresh Superstar")

Indelicates

Discografia

INDELICATES
American Demo(Weekender, 2008)8
Songs For Swinging Lovers(Corporate, 2010)7,5
David Koresh Superstar(Corporate, 2011)6,5
Diseases Of England(Corporate, 2013)6,5
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Julia, We Don't Live in the 60's
(videoclip, da American Demo, 2008)

New Art For The People
(videoclip, da American Demo, 2008)

America
(videoclip, da American Demo, 2008)

Sixteen
(videoclip, da American Demo, 2008)

Europe
(videoclip, da Songs For Swinging Lovers, 2010)

 

Roses
(videoclip, da Songs For Swinging Lovers, 2010)

Jerusalem
(videoclip, da Songs For Swinging Lovers, 2010)

Flesh
(videoclip, da Songs For Swinging Lovers, 2010)

Be Afraid of Your Parents
(videoclip, da Songs For Swinging Lovers, 2010)

Sympathy For the Devil
(videoclip, da Songs For Swinging Lovers, 2010)

I Am Koresh
(videoclip, da David Koresh Superstar, 2011)

I Used to Sing
(videoclip, da Diseases of England, 2013)

Class
(videoclip, da Diseases of England, 2013)

 

Not Alone
(videoclip, da Diseases of England, 2013)

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