Iron Maiden

Iron Maiden

I figli della rabbia

Nati dalla mente del geniale Steve Harris, gli Iron Maiden hanno scritto le regole fondamentali del metal classico attraverso una lunga carriera che li ha portati dai piccoli pub degli esordi ai grandi stadi delle band mainstream

di Valerio D'Onofrio

Ero molto giovane e molto sicuro di me stesso, ma ero anche fiducioso nelle capacità di Steve. Ricordo, nel mio primo concerto, di essere salito sul palco e guardandolo pensai: "Eccoci! Diventeremo la più grande band metal del pianeta!"
(Paul Di'Anno)

Gli Iron Maiden sono stati la band che, prima e più di tutte, ha portato alle masse i suoni estremi dell’heavy metal, partendo dai piccoli pub di periferia per arrivare dritti ai grandi stadi delle band mainstream. Sono tra gli esponenti principali di quella grande esplosione di nuovi gruppi chiamata New Wave Of British Heavy Metal (NWOBHM), movimento musicale nato in una fase di grande difficoltà economica del Regno Unito, con elevatissimi livelli di povertà e disoccupazione, elementi che diventano il substrato ideale per un forte sentimento di rabbia giovanile. Gli Iron Maiden prendono spunto dall'hard-rock degli UFO e dei Thin Lizzy, accentuano la violenza dei suoni dei Judas Priest e dei Motorhead, intingono alle complessità hard-prog dei canadesi Rush e utilizzano i temi dell’universo macabro dei Black Sabbath per trasportarlo dal sanguinolento mondo inventato dei sabba o delle messe sataniche, a quello metropolitano ben più realistico e violento. La loro poetica è quella dell’emarginato, del vagabondo delle grandi città, del giovane arrabbiato non cosciente dei veri motivi del suo malessere, girovago senza meta in una società che lo emargina; temi tendenzialmente associabili a band coeve come Sex Pistols o Clash con cui si confrontano nei loro esordi. Il loro è un credo fondamentalmente nichilista, come per gran parte del mondo metal.
I protagonisti dei loro brani sono, almeno nei primi anni, gli alcolizzati e le prostitute, gli ultimi di una società fossilizzata che rende impossibile ogni forma di riscatto. L’unico sfogo possibile per esorcizzare la violenza di cui ci sente vittime, è ricrearne la brutalità nella musica, unico strumento possibile di riscatto ed emancipazione. Nonostante un substrato sociale tanto degradato, sono riusciti, insieme ad altri, a scrivere le basi e stabilire le coordinate di quello che verrà chiamato metal classico. Nella lunga carriera il sound della band, pur nelle varie evoluzioni, resterà sempre legato alla tradizione del rock anni 70 (NWOBHM, hard-rock, progressive) senza mai subire le influenze delle nuove forme di metal estremo degli 80 o 90 (thrash, black, death ecc).

Le formazioni sorte recentemente si rivolgono a una nuova generazione, per la quale rappresentano quello che hanno rappresentato gli Zeppelin o i Deep Purple per gli attuali venticinquenni. Comunque, rispetto alle old band, i nuovi heavy rocker si distinguono per un'aggressività molto più accentuata; soprattutto dal vivo, sono davvero “fisicamente” aggressivi.
(Steve Harris)

Gli inizi

pauldianno001Fondati nel 1975 dal geniale bassista Steve Harris, mente creativa e vulcano inesauribile di idee, cresciuti in piena esplosione punk - da cui prendono a piene mani l’aggressività e in buona parte l’estetica - gli Iron Maiden evolvono con intelligenza e professionalità le esperienze precedenti di Black Sabbath (oscurità), U.F.O. (violenza), Thin Lizzy (armonizzazioni), Deep Purple (tecnica e assoli alternati di due chitarristi al posto di chitarra e tastiera), trovando una sintesi delle principali band del NWOBHM (Saxon, Angel Witch, Samson ecc.) senza disdegnare - nella seconda metà degli anni 80 - composizioni ambiziose al limite del progressive.
Dopo iniziali cambi, la formazione si stabilizza con Paul Di’Anno (voce), Dave Murray e Dennis Stratton (chitarra), Steve Harris (basso) e Clive Burr (batteria). Le prime registrazioni sono raccolte in The Soundhouse Tapes (1979), piccolo Ep di soli tre brani che li rende oggetto di culto nel mondo underground.

La notorietà aumenta rapidamente e il loro nome appare tra le band principali del New Wave Of British Heavy Metal nella raccolta Metal For Muthas (1980) con i brani “Sanctuary” e “Wrathchild”. Nel 1979 suonano come band di supporto dei più noti Motorhead, dove vengono notati da Brian Shepard, il direttore della Emi, che ne intuisce rapidamente le potenzialità. Nel febbraio 1980 - appena due mesi prima del loro esordio - pubblicano il singolo “Running Free”, che entra nella classifica britannica e li porta sorprendentemente a suonare nella trasmissione Top Of The Pops. Nel frattempo Harris rimane colpito dai disegni dell’artista Derek Riggs e ha la geniale idea di utilizzarle come cover. Eddie, una sorta di zombie ischeletrito dall’abbigliamento sudicio (primo album), emblema della violenza metropolitana (secondo album), è il prototipo del disadattato delle periferie abbandonate e diventa la loro mascotte, oltreché un elemento non secondario del successo e della riconoscibilità della band. 


Gli album con Paul Di'Anno

iron_maidenL’esordio Iron Maiden (14 aprile 1980) segnala una band dotata di una perizia tecnica e un’energia fuori del comune (elemento metal) arricchite da una brutalità urbana visionaria (elemento punk), degna del film “I guerrieri della notte” (1979) di Walter Hill. E’ impressionante il numero di brani-capolavoro presenti. "Prowler" parte subito con una violenza inusitata e diventa il manifesto del vagabondo solitario. L’assolo dura appena venti secondi, ma è talmente rapido e selvaggio da far capire subito di trovarsi fronte a qualcosa di completamente diverso dal passato.
"Remember Tomorrow" alterna lenti arpeggi, testi poetici e furiose fughe di chitarra e diventa uno dei loro grandi classici. Nel contempo vengono rievocati mondi gotici ritenuti affini: “Phantom Of The Opera” mostra una maturità compositiva e una complessità da gruppo progressive. I tempi variano di minuto in minuto, la struttura del brano evolve continuamente e la velocità non è affatto l’unico elemento chiave, ma diventa solo uno dei tanti che ne fanno un modello per chiunque voglia approcciarsi al metal.
"Transylvania" è il loro primo brano strumentale, un fenomenale viaggio visionario in un modo horror/gotico immaginario, dove diventa fondamentale il dualismo tra i due chitarristi (Murray più diretto e violento, Stratton più complesso e articolato). E’ un paradosso che conferma la genialità del giovane Harris il fatto che, nonostante la velocità ai limiti, il brano riesca a evocare paesaggi oscuri e testi letterari. "Running Free" è la traccia più semplice del lotto ed è contrassegnata da un senso liberatorio che non è facile trovare in gran parte delle band metal. La voce da teppista di Di’Anno è quasi autobiografica, quando urla la storia di alcolizzati derelitti e abbandonati (“abbiamo passato la notte in un carcere di Los Angeles”) e la corsa verso il nulla è simbolica di un bisogno di libertà che non ha mezzi per realizzarsi autenticamente. Per il metal è quello che era stato “Born To Be Wild” per gli hippie.
"Charlotte The Harlot" passa dai teppisti alle prostitute, con testi volgari e maschilisti e mitragliate di chitarra. “Strange World" è meravigliosamente anomala nella discografia della band, lenta e poetica come un tentativo di fuga dalla realtà, ma ricca di mestiere e concretezza. "Iron Maiden" chiude l’album come una coltellata al petto e diventa uno dei loro simboli immortali. Un perfetto concentrato di violenza psicotica (“vuoi entrare nella mia stanza? voglio mostrarti tutte le mie cose, voglio vedere il tuo sangue, stare fermo e guardare. Ovunque sarai la vergine di ferro ti prenderà, non importa quanto lontano”) e ritmi schizofrenici, in cui la band autocitandosi si autocelebra preventivamente, come a prefigurare un futuro roseo.

Dennis non era troppo vicino all'heavy metal; Adrian Smith, che l'ha sostituito, oltre a essere dotato di maggiore esperienza, è certamente il chitarrista ideale, affiancato a Dave, negli Iron Maiden. La band ha acquistato un miglior impatto globale con la sua venuta.
(Steve Harris)

sanctuaryIl secondo album - Killers (1981) - viene preceduto dalla pubblicazione di tre singoli. “Sanctuary”, con una copertina incredibilmente potente e trasgressiva, con il mostro Eddie intento a uccidere una donna dalle sembianze del primo ministro inglese Margaret Thatcher; “Women In Uniform” e “Invasion”, decisamente in territorio punk, in cui ritorna l’odiata Thatcher in divisa di polizia con manganello e atteggiamento fascista, in attesa di picchiare un bizzarro Eddie in versione playboy.
Gli Iron Maiden mostrano quella che potrebbe essere definita una loro linea ideale, un’intolleranza al potere e un inno alla libertà formalmente edonistica o da branco, certamente non collettiva, ma vagamente antitotalitaria.

women_in_uniform_01Eddie passa da sudicio teppista a killer, come nell’iconica copertina, dove mostra un’ascia insanguinata nella notte di una immaginaria metropoli futurista. Nel frattempo Adrian Smith (ex-Urchin) prende il posto di Stratton: il suono ne acquista in potenza con riff più secchi e ritmiche mediamente più compatte.
L’album è un nuovo classico dell’heavy metal mondiale che trova il suo vertice assoluto nella fenomenale title track, incentrata sull’urlo di Di'Anno che segue una intro memorabile del basso di Harris. Il killer diventa l’alter ego di una generazione che risponde alla violenza istituzionalizzata con una violenza illogica e immotivata (“Le mie vittime innocenti sono massacrate dalla mia collera”), fine a se stessa perché priva di strumenti culturali per essere elaborata (“Cammini nella metropolitana, i suoi occhi bruciano, è a un passo dietro di te”).
Il teatro perfetto di tutto ciò non può che essere la grande metropoli alienante, frutto spersonalizzato di una società che ha già un progetto per ogni giovane (lavoro in fabbrica malpagato e monolocale in affitto), ma che non fa i conti con chi a questo “progetto” non vuole aderire. L’esorcismo funziona, la violenza dei suoni diventa uno sfogo sano che la generazione dei padri fa fatica a capire. La musica degli Iron Maiden, come tutto il metal degli esordi, è un piccolo ma significativo tassello della reazione alle contraddizioni della società post-industriale inglese. Lo sarà ancora per poco.

ironmaidenkillersi7753L’album si apre col piccolo gioiello di appena un minuto e quarantasei secondi “The Ides Of March", dai ritmi potenti e marziali. "Wrathchild" ("Figlio della rabbia"), uno dei più riusciti, segue la medesima strada di “Killers”, con attacco di basso rapido e violento e un testo tipicamente da mentalità punk (“Sono nato tra rabbia e avidità, dominazione e persecuzione, mia madre era una regina, mio padre non l'ho mai visto”). Si ritorna alle citazioni gotiche del primo album, stavolta col racconto di Edgar Allan Poe "Murders In The Rue Morgue", con intro d’atmosfera e successiva sfuriata di chitarra. "Genghis Khan" è il nuovo strumentale (purtroppo perderanno quasi del tutto questa abitudine) simile al precedente “Transylvania”, con intrecci di chitarra memorabili.
"Another Life" e "Innocent Exile" sono due brani-cloni con la medesima poetica del derelitto rinnegato dalla società (“La mia vita è talmente vuota, nulla per cui vivere, la mia mente è in completa confusione”). L’urlo di Paul Di'Anno diventa catarsi, terapia dall’insopportabile mal di vivere. "Purgatory" è la nuova “Charlot The Harlot”, velocissima, speed metal allo stato puro con una sezione ritmica sconvolgente.

L'avvento di Bruce Dickinson

number_of_the_beast_01Nel frattempo il successo della band aumenta esponenzialmente, iniziano il loro primo tour mondiale di cui rimane testimonianza nel live Maiden Japan (1981). Gli Iron Maiden stanno però cambiando radicalmente, il ragazzo di strada con problemi di alcol e droghe Paul Di’Anno, icona del cantante metal più autentico, non riesce a reggere il passaggio da band di culto per piccoli locali a gruppo di professionisti instancabili. Il divorzio diventa inevitabile quando Harris conosce al Reading Festival del 1981 l’allora cantante dei Samson, Bruce Dickinson. Il grande botto è pronto, le caratteristiche della voce di Dickinson se da una parte ampliano le potenzialità della band, da un’altra rappresentano la fine della loro stagione più valida artisticamente. Eddie non è più il teppista metropolitano che si identifica con i problemi sociali della sua generazione, ma diventa un marchio da esportare in tutto il mondo, da esibire nelle più disparate cover future (dall’antico Egitto all’inferno dantesco, dalla guerra alla fantascienza fino all’horror).

steve_harris_01Una parte del metal inizia a istituzionalizzarsi, un’altra si rifugia in suoni ancor più duri - ad esempio, tra i primissimi i Venom con “Welcome To Hell” (1981) - che diverranno i semi da cui germoglierà il metal più estremo. Gli Iron Maiden stanno decisamente dalla prima parte e The Number Of The Beast (1982) è il passepartout per diventare la band metal più famosa del mondo. Se Paul Di’Anno è un disadattato debordante di poesia maledetta, Bruce Dickinson è un professionista impeccabile. E’ però innegabile che in quest’album siano presenti almeno tre capolavori (“Hallowed Be Thy Name”, “22 Acacia Avenue” e “Children Of The Damned”, di cui il primo è probabilmente il più grande della loro carriera) e tre grandi classici della loro discografia (“The Number Of The Beast”, "Run To The Hills” e “The Prisoner”).

bruce_dickinson“Hallowed Be Thy Name" ("Sia santificato il suo nome") è una summa assoluta della loro poetica, sia per la complessità della musica (sovrapposizioni di chitarra al limite del prog, brano che si sviluppa in fasi alterne), sia per i testi (gli ultimi minuti di vita di un condannato a morte). Il rintocco di campane iniziale, le urla di disperazione di Dickinson e, dal quarto minuto, l’imponente esplosione di rabbia con successiva fuga di chitarre e basso riescono a essere sia metal per tutti che avanguardia metal. "22 Acacia Avenue" è la continuazione della storia della prostituta di “Charlot The Harlot”, ma decisamente più elaborata e complessa. Tra continue variazioni di ritmo e momenti di vera rottura con la tradizione rock, il brano procede con testi duri e diretti ma dotati di una profonda etica esistenzialista che trova soluzione nella fuga, unica possibilità di realizzazione e di redenzione. E’ il ritorno dei Maiden al racconto dei derelitti, alla vita di strada che avevano cantato ossessivamente nei loro primi due album. "Children Of The Damned" - liberamente ispirata al racconto di fantascienza “I figli dell’invasione” ("The Midwich Cuckoos"dello scrittore John Wyndham, da cui verrà tratto il fenomenale film “Il villaggio dei dannati” del 1960 - è una ballata scarna e desolata che si innalza a vertici sinfonici di solitudine riassunti dal caldo abbraccio di Dickinson ai dannati del titolo (metaforicamente gli adolescenti senza speranza delle periferie abbandonate).
“The Number Of The Beast”, introdotto da un brano dell'Apocalisse di Giovanni, diventa un classico di tutto il metal, inserendo Eddie in un contesto satanico adatto alle masse (cioè lontanissimo dal satanismo viscerale rigorosamente underground del nascente metal estremo). “Run To The Hills” è un inno alla libertà perfetto per gli spettacoli live, mentre “The Prisoner” rimanda alla serie televisiva fantascientifica britannica.

Il lascito dei primi tre album degli Iron Maiden è enorme; partendo da un movimento innovativo (se non addirittura rivoluzionario), la band scrive le regole basilari di quello che oggi viene chiamato metal classico.

Dovevo rientrare a casa perché mio padre era morto d'infarto a 57 anni. Sembrava ok per tutti. Dopo due settimane tornai negli States. La situazione era tesa. Ci fu un incontro e mi dissero che era tempo di cambiare. Ero fuori dalla band!
(Clive Burr)

Ormai la band di Harris è una macchina ben oliata con esibizioni live sempre più spettacolari. Questo estremo professionismo crea un’ulteriore vittima dopo Paul Di’Anno. Clive Burr viene sacrificato per motivi sostanzialmente ignoti; durante il tour negli States è costretto a ritornare in Inghilterra per quindici giorni a causa dell’improvvisa morte del padre. La causa più probabile è che Harris non sopportasse i comportamenti bizzarri ed estremi nonché la dipendenza dall'alcol sia di Di’Anno sia di Burr, per lui la band doveva essere formata da professionisti che non avevano nulla a che fare con alcol e droghe.

L'addio di Clive Burr e il grande successo

davemurray_01Nel 1983 i Maiden pubblicano Piece Of Mind (gioco di parole tra pace dei sensi e pezzo di cervello) in cui fa l’ingresso il nuovo batterista Nicko McBrain. Il nuovo Lp rappresenta una svolta evidente. Gli Iron Maiden vengono ripuliti da ogni residuo delle idee di Di’Anno per addentrarsi in una fase nuova della loro carriera, dove Dickinson impone idee nuove. Non più teppisti psicopatici ricolmi di rabbia ma eroi di guerra, non più periferie abbandonate ma campi di battaglia dove elogiare gesti eroici, non più citazioni di letteratura gotica ma viaggi nella fantascienza o nella mitologia. Il suono diventa più compatto e heavy, i testi sono inni all’eroismo in battaglia, iniziano a usare gli effetti speciali di suoni di mitragliatrici e i live diventano sempre più maestosi. In una parola, la musica dei Maiden diventa epica.
La poderosa "Where Eagles Dare", uno dei brani più duri e ripetitivi della band, elogia l’audacia degli aviatori della seconda guerra mondiale e fa parte di una trilogia sulla guerra composta anche dalla velocissima “The Trooper”, loro cavallo di battaglia live, e da "Die With Your Boots On", che inizia con riuscitissimo riff di chitarre.
posterintessutoironmaidenpieceofmindi56989“Quest For Fire” cambia scenario: ci troviamo in un mondo preistorico immaginario (cioè mai realmente esistito) dove uomini e dinosauri convivono. Colpiscono il ritmo cadenzato e la voce di Dickinson, che più che cantare sembra raccontare una storia, in un tentativo di metal con influenze di musica medievale che si riproporrà parzialmente nel brano “The Prophecy” tre anni dopo. "Flight Of Icarus" gioca la carta della mitologia ed è un inno al coraggio e alla tenacia per il raggiungimento di imprese impossibili.
Difficile immaginare ambientazioni più diverse rispetto ai primi due album. Non mancano anche qui almeno due capolavori, la fenomenale “Revelations” con testi ispirati allo scrittore londinese G.K. Chesterton, altalenante con continue accelerazioni e decelerazioni in territorio progressive e una fuga finale in pieno stile Maiden. Ma il capolavoro è senz’altro “To Tame A Land”, dedicata alla saga “Dune” dello scrittore di fantascienza Frank Herbert (che rifiutò sprezzantemente la richiesta di Harris di utilizzare come titolo “Dune”). Un brano che fa epoca e diventa un modello da imitare per generazioni di band metal.

world_slavery_tourOrmai Eddie è un’immagine che può essere esportata ovunque. Inserirlo in un contesto totalmente alieno come l’antico Egitto non sorprende. Nonostante il marchio Iron Maiden abbia abbondantemente superato i confini del metal, la creatività di Harris sembra non cedere. Powerslave (1984) è l’ennesimo ottimo lavoro in appena cinque anni. La scissione totale tra quello che esteticamente rappresentano (violenza, guerra, teschi, zombi) e quello che nella realtà sono (professionisti impeccabili) è ormai palese. “Aces High” continua la passione di Dickinson sulle battaglie aeree della guerra mondiale, “Flash Of The Blade” inizia con l’ennesimo riff perfetto ed entra a far parte della colonna sonora di “Phenomena” di Dario Argento. "Losfer Words" torna ai brani strumentali con perizia e classe, ma sfortunatamente sarà l’ultimo della loro carriera. "Back In The Village" raggiunge livelli di velocità quasi al limite del delirio, mentre la celeberrima “2 Minutes To Midnight”, su un’ipotetica apocalisse nucleare, diventa il loro ennesimo successo di pubblico grazie a un riff potente e orecchiabile.
Il meglio arriva nelle due tracce più elaborate e complesse, percorso che ormai Harris persegue con decisione. I sette minuti di “Powerslave” sono il capolavoro scritto da Dickinson, un lungo viaggio nell’ossessione della morte, maestoso e cupo allo stesso tempo. "Rime Of The Ancient Mariner" (tredici minuti), tratto dal racconto di Samuel Taylor Coleridge, è il brano più lungo degli Iron Maiden fino a quel momento. Emotivo, con ambizioni letterarie, è capace di far percepire la disperazione del protagonista in modo tangibile (“Acqua, acqua dappertutto, acqua ovunque e nessuna goccia da bere”). Al recitato del testi di Coleridge segue un’esplosione metal davvero incontenibile che rappresenta uno dei vertici compositivi della band.

Arrivano i synth

images_05Gli Iron Maiden sono ormai una macchina live di straordinaria efficienza. Stadi pieni con concerti da trecentomila spettatori che farebbero l’invidia di qualunque artista mainstream. Il “World Slavery Tour” dura più di un anno e ne è testimonianza lo storico Live After Death (1985), dotato di una carica persino superiore ai lavori in studio. Dopo un breve periodo di pausa tornano con Somewhere In Time (1986) che rappresenta una nuova svolta, stavolta la più difficile e divisiva per i fan oltranzisti del metal puro. Si passa dall’Egitto a un futuro immaginario, presumibilmente nell’universo di “Blade Runner”. Eddie non è più un teppista di strada ma sembrerebbe un poliziotto ultratecnologico dal grilletto facile (la cover sembra una versione ribaltata di "Killers", che testimonia ancora una volta il radicale cambiamento di prospettiva rispetto a Di’Anno).

somwhereLa vera svolta viene da un’idea di Adrian Smith, cioè quella di ampliare il sound dei Maiden per non rischiare negli anni di divenire una sorta di cover band di se stessi. Guardare avanti con decisione è il motto, “da qualche parte nel tempo” è quello che ne esce fuori. L’idea è condivisibile ma non viene accettata facilmente; Harris si prende una settimana di tempo per decidere, Dickinson minaccia di lasciare la band ma alla fine Smith riesce a convincere tutti. Il metal futuristico di “Caught Somewhere In Time” fa storcere il naso (almeno inizialmente) ai fan irriducibili, che inorridiscono al suono dei synth, ma in realtà funziona perfettamente. Dall’intro agli assoli finali fino al canto di Dickinson, il brano prosegue con coerenza il percorso evolutivo iniziato anni prima.
“Stranger In A Strange Land”, ispirato al romanzo di Robert A. Heinlein, rallenta i ritmi sino a diventare quasi un metal-pop, con un riff potente ed evocativo. Probabilmente è il momento più originale dell’album. Insieme a “Wasted Years”, segna in un certo la fine dello spirito del New Wave Of British Heavy Metal, ma il tutto non suona affatto come un tradimento, bensì come una evoluzione necessaria. “The Loneliness Of The Long Distance Runner” e l’epica “Alexander The Great” giocano carte già utilizzate in precedenza, mentre i restanti brani, pur dignitosi, non sembrano all’altezza della loro storia (tra questi tracce come “Heaven Can Wait” sembrano scritte solo pensando ai cori degli spettacoli live).

Il concept proto-prog-metal

nicko_mcbrain_2Questo percorso evolutivo trova il suo vertice nel concept Seventh Son Of The Seventh Son (1988), in cui emergono fortemente le influenze del progressive-rock (si riscontrano soprattutto affinità con i Genesis e i Marillion ma non solo) che corona un percorso virtuoso nato anni prima. Il risultato rappresenta un ideale anello mancante con il da poco nato progressive-metal, che in quegli anni stava trovando forma grazie all'importante opera di gruppi americani come Fates Warning e Queensryche, nonché alle basi fornite in precedenza dal prog-hard-rock dei Rush.
Il disco, col senno di poi, influenzerà anche gruppi progressive-metal venuti nel decennio successivo che lo citeranno tra le proprie fonti d'ispirazione (viene pubblicato ben sei anni prima di "Images And Words” dei Dream Theater, per esempio) e in tal senso può essere considerato un loro precursore. Questo avvicinamento al progressive trova il punto d’arrivo in due brani in particolare: la title track (dieci minuti), dal ritmo inesorabile, tastiere epiche e atmosferiche d'accompagnamento e un memorabile finale strumentale che diventa un manuale d’istruzione per le future band prog-metal (e non solo), e l’epica ballata metal “Infinite Dreams”, con testi poetici sul dualismo vita/morte, iniziale andamento lento ed esplosione finale. “The Clairvoyant” comincia con una memorabile intro di basso per poi diventare l’ennesimo classico delle esibizioni live, mentre “The Prophecy” ricorda l’andamento di “Quest For Fire”.

Adrian Smith lascia. Un ritorno al passato.

Adrian non era d'accordo con la direzione musicale che volevamo prendere. Bruce aveva fatto il suo album da solista con Janick e parlava molto bene di lui. Quando le cose iniziarono ad andare in discesa con Adrian, era quasi logico chiedere a Janick.
(Nicko McBrain)

steve_harrisDa questo momento il lungo percorso di cambiamento iniziato da The Number Of The Beast in poi si interrompe improvvisamente. Smith abbandona la band, probabilmente per divergenze di opinioni, e intraprende una carriera solista. Anche Dickinson pubblica un Lp solista, “Tattooed Millionaire”, dove conosce il chitarrista Janick Gers che prende il posto di Smith. Ne nasce No Prayer For The Dying (1990), Lp che fa capire bene i motivi dell’abbandono di Smith. Questo ritorno al passato è soprattutto un errore da un punto di vista concettuale (tornare indietro nel campo dell’arte è di per sé sbagliato) e non lascia il segno in quanto - per la prima volta - Harris non trova una strada alternativa da percorrere e tenta un impossibile ritorno ai tempi degli esordi. Ma è del tutto evidente che una band di professionisti milionari non può in alcun modo riuscire a essere quello che era stata quando suonava metal da strada in pub semideserti. E’ il primo passo falso dopo ben sette album di primo livello, un piccolo neo in una carriera comunque invidiabile. La cosa migliore è la cover (fantastica), ma qualcos'altro da salvare c’è. “The Assassin” potrebbe essere la “Killers” degli anni 90, “Bring Your Daughter... To The Slaughter” è un buon brano metal con testi da film horror, mentre la title track è un tentativo rievocare i fasti di “Hallowed Be Thy Name” con momenti persino strazianti nelle urla conclusive di aiuto a Dio (“Dio dà una risposta alla mia vita, Dio dà una risposta ai miei sogni, Dio dà una risposta alle mie preghiere”). Non male anche la furia di metal “Public Enema Number One”, mentre sorprende in negativo l’ultraconservatrice “Mother Russia”, inno al capitalismo trionfante, proprio da parte di chi - appena dieci anni prima - raffigurava l’omicidio di Margaret Thatcher.

Dopo il consueto tour, è la volta di Fear Of The Dark (1992), della durata di ben cinquantotto minuti, il loro album più lungo fino a questo momento. Eddie si trasforma in un mostro-albero con scenario gotico e luna piena alle spalle. Nonostante l’inizio sia violentissimo (“Be Quick Or Be Dead”) e la vorticosa title track diventi probabilmente il loro ultimo grande classico da live, sono tanti i brani che mostrano una carenza di idee. Non male "Afraid To Shoot Strangers" e il metal blasfemo di "Judas Be My Guide", entrambe tipicamente maideniane, mentre "Wasting Love" è una power-ballad atipica per la band. Oltre a questo non rimane molto nella memoria.

Gli album con Blaze Bayley

Gli album con Blaze sono dannatamente belli
(Steve Harris)

harris_and_bayley

La sensazione che qualcosa si stia perdendo si fa sempre più evidente. Dickinson lascia, probabilmente per dissidi con Harris ma anche per avere più tempo da dedicare alla sua (dimenticabile) carriera solista. La scelta del sostituto è sofferta - considerato il peso e la stima che Dickinson ha tra i fan - e ricade sul giovane Blaze Bayley, vocalist dei Wolfsbane. Se la storia degli Iron Maiden era stata una continua evoluzione, un cambiamento costante in ogni Lp dall’esordio sino a Seventh Son Of A Seventh Son, interrotto con gli ultimi due deludenti lavori, X Factor (1995) riprende il percorso e segna un cambiamento decisamente positivo. La voce di Bayley è completamente diversa da quella di Dickinson, molto più cupa e tenebrosa, Harris intraprende un percorso che porterà avanti per svariati anni, quello della suddivisione dei brani in tre parti (arpeggio iniziale-metal-arpeggio finale con conclusione).
Ne nasce un lavoro molto più cupo e riflessivo, dai connotati dark, dalle spirali intimiste ed esistenzialiste. L’epicità dei gesti eroici, figli della visione distorta della guerra di “Aces High” o “Where Eagles Dare”, fa spazio a ben più realistici scenari, che dipingono l’orrore di ogni conflitto. Sono gli anni della terribile guerra in Kosovo, la seconda guerra mondiale studiata sui libri di storia e celebrata come un modello di eroismo lascia spazio all’orrore reale che viene rappresentato nella cupa “Fortunes Of War”, uno degli episodi più emblematici del nuovo corso (“Dopo la guerra e ora che ci hanno mandato a casa, non posso fare a meno di sentire che sono da solo. Nessuno può vedere cosa ha fatto questo conflitto alle menti degli uomini che stanno tornando a casa”). Per la prima volta gli Iron Maiden non scrivono sulla guerra, ma contro la guerra, non cercano l’esaltazione della morte o dell’impresa gloriosa, ma descrivono l’angoscia di chi non potrà mai più essere lo stesso di prima. La struttura del brano è il nuovo modello a cui Harris si ispira: lento arpeggio iniziale con canto, metal classico ma meno aggressivo delle origini, ritorno all’arpeggio iniziale e chiusura.
"Sign Of The Cross" è il miglior brano dai tempi di “Seventh Son Of A Seventh Son” e probabilmente il migliore degli anni 90. Ispirato al “Nome della rosa” di Umberto Eco, inizia con coro di monaci dando subito un’atmosfera gotica totalmente nuova, per poi passare a continue accelerazioni e decelerazioni, nuovo coro con ritmi marziali e sfuriata di chitarra finale da manuale. I synth tornano a far parte integrante del suono della band, aggiungendo nuove possibilità stilistiche per Harris. "Lord Of The Flies", prima di detonare in un classico brano metal, ha un inizio con tastiere quasi ballabile, cosa inaudita per la discografia Maiden. "Man On The Edge" è il brano più speed e coinvolgente, non a caso scelto come apertura di tutto il futuro tour. Ma la strada che Harris sembra voler battere con decisione è quella dei brani con struttura simile alla perfetta e inarrivabile “Fortunes Of War”. "Look For The Truth", con testi tristi da musica dark, ne è un clone, come anche la bellissima "Blood On The World's Hands", con una intro di chitarra memorabile. “The Edge Of Darkness” è ancora sulla guerra, stavolta in Vietnam, trattata in modo adulto e non adolescenziale. “The Unbeliever” chiude con otto minuti cangianti in ritmo e stile, un tentativo ai limiti del prog tutto sommato coraggioso.

gersIn questa nuova stagione si percepisce la voglia di mettersi in gioco e di evitare di ripetersi, ma purtroppo c’è probabilmente un pregiudizio nei confronti di Bayley, causato dall'ingombrante fantasma di Dickinson che non abbandona i pensieri dei fan. In questo clima nasce l’undicesimo Lp, Virtual XI (1998), il più ingiustamente bistrattato e diffamato. Decisamente più breve di X Factor (quasi la metà), trasporta Eddie dalla stanza delle torture medievali in un futuro ipertecnologico. Bocciato da tutti (critica e fan), costringe Harris alla difficile decisione di separarsi da Bayley, decisione che - a leggere le dichiarazioni dell’epoca - fu più subita da Harris che condivisa in pieno. Ancora oggi Harris si premura di sottolineare in varie interviste quanto consideri significativi gli album del periodo Bayley, augurandosi una loro meritata riscoperta tardiva.
Tacciato di carenza di idee e persino di tradimento, Virtual XI è un album dignitoso con buoni spunti - ancora una volta arricchito dai testi anti-bellici di Bayley - seppur certamente meno ambizioso del precedente. E’ inspiegabile stroncare (se non con un pregiudizio) un Lp che contiene uno dei brani speed più coinvolgenti dei Maiden, tre minuti di puro delirio alla velocità della luce (“Futureal”), e soprattutto uno dei più complessi e articolati della loro carriera (“The Clansman”) che segue pedissequamente il nuovo percorso di Harris. Ma anche tracce totalmente dimenticate meriterebbero una riscoperta. La triste ballata “Como Estais Amigos” ricorda i caduti della guerra britannica delle Falkland (siano essi inglesi o argentini) con testi di Bayley da songwriter maturo che sa che l’odio potrebbe sempre ritornare (“Se dovessimo dimenticare il loro sacrificio e se torneranno a farci visita malvagità e tristezza, danzeremo alla luce del sole e berremo il vino della pace”). “Lightning Strikes Twice”, “When Two Worlds Collide” o “Don't Look To The Eyes Of A Stranger” sono decisamente più dignitose della metà dei brani di No Prayer For The Dying o Fear Of The Dark. Anche “The Angel And The Gambler”, con le sue tastiere onnipresenti - presa a pretesto per decretare un presunto tradimento (qualora si potesse configurare l’ipotesi del tradimento in una band, allora gli Iron Maiden dovrebbero essere già stati “condannati” nel 1982 con l’addio di Di’Anno) - è un tentativo coraggioso di creare qualcosa di diverso dai classici Maiden, con assolo hard-rock che non sfigura affatto.

La reunion

bruce_dickinson_01Ad ogni modo le pressioni per la reunion sono tante, l’etichetta pressa Harris dopo un tour non esaltante. La reunion è nell’aria da tempo e, sacrificato Bayley, viene annunciato il prevedibilissimo ritorno di Bruce Dickinson e il molto meno prevedibile ritorno di Adrian Smith. Gli Iron Maiden si ritrovano per la prima volta con tre chitarre e questo, unito al ritorno di Smith - da sempre critico verso soluzioni “passatiste” - farebbe pensare a qualcosa di nuovo. Harris si conferma non interessato a nulla di quello che il metal ha prodotto nei suoi versanti estremi negli anni 80 o 90. Brave New World (2000) è quindi una grande operazione-nostalgia preparata nei minimi dettagli con professionalità certosina.
Tutti i brani sono perfetti e ben studiati, ma in gran parte ricordano qualcosa della precedente discografia. “Ghost Of The Navigator” sembra una versione semplificata di “Rime Of the Ancient Mariner”, “The Mercenary” è la “Killers” del nuovo millennio. Harris non abbandona il suo stile di scrittura degli anni 90 con “Blood Brothers”, dedicata al padre scomparso. La complessità aumenta con le notevoli “The Nomad” (una via di mezzo tra “To Tame A Land” e “Alexander The Great”) e “The Thin Line Between Love And Hate” con sorprendente finale in stile prog quasi à-la Yes. L’album ricuce lo strappo tra la band e i fan e fa presagire ancora lunghi anni di luna di miele.

Purtroppo il successivo Dance Of Death (2003) non mantiene le aspettative. Gli annunci sembrano funesti sin da subito, a partire dalla cover in computer grafica e - come se non bastasse - il primo singolo disponibile rasenta l’imbarazzante (“Wildest Dream”). Fortunatamente il secondo singolo “Rainmaker” è decisamente più godibile. Si salvano la tiratissima “No More Lies”, la bellica “Paschendale”, la title track e la cupa “Montségur”. Si segnala anche “Journeyman”, quasi del tutto acustica, come non avveniva dai tempi di “Prodigal Son” in Killers.

Certamente un passo indietro, ma Harris riesce a rialzarsi facendo immediatamente due passi avanti con A Matter Of Life And Death (2006) che riesce a ridare dignità al loro storico nome, grazie a una serie di tracce lunghe e complesse (la loro già citata anima progressive che riemerge). “Brighter Than A Thousand Suns”, “The Reincarnation Of Benjamin Breeg”, “The Longest Day” e “For The Greater Good Of God” colgono il tema della guerra e associano alla struttura tipica delle canzoni maideniane del nuovo millennio una tangibile visione tragica e fatalista della vita.
E’ un lavoro più maturo e oscuro, antibellico (“These Colours Don't Run”) e disperato. A Matter Of Life And Death è il momento più maturo dei loro anni Zero, capace di superare la semplice operazione nostalgica con brani lunghi e tematiche adulte, che sintetizzano le varie anime da sempre presenti nella band.

The Final Frontier (2010) ha i difetti degli ultimi Lp (il continuo autocitazionismo) ma non supportato da spunti creativi adeguati. Eliminato ogni aspetto cupo del precedente Lp, si punta per l’ennesima volta ad ambientazioni futuriste, sino a scenari cosmici nuovi per la produzione della band. Dopo vari ascolti non rimane granché nella memoria, se non l’intro cosmica di “Satellite 15”, mentre i brani più lunghi ed elaborati (“Isle Of Avalon”, “The Talisman”, “The Man Who Would Be King” e “When The Wild Wind Blows”) sono dignitosi ma certamente non spiccano nella loro straordinaria carriera.

L’annuncio di un doppio album, con ben quattro brani sopra gli 8 minuti, suonava con queste premesse come un minaccioso inferire sul cadavere del “trooper” caduto in battaglia. E invece arriva la sorpresa: Book Of Souls segna finalmente un lavoro ispirato e soprattutto concreto, spazzando via con sollievo i timori di un mostro megalomane di ben 92 minuti in arrivo. Un disco che fonde le due anime della band: la sempre più marcata vena progressive, incarnata nelle lunghe maratone in scaletta, e quella più melodica. Il risultato è un tutto sommato convincente equilibrio tra composizioni ambiziose, come “If Eternity Should Fail”, sicuramente la miglior opener del nuovo millennio della band, e tracce dalla struttura più semplice come “Speed Of Light”, singolone da battaglia semplice, con pochi orpelli al punto giusto e un'ottima sezione solistica.
L’album richiama spesso antiche idee espresse nel duo Somewhere In Time e Seventh Son Of A Seventh Son, soprattutto nell’uso dei synth e nei fraseggi in delay delle chitarre a disposizione, forse mai come ora sfruttate in tutta la loro varietà da quando presenti in trio. L’estetica della band è sempre la stessa, il che rende anche questo disco un lavoro sostanzialmente di maniera.
Nicko Mc Brain è la vera sorpresa: favorito finalmente da un mix secco e asciutto, lontano dal suono sporco e impastato dei tempi recenti, dà il meglio di sé nei brani più tirati del disco. Anche Bruce Dickinson porta confortanti conferme, tornando a volteggiare tra vette altissime e bassi espressivi, nonostante la recente paura del cancro alla lingua.
Book Of Souls non sfiora l’eccellenza anche a causa di qualche divagazione di troppo, come nell’ambiziosissima “Empire Of The Clouds”, la maratona dickinsoniana a suggello dell’album. Le melodie offerte sono efficaci e l’uso dell’orchestra discreto e intelligente, ma non tutti i suoi 18 minuti appaiono imprescindibili, in particolare nelle fughe strumentali della sezione centrale. Stessa impressione danno paradossalmente i brani meno articolati della scaletta, i quali avrebbero avuto maggior efficacia con minutaggi più contenuti (“The Great Unknown”, “Death Or Glory” e “Shadows Of The Valley”) ma si tratta di peccati non mortali.

Il diciassettesimo Lp in studio Senjutsu (2021), rinviato di un anno per la pandemia, conferma tutte le caratteristiche dei Maiden almeno da “X Factor” (1995) in poi. Brani mediamente lunghi, singoli di facile impatto e struttura delle canzoni decisamente sovrapponibile (il consueto arpeggio acustico iniziale, intermezzo metal e arpeggio finale con conclusione).

Eddie diventa un samurai orientale destinato a salvare l’umanità dalla sua stessa avidità, come testimonia il bel video del singolo “The Writing On The Wall”, brano immediato che - sia nel video che nei testi - mostra una sua visione del mondo (il capitalismo rapace che divora ogni risorsa con gli inglesi vestiti da camerieri in mutande a servire come schiavi un presidente americano dalle sembianze di Trump). Un singolo tipicamente Maiden rallentato al confine dell’hard rock, destinato a diventare un nuovo inno da stadio, salvato soprattutto dall’assolo epic del solito impeccabile Smith. I brani più interessanti sono probabilmente “Death Of The Celts”, con intermezzi di musica popolare e “The Parchment”, entrambi vicini all’anima prog-metal di Harris.

Tanti potrebbero negare che i Maiden abbiano ancora qualcosa da dire e potrebbero sconsigliare l'ascolto di “Senjutsu”, ma in realtà sono certo che si sbagliano. E’ comunque importante che oggi, nel 2021, ci sia ancora qualcuno che faccia questo tipo di musica, con queste regole e questi standard consolidati. La chiusura “Hell On Earth”, che potrebbe essere l'ultimo brano della storia dei Maiden, ci preannuncia come potrebbe essere il mondo senza la band di Harris e Dickinson.

Contributi di Michele Bordi ("Book of Souls") e contributi minori di Alessandro Mattedi

Iron Maiden

Discografia

Iron Maiden (Capitol, 1980)

Killers (Capitol, 1981)

The Number Of The Beast (Capitol, 1982)

Piece Of Mind (Capitol, 1983)

Powerslave (Capitol, 1984)

Live After Death (live, Capitol, 1985)

Somewhere in Time (Capitol, 1986)

Seventh Son Of A Seventh Son (Capitol, 1988)

No Prayer for the Dying (Epic, 1990)

Fear Of The Dark (Epic, 1992)

Live At Donington (Virgin, 1992)

A Real Live One (live, Capitol, 1993)

A Real Dead One (live, Capitol, 1993)

The X Factor (CMC International, 1995)

Virtual XI (CMC International, 1998)

Ed Hunter (Sony, 1999)

Brave New World (Sony, 2000)

Dance Of Death (Columbia, 2003)

A Matter Of Life And Death (Emi, 2006)

The Final Frontier (Emi, 2010)

The Book Of Souls (Parlophone/Bmg, 2015)
Senjutsu(Parlophone, 2021)
Pietra miliare
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