Korn

Korn

I padroni in rovina del nu-metal

Complesso-simbolo di un genere, il volgarmente detto nu-metal, i Korn dell'ex-adolescente inquieto Jonathan Davis hanno conquistato stuoli di fan in tutto il mondo, ma dopo gli inizi esplosivi sono progressivamente affondati in un vuoto creativo

di Matthias Stepancich

A oltre venti anni di distanza dal loro lavoro d'esordio, gli auto-proclamatisi "intoccabili" Korn sono ancora il complesso-simbolo di un intero genere, il volgarmente detto nu-metal. Un genere che raramente ha proposto episodi notevoli, e che quando lo ha fatto (soprattutto proprio con i Korn), si è visto spesso sminuito dalla critica più esigente, a volte a torto, a volte a ragione. Vuoi per l'atteggiamento perennemente post-adolescenziale di certi gruppi, vuoi per l'innegabile presa che queste band hanno avuto sin dagli albori del nu-metal sui ragazzini (d'America prima e d'Europa poi), oppure per prese di posizione conservatrici di alcuni ascoltatori o al contrario per via di fenomeni hipster refrattari alle forme rock di maggior successo commerciale... Eppure col passare degli anni si è dimenticato quel che di buono avevano effettivamente prodotto i Korn.

Di tutti i gruppi che avrebbero modellato il loro sound sul primo (e sui successivi) album dei Korn, anche cercando di sfondare commercialmente, nessuno è riuscito a replicare un cantato così versatile ed emotivo, né un basso così caratteristico e in primo piano, né delle tematiche così intime e profonde. Per questo motivo, fino alla fine degli anni 90 i Korn riusciranno a incarnare lo spirito di un'intera generazione di adolescenti, quella nata sulle ceneri del grunge, e non a essere solo una fugace meteora o una colonna sonora da autoradio, come invece si riveleranno molti dei loro emuli.
Sfortunatamente, le evoluzioni successive tradiranno quanto di buono fatto dal gruppo, dispensando una serie di album trascurabili, e peggio faranno molti loro successori. Gli americani hanno alle spalle la responsabilità di aver creato un filone artistico che dopo una stagione iniziale al fulmicotone divenne presto la manna dal cielo per numerosi discografici. Sono i padroni in rovina di un genere che fino alla sua morte, avvenuta recentemente e alla quale non tutti sembrano arrendersi, è stato l'emblema della decadenza del rock alternativo, in realtà mainstream, d'oltreoceano.

Oltre la dovuta premessa, cercheremo in questa sede di sviscerare concretamente il percorso, tortuoso e ricco di sorprese, del gruppo indiscutibilmente simbolo di un'intera scena.

Gli inizi al fulmicotone

Jonathan Davis non è un bambino come gli altri. Ha vissuto un'infanzia tormentata; malmenato dalla matrigna, osteggiato dai compagni di classe, timido e chiuso in sé stesso, trova difficoltà a rapportarsi con un ambiente sociale che non lo considera e comprende di aver perso già in età adolescenziale la sua sfida col mondo. Si rifugia quindi morbosamente nella musica, va a scuola truccato come Robert Smith, vestito di nero, ascolta ossessivamente le canzoni dei Duran Duran, ripudiando ogni compromesso con ciò che lo circonda. Jonathan Davis è un ragazzino che non sorride facilmente, e osserva gli altri crescere facendo le esperienze che lui vorrebbe fare, accumulando dentro di sé rabbia e insoddisfazione. Non è nemmeno facile la vita familiare: il padre naturale si è costruito una nuova famiglia, e Jon l'incompreso è presto costretto a cercarsi un lavoro per legittimare la sua presenza in quella casa. Viene assunto in un obitorio, dove è facile immaginare a quali scene egli possa aver assistito. In una situazione così propriamente nera, sarà, come per molti altri artisti prima e dopo di lui, la devozione per la musica a salvarlo dalla spirale discendente.
I Sex Art sono il gruppo in cui Davis, assurdamente lugubre e malinconico per un ragazzo della sua giovane età, inizia il suo percorso musicale. La strada che poi sarà destinato a intraprendere con i Korn sarà di fatto proporzionale alla rabbia e ai tormenti vissuti e accumulati nell'infanzia; quando questi saranno ampiamente esorcizzati, la sua arte non avrà più nulla di emozionale e sincero da rappresentare, e progressivamente scadrà nella testarda emulazione di quanto già abbondantemente proposto.

Contattato dai chitarristi Brian "Head" Welch e James "Munky" Shaffer, rimasti colpiti dalla sua carica e della sua presenza scenica con i Sex Art, Jonathan si unisce a questi e al loro gruppo L.A.P.D. (acronimo di "Love And Peace Dude", più tardi "Laughing As People Die"), composto anche dal bassista Reginald "Fieldy" Arvizu e dal batterista David Silveria. I L.A.P.D. avevano già pubblicato un disco funk-metal non memorabile intitolato "Who's Laughing Now", col cantante Richard Morril, fortemente influenzato dalle esperienze della scena di Los Angeles del cosiddetto crossover. L'arrivo di Davis imprime una svolta alla formazione che decide di cambiare nome, optando per Korn, il cui logo viene disegnato da Davis stesso. Sono questi i primi passi di una band che, partendo dal background musicale sopracitato, vi aggiunge una componente metal, fondando di fatto un nuovo filone musicale, figlio dell'enorme calderone del metal alternativo o alternative-metal che dir si voglia. Un filone che al tempo stesso sviluppa un'identità propria, che lo differenzia da tutte le correnti "cugine" e dalle band "affini" o ispiratrici.

La prima pubblicazione è il demo "Neidermayer's Mind" nell'ottobre 1993, significativo per la qualità e l'innovazione già elevati, pur trattandosi solo di un'audiocassetta dimostrativa, al livello del susseguente debutto di cui anticipa le caratteristiche. Pochi gruppi sono riusciti in tale risultato - vengono in mente ad esempio i Tool, sempre in questi anni, con il demo "72826" precedente all'Ep "Opiate".
È una pubblicazione storicamente e qualitativamente rilevante, soprattutto per la presenza già da subito di Ross Robinson in sede produttiva, una figura che si rivelerà decisiva nella "creazione" stessa della scena nu-metal, tramite la scultura in studio di un sound archetipico e la caccia a nuovi talenti da produrre dando loro quello stesso tocco.
L'etichetta discografica Epic ne è piacevolmente colpita e li mette sotto contratto, rendendosi immediatamente conto del potenziale commerciale oltre che innovativo di un complesso che suona con chitarre a sette corde sincopate e magmatiche, basso slappato, colpi duri e decisi alla batteria e un cantante assolutamente atipico per l'epoca.

korn_fieldy_monografia_220x270_freeIl primo album, uscito nel 1994 e intitolato semplicemente Korn, sortisce un po' lo stesso effetto che aveva ottenuto l'esordio dei Rage Against The Machine, con la stampa specializzata a prendere atto di questo nuovo fermento giovanile e a elogiarne le idee innovative. L'esordio è effettivamente degno delle attenzioni che raccoglie soprattutto nella madrepatria e si rivela uno dei più importanti della sua decade, con la partenza a carica di "Blind", la grande performance hard-funky di "Ball Tongue", il tempo dispari di "Faget", l'aritmia deragliante di "Need To" e diversi altri episodi che rendono legittimamente questo album il simbolo di un intero filone musicale. 
I Korn si dimostrano maestri nel prendere gli stilemi più innovativi dei vari artisti rock, metal, crossover e sperimentali che li affascinano: le chitarre scordate e abbassate lanciate in riff panzer come gli Helmet, il groove-metal delineato dagli esperimenti di Pantera, Machine Head e Sepultura (questi ultimi soprattutto nell'album "Chaos A.D." del 1993), il sound da strada tra hardcore-punk e groove-crossover dei Biohazard, le distorsioni alienanti e industriali di Ministry e Nine Inch Nails, la furia crossover-hardcore dei Rage Against The Machine, le cadenze ritmiche tipiche del funk se non dell'hip-hop, il grunge più punk e nichilista dei Nirvana, i micidiali colpi di basso di Bill Gould dei Faith No More e in parte anche dei Primus più violenti e distorti, nonché una spruzzata di estremismi che vanno da riff vicini al death-metal in stile Morbid Angel (quelli di "Covenant", soprattutto) ad alcuni vocalizzi che sfiorano il grindcore, riuscendoli a mescolare in una forma musicale incredibilmente omogenea e personale. 
La genialità sta nel fatto che i Korn non si limitano a un semplice collage, ma riescono di fatto a creare una fusione unica e indistinguibile, reinterpretando il tutto in maniera altamente coerente, sentita e introspettiva. In questo nuovo stile i suoni diventano bassissimi, opprimenti, pesanti, i ritmi non sono sparati a mille ma prevalentemente sincopati e cadenzati con violenza micidiale. La sensazione è quella di un carro armato che sfonda tutto ciò che trova sulla propria strada grazie a una furia psicologica, ancor più che fisica, densa di disperazione e rancore. Sono soprattutto gli effetti delle due chitarre a impostare un suono più anomalo e deragliante.

Questo nuovo modo di concepire la musica metal viene ribattezzato dai giornalisti, forse un po' a corto di idee, "nu-metal" (inizialmente da alcuni anche "post-metal", termine poi passato a definire il sound di Neurosis e discepoli); e nu-metal saranno etichettate tutte le band che da qui in poi si rifaranno alle sonorità di questo album, o comunque al crossover più pesante, anche quando non saranno del tutto metal. Solo per citare i più popolari e i più meritevoli tra i primi seguaci: Deftones, Limp Bizkit, Coal Chamber, System Of A Down, Slipknot, Mudvayne, Papa Roach, i primi dischi dei Soulfly, ma anche gli stessi Machine Head di "The Burning Red" e in parte i Sepultura dell'album "Roots" tradiscono evidenti influenze korniane.
Che i Korn siano effettivamente un gruppo metal tout-court era ed è ancora argomento di dibattito. Molti appassionati di metal più tradizionalisti probabilmente direbbero di no. Johnatan Davis stesso, nel 2015, ha detto che non comprendeva il termine "nu-metal" e che ha sempre associato l'etichetta metal a gruppi come Iron Maiden o Judas Priest, pensando ai Korn come a un "complesso funk", piuttosto. La presenza nel sound dei Korn di una componente o influenza di questo tipo è però innegabile, così come nasceranno in seguito formazioni "nu" più vicine al metal, anche estremo, e altre più lontane. Del resto, tutto ciò non è strano, essendo il filone in una posizione ibrida, in cui convergono più influenze.
La differenza maggiore nel gruppo, comunque, la fa proprio Davis, che oltre a essere un polistrumentista versatile (introduce anche le cornamuse, marchio di fabbrica dei primi Korn, in "Shoots And Ladders"), si dimostra vocalist eclettico e inquietante. È capace di inventare un inedito stile di canto che alterna timidi sussurri, grida laceranti, crooning da oltretomba, scat in stile jazz (ma distorto in modi da incubo), flebili melodie da "lullaby", devastanti esplosioni di petto, timbriche imprevedibili. I suoi testi costruiscono inoltre l'anima e in un certo senso la "mitologia" del gruppo: Davis utilizza infatti le liriche per sfogarsi di tutte le atrocità e le violenze mentali e fisiche subìte durante la sua infanzia e adolescenza, riuscendo a comunicare una rabbia e un male interiore sinceri e crudeli, senza lasciare alcun dubbio sull'origine autobiografica o semi-autobiografica delle vicende scatenanti.
L'apice del disco è rappresentato dalla conclusiva "Daddy", un lungo psicodramma in cui Davis racconta l'orrore della violenza sessuale sui minori, dal suo punto di vista di vittima ora adulta, interpretando con la propria voce sia la personalità perversa dell'aggressore sia quella straziata della vittima. È un viaggio nel trauma psicologico che si eleva a religiosità deviata (l'introduzione liturgica), a schizofrenia (il canto a più personalità di Davis), a frustrazione e complessi edipici (la donna che canta una ninna-nanna in sottofondo), fino a sfociare in un finale spiazzante, in cui la band improvvisa mentre Davis dapprima urla soffocato dalle lacrime, e poi se ne va sbattendo la porta dello studio di registrazione. Resta a discrezione dell'ascoltatore stabilire se e quanto sia sincero questo sfogo finale con sbattimento di porta da parte di Davis, che si rivolge alla figura della madre naturale in richiesta di aiuto, perdono, o semplicemente di attenzione. Ma a prescindere da questo, è forse la canzone psicologicamente più sconvolgente del decennio: "Daddy" aggiorna alla propria epoca la tradizione dello psicodramma musicale, tracciando un filo rosso con i Doors di "The End" e i Suicide di "Frankie Teardrop".
Dopo un lungo silenzio, il punto finale è dato da una traccia nascosta che contiene un grottesco dialogo tra un uomo e una donna.

Certo, le tematiche di Davis colpiscono nel segno e migliaia di ragazzi si riconoscono nelle sofferenze di questo loro coetaneo così invasato e dolente. Contemporaneamente, numerosi musicisti, anche di esperienza, rimangono folgorati dall'impeto sonoro inedito di un simile debutto. Addirittura i brasiliani Sepultura, uno dei complessi metal più importanti di quegli anni, a cavallo tra metal estremo e metal alternativo, influenzano e contemporaneamente si lasciano sedurre dalla foga dei Korn, e inviteranno poi Davis a partecipare in una traccia del loro successivo album "Roots" (1996). Anche gli ispano-americani Fear Factory intraprendono qualcosa di simile: partendo da radici anni 80 figlie del thrash, del death e dell'industrial-metal, con "Demanufacture" (1995) virano con forza in un groove-industrial che suona attuale e decisamente anni 90, influenzando a loro volta molti gruppi nu-metal (l'affinità crescerà con "Obsolete", 1998, fino a toccare il perielio con "Digimortal", 2001).
Qualcosa quindi si muove nel sottosuolo, una scena musicale metal alternativa (e non) in pieno fermento.
Prima che ritorni direttamente la eco - i Deftones saranno di fatto i primi a rispondere alla chiamata dei Korn e anche quelli più artisticamente validi, capaci sulla lunga distanza di superarli - Davis e compagni si mettono al lavoro per la registrazione del secondo album.

Il risultato è Life Is Peachy, prodotto per l'ultima volta esclusivamente da Ross Robinson, figura di non poco conto nel panorama del "nuovo metal". È soprattutto un disco in grado di allargare maggiormente i confini rispetto a dove la band era finora riuscita ad arrivare. Se l'effetto-sorpresa ottenuto col primo album è ormai svanito, i Korn riescono a comporre e arrangiare alcune canzoni perfino superiori a quelle dell'esordio dell'anno precedente, finendo purtroppo penalizzati da una seconda parte del disco in cui invece si registra un certo calo di idee.
Lo shock industrial-tribale del frammento "Twist" e la ruvidità feroce ma melodica delle eccezionali "Chi", "Good God" (uno dei pezzi più duri mai proposti dal gruppo di Bakersfield) e ancora il refrain tutto sommato facile di "No Place To Hide" (che anticipa le scelte che verranno fatte a partire dal disco successivo), nonché l'innodica "A.D.I.D.A.S." (acronimo per "all day I dream about sex") sono tra i migliori numeri che un fan dei Korn possa sperare di ascoltare a un loro concerto. Non si può poi prescindere dal menzionare il record di volgarità stabilito nella divertente ma un po' inutile "K@#%!".
La traccia di chiusura "Kill You" suona invece come una seconda versione di "Daddy": un brano inquietante e angosciante, che cerca di riciclare lo stesso dramma psicologico amplificato dall'essere posto come epilogo. Ma il riciclo non può arrivare ai livelli dell'originale, e infatti il pezzo suona sì opprimente, ma anche non più così fresco, e perfino un po' forzato nel cercare il medesimo effetto. Dopo il brano è presente un silenzio che precede la traccia nascosta: una versione "a cappella" di "Twist", in cui viene mostrata la bravura di Davis nell'improvvisare vocalizzi non-sense. Davis muove la acque anche mostrando la propria versatilità in un modo inedito, ovvero sotto il profilo musicale: suona le cornamuse su "Low Rider", la chitarra su "Mr. Rogers" e "Kill You", e la batteria qua e là lungo i pezzi.

Così, in due soli album i Korn hanno già creato e innovato più di molti altre formazioni metal che insistono nel riproporre lo stesso stile dei loro gruppi preferiti degli anni 70 e 80, permanendo in un limbo indefinito e statico. Ma, soprattutto, i contenuti delle canzoni di questi primi due dischi si rivelano immediatamente forti e pericolosi quanto basta a fare colpo sulle schiere di adolescenti americani che ereditano dalla generazione grunge una rabbia e dolorosa messa in scena di insicurezze e tormenti già repressi nel decennio precedente e ora altrimenti contrapposti allo street-rock Guns'n'Roses, così come dal giocoso crossover di band quali Primus, Living Colour e Faith No More. Tali ultimi tre gruppi, da molti giornalisti considerati tra i padri putativi di questo ingombrante nu-metal, sono a volte erroneamente ascritti direttamente al genere (cosa che fece infuriare lo stesso Patton). Hanno sì influenzato stilisticamente la sua genesi, ma ne sono psicologicamente ed esteticamente distanti.
I Korn traslano tutte le loro influenze sonore in una nuova dimensione angosciante e angosciata: la band di Patton non è mai risultata così dura e aggressiva come i Korn, nemmeno con il suo disco più duro e influenzato dal grunge, cioè "King For A Day, Fool For A Lifetime" (che oltretutto è successivo di un anno all'esordio di Davis & C.); le tematiche delle loro canzoni, così come le virtuose follie stralunate di Les Claypool, raramente sono state autobiografiche, dirette e crude come quelle di Davis. Il fraseggio chitarristico è concettualmente più vicino a Page Hamilton e Peter Mengede degli Helmet, a Max Cavalera e Andreas Kisser dei Sepultura, e a Tom Morello dei Rage Against The Machine, che non ai due chitarristi di contorno nei Primus e nei Faith No More. Questi due ultimi gruppi hanno invece una forte influenza sulla furiosa sezione ritmica. Più affinità, ma ancora a lunga distanza, può invece essere trovata nei Living Colour, con le combinazioni groovy del basso di Muzz Skillings coi riff di Vernon Reid, formula che venne presa a modello ma al contrario depotenziata e "aperta" in mescolanze dai Faith No More.
Senza contare poi tutti i colori che hanno arricchito la tavolozza dei primi Korn, conditi da cornamuse, litanie, cantilene, filastrocche, sussurri e grida di un cantante deviante come pochi altri prima di allora, che hanno reso la band di Bakersfield un modello, seppur discutibile col passare degli anni, per una miriade di gruppi validi oltre che di gruppetti grosso modo trascurabili, che avrebbero rappresentato il boom della corrente nu-metal.
Fra le diverse realtà di dubbio gusto che iniziavano a proliferare, ve n'erano alcune persino in grado di clonare il suono dei Korn e addirittura la voce di Davis, tanto che, per reazione, il quintetto di Bakersfield, impegnato nella promozione del successivo terzo disco, lascia organizzare alla casa discografica una parata di carri armati - a cui essi stessi partecipano - che entrano a New York per annunciare il ritorno dei padroni.
Se già con la stagione grunge i canali media avevano inscatolato e omogeneizzato una generazione di artisti, in realtà tutti differenti fra loro, all'interno di un'unica corrente artistica e un identico stile di vita da proporre alle masse, con lo sparo di Kurt Cobain avvenuto nel 1994 e l'arrivo sulla piazza del crossover estremizzato da Korn e soci, diventa ancor più evidente l'impronta che Mtv, questa volta anche in Europa, inizia a marcare su una nuova classe d'età ancora lontana dalla consapevolezza dell'era del file-sharing.

Ascesa artistica e commerciale

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Dopo Life Is Peachy e un pezzo inedito per la colonna sonora di "Spawn" (dove vengono chiamati e mescolati assieme artisti rock ed elettronici, nel caso dei Korn, i Chemical Brothers), i cinque di Bakersfield si accorgono di essere sull'orlo di un ristagno creativo, così decidono di dare la prima svolta al loro sound. Innanzitutto cambiano produzione, abbandonando Ross Robinson in favore di Steve Thompson e Toby Wright. In secondo luogo, scrivono canzoni molto più pesanti e "metal" nel senso classico del termine, ma anche più sonoramente mature e potenti. Un tangibile effetto viene dato dall'atto di contaminarle con più distorsioni, dissonanze e svariati effetti elettronici. Infine, i Korn amplificano la componente hip-hop delle proprie influenze, sempre sposandola alla perfezione con la componente dark più inquietante e la violenza da incubo. Il risultato è Follow The Leader, terzo album del gruppo e disco della loro consacrazione totale nonché del successo commerciale (vendite superiori ai 5 milioni di copie solo negli Usa).

Follow The Leader non solo sdogana il sound cosiddetto nu-metal alle masse e al mainstream, ma negli anni subito successivi, nel bene e nel male, sarà preso alla lettera come un libro sacro che detta le coordinate stilistiche a chi vuole suonare questo genere (sta nel frattempo prendendo piede la seconda ondata del nu-metal), raggiungendo un estremo livello di influenza. E mai titolo fu più azzeccato: "Follow the leader" è una vecchia filastrocca infantile, quindi simbolica delle ossessioni di Davis (soluzione ripresa da "Shoots And Ladders" del primo disco). Si tratta anche di una citazione di un classico dell'hip-hop old-school di Eric B & Rakim a 10 anni esatti di distanza. Infine, è una frase di auto-affermazione nel calderone andatosi a creare all'interno dell'alternative-metal con la nascita di tutto il filone nu-metal, dal momento che i Korn sono leader e non follower nel panorama e vogliono evidentemente rendere chiaro il concetto (un principio che sarà poi ripreso dai Katatonia quasi dieci anni dopo).
I pezzi migliori dell'album sono quelli in cui Davis trova le melodie più azzeccate e orecchiabili. Le canzoni iniziali sono facilmente indicate quali migliori episodi dell'album: "It's On", dalle cadenze panzer estremizzate dal nuovo tipo di produzione; "Freak On A Leash", infarcita di effetti elettronici su chitarre e voce, con melodie memorabili, repentini cambi di ritmo, bassi acuminati, e nel finale una carica devastante e inarrestabile; "Got The Life", in cui le chitarre suonano distorte in modo quasi elettronico, mentre Davis narra un testo sull'ego e sulla religione, lasciandosi andare al consueto mix di melodie, sospiri, urla e vocalizzi borbottanti in stile "Twist" (e il battito della batteria di Silveria rasenta quasi la disco-music); la sinistra "Dead Bodies Everywhere", un violento dramma malato introdotto da un carillon, in cui Davis descrive i propri incubi e visioni di morte e cadaveri, residuo del suo passato lavoro da coroner.
C'è poi "Children Of The Korn", prima traccia in cui può essere sentita esplicitamente la grossa importazione di rap e hip-hop nello stile del gruppo. Il brano vede ospite al microfono Ice Cube, che rappa delle violente strofe sulla mancanza di ideali e abbondanza di deviazioni nelle nuove generazioni, mentre Davis si diverte a distorcere la voce emettendo versi e grida sempre più bizzarri; la musica è sostenuta ancora una volta da una sezione ritmica pesante e tagliente, dalle opprimenti distorsioni chitarristiche e dagli effetti elettronici.
L'introduzione alle sonorità hip-hop si ripete in "Cameltosis", con ospite Tré Hardson dei The Pharcyde, e nel brano "All In The Family", che presenta ai più l'angelo e diavolo Fred Durst dei Limp Bizkit, gruppo lanciato dagli stessi Korn. Il duetto vede Durst alternarsi al microfono con Davis in una serie di intricati rap che hanno come scopo parodiarsi e insultarsi a vicenda. Uno degli episodi migliori arriva con l'emblematica cadenza ultra-ritmica di "Justin", un brano dedicato a un 14enne fan della band con un tumore in fase terminale, che espresse il desiderio di poterli incontrare. Jonathan Davis racconta così l'esperienza: "Justin era un ragazzo che stava morendo di cancro intestinale. Il suo ultimo desiderio fu di incontrarci e ciò mi sconvolse. Mi mise un nuovo chiodo fisso in testa che non riuscivo a togliermi. Fu qualcosa di molto intenso. Qualcuno stava per morire e l'ultima cosa che voleva fare era passare del tempo con noi. Davvero, mi sconvolse. Come dire, perché vuoi incontrarmi? Cosa mi rende tanto speciale? Da parte mia, gli dissi quanto ammirassi la sua forza e la sua vita. Non riuscivo a guardarlo perché ora era soddisfatto e poteva morire in pace. Nessuno riuscì a guardarlo negli occhi. E io ammiro del tutto la sua forza. Vorrei averla avuta anch'io."
A tale pezzo il disco fa seguire un altro vertice, con la catchy e schizoide "Seed" (dedicata al figlio di Davis, Nathan). Si termina poi con la cupa e apocalittica "My Gift To You", pezzo di una violenza maestosa, dalle pesanti e lente ritmiche (e dal riff portante che ricorda la "Seasons In The Abyss" degli Slayer, ma in versione ancora più opprimente e pesante), in cui la voce di Davis suona tetra, bassa e infernale, e le cornamuse che avvolgono l'efferatezza degli strumenti non fanno che accrescere il senso di angoscia. Dopo un lungo silenzio, arriva la solita traccia nascosta: stavolta consiste in un demenziale dialogo che introduce "Earache My Eye", vero punto finale del disco, una cover ultra-violenta del tema musicale del film "Up In Smoke", datato 1978; in questa traccia ognuno dei componenti dei Korn suona uno strumento differente dal suo solito, come esibizione di versatilità del gruppo.

I Korn creano a questo punto il Family Values Tour, un festival itinerante sul modello del Lollapalooza, con buona parte dei maggiori esponenti di questa nuova scena o affini, in particolare con la presenza nella prima edizione dei primi Limp Bizkit e Incubus, accompagnati dagli Orgy (gruppo fondato dagli ex-membri dei SexArt di Davis), dagli industrial-metaller tedeschi Rammstein e dal rapper Ice Cube.

Con Issues, i Korn mostrano di tenere particolarmente alla loro fanbase, dato che per il disco esistono cinque copertine differenti, ognuna disegnata da un fan, scelte dalla band tramite un concorso. Musicalmente parlando, la band cambia nuovamente produttore (stavolta rivolgendosi al noto Brendan O'Brien), e ripulisce il proprio sound dalle forti influenze hip-hop molto presenti nel precedente album. Quest'ultimo fatto è molto importante per chiarire le coordinate stilistiche e storiche del nu-metal, poiché spesso dal pubblico viene associato indissolubilmente al rap-metal, ma - come si può vedere - così non è.
Una breve opener, "Dead", in cui una batteria sincopata e le fidate cornamuse di Davis accompagnano parole assai poco rassicuranti ("Every time I get ahead, I feel more dead"), introduce così il primo singolo "Falling Away From Me", maestosa ballata angosciante, dagli echi liturgici e orrorifici. I Korn, forti di un grosso budget e della loro maturazione compositiva, si sono ora chiusi nel proprio lato più alienante e dark; e, se il basso di Fieldy non suona più slappato e tagliente come nei precedenti lavori, è anche vero che ora è divenuto molto più amalgamato con il resto del gruppo, che riesce così a costruire un nuovo tipo di muro sonoro, dalle vibrazioni bassissime ma molto più avvolgenti e tetre piuttosto che aggressive e nu-metal.
Le inedite peculiarità sonore sono disseminate lungo il corso di tutto il resto dell'album, in cui compaiono altri tre interludi di carattere psichedelico-mesmerizzante ma sempre in una chiave dark che angoscia ("It's Gonna Go Away", "Am I Going Crazy", "Wish You Could Be Me") e attraverso memorabili ritornelli. Segnaliamo quelli di "Make Me Bad", che riesce a far suonare estremamente catchy un chorus amaro e schiumante rabbia (e destinata a diventare in breve, sorprendentemente, una hit anche in Europa); "Wake Up", che lega assieme urla su riff groove ribassato, chorus melodico viscerale, impreziosimenti produttivi, scariche da elettroshock, breakdown depresso e soffuso prima di un nuovo crescendo; "Hey Daddy", rabbiosa e tagliente; e "Somebody Someone", che passa senza alcuna sbavatura dalla filastrocca melodica degli strumenti nelle strofe alla progressione panzer finale, dalle cadenze mostruose e trascinanti, con una serie di vocalizzi eccelsi da parte di Davis, ma soprattutto con uno dei riff migliori mai sfoderati dalla band, che in coda si fa ancora più lento e micidiale. "Beg For Me" è uno dei vertici del disco: devastante, furiosa, paranoica, violenta e sorprendentemente oscura, nei riverberi delle strofe e nell'esplosione strumentale del chorus trova la propria essenza micidiale e infernale. Anche "No Way" segna un climax di disperata impotenza e malessere interiore, condotta dal riff allucinogeno e amplificata nella digressione finale.
L'album si chiude ancora una volta con un episodio estremamente angosciante, che stavolta risponde al nome di "Dirty", pezzo che termina in un rumore elettronico che dura diversi minuti prima di spegnersi in un fade-out. Stavolta è assente la consueta traccia nascosta, dunque, ed è un segnale che accresce i toni pessimistici del lavoro.
Il sound e la cura per i dettagli trovano su questo disco una nuova dimensione, che riesce a tenere magicamente in equilibrio sfuriate da maniaco omicida, morbidezza melodica e sonora, e un umore tragico, gotico e infernale, che fa suonare viscerale ogni nota. Senza contare il ruolo che gli interludi hanno nel definire l'umore e l'atmosfera dei pezzi precedenti e successivi. Ciò porta a dei parallelismi con i Deftones, evolutisi adottando soluzioni sonore ispirate dalla darkwave, all'emocore e allo shoegaze nel loro capolavoro "White Pony" del 2000, ricco di dinamismo, modernità e suggestioni emotive.
Il cardine del disco è ancora una volta la voce di Jonathan Davis. A prima vista può sembrare essenzialmente una versione oscura e malata di Mike Patton, risultato già di per sé notevole, ma è ancora di più: Davis dimostra tutta la sua versatilità adottando registri, inflessioni e timbri continuamente differenti, affermandosi dunque come il cantante non solo nu-metal ma in generale di tutto l'alternative-metal più originale ed eclettico della sua epoca. Davis rivela inoltre anche il proprio talento strumentistico, suonando non solo le sue tipiche cornamuse, ma curando anche i vari interludi presenti nel disco, e occupandosi delle percussioni nei brani "Trash" e "Dirty". Issues è quindi fortemente retto da lui, e i suoi vocalizzi (mai così profondi e psichici) suonano come una disperata richiesta di aiuto rivolta a qualcuno che sembra non ascoltare.

A cavallo del nuovo millennio, Davis collabora a quattro mani con Richard Gibbs per realizzare la colonna sonora del film horror Queen Of The Damned. Accanto alla pubblicazione "score", ci sono anche canzoni inedite (Davis ne realizza 6) che rendono esplicite le radici gothic/dark del cantante e anticipano alcune virate che caratterizzeranno il suono dei Korn. Il risultato, però, non è particolarmente memorabile e si intuisce che Davis dia il meglio di sé con un gruppo come i Korn a supporto.

Il successivo album Untouchables già dal titolo palesa nuovamente un sentimento di auto-affermazione, come per Follow The Leader; i Korn sembrano voler guardare dall'alto tutto il panorama nu-metal moderno e dichiararsi "intoccabili".
Ancora una volta il gruppo decide di mutare il proprio stile, a partire dalla produzione, dato che stavolta ingaggia Michael Beinhorn e utilizza un budget elevatissimo rispetto ai propri standard.
Untouchables è all'atto pratico quasi l'album solista di Jonathan Davis; il cantante è in realtà sempre stato la vera anima del gruppo, colui che fa la differenza, ma se già con il precedente Issues aveva decisamente preso in mano anche le redini musicali verso una dimensione più oscura e tetra, ora piega il sound della band alla sua voce, la produzione obbedisce alle sue idee, e lui finalmente libera del tutto la sua creatività. 
Rabbia ed esaltante spirito di auto-affermazione caratterizzano la potentissima opener "Here To Stay" (anche fatta singolo di lancio, accompagnata da un caustico video che denuncia l'effetto della televisione-spazzatura sui bambini), con un inarrestabile e devastante mix di riffing groove, voli vocali e sezione ritmica panzer. Si notano anche "Thoughtless", nuovamente in equilibrio tra elettronica, heavy-rock e melodia, che risulta eccezionalmente catchy e radio-friendly, se confrontata con i passati singoli del gruppo; "Hating", uno dei capolavori del disco, un maturo e consapevole dramma sull'animo di chi sta perdendo la propria vita a partorire sentimenti negativi senza poterne fare a meno, sorretto da soluzioni sonore melodiche e potenti allo stesso tempo; "Alone I Break", sorretta dalle melodie oniriche di Davis, triste e delicata ballad come ai tempi del debutto pareva impossibile; "Hollow Life", che si dilata nell'etere mostrando influenze addirittura dal dream-pop; "Embrace", che riporta il disco sui binari della furia, dato che Davis non ha mai urlato un growl in maniera così feroce e aggressiva (il brano ad ogni modo non possiede nulla di nichilista, ma resta "violenza ragionata", con bombardamenti mostruosi organizzati in una tessitura sincopata e matura, e una struttura a evolversi senza mai smettere di coinvolgere); "Wake Up Hate", che cerca una via anche più sperimentale, dato che si concede dei violenti rap riverberati su base synth-rock e delle melodie vocali bizzarre, al limite della dissonanza.
Il finale del disco tocca invece altri due vertici con "I'm Hiding" e "No One's There", un'accoppiata di magniloquenti power-ballad heavy-rock introspettive e riflessive, che musicalmente si spingono verso lidi inesplorati per toccare in profondità l'anima di chi ascolta.
In definitiva, i Korn suonano piegati alla volontà di Davis, che non sembra più un folle ossessionato da incubi di morte, bensì un adulto maturo che, pur continuando a soffrire, ha trovato la propria strada nella vita. Il risultato è un disco sorprendentemente omogeneo, compatto e ben strutturato, che riesce a far suonare perfettamente complementari le molteplici divagazioni stilistiche di ogni traccia, e allo stesso tempo sa mantenersi fresco, originale e all'avanguardia nel mercato del terzo millennio. Il rancore e la disperazione interiore sono ancora ben presenti, ma non compaiono più la furia nichilista e la folle schizofrenia che hanno caratterizzato i dischi precedenti; le soluzioni elettroniche e atmosferiche balzano invece in primo piano, immerse in una riflessiva maturità compositiva. Ma, principalmente, sono godibili le soluzioni canore di Davis, che finalmente svela il proprio lato di cantante completo, in grado di inventare costruzioni vocali superbe. Il massiccio utilizzo di arrangiamenti/suoni elettronici in produzione e la mancanza di violenza metal vengono però viste male dalla maggior parte dei fan del gruppo; Untouchables, infatti, nonostante la costosissima produzione, non vende affatto come sperato negli Stati Uniti (Davis avrebbe accusato la pirateria musicale, dato che il disco circolava nelle reti peer-to-peer già due mesi prima dell'uscita ufficiale), riscuotendo però un grosso successo di critica (mentre in Europa viene premiato da tutti i punti di vista).

... e inesorabile declino creativo

Dopo la produzione ad alto budget di Untouchables, i Korn sentono il bisogno di un ridimensionamento nei costi e nelle ambizioni. Inoltre, nel 2003 il filone nu-metal ormai da qualche anno (dal 2000 circa, per la precisione) ha creato un fenomeno deplorevole: la nascita di decine di gruppi che artisticamente non hanno assolutamente nulla da dire, i cui continui ricicli di stilemi altrui in chiave mainstream hanno portato l'intera scena nel baratro. Gruppi che scimmiottano il rap-metal senza sincerità, oppure sono annacquati nel pop più radiofonico, inutilmente volgari e furiosi senza genuinità, oppure diluiti per risultare innocui verso un'enorme fetta commerciale di ragazzini, dalle tematiche puerilmente plagiate dai testi sui traumi infantili dei Korn o che cercano di sembrare introspettivi e raffinati come i Deftones senza un briciolo minimo della loro sensibilità. Gruppi commerciali spesso definiti nu-metal pur avendo ben poco di metal (scatenando l'ira dei metallari puristi, che coniano lo slogan "nu metal is false metal!" esteso poi a tutto il movimento, compresi i gruppi che avevano più affinità col groove-metal o il thrash/death).
L'emblema di questa decadenza è dato dai Linkin Park, gruppo che già con l'esordio nel 2001 riscuote un enorme successo commerciale, sotto la guida di uno stuolo di produttori. Un disco creativamente carente, che segna il trionfo dell'influenza di Mtv sui gusti musicali. Ancora peggio sono probabilmente gli Adema, gruppo "lanciato" dai Korn (il cantante Marky Chavez è fratellastro di Davis e il bassista David DeRoo proviene dai SexArt), che dopo un primo annacquato album molto pop-nu-metal, è riuscito a copiare stilisticamente gli stessi Linkin Park.

L'antitesi virtuosa in questa terza ondata del nu-metal invece è rappresentata da pochissimi gruppi tra i quali ci sentiamo di menzionare soprattutto i Passenger, simbolicamente non americani (sono un supergruppo svedese proveniente dalla scena musicale di Gothenburg), autori di un canto del cigno del movimento con l'omonimo unico album del 2003, un creativo mix tra nu-metal, gothic-rock e pop-rock.
Ma a parte questa unica eccezione passata in sordina tra i più, il genere nu-metal è ormai morente e, prima che si frammenti in mille realtà differenti, le case discografiche iniziano a fiutare la nuova moda commerciale nei nascenti trend del cosiddetto metalcore melodico e dell'emo da classifica.

korn_munky_monografia_220x270_freeI Korn decidono dunque, contemporaneamente e specularmente alla svolta dei Deftones con il loro disco omonimo, di tornare al proprio passato, di ricercare la propria identità "guardando nello specchio". Ecco dunque perché nasce un disco come Take A Look In The Mirror, che ci riporta dei Korn quasi opposti a quelli di Untouchables, quindi più duri e concettualmente rivolti verso i loro esordi. Ma, se i Deftones intercettano i gusti del pubblico e soprattutto un sound piuttosto "attuale", i Korn tornano fondamentalmente a ribadire cose già dette e ormai da altri abusate, senza oltretutto riuscire a replicare la stessa dose di angoscia e profondità psicologica dei dischi precedenti.
La vena ispiratrice è ben lontana, tanto che in alcuni frangenti ormai Davis e soci risultano essere delle controfigure, delle caricature di sé stessi. Tuttavia sono presenti anche degli episodi freschi e godibili: "Did My Time" è probabilmente il capolavoro del disco, dalle memorabili melodie furiose ma studiate, così come anche "Deep Inside". Non è un caso che siano entrambe degli outtake dal precedente Untouchables. Nonostante la brutta cornice in cui sono inserite, entrambe si vanno a collocare tra i migliori pezzi di sempre della band. Un'altra traccia decisamente riuscita è la conclusiva "When Will This End", al termine della quale è presente un lungo silenzio che anticipa una notevole cover di "One" dei Metallica (registrata dal vivo in occasione del programma televisivo Mtv Icon Metallica). C'è poi "Play Me", con ospite il rapper Nas, che si riallaccia al discorso di Follow The Leader.
Dei restanti pezzi, sono apprezzabili la violenza schizoide e paranoica di "Right Now", pur nella sua banalità (fatta singolo e promossa con un disturbante video degno di nota), il singolo catchy "Everything I've Known", la furia cieca alla Pantera di "Break Some Off", la pesantezza tetra di "Counting On Me" e i giochi melodici tra chitarra e voce di "Here It Comes Again".
Ma nel complesso l'album non convince né la critica né il pubblico, ed è facile capirne i motivi: innanzitutto si regge su poche idee, che pretendono di venire compensate da una violenza sonora e una furia molto più dure anche in confronto agli esordi, sia in alcuni riff sia nella voce di Davis (il quale non ha mai urlato in maniera così feroce, spaziando dal growl più truce alle distorsioni digitali, quasi nella necessità di negare con disprezzo le melodie studiate e ragionate dei due album precedenti). E, sebbene il basso di Fieldy convinca sempre, tornando a slappare furioso come nei primi tre dischi, la batteria di Silveria sembra purtroppo un giocattolo, dato che suona come una drum-machine priva di mordente; tutto ciò è evidentemente colpa della produzione, visto che, per contro alle fastose produzioni di Untouchables, il quintetto ha stavolta registrato tutti i pezzi nello studio casalingo di Davis.

A questo punto in molti si scagliano sui Korn evidenziando aspetti critici tanto del gruppo quanto della scena nu-metal. Persino un altro dei padri fondatori del genere, Chino Moreno dei Deftones, critica l'estetica dei Korn: "Continuano a riproporre le stesse cose, una brutta infanzia, madri cattive... dopo un po' diventa monotono, quanti anni ha Jonathan? Trenta? Da quanto tempo è che non vive più con i suoi genitori? Provasse a fare altro, se sei davvero genuino e componi riguardo ciò che ti suscita emozioni, non farai ca... ate", su Blabbermouth.
Molto meno gentili a parole di lui furono, nello stesso periodo, Trent Reznor (sempre su Blabbermouth) e Mike Patton (su Metal Hammer), due figure di ispirazione per tutto il nu-metal ma che definirono l'intera scena come insincera, quasi una parodia di sé stessa, destinata a tredicenni insicuri. Sono giudizi caustici, dovuti anche al pessimo trend commerciale prima menzionato, e probabilmente è per far fronte a queste cose che i Korn cercano di dare una nuova svolta al loro stile

Anche per See You On The Other Side i Korn registrano nello studio casalingo di Jonathan Davis, ora però con l'aiuto dei produttori Atticus Ross e The Matrix, curatori delle soluzioni elettroniche e di alcune melodie. Stavolta, quindi, il risultato a livello di produzione è decisamente migliore, specie per quanto riguarda la batteria; il basso di Fieldy, invece, sperimenta effetti inediti ma che lo pongono nettamente in secondo piano rispetto al resto del gruppo nella maggioranza delle tracce.

Le registrazioni sono anticipate da Greatest Hits, Volume 1, che celebra i dieci anni di vita della band. Uscito nel 2005, contiene solo 20 tracce, tra cui le riuscite cover di "Another Brick In The Wall" dei Pink Floyd - che, nel momento in cui i cori dei bambini entrano in scena sopra al gotico e pesante tappeto di distorsioni, riesce a gettare tutta una nuova luce korniana sul pezzo originale - e "Word Up" dei Cameo, ma anche un inutile remix di "Freak On A Leash".
Nel frattempo c'è poi la rottura del contratto con la Sony, etichetta che ha pubblicato tutti i precedenti lavori della band tramite la sua divisione Epic e che come ultima mossa commerciale rilascerà l'inutile raccolta "Live And Rare" nel 2006 (e non sarà l'ultima). Al suo posto subentra la Emi tramite la Virgin Records, con un munifico contratto milionario.

C'è da segnalare anche che Head, storico chitarrista della band, prima delle registrazioni dell'album ha lasciato il gruppo, per ritirarsi, nelle sue parole, a un improbabile futuro da predicatore religioso. Nel 2012, tuttavia, sarebbe tornato.
Comunque, nel frattempo il titolo dell'album sembra riferirsi proprio a lui (e nei concerti viene inizialmente sostituito da un turnista fatto suonare da dietro il palco). Con questo See You On The Other Side la band compie un altro passo, che la distacca nettamente dal precedente disco, e continua invece il discorso di Untouchables. Musicalmente parlando, il lavoro è ricchissimo di spunti elettronici e darkwave (con apice nella conclusiva "Tearjerker"), elementi dunque che ci suggeriscono un Davis ancora una volta leader dello stile musicale del gruppo, dato che queste erano le innovazioni da lui ricercate in precedenza. Il sound stavolta è però nettamente più radio-friendly. La dipartita di Head ha paradossalmente giovato in termini di freschezza ai Korn, ormai a rischio ristagno, in favore di un altro passo avanti nello sperimentare nuove soluzioni sonore rispetto al loro canone; tuttavia compositivamente il lavoro non convince affatto ed è molto confuso e impastato, con brani senza capo né coda, che sembrano aprire porte senza mai chiuderle. La furia del gruppo non suona più genuina come negli esordi o matura come nei precedenti album, ma si fa rabbia gratuita e a tratti infantile: un festival della banalità e della ripetitività, mentre la mano spesso inopportuna di The Matrix dona un aspetto commerciale che impedisce al disco di diventare un Issues per il 2005.
Inoltre, molte delle basi elettroniche sono appannaggio esclusivo dei due produttori. Quel poco di nuovo che si ascolta, quindi, non è farina del sacco dei Korn e finisce per suonare più uno scimmiottamento dell'industrial-rock di Marilyn Manson. Nonostante i molti difetti, l'album può ad ogni modo risultare un ibrido di preparazione per qualcosa di complessivamente più raffinato ed emotivamente coinvolgente, ed è con questa speranza che si attende il disco successivo.

Nel 2007 viene rilasciato MTV Unplugged: Korn, che testimonia la performance tenuta dalla band il 9 dicembre 2006 a New York davanti a una folla di una cinquantina di persone (alcuni brani non sono stati inclusi ma sono legalmente scaricabili). Come altri artisti alternativi prima di loro (Nirvana su tutti), i Korn rileggono molti dei loro pezzi in chiave acustica, facendo emergere la parte meno aggressiva e più melodica del loro sound invece di quella più distorta e urlata.
Ad accompagnare l'operazione gli arrangiamenti curati da Richard Gibbs (archi, fiati, percussioni, cori), nonché l'eccellente Zac Baird al pianoforte. Inoltre, due duetti con ospiti illustri, Amy Lee degli Evanescence su "Freak On A Leash" e l'intero gruppo dei Cure su una loro cover di "In Between Days". Il brano che più si nota è sicuramente "Creep", cover straordinariamente ben fatta dei Radioheadun passo naturale per la band: "Creep" è un vero e proprio manifesto del "loner/loser", figura con cui Davis si è da sempre identificato e che ora porta in una nuova dimensione e incarnazione (dopo quella del grunge).
Nel complesso, è un'uscita più soddisfacente dell'album in studio che l'ha preceduta, ma presenta ancora diverse pecche.
Nel caso delle tracce più riuscite, i remake sono stravolti ma allo stesso tempo ben fatti; sono inoltre piacevoli sorprese la cover e il medleyTuttavia, qualche classico in più (magari al posto dei brani di See You On The Other Side) non avrebbe guastato; inoltre non sono granché condivisibili le autocensure sui testi per esigenze televisive (mascherate nel caso di "Creep" e "Twisted Transistor", più evidenti su brani come "Freak On A Leash"). Ma soprattutto è discutibile la scelta di mantenere spesso la stessa sezione ritmica e sincopata degli originali, che toglie valore e senso alla rilettura, al punto che si potrebbe obiettare che non è un nuovo arrangiamento, ma una semplice versione suonata con strumenti acustici di un pezzo nu-metal, senza reale reinterpretazione artistica.

Comunque sia, questa vena viene approfondita ulteriormente anche nel live Alone I Play (in riferimento al brano "Alone I Break"), che Davis pubblica a suo nome, con interessanti e particolari riarrangiamenti acustici dei brani dei Korn e anche della colonna sonora del 2002. Sono vitalizzati da pianoforti jazz-improv e archi che spaziano dalla chamber-music alle variazioni mediorientaleggianti, addirittura con la presenza non banale di un contrabbasso al posto del basso elettrico, testimonianza di una maggiore volontà nel rielaborare i pezzi legandosi alla tradizione jazz degli standard.
Spiccano "Slept So Long" e "Dirty", ma nel complesso tutto il pacchetto è superiore all'unplugged precedente. Se nei brani inediti della colonna sonora sopra citata, senza i Korn a supporto, Davis incontrava limitazioni compositive, creando canzoni con spunti interessanti ma non completamente a fuoco, emerge anche che dal lato opposto il gruppo stesso forse ne limitasse le ambizioni creative, remando contro le influenze e gli interessi che il cantante voleva introdurre. Tale confltto è una chiave di lettura importante per comprendere i disagi interni alla line-up dei Korn in questi anni e la discontinuità qualitativa nelle nuove uscite.
Non sarà comunque l'ultimo concerto che Davis pubblicherà in questa veste, e mostrerà forse il suo lato artistico migliore, o per lo meno il migliore della seconda metà della sua carriera.

L'ottavo album in studio dei Korn, che è senza titolo ("Why not just let our fans call it whatever they wanna call it?", dice Davis), esce in un clima piuttosto critico: la band è ormai ridotta a tre elementi (Davis, Munky e Fieldy), con Head ormai perso e David Silveria a prendersi, tra mille polemiche e frecciate reciproche, una pausa a tempo indeterminato per stare con la sua famiglia: è insoddisfatto della piega sonora presa dal gruppo (ritiene che il sound si sia ormai snaturato e sia diventato troppo artificioso, soprattutto per via della decisione di intervenire sempre più in fase di produzione sui brani da fine anni 90 in poi). Proprio a sostituire Silveria, su questo ottavo album compaiono Terry Bozzio (celebre batterista di impostazione jazz che in passato lavorò con Frank Zappa), Brooks Wackerman (nuovo acquisto dei Bad Religion) e lo stesso Davis alle pelli.
In secondo luogo, anche l'aspetto produttivo è passato attraverso diverse incomprensioni, tanto che l'iniziale duo The Matrix & Atticus Ross si è molto presto ridotto al solo Atticus Ross per via della piega troppo pop che The Matrix stava dando al sound (con il solo Ross a controllarlo, invece, abbiamo un deciso sguardo verso il suono dei Nine Inch Nails, di cui Atticus è un fidato collaboratore).
Il risultato ancora una volta delude, ma non si può imputare tutto a un calo di ispirazione: come detto nella premessa, la stabilità del gruppo è stata minata da una serie di problemi, sia a livello produttivo che di formazione (anzi, Bozzio ha registrato solamente 6 tracce per poi andarsene a causa di "conflitti personali"). L'elemento più confortante, lo spiraglio più convincente è che i Korn non si siano adagiati neppure stavolta sulla medesima formula stilistica, andando invece nuovamente a cercare la novità, il lido differente in cui sfogare gli interessi gothic e dark, tra strappi industriali e atmosfere eteree e romantiche. Perché, qui, le tracce che rappresentano maggiormente un ponte con il passato sono anche le peggiori. Un altro album che suonerà come "di transizione", con una serie di tracce-compromesso colme di cliché invece di un'apertura netta e chiara a un nuovo percorso, difficilmente potrà dire ancora qualcosa di non noioso, visto che già in questo ottavo lavoro metà delle tracce possono essere tranquillamente dimenticate.

Dopo quest'album i Korn reclutano il nuovo batterista Ray Luzier (già nella band di David Lee Roth e nel supergruppo Army Of Anyone) e, con uno spirito dichiaratamente nostalgico, rilasciano Korn III: Remember Who You Are (registrato nel 2009 e pubblicato per la major Roadrunner Records nel 2010), album prodotto nuovamente da quel Ross Robinson che in gioventù aveva ben azzeccato la cura del sonoro nei loro primi due dischi. La scelta di produttore e titolo pare piuttosto auto-esplicativa del sound contenuto nel disco: in apparenza, i Korn sembrano tornati alla formula dei primi due dischi, riprendendo quel nu-metal ribollente e rabbioso con cui hanno marchiato a fuoco un'epoca; ma "sembrano" soltanto, perché in realtà quello di Korn III (in cui il numero sta a indicare una continuità in serie con il debutto del 1994 e il disco senza titolo del 2007) è più che altro una sorta di seconda versione di Take A Look In The Mirror del 2003, disco con cui la band aveva già tentato di reagire a un momento difficile (budget produttivo ridotto, Head e Silveria non più a loro agio nel gruppo) con un "ritorno alle origini", confezionando tuttavia un lavoro poco interessante rispetto ai precedenti, che segnò la fine dell'epoca d'oro. Come quel disco, a cui è superiore solamente grazie a una produzione nettamente migliore (ma niente che sia ai livelli high-budget del periodo 1998-2002), anche Korn III esibisce sì tutto il suono aggressivo dei primi lavori, ma non riesce a consegnare un'oncia dell'oscura drammaticità e della violenza psicologica che contribuivano in larga parte alla grandezza degli stessi. Lo stesso espediente non può essere ripetuto efficacemente ancora una volta, a maggior ragione se il gruppo che dovrebbe tornare ai propri albori si è in realtà nel frattempo dimezzato, ma soprattutto se la riesumazione del sound originale appare più nominale e manierista che realmente affine al passato; difetto che oltretutto già si poteva notare in Take A Look In The Mirror, disco che tuttavia, a fronte della peggiore produzione, conteneva più guizzi e melodie indovinate.
A poco vale l'analisi dei singoli pezzi, sono tutti la riproposizione di stilemi già sentiti. 
Korn III è insomma la ripetizione meno penetrante di un disco che già rappresentava uno stacco dai precedenti per il suo essere più di maniera, semplificato e riduzionista nella formula stilistica. Questo nono album non modifica di una virgola la parabola discendente della band; un disco minore dato alle stampe per gli affezionati prima di ripartire per la strada maggiore del materiale più impegnato e maturo. Ma l'album arriva dopo svariati anni di sperimentazioni non troppo convincenti, che avevano spento le speranze di una tale ripresa qualitativa. Korn III sembra, insomma, solo un tentativo di rattoppare gli ultimi due lavori, forse addirittura rinnegarli, e così finisce per screditare definitivamente i tentativi di aprire nuove prospettive, sperimentati da quei due album. Sempre sorvolando sul fatto che gli "original fan" a cui i Korn si rivolgono difficilmente possano restare soddisfatti da quello che non è un vero ritorno alle origini, impresa che sarebbe ormai troppo ardua, ma solo l'adozione di un sound più duro e nu-metal rispetto ai due lavori precedenti. Il messaggio che vuol comunicare la band è confuso: dobbiamo dimenticarci degli ultimi anni, e limitarci a trovare conforto in una ripresa del sound di Take A Look In The Mirror, perché alla fine ci basta quello? O forse è solo quello che realmente vogliamo? O forse la band si è convinta di non poter ormai fare meglio di così? O tutte e tre le cose assieme?

Ci vediamo sull'altra sponda

L'anno successivo i Korn sorprendono ancora una volta, pubblicando l'ennesimo album completamente diverso da quello precedente: The Path Of Totality nasce dalla volontà ddi Davis di fondere il proprio stile a quello del filone americano dubstep ed elettronico più distorto, chiamando 10 diversi "laptop dj" più o meno celebri nell'ambiente (dai nomi di punta Skrillex, Kill the Noise e Noisia ai meno famosi Feed Me, Datsik, 12th Planet, Downlink), e il produttore Jim Monti a curare la coerenza sonora tra brano e brano.
Al primo ascolto, la caratteristica che balza all'orecchio è il fatto che, nonostante il progetto sulla carta bizzarro e prevedibilmente sconnesso, in realtà i Korn siano riusciti a compiere un'effettiva fusione tra i due mondi come da programma; ma ci sono riusciti nella maniera più facile e banale: hanno scritto dei pezzi nel loro canone, aumentando però le dosi di pop radiofonico in sede di composizione, e hanno poi dato il concept di ciascun pezzo in mano ai produttori dubstep di turno perché ci ricavassero una base dal sound elettro-distorto alla loro maniera, trovando semplicemente degli equivalenti alle tipiche timbriche di batteria/basso/chitarra.
Si sente subito che queste canzoni non sono nate davvero in collaborazione e passo dopo passo: il contributo dei produttori manca delle strutture spesso schizzate tipiche del loro genere, e del loro pallino di inserire diversi cambi di sample e break in continuazione, togliendo stabilità centrale ai pezzi e piuttosto rendendoli delle specie di caotici flussi di coscienza; si ascolti, messo a confronto, il pezzo forse più conosciuto e riuscito di Skrillex, ovvero "Rock n' Roll (Will Take You To The Mountain)". Quelli di The Path Of Totality sono invece dei pezzi dalla struttura rock piuttosto scontata, vecchia di 10-15 anni, con radici ora nel passato dei Korn, ora nel più mainstream modern-radio-rock di fine anni 90 e inizio 2000 (un brano come l'opener "Chaos Lives In Everything", se depurato dall'elettronica, sembra uscito dal repertorio degli Staind), che passano attraverso una riverniciatura sonora completa in modo da farli suonare trendy all'orecchio del teenager attuale. L'album è, a conti fatti, il successo né dei Korn né degli ospiti dj, ma del produttore-controllore Jim Monti, che è innegabilmente riuscito a dare a tutto il progetto un sound coerente e quadrato, rendendolo forse il lavoro più coerente e quadrato nella carriera del gruppo (ma non è un fatto positivo: la vecchia creatività dei Korn risiedeva anche nei loro cambi stilistici da un pezzo all'altro).
La domanda-chiave per capire i motivi di un simile progetto è perché i Korn abbiano deciso di associarsi proprio a un trend come il dubstep assurto a moda negli ascolti dei teenager americani sul finire degli anni 2000. Il collegamento non è così assurdo, in realtà: la band aveva modellato, con il salto produttivo di Follow The Leader, proseguendo con Issues, e arrivando al vertice con le distorsioni digitali di Untouchables, un suono metal che aggiornava all'era contemporanea lo spirito dell'industrial. Quello di album come Untouchables era già di suo un'originale forma ibrida di heavy-rock, metal ed elettronica, che assieme ai due dischi precedenti aveva di colpo invecchiato le produzioni rock degli anni 90, per la maggior parte o calde e live o noise e lo-fi (area cui tra l'altro gli stessi Korn appartenevano nei primi due album a più basso budget), ad eccezione di act industrial-rock all'avanguardia dei tempi come Nine Inch Nails, e pochi altri sperimentatori d'eccezione. Sembra quindi abbastanza comprensibile che, dopo alcuni dischi meno ispirati e addirittura dopo un ritorno nostalgico allo spirito più nu-metal col precedente Korn III, la band abbia ripescato in quella sua costante fissazione di voler aggiornare elettronicamente e melodicamente la rabbia dell'industrial-metal, e abbia deciso di farlo utilizzando una maniera moderna di fare elettronica.
Il problema è che questa scelta consiste in una moda piuttosto effimera, superficiale e vuota di vera creatività: si tratta non del dubstep, ad essere precisi, ma del cosiddetto "brostep", una variazione americana, più distorta e noise, del dubstep nato a partire dal 2004-2005 nel Regno Unito, in cui le originali linee cupe e pulsanti dei bassi tipiche del filone britannico sono state rimpiazzate da distorsioni rumoristiche nella fascia sonora dei medi, simili a break di chitarre elettriche super-effettate. Questo aspetto sonoro aggressivo, unito al fattore commerciale presso le platee teen attuali, è senza dubbio ciò che ha spinto i Korn alla scelta specifica. L'album vive di una fusione di generi effettuata in maniera semplicistica, ma resta in ogni caso una mossa sperimentale, rischiosa e azzardata; l'averla condotta, averlo fatto pescando contributi da un filone attuale come quello dubstep/brostep, e aver eseguito i pezzi in modo tecnicamente passabile, specie grazie a un Davis che continua a vocalizzare impeccabilmente (sebbene scarso in sede di scrittura, come gli altri), pone i Korn su un gradino di consapevolezza superiore rispetto a quello di progetti collaborativi come quello di Metallica e Lou Reed uscito lo stesso anno.
Si tratta, in ogni caso, della peggior release nella carriera dei Korn: il songwriting non è mai stato tanto banale e slavato a livello di strutture e melodie, gli ospiti non provengono da background musicali in sé interessanti, e non iniettano i contributi schizoidi dovuti, anche perché costretti a non farlo già dal materiale di partenza. Il fatto che dà più da pensare è che, forse, la descrizione di quest'album come "future metal", fatta da Davis, potrebbe non essere affatto campata per aria.

Subito dopo la pubblicazione di questo disco, Davis si unisce a Nick Suddart per formare i Killbot, progetto elettronico che finora ha rilasciato solo Sound Surgery nel 2012, con cui dedicarsi unicamente al brostep. Il risultato però è mediocremente privo di idee, un divertissement senza impegno.

Dopo l'uscita di The Path Of Totality il figliol prodigo Head, che nel frattempo aveva rilasciato nel 2008 un pessimo disco post-grunge dalle tematiche christian-rock intitolato Save Me From Myself, e che per anni aveva dichiarato che non voleva più avere a che fare con i Korn e non voleva sentir parlare di reunion, trascinandosi per svariate polemiche via internet assieme a David Silveria rispetto al vecchio gruppo, rientra nell'ovile dalla sua esperienza religiosa. Il ritorno di Head nella formazione nel 2012 forse risponde in parte alle domande che ci siamo posti fino ad ora su cosa intendano esprimere i Korn, ma dall'altro lato sembra più uno svicolarsi e far leva sul passato più riuscito del gruppo.
La sua presenza come chitarrista, ad ogni modo, ha riportato i Korn al periodo a cavallo tra i due millenni, con 
The Paradigm Shift, un po' più ispirato dei precedenti melodicamente, ma alla lunga confuso e stancante, rinviando di un altro album ancora l'attesa per un lavoro definitivo che completasse il cerchio. È un disco che riprende le distorsioni digitali di inizio anni 2000, immergendole in atmosfere più industriali e dissonanti. L'emergere di riff e ritornelli che ricordino i vecchi tempi, però, come in Korn III, tradisce un'attitudine manierista e porta con sé gli stessi difetti di quell'album.
Se brani come "Spike In My Veins", con i suoi fraseggi rappati e la presenza del trio elettronico olandese Noisia, "Prey For Me", che mostra un'attitudine umile inedita, "Never Never", con il suo ricollegarsi al brostep, e "Hater", con la sua orecchiabile vena pop, suonano interessanti e a modo loro coinvolgenti, il resto finisce per sapere troppo di
B-side dei Korn. Che si tratti di un recap di vecchi e nuovi Korn, ancora necessitante di una adeguata messa a fuoco per smaltire i postumi dei conflitti e delle divergenze passate? Ma i brani migliori sono quelli che strizzano di più l'occhio al pop e, come già accaduto negli album precedenti, pur non avendo molto a che fare con i Korn originali, sono ciò che è più nelle corde del gruppo al momento e che potrebbe offrire la maggiore ispirazione.
Emerge ancora lo spirito conflittuale tra le diverse tendenze musicali dei membri del gruppo, che stona soprattutto rispetto a formazioni affini che invece lo risolsero come i Deftones; ciò nonostante, il risultato è tra i più incoraggianti degli ultimi tempi. Ma dopo tanti anni e album "di transizione", possibile che non si sia ancora arrivati a chiudere le porte aperte?

Nel 2014 una piccola parentesi: Davis torna a lavorare sulle colonne sonore, questa volta per il film After The Dark assieme a Nicholas O'Toole (con qualche comparsata di Glen Phillips). Il risultato, però, è un po' anonimo e ripetitivo. Davis non sembra affatto tagliato per qualcosa che non siano i Korn.

Dopo ben sei dischi in definitiva trascurabili, se non proprio cestinabili, è difficile aspettarsi che i Korn abbiano ancora qualcosa da dire, se non fosse proprio per il ritorno di Head.
Nonostante queste premesse, The Serenity Of Suffering è in un certo senso il loro disco migliore dal 2003 a oggi, per il livello di scrittura di canzoni, arrangiamenti e coinvolgimento sonoro. Il tocco di Head è avvertibile fin da subito, mentre Davis sembra ispirato in fase di scrittura come un tempo: mai negli ultimi anni si sono intravisti un songwriting tanto curato, riff così cavernosi e graffianti (su tutti il singolo "Rotting In Vain", purtroppo rovinato da un ritornello dissonante non memorabile), linee vocali variopinte che cambiano continuamente da ritornelli melodici a sfuriate nevrotiche passando per lo scatting (per quanto Davis fosse sempre rimasto il più versatile e convincente).
Ma è un lavoro estremamente di maniera che fa molto riferimento al sound di Follow The LeaderIssues e in minima parte a Untouchables. Ci sono anche dei momenti che sembrano autoplagi a pezzi del passato come "Twist" o "Break Some Off", e aperture melodiche nelle quali i Korn appaiono dei Chevelle o dei Breaking Benjamin in ritardo di anni.
Una ennesima operazione nostalgia, solo verso album differenti rispetto agli altri pubblicati su tali premesse? A chi si rivolge il disco, e chi dovrebbe rappresentare il ragazzino in copertina, il possibile nuovo pubblico o l'animo del gruppo? È fuori tempo massimo che a oltre quarant'anni suonati di età, i Korn ripropongano quelle vesti? Oppure tali vesti sono quelle reali dei Korn, ed è un gradito ritorno perché gli americani si mostrano coerenti con loro stessi, invece di indugiare in maldestre uscite dagli schemi (quelle che portarono all'abbandono di Silveria)?
La copertina sembra giocare con i cliché più stereotipati del nu-metal, quasi a farne una parodia, ma i Korn non stanno prendendo in giro i luoghi comuni che li affliggono e al tempo stesso non credono realmente di essere ancora gli stessi di un tempo. Ma Jonathan Davis ha ormai 45 anni, può continuare a impersonare il ruolo dell'adolescente tormentato e risultare credibile?

Come detto, queste perplessità il gruppo se le porta avanti da molto, troppo tempo, ed è proprio per farvi fronte che in parte tentò di variare la formula negli anni 2000.
Il fatto che ad ogni album i Korn continuino a sollevare dubbi sul loro intento e i loro scopi non è incoraggiante. Forse la domanda principale che ha attanagliato il gruppo negli ultimi tempi sarebbe meglio continuasse ad aleggiare: cosa vogliono fare? Chi sono i Korn? Cosa vogliono esprimere e comunicare, a oltre 20 anni di distanza dal debutto? Se la risposta, come potrebbe essere interpretata, sia viaggiare sul sicuro e vivere sugli allori delle formule passate, allora emergono ancor più dubbi sulla reale creatività del gruppo successiva ai primi grandi dischi. Ma non è l'essere i padroni in rovina di un genere che ha avuto la sua stagione di fuoco prima di spegnersi rapidamente, detto francamente, ciò per cui i Korn dovrebbero essere ricordati.

Nel 2018 Davis pubblica Black Labyrinth, un lavoro che parte dal Korn-sound e lo sviluppa attraverso territori più dark, gotici, elettronici e alternative-rock, secondo gli ormai noti gusti del cantante.

I Korn tornano nel 2019 con The Nothing. L'uscita è anticipata da un dramma familiare per Jonathan Davis: sua moglie è morta di overdose nell'agosto 2018, proprio nello stesso periodo in cui i due stavano divorziando a causa dei problemi di lei con alcool e droghe, e lui l'aveva per violenza domestica chiedendo un ordine restrittivo nei suoi confronti per tutelare i figli. Queste vicende si ripercuotono nel suo apporto al disco e ne sono una chiave d'interpretazione importante. Questa volta il gruppo sembra riallacciarsi maggiormente alle distorsioni digitali da incubo di Untouchables, con un suono massiccio sostenuto da atmosfere che oscillano tra l'opprimente e l'onirico (ma è più un incubo tipicamente korniano), riallacciate alle contaminazioni di See You on the Other Side e alle tinte dark moderne del disco solista di Jonathan Davis pubblicato nel 2018, Black Labyrinth. Da parte sua troviamo una prova vocale particolarmente cupa e disperata, che mostra che lui è ancora un eccellente e versatile vocalist.
Contemporaneamente, Davis tende a essere staccato dagli arrangiamenti, per esempio eccedendo con linee vocali melodiche quando il brano sembra chiamarne di aggressive, oppure viceversa ruggendo ferocemente in momenti più distesi. Ciò è verosimilmente dovuto al fatto che, proprio per gli avvenimenti prima descritti, Davis si è rinchiuso in solitudine nel suo studio a incidere le sue linee vocali angosciate, senza interagire con il resto del gruppo.
Non è un dettaglio di minore importanza perché in primo piano ci sono proprio la voce di Davis e la sua sinergia con le atmosfere dell'album, mentre il lato chitarristico è più diluito nell'insieme pur mantenendo una componente pesante. A livello di canzoni il disco alterna alti e bassi, soprattutto nella prima parte che risulta un po' più discontinua, mentre la seconda appare più coesa e a fuoco, anche se meno variopinta. Non siamo ancora ai livelli dei classici del passato, ma ciò è tutto sommato comprensibile e giustificabile, dato che ripetersi è sempre un'ardua impresa, soprattutto dopo tanti anni. È certamente apprezzabile che in questo nuovo corso i Korn sembrino evitare le sbrodolature di dieci anni prima, e un disco di mestiere anche senza lode e senza infamia è sempre migliore dei tentativi mal congegnati di sperimentazione degli album meno riusciti del gruppo.

Il quattordicesimo album dei Korn, Requiem (2022), è stato affinato per circa un anno, permettendo un lavoro di rifinitura e una elaborata campagna promozionale. Il risultato, non a caso intitolato "Requiem", elabora i tormenti del leader Jonathan Davis e l'ancora recente lutto dell'ex-moglie, scegliendo una forma breve e incisiva: 9 brani per meno di 33 minuti. I ben conosciuti James "Munky" Shaffer e Brian "Head" Welch sono una fucina di assordanti esplosioni chitarristiche che ben si accoppiano con il ventaglio di registri di Davis, al solito istrionico e inquieto. La sezione ritmica, con l'ormai stabile batterista Ray Luzier e lo storico Reginald "Fieldy" Arvizu, dona dinamismo alle composizioni e drammaticizza i repentini cambi di mood e velocità.

Nello psicodramma generale traspare una reazione alle avversità, una rabbiosa volontà di superare il dolore: "Break apart the pain and start the healing", dicono nel singolo "Start The Healing". Senza sorpresa, però, la proposta è in genere molto affine al loro passato, soprattutto recente, e non c'è molto che possa definirsi in qualche misura innovativo o anche solo preferibile a tanti altri brani del loro stesso repertorio. Difficile chiedere di più a una delle pochissime formazione nu-metal che possiamo definire propriamente attiva nel 2022.


Le foto nell'articolo oltre a quelle promozionali del gruppo sono:
- Korn Bassist Reginald „Fieldy“ Arvizu bei seinem Auftritt auf dem Rock im Park Festival 2013 in Nürnberg, credits: Lucien Streit, own work, CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons
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Brian Welch, guitarist of Korn, on the Alterna Stage of Rock im Park-Festival 2013. Credits: Antje Naumann (AllSystems Red), own work, CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons
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James "Munky" Schaffer, Korn Live @ Credicard Hall - 21/04/2010, credits: Alexandre Cardoso, own work, CC BY-SA 2.0 via Wikimedia Commons

(
Contributi di Alessandro MattediDanny Stones; Antonio Silvestri per "Requiem")

Korn

Discografia

Neidermayer's Mind(demo autoprodotto, 1993)

8

Korn (Epic/Immortal, 1994)

9

Life Is Peachy (Epic/Immortal, 1995)

7

Follow The Leader (Epic/Immortal, 1998)

7,5

Issues (Epic/Immortal, 1999)

7

Untouchables (Epic/Immortal, 2001)

7

Take A Look In The Mirror (Epic/Immortal, 2003)

6

Greatest Hits (antologia, Epic/Immortal, 2004)
See You On The Other Side (Virgin, 2005)

5

MTV Unplugged: Korn(live, Virgin, 2007)

6

Korn (Untitled)(Virgin, 2007)4,5
Korn III: Remember Who You Are (Roadrunner, 2010)5
The Path To Totality(Roadrunner, 2012)4
The Paradigm Shift(Prospect Park/Caroline, 2014)5
The Serenity Of Suffering(Roadrunner, 2016)5
The Nothing (Roadrunner, 2019)6
Requiem(Loma Vista, 2022)5,5
ALTRI PROGETTI
L.A.P.D. - Who's Laughing Now? (Triple X, 1991)6
Jonathan Davis & Richard Gibbs -Queen Of The Damned: The Score Album (colonna sonora, Warner Bros, 2002)
Jonathan Davis - Alone I Play (live, Invisible Arts, 2007)6,5
Head - Save Me From Myself(Driven. 2008)5
Jonathan Davis And The SFA - Live At The Union Chapel (live, eOne, 2011)
Killbot - Sound Surgery(Dim Mak, 2012)4
Jonathan Davis & Nicholas O' Toole - After The Dark (The Philosophers)(colonna sonora, Phase 4 Films, 2014)
Jonathan Davis - Black Labyrinth (Sumerian, 2018)5,5
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