Kula Shaker

Kula Shaker

Un mantra pop-rock

Classic rock, psichedelia 60's e la sana schiettezza dei 90: la band capitanata dal biondo Crispian Mills ha saputo assemblare il meglio del passato e del suo presente, avvolgendolo nelle fascinose atmosfere del misticismo indiano. La storia di un gruppo derivativo eppure mai allineato, che è riuscito a riprendere il cammino dopo essersi bruciato nel giro di una breve ma esaltante stagione

di Fabio Guastalla

A metà degli anni Novanta, il cosiddetto movimento britpop era saldamente sulla cresta dell'onda. Sorto dalle ceneri dei filoni inglesi di fine Ottanta (in primis la scena baggy), era definitivamente esploso quando i Suede, nel 1993, avevano innescato la scintilla dell'ultima, grande “British Invasion” destinata a conquistare il mondo. Il 1994 aveva visto Blur e Oasis duellare a colpi di singoli e copertine, i Pulp prepararsi all'esplosione definitiva, gli Stone Roses autodistruggersi. Alle spalle dei nomi affermati, gli stessi che si contendevano le copertine e il ruolo di headliner ai grandi festival estivi, stava però nascendo una nuova generazione di band pronta a prenderne il testimone. Gruppi come Radiohead, Placebo e Kula Shaker, nati negli anni del fermento Britpop ma destinati a intraprendere strade necessariamente differenti: la band del biondo Crispian Mills, in particolare, sarà la più veloce in ordine di tempo a smarcarsi dalle sonorità dominanti e a scalare con estrema velocità le classifiche nazionali.

 

Dagli esordi alla bomba K

 

A onor del vero, i Kula Shaker non erano esattamente dei pivelli quando la macchina da soldi del britpop aveva iniziato a essere tale. Crispian Mills – chitarrista e cantante londinese, figlio della celebre attrice Hayley Mills e del regista Roy Boulting, nonché nipote di sir John Mills, peso massimo della scena teatrale inglese – incontra il bassista Alonza Bevan al College di Richmon upon Thames, nel sud-ovest della capitale. Siamo tra il 1988 e il 1989: i due imbastiscono una band di nome Objects of Desire, completata da Markus French alla batteria e Leigh Morris alla chitarra ritmica, oltre a Marcus Maclaine alla voce. L'esperienza dura l'arco di un lustro, nel quale il quintetto riesce a esibirsi diverse volte dal vivo nei locali dei sobborghi londinesi.

Nel 1993, alla chiusura del progetto musicale, Crispian Mills si imbarca in un lungo viaggio in India: resta profondamente colpito dalla cultura del paese e dalla spiritualità induista, influenze che resteranno decisive per l'intero arco della sua successiva carriera artistica. Carriera che riparte non appena tornato in Inghilterra, allorché dà vita ai The Kays, per i quali ingaggia il fido Bevan, il batterista Paul Winter-Hart (che nel 1991 era subentrato a French), il cugino Saul Dismont alla voce. Quest'ultimo resterà ben poco nella band: dopo circa un anno subentra l'organista Jay Darlington e Mills si prende per sé il microfono.

 

The Kays durano lo spazio di un paio d'anni, comunque utili a cristallizzare la formazione e conferirle una direzione univoca: un rock psichedelico (tra Byrds e i primi Pink Floyd) e dai richiami “classici” (vedi i vari Jimi Hendrix, Led Zeppelin e Cream) che veicola il pop britannico verso quelle sonorità orientaleggianti che in passato avevano già rapito i Beatles - George Harrison in testa. Ed è proprio in ragione di tale percorso che, nel 1995, Mills decide di cambiare il nome del progetto in Kula Shaker, sigla che omaggia il santone indiano King Kulashekhara.

Ce n'è quanto basta per ingolosire quelli della Columbia Records, che assistono alla vittoria dei Kula Shaker a un importante concorso per band emergenti (partecipano pure i Placebo) e decidono di mettere subito sotto contratto Mills e soci.

 

La scelta viene ben presto ripagata. Nell'attesa di pubblicare l'album di debutto, vengono buttati fuori un paio di singoli dall'opera ventura. Il primo, nella primavera del 1996, è “Grateful When You're Dead/Jerry Was There”. L'omaggio – tutt'altro che nascosto – a Jerry Garcia, scomparso l'anno precedente, è un brano dalla doppia faccia: esuberante la prima, all'insegna di un funk-rock d'ispirazione classica, mentre dalla metà circa in poi ci si tuffa in una psichedelia sixties che porta il tutto verso territori onirici. Nel settembre del 1996 esce anche il secondo singolo, “Tattva” (il titolo è in sanscrito), che diventerà uno dei brani-simbolo della formazione londinese e contiene già tutti gli ingredienti essenziali del sound dei Kula Shaker: il groove chitarristico va di pari passo con la componente spirituale e un vivace retrogusto psichedelico (compare anche il mellotron), sfociando in un ritornello tanto melodico quanto trascinante. Dopo l'uscita del disco, il singolo toccherà il numero 2 della chart britannica.

I riferimenti all'India e alla sua cultura sono ancora più espliciti in “Govinda”, pubblicato come singolo dapprima in estate e poi nel novembre dello stesso anno e destinato a diventare l'unica canzone cantata interamente in sanscrito a entrare nella top 10 britannica di tutti i tempi (raggiunge la posizione numero sette). Si tratta di una rielaborazione musicale di una preghiera a Krishna, e tra gli strumenti impiegati figurano il tambura suonato da Mills e la tabla di Himangsu Goswami. “Govinda” è il momento trascendentale dell'album, un mantra scandito sopra un midtempo rock, l'India di George Harrison ammantata da un sincero entusiasmo mid-nineties.

 

Nel frattempo, il 16 settembre del 1996 esce l'album d'esordio K. La copertina firmata dal fumettista Dave Gibbons raffigura i volti di numerosi personaggi veri o inventati accomunati dalla lettera K: da John F. Kennedy a Martin Luther King, passando per Kareem Abdul-Jabbar e... King Kong.

K vende quasi un milione di dischi nella sola Inghilterra e balza immediatamente al primo posto della classifica nazionale. I Kula Shaker portano sul mercato discografico una ventata d'aria fresca attraverso un sound che mescola psichedelia sixties, rock seventies e spezie coloniali. Il tutto con il sorriso stampato sul volto. Miglior riprova ne è “Hey Dude”, irresistibile miscuglio di rullanti granitici, riff al fulmicotone, wah wah incendiari e scompiglio giovanile, un fragoroso brainstorming che si erge a inno alla gioia da godere a pieni polmoni.

L'intera tracklist è disseminata di canzoni strepitose, a testimonianza di uno stato di grazia in virtù del quale ogni melodia vola sulle ali di una innata leggerezza e ogni spunto si trasforma in oro. “Temple Of Everlasting Light” torna a rivolgere lo sguardo verso un Oriente sempre in sottofondo, così come l'impalpabile “Magic Theatre”, che si srotola sui tocchi di mellotron. La controparte chiassosa è appannaggio di una “Smart Dogs” che si muove con agilità su orizzonti zeppeliniani. E poi c'è “303”, che letteralmente solleva da terra con il suo groove di chitarre e organo, un centrifugato di puro pop-rock in technicolor. A “Start All Over”, forse il brano più vicino alla frastagliata galassia britpop, seguono – dopo tredici minuti di silenzio – le due parti della hidden track “Hollow Man” a chiudere in un crescendo di toni e solennità.

Atipici e a loro modo classicisti, i Kula Shaker aprono una nuova strada nel pop britannico semplicemente guardando indietro anziché al proprio fianco.

 

Dalle polemiche allo scioglimento



Al successo commerciale di cui si accennava seguono, nel 1997, quattro nomination ai Brit Awards. La band di Crispian Mills è il fenomeno del momento. Quando in quell'estate si esibiscono nei più importanti festival britannici (e non solo), l'azzeccata cover di “Hush” si è già trasformata in un nuovo centro pieno per la formazione londinese.

Le aspettative sui Kula Shaker si fanno sempre più pressanti e nella primavera del 1998 esce “Sound Of Drums”, il primo singolo estratto da un sophomore che viene annunciato come imminente e invece uscirà quasi un anno dopo con il titolo di Peasant, Pigs & Astronauts, edito infine nel febbraio del 1999. Sono passati due anni e mezzo dalla pubblicazione di K, eppure – nonostante il clamoroso successo di vendite - molte cose sono già cambiate. Succede che le uscite di Mills circa argomentazioni attinenti il nazismo (peraltro fraintese) hanno spaccato i fan e la critica, ma anche la scelta stilistica di proseguire sulla strada vincente dell'esordio deve fare i conti con un'atmosfera ben diversa da quella degli esordi, perdendo lo smalto e la freschezza che facevano di K la traduzione in musica di un impareggiabile stato di grazia.

In Peasant, Pigs & Astronauts, registrato all'Astoria Recording Studio di David Gilmour ormeggiato nelle acque del Tamigi, c'è dunque tutto quello che ci si aspetta: un rock psichedelico che guarda ai classici e non disdegna di aggiornarsi alle nuove sonorità anni Novanta, debitamente infarcito di influenze (e strumentazioni) indiane al fianco di Hammond e Farfisa, in un caleidoscopio che vorrebbe emulare l'illustre predecessore ma vi riesce soltanto a tratti.

La sopracitata “Sound Of Drums” è l'unica canzone del lotto ad avere come produttori Rick Rubin e George Drakoulias. Il resto dell'album verrà affidato, in seguito a incomprensioni e allontanamenti, alle mani di Bob Ezrin. Alcuni dei pezzi migliori sono strategicamente piazzati nelle prime posizioni: “Great Hosannah” mantiene la matrice funk e si apre a un ritornello corale, “Mystical Machine Gun” si candida a inno di una seconda ipotetica summer of love, “S.O.S.” dà vita a una festosa orchestrazione rock. Il piccolo capolavoro dell'album è però “Shower Your Love”, sontuosa pop song dal retrogusto orientale ma allo stesso tempo profondamente immersa in quelle sonorità nineties che si stanno ormai avvicinando ai titoli di coda: qualcosa di molto simile agli astri nascenti Travis, per intenderci. Completa il quadro il folk sonico de “108 Battles (Of The Mind)”, il primo ponte verso i Kula Shaker che torneranno nel terzo millennio.

In scaletta compaiono anche i canti tradizionali “Radhe Radhe” e “Namami Nanda-Nandana” (oltre alla traccia nascosta “Stotra”). La seconda parte dell'album è decisamente sottotono: “Timeworm” guarda al folk orientale ma rimane uno tra i brani più anonimi mai scritti dalla coppia Mills-Bevan, e pure il blues effimero di “Golden Avatar” passa senza lasciare traccia. In quanto a “Last Farewell”, altro non è che una reprise in sordina di “Great Osannah”.

 

Peasant, Pigs & Astronauts raggiunge il nono posto della chart inglese, ma non porta fortuna ai Kula Shaker, che di lì a poco, dopo i festival estivi, si sciolgono per intraprendere le più disparate strade. Mills imbastisce il progetto pop-rock The Jeevas, che gli darà parche soddisfazioni. Darlington resterà in pausa per poi aggregarsi stabilmente agli Oasis. Bevan fa altrettanto con Johnny Marr. Il batterista Winter-Hart mette la firma su altri progetti minori. La raccolta Kollected, edita nel 2002, è il compendio di una carriera troncata dopo soli due album nel quale trova posto anche l'inedita cover di Bob Dylan “Ballad Of A Thin Man”.

 

Una seconda vita nel terzo millennio

 

Si va avanti così fino al 2004, quando Mills si lancia in un album di beneficenza insieme a una scuola californiana nella quale si insegnano materie attinenti alla religione indiana. Il disco vedrà la luce nel 2006, ma intanto Mills riallaccia i rapporti con Bevan e Winter-Hart nella composizione di un brano da inserire nella scaletta dell'opera. Manca soltanto Darlington, che declina l'invito, ma ce n'è comunque abbastanza per far parlare il buon Crispian di reunion ai microfoni di una stampa ansiosa di delucidazioni. Ai tre si aggiunge il nuovo tastierista Harry Broadbent e i nuovi-vecchi Kula Shaker si rifanno vedere anche dal vivo.

 

Il 31 marzo del 2006 esce, un po' a sorpresa, l'Ep “Revenge of the King”, quattro inediti più una versione live del vecchio cavallo di battaglia “Govinda”. L'anno successivo uscirà un secondo Ep solo per il mercato giapponese, intitolato “Freedom Lovin' People”. Sono manovre di avvicinamento al terzo album della band, che puntualmente esce nell'estate del 2007.

 

Strangefolk mostra un gruppo che non è poi molto cambiato negli intenti e nei risultati della propria ricerca musicale. A cambiare è il contorno, ovvero l’insieme delle tendenze e delle produzioni musicali che nel frattempo si sono andate affermando in Europa e nel mondo in ambito rock.

Ed è proprio l’insieme di questi mutamenti intervenuti nella musica al volgere del nuovo millennio a conferire al disco dei Kula Shaker un valore e una “luce” del tutto particolari. In questo disco non trovano posto ammiccamenti funky, ritmiche angolari e spezzate di scuola post-punk, coretti strampalati o concessioni all’elettronica o alla dance (patrimonio comune di numerosi gruppi anglofoni del dopo-Franz Ferdinand). Niente di tutto questo. Piuttosto una musica completamente inattuale da risultare quasi fuori dal tempo e da ogni moda, improntata ai canoni ben definiti di un neoclassicismo psichedelico costantemente omaggiato e riaffermato.

I riferimenti sono quelli di sempre, come se nulla fosse trascorso in mezzo – ma non era già così nei fatidici Nineties? In “Out On The Highway”, “Second Sight” o la splendida “Die For love” ritroviamo la costruzione puntuale dei cori, l’equilibrio dei ritornelli, l’utilizzo sempre calibrato di una strumentazione vintage imperniata su mellotron, hammond, armonica e farfisa. Tutto lascia presagire la solidità di una band totalmente sincronizzata su un respiro e su tempi che appartengono ormai solo a lei stessa, all’ombra di una tradizione la cui autorevolezza non viene mai sgretolata o innovata in modo troppo brusco o istintivo.

Nel blues arruffato di “Great Dictator”, Mills si diverte forse a giocare con le accuse di filo-nazismo che gli furono mosse dalla stampa inglese per certe sue ambigue affermazioni forse equivocate (e per una fantomatica t-shirt fregiata da una svastica che in realtà faceva riferimento alle filosofie orientali tanto care al gruppo) e che esercitarono una influenza non secondaria nel declino di popolarità patito dai Kula Shaker alla fine dei Novanta. In “Strangefolk” riaffiorano i mantra psichedelici infarciti di cori e innodie orientaleggianti e interminabili spirali sonore, croce e delizia di fan e critica, mentre a partire da “Song Of Love” inizia un lungo segmento caratterizzato da placide ballate dalla grana più acustica, la migliore delle quali è senza dubbio “Fool That I Am”, in cui la somiglianza del timbro di Mills con quello di John Lennon è a tratti impressionante.

Il nome dei Kula Shaker è però ormai lontano dal riscaldare i cuori dei rocker del terzo millennio, e Strangefolk rimane fuori dalle zone calde delle classifiche, patria compresa.

 

L'anno successivo i quattro si mettono al lavoro per un nuovo album che però, a causa di controversie con l'etichetta, viene dato alle stampe soltanto nel giugno del 2010. Registrato in completa libertà nel proprio studio privato, accuratamente nascosto tra le mistiche selve del Belgio, risuonanti di fiabe mitiche e remote leggende popolari, Pilgrims Progress riattiva il polveroso carosello psych-folk caro alla band, impregnato di salmodianti visioni merseybeat e litanie spiritualiste che tendono però nelle nuove composizioni ad abbandonare le trascorse (e famigerate) infatuazioni orientali (non sempre improntate a una credibile sobrietà stilistica, questo va detto...) in favore di un misticismo canoro dal profilo più celtico-continentale.

I nuovi pezzi a ben vedere tradiscono per lo più insistite velleità prog-folk pastorali che a tratti fanno quasi venire in mente certi Jethro Tull, soprattutto in un lungo pezzo come “Winters Call” o in “Ruby” e “Peter Pan RIP”, edificate su fraseggi acustici molto ma molto felici per quanto scarsamente originali. Dell'antica spiritualità resta poco o nulla, e si va cercando nel cristallino folk-rock di “Ophelia”, diretto discendente dei Led Zeppelin di “Starway to Heaven”, una sacralità ormai ridotta alla dimensione favolistica. Il progressivo spostamento verso il folk è d'altronde confermato da un brano come “All Dressed Up”, che rinuncia a deflagrare in un inno rock per tradursi viceversa in cavalcata acustica. Chiude il cerchio “When A Brave Meets A Maid”, strumentale nel quale si incrociano atmosfere barocche e western.

“Pilgrims Progress” è un album onesto, spesso ben scritto, ancorché irrimediabilmente lontano dalla potenza espressiva degli esordi, al punto dal sembrare talvolta rinunciatario nell'evitare di spingere sull'acceleratore laddove potrebbe.

 

Il tiepido interesse generato dal quarto album spinge Mills a concentrarsi su progetti che poco ci azzeccano con la musica (un film da iniziare agli inizi del 2011). Nel dicembre del 2010 esce in download gratuito il singolo “Christmas Time (Is Here Again) / Snowflake”, mentre nel settembre del 2011 viene data alle stampe l'edizione deluxe – doppio cd più Dvd – di K nel quindicesimo anniversario della pubblicazione.

 

Un nuovo ritorno in veste classic-rock

 

Si dovrà aspettare fino al 2016 per un nuovo disco della band, segno che i Kula Shaker più di due album di fila non riescono proprio a fare. K 2.0 esce il 12 febbraio e il titolo lascia immaginare un ritorno allo stile degli esordi. In realtà, solo nel singolo anticipatore “Infinite Sun” e in “Hari Bol (The Sweetest Sweet)” si richiama quanto fatto negli anni Novanta, mentre per il resto si rimane comunque devoti agli anni Sessanta e Settanta senza mai rivolgere l'attenzione all'adorata India.
 C'è anche una minore attenzione alla psichedelia rispetto al passato e viene proposta una serie di brani ora vivaci, ora decisamente più tranquilli e che spesso richiamano alla mente la band che Crispian Mills ha avuto nel periodo di pausa dei Kula Shaker, ovvero i Jeevas.

Tra i primi si possono segnalare “Death Of Democracy”, che ricorda un po’ i migliori Coral, “Love B With U” che gode di un bel giro di pianoforte nella prima parte e di azzeccate armonie vocali, “Get Right Get Ready” che mostra un’attitudine molto rock'n'roll e armonie vocali ancor più in primo piano. Tra i momenti in cui si alza il piede dall’acceleratore è giusto menzionare l’altro singolo “33 Crows”, molto classicheggiante, e “High Noon”, rotonda e vellutata. C’è anche una terza tipologia di canzoni, minoritaria dato che è rappresentata solo da due brani, “Here Come My Demons” e la conclusiva “Mountain Lifter”: entrambe partono piano poi trovano robustezza e colore nel corso del loro sviluppo.


In questo disco troviamo, ancora una volta, una buona varietà stilistica, un senso melodico che non accenna a spegnersi, la voce riconoscibile e espressiva di Crispian Mills, un bel lavoro dal punto di vista della produzione artistica, con arrangiamenti non eccessivamente ambiziosi ma mai scontati, nonostante l’evidenza dei riferimenti. 
Ciò che distingue K 2.0 dagli altri dischi è una veste classic-rock, con tutte le precisazioni di cui sopra. I detrattori della band continueranno a dire che non ha mai inventato niente, però la sua ricerca musicale si mantiene viva e “affamata” album dopo album: i Kula Shaker hanno ancora voglia di provare qualcosa di diverso nel modo in cui applicano il proprio stile melodico e vocale e la propria sensibilità interpretativa, e i risultati continuano a essere dalla loro. 

Sei anni dopo, nel giugno del 2022, i Kula Shaker sganciano un altro album: 1st Congregational Church Of Eternal Love (And Free Hugs)

In un saliscendi di groove irresistibili e ballate agrodolci che lambiscono le lande acustiche, Crispian Mills ritrova non solo le melodie più congeniali, ma anche una leggerezza che forse, in ultima analisi, non è altro che pace interiore. Di certo, come recita con una certa dose di psichedelia intrinseca il titolo, c’è una positività di fondo nel nuovo repertorio dei Kula Shaker, e non sembra affatto posticcia. Forse, anzi, è uno scudo per ripararsi da un mondo sempre più buio. Chissà.


L'immaginario rimane ancorato all’India, alla sua religione, ai riti: la scaletta è inframezzata da una sorta di voce recitante in sanscrito che appare qua e là (“Let Us Pray”, etc.). Una “presenza” che non interferisce in alcun modo, comunque, con il mood appena descritto. E se è vero che i Kula Shaker non hanno inventato nulla a livello sonoro, sfidiamo chiunque a non definire puramente kulashakeriane canzoni come “Whatever it Is (I’m Against It)”, “108 Ways to Leave Your Narcissist” e “Gingerbread Man” con quel peculiare miscuglio di chitarre quasi-blues, organetti sferraglianti e mood a dir poco saltellante che nessuno è mai stato in grado di emulare.


Laddove il crescendo strumentale di “Burning Down” rappresenta un’altra specialità della casa, impressiona il filo invisibile che lega brani quali “Hometown”, “Farewell Beautiful Dreamer” e “Shattered Bones” alla lezione dei fratelli Davies, di cui evidentemente Mills è uno dei più autorevoli eredi. In una sorta di itinerario in calando, a livello di toni, si incrocia la psichedelia ovattata di “The Once and Future King” e si scopre che le soffici atmosfere di “Love in Separation” e “After the Fall, Pt. 1” sono un altro habitat naturale della formazione britannica, così come il classic rock che fa capolino in "Where Have All the Brave Knights Gone". Non paghi, i Kula Shaker decidono persino di cimentarsi in una “303 Revisited” che stabilisce un ennesimo ponte con gli esordi, in verità più concettuale che effettivo, ma in ogni caso riuscito. Ben vengano i revival, se servono a risvegliare gli originali.



Meno di due anni dopo, nel febbraio del 2024, è la volta di Natural Magick. Se nel lavoro precedente l'eterno giovane Crispian Mills e compagni d'avventura avevano architettato una grande opera che tornava a mettere in primo piano l'aspetto spirituale legato a doppio filo alla religione indiana, qui tale aspetto, pur essendo sempre presente (come da ormai trent'anni a questa parte) passa in secondo piano rispetto al tentativo, riuscito, di dare vita a un repertorio di canzoni spigliate e immediate, diremmo catchy ma nel senso migliore del termine. Meno sofisticato ma ancora più diretto, dunque, sia sotto il profilo concettuale che musicale, Natural Magick si gioca la carta del “tutto e subito”, di fatto vincendola perché ancora oggi nessuno come i Kula Shaker è in grado di scrivere melodie non banali e al tempo stesso capaci di irretire al primo ascolto.

 

Basta già il trittico iniziale formato da “Gaslighting”, “Waves” (rilasciata come singolo nel 2023) e “Natural Magick” per rifare pace con quel sound fatto di hook chitarristici al fulmicotone, rutilanti Farfisa che gracchiano e ritornelli trascinanti (a dir poco perfetto quello di “Waves”), catapultandoci in quella psichedelia immersa nel britpop che non ha mai smesso di guardare indietro tanto ai Novanta quanto a una certa idea non banale di rock con un'accezione più classica del termine, fin dai mitici esordi di "K". Non è un mistero, del resto, che nella musica dei Kula Shaker vivano anche gli anni 60 e 70 britannici, come raccontano una “Something Dangerous” che discende in linea diretta da gruppi come The Kinks o The Yardbirds, ma anche il dolce finale di “Give Me Tomorrow”, ballata d'antan che, insieme a “Stay With Me Tonight”, rinnova la tradizione kulashakeriana delle canzoni d'amore.

 

Non possono mancare gli spigliati uptempo “Indian Record Player” e “Whistle and I Will Come” (destinata ad avere ancora più successo in sede live), il raga rock di “Chura Liya (You Stole My Heart)” che con “Happy Birthday” rinsalda il legame con l'India, il funk anti-militarista “F-Bombs” (anche in "Idontwannapaymytaxes" Mills recita: "I don't wanna pat for World War Three") e una “Kalifornia Blues” che racconta come meglio non si potrebbe la spensieratezza e la leggerezza che albergano nella musica dei Kula Shaker. Che non hanno replicato l'album di due anni fa, sotto ogni punto di vista, ma in compenso ci consegnano nelle mani un altro bel saggio della loro arte.



Contributi di Francesco Giordani ("Strangefolk", "Pilgrims Progress") e di Stefano Bartolotta ("K 2.0")