Lightning Bolt

Lightning Bolt

Un'allegra follia rumorista

Le evoluzioni di un duo inusuale basso-batteria, un rumore vitale tra istintività e virtuosismo. Ecco le vicende dei due ragazzi di Providence

di Francesco Asti

We just wanna rock we don't want to be smart

"Che diavolo fanno 'sti due?"
"È noise!"
"Beh...si fanno un gran casino ma non è proprio solo noise."
"Speed metal, punk, hardcore."
"Un po' pure di quello, ma non ci siamo ancora."
"Diciamo che sono weird"
"Uhm...si in fondo sono dei gran cazzoni che quando ci si mettono si divertono da matti. Però dire
solo che sono weird"
"E allora che fanno?"
"Mah...in definitiva direi che fanno rock. Si ecco, rock!"

I Lightning Bolt fanno rock. Dovendo più o meno cercare di spiegare quello che suonano, solo così lo si può chiamare. Le componenti sono noise, metal, punk, hardcore centrifugate tutte assieme in un miscuglio gorgogliante. Tutto quello che c'è di comune è tra tutti questi elementi è il rock; l'atteggiamento del duo è rock; quindi suonano rock. Una definizione estesa, che più o meno comprende quasi tutto quello che è stato chiamato in maniera tale - con al massimo l'aggiunta di qualche suffisso - negli ultimi 50 anni. Estensione vasta che restringe di molto il campo se si legge ancor più che come modo come spirito. Suonare più forte e veloce possibili, far casino, divertimento, fisicità e corpo, esperienza comunitaria; una musica che prende il genere suonandolo alla luce della sua storia: rock 'n' roll degli anni 2000.

Musica stupida contro musica intelligente. Un'avanguardia è ancora presente, ma abbandonata dalle sue pretese intellettuali per ritrovare l'esaltazione e il piacere fine a se stesso; musica come musica e non come arte: uso strumentale e divertimento non sono un meno. È proprio questo che produce in chi lo ascolta il suono dei Lightning Bolt: headbanging impossibile da trattenere, corpo che si lancia nel pogo, euforia senza riserve che produce "Yeeeeeahhh!" a non finire. Un'ignoranza apparente che in realtà è, appunto, solo rock privato delle sue pretese; è essersi presi poco sul serio, è avere un atteggiamento weird, è suonare principalmente per divertirsi.

Del punk c'è l'iconoclastia e l'indipendenza, un'indiependenza figlia dello spirito punk e non delle pose da indie-kid; dell'hardcore c'è la furia; del metal la velocità e un certo gusto per il riff tamarro; dell'avanguardia la ricerca sui suoni e la cripticità testuale; del noise il rumore assordante. Tutto mescolato assieme in una tempesta spinta al massimo della potenza a trovare strade per certi tratti affini a quelle dei japanoiser Boredoms - soprattutto quelli del primo periodo - Boris e Ruins (ai quali li accomuna anche l'inusuale combo basso-batteria).

Per Brian Chippendale il modo di suonare è come il suo modo di disegnare - "The way I drum is the way I draw" - un modo indissociabile e per certi aspetti interscambiabile. Pitture, fumetti e musica sorretti dal tentativo di coprire ogni spazio libero con un colore o con un battito, quasi un orrore per il silenzio e il vuoto; un suonare in cui le mani e i piedi non stanno mai fermi, tentacoli in continua agitazione a percuotere qualunque percussione capiti a tiro, un microfono del telefono cacciato in bocca e ultradistorto a canticchiare filastorcche bizzarre con una voce aliena all'incrocio fra registrazioni da Conet Project e mostriciattoli da incubi bambineschi.

Brian Gibson imbraccia un basso settato su accordature anomale, distorsioni a profusione ed effettistiche a non finire - la pagina di Wikipedia a lui dedicata parla addirittura di uno strumento accordato come un violoncello con una corda di banjo sostituiva... chissà se è vero - che rendono il suo suono, più che un accompagnamento, un vero e proprio motore principale, tanto che spesso viene persino scambiato per un chitarrista. Una tecnica in grado di passare a elementi abbastanza semplici, fino a spingersi in tapping più ricercati, degni del miglior Van Halen; un setting fatto di feedback, loop, effetti che stratificano i suoi stessi riff; un setting studiato al dettaglio e pervenuto quasi alla perfezione.

Il suono dei Lighting Bolt si crea su questo strano e rumorossisimo amalgama, tra l'ipercinetica batteria di Chippendale e il basso portante di Gibson. Un connubio riuscito appieno, che rende ancor più dinamico il modo di suonare dei singoli componenti e conduce a un frastuono ancora maggiore l'insano casino prodotto separatamente dagli strumenti. Tutto ottenuto attraverso una scarsissima varietà di mezzi - non in senso tecnico, ma letteralmente con pochissimi strumenti - che hanno permesso ai due di trovare la libertà in uno spazio ristrettissimo. Per rimarcare ancora le affinità tra modi di operare nelle loro diverse arti Gibson ha detto, a proposito: "LB in particular has showed me the power of an extremely limited palette".

Regno prediletto è il live, una dimensione in cui la musica del duo trova la sua più naturale valvola di sfogo: incendiari set ruotano intorno a una torre di amplificatori che sparano watt a una potenza distruttiva, in un magma selvaggio che si va a spesso a schiantare sulla batteria di un Chippendale mascherato e spiritato, con un Gibson, al fianco, sornione e compassato. Ancor prima di iniziare a parlare dei loro album è bene dirlo: i live dei Bolt sono tra quanto di meglio ci sia del genere in giro, il documentario "The power of salad & milkshakes" lo testimonia perfettamente.

Covering every little space


lightningbolt_text1994. Brian Chippendale, uno studente del Rhode Island Art Institute con la passione per la batteria e l'intenzione di suonare sente parlare di un ragazzo mago del basso. Il nome di quel ragazzo: Brian Gibson. I due iniziano a fare musica insieme e mettono in piedi una band che comincia a esibirsi tra party universitari, garage e altri luoghi simili. Loro base è il Fort Thunder, un laboratorio/casa di artisti e musicisti messo in piedi da Chippendale con Mat Brinkam, centro di elezione della comunità providenciana e punto gravitazionale della creatività del luogo.

Dopo il loro primo live la formazione si allarga di un elemento: Hisham Baroocha, altro studente dell'istituto d'arte, entra come chitarra e voce. I primi anni sono spesi in concerti e nessun lavoro in studio, aspetto che la band non predilige. Nel 1996 Baroocha decide di lasciare i Lightning Bolt e forma nel giro di un anno un altro gruppo con musicisti conosciuti sempre al Rhode Island Institute, i Black Dice, con cui contribuirà a creare l'ambiente sonoro per il passaggio di millenio. Chippendale e Gibson restano in due, batteria-voce e basso. Della schieramento in trio rimane solo una traccia sulla compilation "Repopulation Program".

Nel 1997 la providenciana Load Records decide di metterli sotto contratto. Nello stesso anno entrano in studio per lavorare e far uscire il primo e omonimo disco, conosciuto anche come "The Yellow Record". Il suono è molto grezzo, registrato in bassa qualità; la sporcizia del duo risulta ancor più ruvida e grezza, votata a un eccessivo lo-fi. Quello che ne esce è una cacofonia confusionaria e non molto a fuoco; si intravedono già gli sviluppi a breve termine, ma si perde spesso la direzione in mezzo a un rumore di cui non riescono ancora ad avere il pieno controllo. È il caso di "Into The Valley" in cui l'intreccio degli strumenti è già ben amalgamato ma si perde più in chiasso che nelle baraonde organizzate che ne faranno la fortuna; o quello di "Murk Hike", che parte con un giro di basso in attesa di esplodere ma che si ferma su se stesso per tutta la durata. Il pezzo migliore del lotto è "Fleeing The Valley Of Whirling Knives" già costruito su velocità ipercinetiche, voci aliene e giri progressivi di accordi. Nella ristampa in cd sono contenute due tracce aggiuntive, recuperate da una cassetta autoprodotta: spicca "Zone", un'improvvisazione di 32 minuti. Lavoro ancora acerbo e senza una precisa direzione, discreto esordio ma nulla più. Figlio di un do it yourself incompromissorio che non ha saputo ancora coesistere e ibridarsi con una professionalità che ne manterrà lo spirito e le istanze, ma lo renderà altresì di qualità migliore.

Ci vogliono quattro anni perchè i Lightning Bolt tornino in studio. Forse sarebbe meglio dire perchè entrino per la prima volta in un vero studio; l'esordio era poco più che una registrazione fatta in casa in quel di Fort Thunder - nel 2001 la base del movimento underground di Providence è ormai prossima all'esproprio. Il duo incontra uno studio professionale e l'ingegnere del suono David Auchenbach, che diventa presenza costante e tassello importantissimo per definirne il suono. Così esce Ride The Skies (2001), sempre sotto etichetta Load. La cacofonia lascia il posto a una nitidezza sonora che non perde però nulla della violenza sonica, ma anzi ne aumenta ancora più la furia, riuscendo a convogliarla verso una precisa direzione. L'apporto di Auchenbach è fondamentale in questo senso. Gibson trova la configurazione perfetta per il suo basso: accordato in modalità eterodosse e modificato all'estremo da distorsori e pedali vari, raggiunge un'ampiezza sonora impensabile per il suo strumento suonando spesso come fosse una chitarra, quando non addirittura un band tutta assieme. Chippendale aumenta a un livello quasi disumano la velocità delle sue battute, un drumming sgraziato e violentissimo su cui gorgheggia le sue filastrocche di mostro da fumetto per bambini. Un amalgama perfetto, che riesce ad armonizzare vari elementi in un'unità d'intenti.
La cacofonia è in grado di convivere con lo humour. È il caso di "Wee Ones Parade": una presa in giro tra un basso che suona acutissimo e la voce-batteria che risponde aumentando la pesantezza dello sfottere, uno scherzo che finisce in una rissa a pieni colpi; o "Forcefield", che si apre con un pavimento di stridori, che tutto sembrano tranne che un basso, esplodendo insieme alla batteria in una terribile ripetitività noise. Le vette della sacralità del riff metal accanto a freakerie buffonesche: in "13 Monsters" la voce di Chippendale canticchia una nenia bambinesca su un tapping di vorticose progressioni. Melodia e caos in un tutt'uno: "The Fairie Folk" sorretta dal picchiettio di Gibson, sbeffeggiato dal fischiettio in sottofondo, portato fino all'overdrive. "Saint Jacques" pare quasi un vinile bloccatosi sul giradischi mandato in feedback; "Ride The Skies" un saliscendi melodico a tutta velocità. "Rotator" sommerge un prog obliquo sotto una corrente vorticosa. "Into The Mist 2" è un incontrollato free di pochi minuti in cui il maggiore impegno sembra essere profuso nel non lasciare nemmeno un attimo di possibilità al silenzio per insinuarsi. Una vera e propria cavalcata nei cieli rompendo il muro del suono. Proposta dall'efferatezza devastante, dai suoni "orrendi" del basso di Gibson al drumming selvaggio e atroce, che sa mantenersi però in uno spirito freak, facendone al contempo un lavoro dalle caratteristiche brutali e divertenti: una festa spietata.

I Lightning Bolt han preso gusto a registrare. Sarà un po' per il crescente seguito ottenuto dopo l'uscita di Ride The Skies, un po' per riuscire a domare un toro che spesso rischia ancora di disarcionarli, si ritrovano con il fido Aucherbach nel 2003 per dare alla luce Wonderful Rainbow. Come la copertina: un meraviglioso e coloratissimo arcobaleno si disperde in frequenze disturbate; può essere seguito al contrario: un disturbante fruscio da cui scaturisce un'iride perfetta. Rumore gracchiante che si unisce a tessiture armoniche ben costruite; prog, noise e metal frullati assieme alle solite velocità assassine. Lavoro più accessibile e "orecchiabile" del precedente (parlare di orecchiabilità per la loro musica è quantomeno paradossale), ma al contempo riesce ancor più irruente e carico nelle sonorità. La furia cieca dell' apertura "Assassins" si sviluppa tutta su queste tensioni, portate giusto al limite di rottura; un' elettricità giunta alla massima carica e confluita in un flusso diretto a distruggere i timpani. Ma tutti i pezzi dell'album vivono di questa natura. "Dracula Mountain" è una cantilena distorta di Chippendale avvolta in un basso che suona un boogie metal tra tempi dispari e singulti; "Two Towers" fatta di pesantissimi riff ipnotici e un drumming tempestoso; "On Fire" ciclo mostruoso di ritmi spastici, insensati vocalizzi, pause e ripartenze. I due ci hanno dato ancora più a fondo con le loro buffonerie. La cavalcata "Crown Of Storms" alternata tra tapping e pesantissimi feedback porta nel pieno della tempesta. Non un attimo di tregua. L'irruenza e la smania di suonare coprono tutto e non lasciano un attimo di respiro. La chiarezza melodica del basso in "Longstockings"; ancor più i maelstrom "30000 Monkeys" - che, come da titolo, sembra realmente un pezzo suonato da una moltitudine di scimmie - e "Duel In The Deep" mostrano tutta la gamma (ottenuta da pochissimi mezzi) del suono boltiano: da "gentili" armonie a un'ammucchiata di distorsioni, effetti e ritmi frenetici, che sprizzano in atroci feedback; in particolare il secondo pezzo è un vero e proprio orrore sonico, pesantissimo e carico  allo stremo, privo per una volta di qualunque bizzarria a far da contraltare.
Uno-due, Ride The Skies - Wonderful Rainbow il colpo da ko sferrato dai Lightning Bolt. Album che spingono fino in fondo sull'acceleratore portando il suono a una dinamicità inaudita, non tralasciando però perdere della godibilità estrema dell'ascolto. Una goduria. Un'orgia sonora che sa ibridare emozioni e musiche stordendo e disorientando con il suo miscuglio musicale. Decisamente i due Brian hanno qui trovato la definizione completa del loro suono.

Dead cowboys?

lb_textTrovato il modo per imbrigliare e cavalcare la tempesta elettrica, sembra che non ci sia più nessuna strada da percorrere. O meglio, posto che lo smettere non sia praticabile, non rimane che continuare con la formula collaudata degli ultimi due lavori o provare a osare ancora di più. Bene: i nostri scelgono questa seconda opzione. Spunti d'improvvisazione, tempi allungati e, se possibile, volumi ancora più alti. Questo è l'intento di Hypermagic Mountain (Load 2005). Le redini vengono lasciate, la foga prende lentamente il sopravvento; nulla è più contenuto, tutto straborda bestiale e pesante, incontrollato e free. Pregio e pecca dell'album: c'è chi vede nelle lunghe divagazioni un passo ulteriore dei due; c'è chi ritiene la mossa un po' fuori le loro corde, tanto che l'effetto ottenuto è di far perdere valore all'insieme. La seconda ipotesi appare come la più credibile: i pezzi più lunghi perdono di concisione con l'andar del tempo e distraggono presto l'ascolto e l'accentuata improvvisazione free noise spegne il fuoco d'assalto: Fin tanto che l'insieme è diretto, è assassino; quando si dilunga ha molta meno presa. In definitiva, sembra che abbiano incominciato a prendersi sul serio, che di per sé non è male ma in questo caso sembra fare perdere insieme un loro tratto distintivo e la godibilità della loro proposta. Ascoltare il pezzo anti Bush (i Lightning Bolt che fanno un testo "impegnato" politicamente!?) "Dead Cowboy" dà questa precisa sensazione: una potenza devastante che stanca a causa della prolissità. Così gli altri pezzi centrali: "Mohawkwindmill" con un Chippendale che picchia quasi su regolarità math e Gibson a sfornare riff incandescenti; non male ma dispersa con il vento noise che crea. "Megaghost" dall'attacco pare un brano dei Black Dice, per poi trasfomarsi in una tempesta boltiana e poi di nuovo in una jam dei newyorkesi con una band death metal. O l'ancora più diceiana "Infinity farm". Quando i Lightning Bolt fanno però quello che sanno fare - canzoni, chi l'avrebbe detto, canzoni - sfornano dei pezzi riuscitissimi. L'apertura "2 Morro Morro Land" è ipersaturata: il basso che crea una scia devastante alle sue melodie e i tamburi picchiati più che suonati. "Captain Caveman": Chippendale gracchia qualcosa da cui sembra di intuire "This is the anthem"; in effetti potrebbe essere tranquillamente il loro inno: una baraonda sparata a tutto volume, orgia di melodia, velocità frenetiche, vociare, distorsioni. La Bibba boltiana condensata in tre minuti. Così come potrebbe esserlo l'hardcore accelerato di "Birdy". L'album si apre con il botto, poi purtroppo la deflagrazione si disperde.
Hypermagic Mountain è un disco riuscito a metà: ci sono pezzi ottimi che proseguono, migliorandolo forse ulteriormente, il discorso intrapreso con Ride The Skies e Wonderful Rainbow; altri brani sono troppo prolissi e portano a far scemare l'ascolto. Nel complesso, non è tuttavia un buco nell'acqua; il coinvolgimento è pur sempre più che buono, alcune canzoni entrano in testa e ci si può ritrovare a canticchiarle dopo un paio di ascolti, ma comunque risente dei difetti già evidenziati. C'è chi lo esalta e vi sente riproposto lo spirito dei live. Allo stesso tempo è impossibile farlo: il live è una fruizione diversa dall' album, portare un'esperienza tanto fisica, estemporanea e ancorata all'ambiente come un concerto dei Lightning Bolt è un'operazione monca dalla partenza. Se si vuole viverne lo spirito che si vada a un concerto!

Trascorrono quattro anni di silenzio discografico, anni in cui i fan iniziano a temere la fine del progetto. Invece, a smentire tutti le voci, nel 2009 esce il loro quinto lavoro: Earthly Delights. Cosa è cambiato in questo tempo per i Lightning Bolt? Apparentemente nulla. Continuano a stordirsi e a stordirci con una violenza non ancora sopita e con la stessa voglia di pestare a volumi folli i loro strumenti. Chi si aspettava un loro album troverà un loro album: niente di più e niente di meno. La formula però sembra aver trovato la corda: non stupisce più, non esalta più, non fa più presa. L'energia è ancora altissima e devastante, ma l'unica cosa che riesce a fare è seppellire tutto ciò che l'incontra. Se Hypermagic Mountain falliva nel lasciare incontrollato il loro suono in lungaggini free che i due stentavano a gestire, questo nuovo capitolo si spinge ancor più in questo senso. Le tracce sembrano perdere quasi del tutto una loro struttura ed essere per la maggior parte assalti improvvisati col solo obbiettivo di risultare il più cacofonici e tirati possibili: dalla psichedelia metal dell'apertura "Sound Guardians" alle sibilazioni elettro-ritmiche di "Flooded Chamber", la pesantissima e oscurissima "S.O.S.", fino a giungere alla conclusione di "Transmissionary" in cui il motorik ai duemila all'ora di Chippendale e il basso di Gibson, che per una volta suona quasi come un basso, si perdono in una sorta di trance anfetaminica. I Lightning Bolt fanno il verso a se stessi e si acquietano su una stereotipizzazione del loro suono. Lo scopo principale ormai è solo far più casino possibile è tumulare il pubblico sotto una pila di watt; questo lo facevano anche prima, ma quello che viene a mancare è il senso di divertimento. Il loro forse rimane, il nostro passa dopo pochi ascolti.
Comunque non mancano i momenti in cui recuperano ancora la loro anima buffonesca; qui il godimento torna ad altissimi livelli: la filastrocca cow punk, in cui a tratti Gibson sembra fare il verso a un banjo, urbana e sporchissima "Funny Farm"; il mathgarage-speed metal(?) di "The Sublime Freak"; la cavalcata noisedelica "Colossus".
Lavoro del tutto interlocutorio, Earthly Delights restituisce molto del suono tipico dei providenciani, tuttavia nel segno di un rifare se stessi all'infinito; alla quinta prova stanca, soprattutto quando si continua con i se stessi meno riusciti. Rispetto alla precedente prova c'è comunque una coesione decisamente maggiore; se Hypermagic Mountain era uno stordire a forza di parole, Earthly Delights almeno ha il pregio di essere un pugno in piena faccia, un pugno che però fa male per poco, perché, in definitiva, ci sono meno pezzi che lasciano il segno.

Nel 2012 la formazione rilascia in formato digitale una jam catturata dal vivo, I Found A Ring In My Ear. Si tratta di un'improvvisazione registrata alla buona, con una chitarra che lavora ossessivamente su memorie/scorie rumoriste e un batterismo rutilante che sembra trasformare il tutto in una versione abbruttita degli Orthrelm. Noia.

Rovistando nel loro archivio, il duo tira fuori, dunque, un brano risalente al 1997 catturato con un registratore a cassetta durante un'esibizione dal vivo. 20 è una rappresentazione nuda e cruda del loro impatto annichilente - venti minuti e oltre di batterismo maniacale e di distorsioni fiammeggianti che ci consentono di risalire alle origini della loro esperienza, risolvendosi comunque in una mera esperienza documentaria.

Qualche mese dopo, ecco arrivare Oblivion Hunter, un Ep che raccoglie sette composizioni risalenti al 2008 che mostrano sia il lato rumorista/estatico che quello più divertito del duo americano. Un affare, insomma, di metallo, pelli e disorientamento/sballo tribale/psichedelico che si manifesta già con i primissimi secondi di “King Candy”, per proseguire, quindi, con il martellamento acido di “Baron Wasteland”, qualcosa a metà strada tra una versione meno devastante degli Shit & Shine e i Mi Ami.
Tuttavia, la qualità è ancora bassa. Infatti, se la prima parte sembra rimettere un po’ a posto le cose, Chippendale e Gibson finiscono, man mano che il minutaggio aumenta, per smarrire l’ispirazione. Così, la frenesia galoppante di “Oblivion Balloon”, il taglio pop (ovviamente molto lo-fi e disordinato) di “Fly Fucker Fly”, il pur grazioso (!) scarabocchio indianeggiante di “The Soft Spoken Spectre”, la cantilenante “Salamander” e, soprattutto, la monotona ed inutilmente dilatata “World Wobbly Wide” non fanno altro che incidere un’altra ferita nei cuori dei fan.

10922506_10152522913467046_1262405479813611694_n_01Passano tre anni e, strappato un contratto alla Thrill Jockey, i nostri eroi tornano in pista con Fantasy Empire. Grazie al supporto della label chicagoana, Chippendale e Gibson possono a questo punto fare leva su una qualità sonora superiore, declinando il solito muscolare noise-rock infarcito di schizzi psichedelici e strutturato secondo spigolosissime geometrie. Si tratta, comunque, di un disco più ragionato rispetto ai suoi predecessori, aperto da un martellamento in odor di pompa metal (“The Metal East”) e lanciato oltremodo verso la sfera dell’isteria senza freni dalle tonanti cadenze di “Over The River And Through the Woods”. Il livello di tensione è sempre alle stelle e i due si producono in una festa coloratissima, sempre coinvolgente nonostante un tasso limitato di sperimentazione. In ogni caso, l'“impero della fantasia” ha almeno dalla sua la convinzione di prodursi in un onesto omaggio a quanto, nei loro migliori momenti, i Lightning Bolt hanno rappresentato per la scena rumorista e un po’ pazzoide degli ultimi quindici anni. Un omaggio che si produce in numeri altalenanti, passando in rassegna un po’ tutto il loro universo musicale: le sfumature bluesy che emergono tra le pieghe di “Horsepower”, i ghirigori art-rock su posizioni math di “King Of My World” (brani, questi, che finiscono per essere tutto sommato buoni per riempire il campo “ordinaria amministrazione), le trame tribaloidi di “Mythmaster”, quelle dissolute e “aperte” di “Dream Genie” (che aggiornano l’idea di trip sonici a base di voci distorte, feritoie spaziali e freakerie assortite), fino alla fuga punk della conclusiva “Snow White (& The 7 Dwarves Fans)”, con il vessillo dei Chrome ben piantato nel cuore.

Tra cieli da cavalcare, magnifici arcobaleni, montagne iper-magiche e imperi della fantasia, a leggere i titoli dei dischi dei Lightning Bolt sembra sempre di approcciarsi a libri di favole, per poi imbattersi invece in una delle spirali noise più conturbanti e distruttive del nuovo millennio. Non fa eccezione Sonic Citadel del 2019, numero sette della discografia, che in più, a potenziare l’inganno, ci mette una copertina colorata coi pastelli, che affastella torri principesche e colori. Non fa eccezione neanche il contenuto, con il basso super effettato di Gibson e il drumming scomposto e turbinante di Chippendale ad ingoiare tutto quello che incontrano, ma forse questa volta qualcosa è davvero un pelino cambiata, con un po’ di luce in più a trapelare dagli spazi e numerosi, sebbene timidi, slanci melodici qua e là.
L’inizio non è certo dei più confortevoli, con il classico suono di basso ottuso e la batteria a lanciare sassi in “Blow To The Head”, e poi con una trombetta stridente strimpellata tra i gorghi di rumore nella demenziale “USA Is A Psycho”, che ricorda nei toni i Butthole Surfers. È dunque in “Air Conditioning” che inizia a circolare una nuova aria, con il basso che facendo le veci della chitarra imposta una struttura più lineare, dalle tendenze meno devastatrici. Procede su questa falsariga “Hüsker Dön’t”, una specie di omaggio commosso e strampalato agli Hüsker Dü, con il basso, qui ancora più chitarristico, che ondeggia in un epico riff metal.
L’evoluzione si completa in “All Insane”, una canzone con la ritmica bulldozer, ma una canzone vera e propria, con il cantato sguaiato ma ordinato e la melodia insistita convintamente.
Certo in mezzo troviamo “Big Banger”, che è per l’appunto una big banger, “Halloween 3” e altre brutalità che portano le corde del basso al limite dal cedere e le pelli della batteria dallo sfondarsi, ma una nuova tendenza alla melodia è chiara. “Van Halen 2049”, con i suoi nove minuti e rotti di tapping ultra-distorto, chiude degnamente il disco più accessibile del duo di Providence, nonché il migliore da almeno una decina d’anni.


Contributi di Francesco Nunziata ("I Found A Ring In My Ear", "20", "Oblivion Hunter", "Fantasy Empire") e di Michele Corrado ("Sonic Citadel")

Lightning Bolt

Discografia

Lightning Bolt (Load, 1997)

5

Ride The Skies (Load, 2001)

7,5

Wonderful Rainbow (Load, 2003)

7,5

Hypermagic Mountain (Load, 2005)

6,5

Earthly Delights (Load, 2009)

6

I Found A Ring In My Ear (autoprodotto, 2012)

3

20 (autoprodotto, 2012)

5

Oblivion Hunter (Load, 2012)

5

Fantasy Empire (Thrill Jockey, 2015)

6

Sonic Citadel (Thrill Jockey, 2019)

7

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