Los Planetas

Los Planetas

Il sistema solare indie-rock di Granada

Nati dal sodalizio tra il cantante Jota e il chitarrista Florent Muñoz, gli andalusi Los Planetas hanno segnato la scena indie spagnola per oltre venti anni. Ne ripercorriamo la storia: dagli esordi shoegaze alle recenti contaminazioni col flamenco, passando per una sgargiante fase pop a cavallo tra i due millenni

di Michele Corrado

Musicalmente, paragonare i Los Planetas ai nostrani Afterhours, Verdena o Marlene Kuntz può essere una forzatura, specie all’inizio di una scheda monografica sulla band andalusa. Forzatura utile, però, a dare un’idea delle dimensioni del pubblico del gruppo e dell’enorme rilevanza che ha rivestito per la scena indipendente spagnola degli ultimi 25 anni e più. Un lungo lasso di tempo in cui i granadini hanno costantemente evoluto il proprio suono, preservando però sempre la propria natura noise-pop, mai rinnegata, piuttosto modellata di volta in volta sul rinnovarsi di gusti, studi e interessi della band.

Gli inizi dei Los Planetas sono stati piuttosto esterofili, con la proposta di un suono ruvido e fragoroso, ispirato tanto allo shoegaze psicotropo degli Spacemen3 quanto al post-punk cupo dei Joy Division e alla neo-psichedelia americana di Mercury Rev e Flaming Lips. Le cose sono cambiate però sul finire degli anni 90, con l’apertura a sonorità molto più pop, con la melodia ben al centro e testi facilmente memorizzabili, tutti elementi che hanno posto la natura spagnola del gruppo al centro del progetto.
Sono del resto piuttosto patriottiche la coerenza e la caparbietà con cui Jota ha deciso di scrivere e cantare i suoi testi esclusivamente in spagnolo – decisione che, va da sé, ha impedito a un suono potenzialmente molto internazionale di valicare i confini iberici. È proprio questa ostinazione che ha permesso però la creazione di un sound unico, che senza il calore e la tavolozza di toni offerta da una lingua neolatina non sarebbe stato forse così speciale, andando probabilmente a confondersi nell’oceano di band noise-pop degli anni 90.
Un’esperienza simile, contemporanea ai primi vagiti dei Los Planetas, è quella degli argentini Soda Stereo, il cui flirt con lo shoegaze sarebbe però durato solo per un periodo di tempo limitato e non, come nel caso del gruppo di Granada, per l’intera carriera.

Altro marchio di fabbrica della band sono senz’altro i testi. Intonati da Jota in una inconfondibile cantilena nasale, sono spesso piccole gemme buffe e poetiche, che mettono insieme vita di tutti i giorni, pop culture e stravagante fantascienza – di quella che rimanda a Douglas Adams piuttosto che Philip K. Dick.

1990 – 1994: dai “sotterranei” a “Super 8”

Juan Rodríguez (Jota) e Florent Muñoz, i due membri fondatori e perenni dei Los Planetas, si incontrarono nel 1990 nell’università di Granada, dove studiavano rispettivamente sociologia e diritto. Entrambi più interessati a letteratura e musica psichedelica che ai loro studi, i due iniziarono a incontrarsi e a provare insieme le prime canzoni. Un po’ per la loro grande passione per i Velvet Underground, un po’ per quella dell’omonimo libro di Jack Kerouac, Juan e Florent decisero di fondare una band e chiamarla Los Subterráneos – la cui line-up fu presto completata dal bassista May Oliver e dal batterista Paco Rodríguez.
Erano già usciti tre singoli piuttosto chiacchierati (“Mi hermana pequeña”, “El centro Del Cerebro” e “La Caja Del Diablo Y Espiral”), quando nel 1992 la band decise di cambiare il proprio nome in Los Planetas. La fortunata decisione fu presa da Jota e compagni in seguito alla notizia che la popstar Christina Rosenvinge (metà del duo Álex & Christina che imperversò nelle radio spagnole negli anni 80) avrebbe pubblicato il suo primo disco solista a nome Christina y Los Subterráneos.

“Mi hermana pequeña” e “El centro del cerebro” finirono insieme a “Pegado A Ti” e “Cada Vez” nel primo Ep del gruppo: Medusa. Grazie a questa prima pubblicazione, le canzoni e il nome della band iniziarono a circolare con insistenza in programmi radiofonici indipendenti dell’epoca, come Discogrande e Diario Pop. Nonostante le abilità compositive dei quattro fossero ancora acerbe, le quattro canzoni dell’Ep sono molto fresche e le loro melodie immediate, fattore non scontato, data la consistenza delle distorsioni proposte da Muñoz. L’attacco di “Mi Hermana Pequeña” non è quello che definiremmo easy listening, ad esempio. Meno ritmicamente tempestoso degli altri tre, il brano più interessante della partita è senz’altro quello che la chiude: “Cada Vez”. Melodia trascinata, che incede lenta, lasciandosi dietro detriti di rumore e un basso pulsante e plastico, che mima il cuore innamorato che il romantico protagonista del testo non si stanca di ascoltare.

Le quattro canzoni rivelarono il talento cristallino della band, generando stuoli di fan e di conseguenza l’attenzione della Rca, che, accortasi dell’ingigantirsi della scena indie spagnola, era alla ricerca di un cavallo su cui puntare. La band aveva già registrato Super 8 ed era pronta a farlo uscire per l’etichetta indipendente Elefant (per la quale era già uscito Medusa), quando Jota ricevette la chiamata del loro futuro manager, Javier Liñán, che gli chiese di aspettare a causa dell’interesse della Rca. Era l’inizio di un sodalizio destinato a durare ben sette dischi.
Con premesse come queste, è facile capire quanto, nonostante Los Planetas fossero praticamente una band al suo debutto, il disco fosse atteso. Tuttavia, come anticipato, al momento della firma il disco era stato già registrato, avrebbe dunque beneficiato dei mezzi della Rca solo in fase di post-produzione e per qualche sessione extra. Per vedere di cosa la band fosse capace con alle spalle produttori così facoltosi avremmo dovuto aspettare il successivo Pop. Ma procediamo per gradi...

Realizzata dall’artista basco Javier Aramburu (che avrebbe lavorato a lungo agli artwork del gruppo), la copertina di Super 8 avvolge un omino stilizzato intento a suonare una chitarra elettrica in cerchi concentrici dai colori caldi e carichi: rosso, arancio, porpora, giallo. Il capo dell’omino è chino e triste, raccolto in una posa che stilizza le origini della parola shoegaze, ma le note che suona con la sua chitarra irradiano colori accesi ed energie positive, proprio come quelle sprigionate dalle poderose schitarrate del disco. Il titolo di questa opera prima, che rievoca inevitabilmente le tinte sfocate dei filmini home-made degli anni 80, ben si addice ai testi di Jota, incentrati su ricordi e pensieri romantici, a volte piacevoli, a volte melancolici.  
Sono molte difatti, specie nella prima parte del disco, le canzoni di Super 8 dedicate a storie d’amore, a rotture o semplicemente a fantasticherie romantiche. Di queste ultime fa parte la squillante opening track “De Viaje”, in cui Jota invita la sua amata a partire con lui verso il sole, verso un’altra dimensione, dove poter stare insieme per sempre ("Tú y yo de viaje por el sol/ En una nueva dimensión/ ¿Qué podría ser mejor/ Que estar siempre juntos tú y yo?/ ¿Qué estar siempre juntos tú y yo?").
Nonostante il riff festoso che conquistò migliaia di nuovi fan, la successiva “Que puedo hacer” ha invece l'amaro in bocca di un ex che non riesce a capacitarsi dell’irreversibilità della fine della sua storia ("He pasado por tu casa veinte veces/ Siempre voy al andador por si apareces/ Pero nunca más"). La difficoltà di elaborare la fine di una relazione è il nucleo anche di “Si Esta Bien”, trascinata da una melodia lamentosa, così come quello di “Desorden”, dove però gli accordi in maggiore e gli interventi di un gioviale organetto Hammond inondano la scena di luce e donano speranza al protagonista.
“10.000” (pesetas) è il prezzo di un grammo di cocaina o di una prostituta, magari minorenne ("Me dice ven/ ¿quieres hacerlo con mi amiga?/ No está nada mal/ Vamos a hacerlo con mi amiga/ tiene 15 años ya"), nonché il titolo della canzone più criptica e controversa del disco. Una melodia di chitarra dolce ed elegiaca viene qui fatta scivolare su stridenti feedback di chitarra, mentre Jota canta i primi versi duri e impegnati dei Los Planetas. Altrettanto oscura è misteriosa “Rey Sombra”, brano dal testo particolarmente criptico e dalla successione di accordi incalzante, dedicato a Shadow King, entità di energia psichica dei fumetti Marvel che si nutre di odio nei confronti dell’umanità. Chiude l’esplosiva “La Caja Del Diablo”, nove minuti di deliqui sonici e drumming rutilante con i coretti che trapelano dagli spiragli lasciati aperti dal wall of sound.

Al netto di episodi meno rimarchevoli come “Estos Ultimos Dias” e “Brigitte”, Super 8 è un disco d'esordio perfetto, che molti dei fan dei Los Planetas della prima ora continuano a considerare il miglior lavoro della band, probabilmente poiché la spontaneità e la grinta che lo costituiscono sono rimaste ineguagliate. Il disco del 1994 è invece, fortunatamente soltanto l’inizio di una carriera in cui la farà da padrona un’insaziabile voglia di sperimentare nuove strade e nuovi colori.

1995 – 1999: da “Pop” alla consacrazione

Con la copertina colorata ed estiva e il titolo così spudorato che Pop si ritrova, “db” è l’opening track che proprio non ci si aspetta. Nove minuti barcollanti e lisergici, in cui una melodia pigra striscia tra stridori e lampi di rumore bianco verso un finale affogato nei flanger. Si tratta di uno dei momenti più psichedelici di un’intera carriera, che trasuda la devozione nutrita dai Los Planetas per Spacemen 3 e primissimi Mercury Rev. “db” sono infatti null’altro che le iniziali di David Baker, cantante e deus ex machina dei primi due stortissimi dischi della band di Buffalo. Baker, agganciato dal produttore del disco (Kurt Ralske degli Ultra Vivid Scene), avrebbe peraltro dovuto cantare in Pop, ma fu costretto a desistere, a causa di numerosi impegni da produttore dall’altra parte dell’oceano.
Il pop fa però irruzione in Pop (mi si perdoni il terribile gioco di parole) molto presto, sin dalla scoppiettante, successiva “Una Nueva Prensa Musical”. I restanti brani del disco superano solo in un’occasione i quattro minuti, qualche volta durano addirittura meno di tre, e sono sempre dotati di melodie e ritornelli immediati. Dura ad esempio un soffio più che due minuti la freschissima “Hymno Generational #83”, divertita presa in giro delle band dell’epoca ossessionate dal fantasma della scrittura di un inno generazionale. È il caso anche del sinuoso jangle-pop di “David Y Claudia”, dedicata a Copperfield e Schiffer, che vanno così a fare compagnia alla Bardot, citata in “Brigitte” del disco precedente. Ancora più breve è la conclusiva “Punk”, che spegne i suoi coretti speranzosi e il disco dopo neanche un minuto e mezzo.
“Ciudad Azul”, con il suoi dolci riverberi, che ricordano la risacca, e la languida e liquida “Aeropuerto” sono i due episodi del disco più rilassati e atmosferici, durante i quali la band dimostra di saper costruire suggestioni che vanno ben oltre il noise-pop di Super 8. “Jose Y Yo”, “Ondas Del Espacio Exterior” e “8”, sebbene più levigate, suonano più riconoscibilmente shoegaze e più vicine al vecchio modo di scrivere canzoni di Jota e Florent.
Merita di certo una menzione anche “La Maquina De Escribir”, brano turbolento e sanguigno, nel cui testo controverso e completamente avulso dal titolo, Jota interpreta un maschilista che chiede alla sua donna cosa sarebbe disposta a fare per farlo felice ("Tú, dulce y tierna niña/ ¿Qué puedes hacer por mí?/ ¿Hasta dónde llegarías/ Para hacerme feliz?/ Podría hacerte daño/ Dejarás que te haga sufrir/ Mi dulce y tierna niña/ Dime que sí").

Vivace e multiforme, Pop è un classico secondo disco, che vede la band sperimentare nuove strade, alcune molto interessanti e riuscite, finendo però col non trovare completezza e coesione, e vivendo dunque di episodi. Per questo e probabilmente per la sua minore immediatezza, non fu accolto dai fan della prima ora come Super 8, ma ne conquistò di nuovi, arrivando a occupare la posizione numero 40 della classifica spagnola di quell’anno. Sarebbe andata molto meglio due anni dopo, con il leggendario terzo disco.

Se ci chiamassimo olarock.es, Una Semana En El Motor De Un Autobus campeggerebbe di certo tra le pietre miliari scelte dalla nostra redazione.
Assestatosi alla posizione numero venti della classifica di vendite nazionali, è considerato da gran parte della stampa di casa uno dei dischi più importanti della storia della musica pop spagnola. La celebre rivista Rockdelux lo elesse miglior disco del 1998, nonché, in seguito, diciottesimo miglior disco del ventesimo secolo. Per il famoso critico musicale locale Jesús Llorente si tratta del migliore disco in castigliano del secolo prodotto da un gruppo di origini indie.
Nonostante le intenzioni della band fossero più o meno le stesse che dettero il la a Pop, ossia scrivere una manciata di canzoni belle rumorose e dal forte imprinting melodico, il passo in avanti è notevole ed evidente con grande impatto sin dal primo ascolto. Tutto ciò a causa di un mix di fattori.
Anzitutto va segnalato che il disco è stato registrato negli equipaggiatissimi Zabriskie Point di New York, dove il produttore Kurt Ralske e il gruppo (che a questo punto era composto da Jota, Florent, Kieran Stephen ed Eric Jiménez, rispettivamente nuovo bassista e batterista) hanno potuto beneficiare di un cospicuo budget offerto dalla Rca.
Florent racconta che fu proprio in queste sessioni di registrazione newyorkesi che la band registrò per la prima volta tutti gli strumenti in contemporanea, riuscendo così a imprimere su disco la tanta agognata sinergia tra melodia e rumore, con la prima costretta a farsi strada sgomitando tra le fitte coltri di feedback. Soddisfatti e arricchiti da questa esperienza, i Los Planetas avrebbero utilizzato questo metodo per sempre e iniziato ad autoprodurre i propri dischi.
Poi c’è il fattore-canzoni. Molto semplicemente: Jota si trovava in un periodo di ispirazione esplosiva, tale che sia le melodie che i testi sono permeati da grande vivacità e ricolmi di dettagli inediti. Identificare un calo nel corso di queste dodici canzoni è difatti impresa ardua, se non impossibile.

Una Semana En El Motor De Un Autobus riassume in un’ora di musica una settimana della vita del protagonista del disco, quella del suo compleanno. È un concept molto semplice, che si rivela però l’espediente perfetto per condensare nelle canzoni i sentimenti più disparati: rabbia, amore, disincanto, relazioni interrotte bruscamente, euforia, disforia. Il tutto sotto l'effetto di alcol e qualche droga leggera. In una parola: la giovinezza.
Si parte con un instant classic: “Segundo Premio”. L’amarezza e la rabbia per non aver conquistato il primo posto prendono forma in musica: sprazzi di rumore e un riff di chitarra euforico che cavalca la ritmica in compagnia di una sezione d’archi ispida e gioiosa. Perché, nonostante un retrogusto amarognolo, un secondo premio è pur sempre un premio. Gli archi tornano anche nella seconda parte di “Linea 1”, ad arricchire con sofisticate sfumature una mesta, ma dolcissima ballata acustica, ambientata nella periferia di Granada.
“Desaparecer” è una botta di energia. Power pop scintillante a duecento all’ora, con un riffing incalzante che tradisce un’altra passione dei due chitarristi: gli Husker Du. Nel novero dei pezzi più muscolosi e pimpanti del lavoro finisce senz’altro anche la sovraeccitata “Cumpleaños Total”, ancora gran power pop e un altro riff che ha fatto scuola.
Tra quelli più sofisticati sta a voi decidere se preferire la rabbia repressa di “Parte De Lo Que Me Debes”, un pianto addosso sul finire di una relazione che si materializza tra le chitarre struggenti e un arsenale di effettini retrofuturistici, o la ritmica sbilenca e la chitarra liquidissima della psichedelica “Montañas De Basura”. L’arpeggio caldo e sconsolato di “Toxicosmos”, che si increspa improvvisamente in lunghe calvalcate soniche, suggerisce un accostamento suggestivo, sebbene un po' fantasioso, con i Mogwai e il post-rock più irascibile.
Chiude “La Copa De Europa”, una delle canzoni più lunghe, ambiziose ed emozionanti della band. Praticamente una sinfonietta pop, con un finale trionfale in cui la melodia di chitarra viene avvolta non solo dagli archi, ma anche da vaporosissimi fiati, fino a dissolversi nell’insistente fischio dell’amplificatore.
E’ la fine di un viaggio emozionale provante e indimenticabile, che tra sbalzi d’umore, improvvise sterzate da un genere all’altro, da un sentimento all’altro, non può che rievocare i giorni più turbolenti delle nostre gioventù.

2000 – 2006: sulla cresta dell’onda

Quando i Los Planetas entrarono in studio per incidere Unidad De Desplazamiento, erano una band matura, completamente cosciente dei propri mezzi tecnici e forte di un consenso critico straripante. Tuttavia, né loro né i critici avrebbero potuto immaginare cosa il disco avrebbe comportato.
Praticamente considerati dei salvatori della musica patria, J, Florent e il resto della ciurma affrontarono le registrazioni intenzionati ad ampliare gli orizzonti aperti con Una Semana En El Motor De Un Autobus. Parte delle innovazioni sono intuibili già dalla copertina, che con una macchina volante e i colori vintage introduce il tema fantascientifico e, di conseguenza, i suoni space utilizzati (in particolare, un’insistente pioggerella di tastiere analogiche à-la Spiritualized). La forte fiducia in se stessi che i Los Planetas avevano maturato traspare dalle ritmiche particolarmente marcate (“Vas A Verme Por La Tele”, “Maniobra De Evasion”) e, soprattutto, dalla maggior spavalderia nel modo di cantare di Jota, che assume talvolta un tono quasi epico (“Santos Que Yo Te Pinte”). Se si dovesse trovare un difetto a Unidad De Desplaziamiento, questo risiederebbe certamente nella sua prolissità, causata probabilmente dall’eccesso di zelo dei musicisti.
Si inizia con uno dei brani più suggestivi della produzione dei granadini: “Flotando Sobre Loscos”, un miscuglio acquerelloso di post-rock e dream-pop, col canto etereo e svogliato sospeso a mezz’aria tra nuvolette d’organo e chitarre filanti.
Una grande novità sono i numerosi lenti presenti nel disco, che ne costituiscono un buon cinquanta per cento, percentuale impensabile ai tempi dei ruggenti esordi. E’ il caso della sconsolata ballad per chitarra acustica e violino “Que No Sea Kang, Por Favor”, dove il signore dell’universo dei fumetti è il destinatario di una supplica interspaziale. Ma è anche il caso della doppietta che conclude l’opera, dopo l’indie-pop pastelloso di “La Cara De Niki Lauda” – ospite d’eccezione dei testi del disco, che va dunque a far compagnia all'ormai folta schiera di icone pop e sportive citate negli altri lavori.  Si chiude quindi in dolcezza. Prima con “Canción Para Ligar (O Para Que No Me Dejes)”, altra supplica, questa volta rivolta più banalmente a una partner; poi con il congedo psichedelico tra fischiettii e field recording di “Paseo Por El Parque”.
Come se il disco fosse a corto di stramberie, il basso motorik di “Plan De Fuga” importa in Spagna un’arrembante ritmica kraut e aggiunge nientedimeno che i Neu! all’infinita rosa di influenze della formazione.
E’ tuttavia la canzone più immediata e ordinaria, almeno in termini compositivi, quella destinata a cambiare definitivamente lo status dei Los Planetas. “Un Buen Dia”, praticamente un brano che potrebbero aver scritto ai tempi dei primi Ep – ovvio, con gli angoli più rumorosi ben limati. E’ la storia di un giorno trascorso tra amici, apparentemente senza pensieri, dove tutto sembra girare per il meglio. Addirittura, ad un certo punto, Mendieta segna un gol incredibile (del resto sarebbe approdato alla Lazio solo un anno dopo). Il buon umore irradiato dal testo e della melodia è però una copertura: gli amici, la spensieratezza, e anche i “cuatro millones de rayas” (strisce di cocaina) censurati dalle radio, non riescono a lenire il dolore per una storia importante volta al suo termine.
Unidad De Desplazamiento si sarebbe fermato alla posizione numero 17 della classifica, ma “Un Buen Dia”, proprio grazie alla sua accessibilità e all’universalità dei sentimenti che racconta, sarebbe diventata un vero e proprio inno generazionale. Passato in radio giorno e notte, avrebbe generato un’esposizione cui mai nessuna band indie spagnola era arrivata.

Quando nel 2002 il quinto Lp dei Planetas, Encuentros Con Entidades, fu rilasciato, i Nostri erano ormai sulla bocca di tutti. Quella degli indie kid, ma anche delle loro sorelline, nonché di qualche mamma. Posizione numero 5.
Per la numero 3 si sarebbero dovuti aspettare solo altri 2 anni e dunque Los Planetas Contra La Ley De La Gravedad.
Sin da titoli e copertine, entrambi proseguono quella che potrebbe essere considerata a tutti gli effetti una trilogia fantascientifica.

Un po’ bolso, a causa anche della durata non proprio light, oltre che manchevole del coraggio mostrato in precedenza, Encuentros Con Entidades non è un disco brutto, ma è certamente meno folgorante di quanto fatto sentire fino a questo punto. Di Unidad de desplazamiento viene qui mantenuto pressappoco tutto l’impianto sonoro e l’alternanza tra ballad fluttuanti e arpioni power pop, il tutto purtroppo con molta meno ispirazione e sussulti.
In cinquanta minuti di musica non poteva però mancare qualche ottimo momento (l’ipnotica “Dulces sueños”, “Mis Problemas CFon La Justicia”) e una micidiale fan favourite che risponde al titolo di “Pesadilla En El Parque De Atracciones”. Un incredibile saetta noise-pop da cantare a memoria nei concerti, dove Jota si mostra ancora una volta grande scrittore di piccoli drammi quotidiani, nondimeno gran conoscitore delle alchimie dei Teenage Fanclub.
Sebbene anch’esso sia decisamente lontano dai fasti creativi della doppietta rilasciata tra ’98 e ’00, Los Planetas Contra La Ley De La Gravedad vede la band recuperare (almeno in parte) la forma perduta e, soprattutto, la voglia di sperimentare e solcare nuove strade.
Il sesto disco dei Los Planetas è idealmente divisibile in due parti. Una prima, che si protrae fino a “Experimentos Con Gaseosa”, sospesa in una leggiadra bolla psichedelica, con le chitarre che mormorano meno abrasive del solito e l’immancabile organo Hammond ad addolcire ulteriormente l’aria. Nessuno dei sei brani che compone questa sezione è particolarmente brillante o memorabile, anzi sono tutti piuttosto simili, ma l’atmosfera è decisamente piacevole e la cura dei dettagli è tale da rapire l’attenzione ogni volta, concentrandola sempre su particolari differenti.
Succede praticamente il contrario nella seconda metà del disco, dove le canzoni appaiono assolutamente slegate tra loro e ognuna di esse presenta novità e piccole sperimentazioni bislacche; come il beat à-la "Kid A" che apre “Cumplimentando Compromisos Contractuales” per poi evolversi in un concerto per vecchi videogiochi, o il pianoforte della nenia indie “Deberes Y Privilegios”. È tuttavia “124” il brano più spiazzante del lotto, con reminiscenze flamenco immerse nello spazio aperto abbozzato da riverberi e wah wah, a far da ponte con la successiva straordinaria fase di carriera degli andalusi.
Los Planetas Contra La Ley De La Gravedad è anche segnato da diverse collaborazioni illustri. Le più pregiate delle quali si concentrano in “Y además es imposible”, dove Irantzu dei La Buena Vida duetta con Jota, mentre Nacho Vegas aggiunge una chitarra al mix.

2007 – 2016: alla riscoperta del flamenco

Con Los Planetas Contra La Ley De La Gravedad per i granadini si chiude definitivamente la fase pop. Seguiranno tre anni di assorta ricerca e scandagliamento di quell’inestimabile patrimonio musicale andaluso chiamato flamenco, che da quel momento in poi avrebbe segnato, in maniera minore o maggiore a seconda dei dischi, l’opera di Jota, Florent, Eric e Miguel. Per la formazione il flamenco sarebbe diventato così importante e cruciale che Jota avrebbe presto dichiarato che il rock spagnolo altro non è che un palo flamenco, ossia un genere ascrivibile all’eredità di quest’ultimo.

Il disco che apre per la fase flamenca dei Los Planetas, nonché quello in cui il genere tradizionale del sud della Spagna gioca il ruolo più ingombrante è il maestoso La Leyenda Del Espacio del 2007. I numerosi riferimenti che l’operazione rivolge al flamenco sono anche extra-musicali. Il titolo è un chiaro rimando e omaggio a “La Leyenda Del Tiempo” di Camarón de la Isla, capolavoro del 1979 fondamentale per l’evoluzione del flamenco in epoca moderna, proprio grazie all’apertura operata dal musicista gitano verso il rock. Oltre a parte del titolo, i due dischi condividono il lavoro del fotografo Mario Pacheco, che per “Leyenda Del Tiempo” realizzò lo scatto di copertina e per La Leyenda Del Espacio tutti quelli promozionali. Peraltro, l’art cover de La Leyenda Del Espacio altro non raffigura che la luce del faretto che su quella di “La Leyenda Del Tiempo” illumina l'imponente figura di Camaròn.
Mentre il de la Isla di “La Leyenda Del Tiempo” innestò nel suo viscerale flamenco germogli di musica popular (in particolare, progressive rock), Jota e i suoi compirono qui una manovra inversa. Ogni canzone del disco prende spunto da un differente palo flamenco (tientos, verdiales, mirabras, fandango etc. etc.), immergendone caratteristiche, tempi e talvolta stralci di testi tradizionali in un abrasivo miscuglio di rock psichedelico. Con il risultato che il suono dei Los Planetas non era mai stato così distorto, ipnotico, violento e ripetitivo. Oltre a costituire un’interessante novità per gli ascoltatori, l’intrigante restyling sonoro è assolutamente funzionale a ricreare le atmosfere quasi tribali delle comunità autonome dell’Andalusia che dettero i natali al genere.
In “El Canto De Bute (Tientos)” la cadenza ripetitiva del tientos, praticamente un tango al ralenti, viene recitata e deformata da un riff granitico sul quale Jota può levare un canto ascetico, quasi sacerdotale, mentre in “Se Estaba Loco Por Ti (Verdiales)” il più danzabile verdiales viene spedito nell’iperspazio da lancinanti chitarre shoegaze. È altrettanto siderale “Ya No Me Asomo A La Reja (Fandangos)”, con un lacerante finale al tremolo. Anche grazie a un’insistente tastiera 60’s, “Deseando Una Cosa (Cantiñas)” porta nel disco un po’ di allegria, concedendo ad esso una scanzonata parentesi di flamenco da strada. Molto più solenni sono i toni mistici di “Negras Las Intenciones (Soleares)”, dove, tra sinistre vibrazioni di ispirazione india, Jota si cimenta in una delle interpretazioni più spirituali della carriera.
Chiude il cerchio delle reinterpretazioni (e il disco) “Tendrá que haber un camino (Cañas)”, nella quale viene chiamato a cantare un ispirato e laconico Enrique Morente (mostro sacro del flamenco, alla cui opera il gruppo dedicherà un side project chiamato Los Evangelistas), che si mostra completamente a suo agio tra chitarre riverberanti ed effetti spaziali, facendo fluttuare il flamenco in completa assenza di gravità.
Sapientemente distribuiti nel corso della scaletta, troviamo anche una serie di brani slegati dal tema del flamenco e più tipicamente à-la Los Planetas, probabilmente chiamati a stemperare i toni riverenti e ridurre il disorientamento dei fan. Tra questi sono particolarmente pregiati il power pop di protesta “Reunión en la cumbre” e “Sol Y Sombra”.

Probabilmente miglior album dei Los Planetas insieme a Una Semana…, La Leyenda Del Espacio è uno dei dischi alternative spagnoli più importanti degli anni Zero. Dal punto di vista commerciale, la performance fu fisiologicamente inferiore a quelle registrate dai due dischi precedenti (raggiunse solo la posizione numero sette), ma stampa e pubblico concordarono nel considerarlo un instant classic.

Nonostante una durata monstre di 59 minuti, Una Opera Egipcia del 2010 raggiunse invece la posizione numero 2, rappresentando dunque il record assoluto di posizionamento in classifica dei Los Planetas. Espressione gitana per indicare opere maestre o sovrannaturali, il titolo sancisce il perdurare della riflessione del gruppo sulle radici della tradizione musicale della propria terra. Le atmosfere sono però più leggere e rassicuranti di quelle del più arcigno predecessore.
Brani come “Soy Un Pobre Granaíno (Colombiana)”, rinfrescato dal guizzare di un flauto, e la saltellante e primaverile “Siete Faroles” sono infatti lontanissimi dai toni scelti tre anni prima. Il dolce duetto con La Bien Querida “No Sé Cómo Te Atreves” presenta toni più liturgici, ma comunque distanti dal cupo magma sonoro de La Leyenda…. Ana Fernández-Villa (vero nome de La Bien Querida, cantante indie-pop della quale Jota è vero e proprio mentore) torna a comparire nella scenetta elettronica lo-fi “La Veleta”.
Un’ora di musica presenta un’inevitabile dose di bassi (“La Pastora Divina”, “Atravesando los montes”), ma anche incursioni in anfratti musicali rimasti finora inesplorati. Accade, ad esempio, in “Los Poetas”, mastodonte space-rock finale di nove minuti, nel quale viene fatta deflagrare una tempesta di fulmini elettronici.

2017 – 2019: da “Zona Temporalmente Autónoma” al ritorno del Granada in Primera Division

I sette anni intercorsi tra Una Opera Egipcia e Zona Temporalmente Autónoma sono lo iato tra due dischi più lungo mai rilevato nella discografia dei Los Planetas. Pausa comunque solo discografica, considerata la grande attività live e produttiva in quel dell’etichetta di proprietà Ejército Rojo.
Dopo un periodo di assenza così lungo, altre band avrebbero operato la facile mossa di un disco allineato al proprio passato più fruttuoso, per giocare facile e confortare i propri fan. I Los Planetas devono aver fatto invece il ragionamento opposto ed essersi promessi che se dovevano tornare, ne sarebbe dovuta valere la pena. Zona Temporalmente Autónoma esclude quasi completamente i gorghi di rumore delle chitarre, mai state così temperate, e fonda la propria profondità atmosferica su ricchi paesaggi tastieristici, ora dreamy, ora orientaleggianti. Chiara da questo punto di vista è l’ultima traccia, “Guitarra Roja”, che a dispetto del suo titolo e al contrario di quanto avviene negli altri lavori dei Los Planetas, che serbano le chitarre più incendiarie per il gran finale, raggiunge il suo climax mediante la giustapposizione di numerosi strati di tastiere cibernetiche.
Non manca anche un bel bozzetto acustico, una “Hay Una Estrella” che svela cosa sarebbero i Nostri in veste cantautorale. Molto interessante è poi la genesi del singolo “Islamabad”, che ruba e rarefà la melodia di “Ready Pa Morir” del trapper andaluso Yung Beef, andando ad allungarsi in un avvolgente, atmosferico post-rock. Senza ombra di dubbio uno degli apici della produzione anni 10 della formazione, che ne ribadisce ancora una volta la capacità e la voracità nel guardarsi intorno.

Attesi al varco il prossimo ottobre con il debutto discografico del side-project Fuerza Nueva, condiviso col geniale cantante e sperimentatore flamenco Niño de Elche, questo giugno Jota e i suoi hanno rilasciato il singolo “Eterna Lucha (Himno Para El Ascenso Del Granada)”, divertente e devoto tributo allo storico ritorno del Granada in Primera Division della Liga.


Uno dei singoli con cui i Fuerza Nueva (che altri non sono che i Los Planetas con l'aggiunta di Nino de Elche alla voce) si sono presentati al pubblico si intitola “Una, glande y libre” (Fuerza Nueva) e ha sulla copertina un enorme pene con due pesetas franchiste come testicoli. Per chi se lo stesse chiedendo, si, Fuerza Nueva è anche l'analogo spagnolo della nostra Forza Nuova, al quale l'ensemble granadino ha rubato il nome per farsene beffe. A differenza degli altri singoli che hanno preceduto il primo Lp della formazione, “Una, glande y libre” non fa parte di Fuerza Nueva, il disco si pone però nel solco retorico e ironico di succitato singolo, andando in vendita proprio il weekend della Fiesta Nacional de Espana (12 ottobre). Opera di Javier Aramburu, la copertina del disco vede la nazione iberica trafitta dalla saetta simbolo della band riempita dalle linee dello storico artwork di “Unknown Pleasure”. È il coronamento di uno sforzo grafico a tema davvero pregevole, portato avanti di release in release, che ha reso tutte le uscite dei Fuerza Nueva vere e proprie chicche per completisti discografici.

 

I Los Planetas dei Fuerza Nueva trovano ovviamente un precedente in “La leyenda del espacio” (capolavoro della band in cui i pali del flamenco incontrano il rock psichedelico), optando però per dilatazioni chitarristiche ancora più estreme e tempi larghissimi, nei quali l'estensione prodigiosa di Nino de Elche può echeggiare monumentale, in alcuni casi solenne (“Los Campanilleros”, solcata da sinistri droni ed elettronica altamente distorsiva).
“Santo Dios” e “La Cruz”, che condividono con “Los Campanilleros” l'ambientazione tra il sacro e il profano, sono meno cupe, con le chitarre che tracciano scie più serene e le tastiere più leggere e concilianti; nella prima Jota si unisce timidamente a Nino offrendo ai gorgheggi di quest'ultimo un appoggio vellutato. “Mariana” è un brano più strettamente flamenco, è comunque immerso in polveri cosmiche, ma i movimenti della voce così come certe scale andaluse di chitarre e tastiere che flirtano con sapori nordafricani non lasciano dubbi sul suo retaggio.
Apice politico del lavoro è “Cancion para los Obreros de Seat” (adattamento de “El himno de 'Els Segadors”, brano tradizionale catalano dedicato a un gruppo di proletari che espropriavano con la forza banche e imprese per aiutare gli operai), con Nino de Elche a dispiegare la sua voce con autorevolezza in un oceano di lentezza che aguzza le chitarre solo nel ritornello. E' una marcia sacra, lenta ma inarrestabile, come quella della folla di Pellizza Da Volpedo.


Ben disposti lungo la scaletta, troviamo anche brani più
catchy, vicini alle canzoni più pop dei Los Planetas. Senz'altro “La Cancion de los Gitanos”, che a dispetto del titolo piazza un riff indie pop liquidissimo, ma soprattutto “El Novio de la Muerte”, sospinta da un riff gagliardo e una ritmica più sostenuta, con Jota che si divide le strofe con Nino e la fa da protagonista per un frangente.


Nei cinque anni che separano questo nuovo Las canciones del agua dal predecessore Zona temporalmente autonoma, Los Planetas non se ne sono stati con le mani in mano. Sia nelle vesti di produttori, con la loro infaticabile etichetta El Ejercito Rojo, che in quelle di musicisti, soprattutto in compagnia di Nino De Elche, con il quale hanno dato vita a Fuerza Nueva, pregevole side-project a base di flamenco e shoegaze.
Ma anche in quanto Los Planetas, Jota e il resto della combriccola granadina proprio fermi non se ne sono stati. Il cammino di questo La canciones del agua, che porta la storica sigla indie-rock andalusa a quota dieci dischi, è cominciato infatti nel 2020. Quando in piena pandemia la band ha iniziato a rilasciare una serie di singoli fortemente legati alla situazione socio-politico-sanitaria e all’attualità spagnola.
Il primo di essi, “La nueva normalidad”, è una malinconica e sarcastica ballad indie-pop che cattura il senso di spaesamento della popolazione, in particolare delle sue fasce più giovani, di fronte a quella che i politici spagnoli dopo la prima, mortifera ondata del Covid denominarono la nuova normalità. Il testo buffamente rivoluzionario ciondola tra malconci ottoni in fanfara e chitarre riverberate ricreando una sensazione di disorientamento.
È ancora più particolare e ossimorica la scelta degli arrangiamenti de “El rey de Espana”, che racconta con sarcasmo delle “gesta” sessuali del vecchio re tra fluttuanti chitarre shoegaze e bucoliche linee di flauto. Ben più pimpante degli altri due singoli, “El negacionista” è un noise-pop di quelli che la band non scriveva da anni, con un simpatico ritornello da mandare a memoria: “Voy a convertirme en un negacionista/En un seguidor de Miguel Bosé/No voy a hacer ningún colaboracionista/De un régimen que tiene que caer”.
I succitati brani, che hanno preceduto l’uscita del disco di uno o due anni, si concentrano tutti nella seconda parte di quest’ultimo, e fanno da contraltare ad una prima sezione meno caciarona e più aulica.
L’apertura del disco è infatti la messa in musica del poema “El manantial” di Federico Garcia Lorca, un brano che associa i messaggi di ricongiungimento tra l’uomo e la natura della poesia a dodici minuti di elegante post-rock pianistico. Per una citazione alta ne troviamo una “bassa”: “Se quiere venir”, ovvero la cover del trapper granadino “Khaled”, un’operazione non dissimile da quella compiuta nel disco precedente con “Islamabad”, che rubava la strofa ad una canzone di un'altra icona trap locale (Yung Beef).
Riprendendo brani della tradizione andalusa, “Alegrías de Graná” e “La morralla” rappresentano invece la consueta quota folk del disco; mentre “El apocalipsis Zombie” e la conclusiva “El antiplanetismo” quella fantascientifica, con l’ultimo brano a ricollegarsi alle poetiche sensazioni del primo come a chiudere un cerchio.
Flamenco, noise-pop, shoegaze, psichedelia, space-rock: in Las canciones del agua ci sono tutti i luoghi musicali che i Los planetas hanno visitato nel corso dei nove dischi precedenti, a costituire un collage forse un po’ frammentario, ma decisamente creativo e all’altezza della preziosa produzione di una delle band spagnole più significative degli ultimi 30 anni.

 

Los Planetas

Discografia

LOS PLANETAS

Super 8(RCA - BMG, 1994)

Pop(RCA - BMG, 1996)
Una Semana En El Motor De Un Autobùs(RCA - BMG, 1998)

Unidad De Desplazamiento(RCA - BMG, 2000)

Encuentros Con Entidades(RCA - BMG, 2002)

Los Planetas Contra La Ley De La Gravedad(RCA - BMG, 2004)

La Leyenda Del Espacio(RCA - BMG, 2007)

Una Opera Egipcia (RCA - BMG, 2010)

Zona Temporalmente Autònoma(El Ejercito Rojo, 2017)


Las canciones del agua (El Ejercito Rojo, 2022)

FUERZA NUEVA

Fuerza Nueva (El Ejercito Rojo, 2019)

Pietra miliare
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