Metz

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I nuovi alfieri del post-hardcore

Il Canada nel secondo millennio si conferma straordinaria fucina di talenti musicali. Da Toronto tre ragazzi riescono ad attualizzare post-hardcore e grunge con potenza e intensità. Se “Metz” e "II" sono stati la scoperta, “Strange Piece” e "Atlas Vending" li confermano fra i protagonisti dell'attuale panorama alt-rock

di Claudio Lancia

Siamo agli inizi degli anni 10 del nuovo millennio, l’ambientazione è presso lo sterminato Canada, per l’esattezza (almeno negli anni di formazione) Ottawa, dove il cantante/chitarrista Alex Edkins e il batterista Hayden Menzies si conoscono grazie ad amici comuni. I due hanno i medesimi gusti musicali, frequentano (praticamente tutte le sere) gli stessi concerti punk-rock e decidono di iniziare a suonare assieme per trascorrere il tempo. Si ispirano ai suoni di derivazione hardcore e grunge, replicando il dettato di Bad Brains, Husker Du, Mission Of Burma, Jesus Lizard, Fugazi, Shellac e di parte della scena di Seattle.
Poi il focus si sposta nella Great Toronto Area, dove Alex e Hayden decidono di trasferirsi dopo circa un anno di prove del neonato progetto Metz. Lì incontrano Chris Slorach, bassista, ed ecco che il gioco è fatto. Pian piano le canzoni prendono forma ed iniziano i primi live act nella zona di residenza. Ma mentre a Ottawa esisteva già una scena post-hardcore rigogliosa, a Toronto poche band suonavano in quel modo, fu quindi facile per il trio ritagliarsi un po' di visibilità. I ragazzi sono molti amici dei connazionali Constantines, all'epoca con un paio di dischi all’attivo per la Sub Pop, e attraverso loro riescono a far giungere alcune proprie registrazioni alla storica label. Incredibile ma vero: il contatto funziona, e in men che non si dica i Metz si ritrovano a incidere il loro primo album direttamente per una delle etichette più prestigiose e significative del globo.

Il 9 ottobre del 2012 esce Metz, l’album di debutto, una miscela incendiaria di post-hardcore, grunge e punk innestati su un inarrestabile tappeto noise/shoegaze che immediatamente guadagna le attenzioni dei principali magazine specializzati. Stupefacente la prossimità con il suono dei Nirvana (ascoltate un po’ “Sad Pricks”...), ma in questi solchi c’è anche molto altro, come i Sonic Youth che emergono nelle pieghe strumentali di “The Mule”. “Wet Blanket” è il singolo trainante, forte di un videoclip che nel giro di pochi giorni diventa cliccatissimo in rete. Tutti i brani sono degni di nota, non ci sono passi falsi, bensì una manciata di tracce che si stampano in testa, nonostante si presentino prive di qualsiasi gancio melodico, a cominciare dalla devastante “Knife In The Water” (spesso proposta a inizio concerto), che fa il paio con la gemella “Headache”, posta strategicamente in apertura.
A colpire è soprattutto la potenza del suono, che si identifica in maniera perfetta con l’immaginario generato dal loghetto Sub Pop, e se su disco a stupire sono in particolar modo le chitarre e la batteria effettata (oltre alla vivace presenza scenica dei tre musicisti), nella dimensione live sarà il basso a sorprendere, emergendo su tutto. Metz si impone come un esordio senza compromessi, violento, a tratti persino selvaggio, potenzialmente valutabile come una sorta di Bleach del nuovo millennio, grazie a veri e propri assalti sonori che prendono il titolo di “Get Off”, “Rats”, “Wasted”, “Negative Space”. Niente è studiato a tavolino, la loro è una naturale predisposizione verso quel tipo di sound, ma è chiaro quanto le band che hanno ascoltato e amato entrino di prepotenza nella scrittura delle canzoni.

Con un disco del genere i Metz si pongono immediatamente all’attenzione mondiale, e ne scaturisce un lungo tour promozionale che li porta ovunque, Italia compresa, dove si esibiscono il 20 febbraio 2013 al Magnolia di Milano, il 21 al Traffic di Roma ed il 22 al Freak Out di Bologna, realizzando live act dissonanti e devastanti. Spesso si presenta l’occasione di dividere il palco con alcuni mostri sacri del circuito underground, molti dei quali sono muse ispiratrici del trio, come i Mudhoney o i Meat Puppets, ma importanti sono anche gli incroci con formazioni molto più recenti, come i Japandroids o i Fucked Up.
Nei ritagli di tempo, i ragazzi compongono nuovo materiale in maniera collettiva: si ritrovano in sala prove, sparano i volumi degli amplificatori al massimo e lavorano successivamente intorno a una selezione di riff, ritmi e melodie. Il tutto nella consapevolezza di quanto stia montando l’attesa per il secondo capitolo della propria discografia.

L'attesa viene soddisfatta a maggio 2015 con la pubblicazione di II, di nuovo su etichetta Sub Pop. Nella copertina ancora una volta vengono rappresentati personaggi a capo chino: dove tre anni prima campeggiava uno scolaretto (annoiato o disperato?) ricurvo sui libri di scuola, ora si scorgono due sagome sedute su una panchina in riva al mare, a raffigurare tutta l’angoscia del mondo, tutto il disagio di una generazione che ha smarrito ogni riferimento. Nel 2015 non ci si può certo avvicinare a dischi come questo con pretesti nostalgici: occorre apprezzare il piglio sicuro e tutt’altro che acerbo di tre ragazzi di Toronto in grado non soltanto di replicare, ma di attualizzare in maniera compiuta un’estetica, traslando suoni ben noti nella contemporaneità. La ricetta resta la medesima del disco d’esordio, una miscela sonora in grado di coniugare punk (c’è tanto dei Pil di John Lydon in questi solchi), post-hardcore e Nirvana (“Eyes Peeled”, giusto per fare un esempio, si dimostra una riuscitissima sintesi del tutto). Sin dall’iniziale “Acetate” convivono furia devastante e rabbioso teen spirit, ma fra le pieghe di queste dieci tracce non c’è un solo momento di pausa.
A tratti il risultato è lievemente più orecchiabile rispetto al passato (i coretti di “The Swimmer”), ma mai troppo accessibile: il substrasto hardcore resta ovunque dominante, senza lasciar spazio a mediazione alcuna. Le canzoni iniziano come arrembaggi sonici, come se ogni volta si stessero per mettere in scena gli ultimi tre minuti della propria vita (una su tutte: “Spit You Out”, che poi si chiude magistralmente con le chitarre lanciate su percorsi inequivocabilmente noise). La pratica si risolve in trenta minuti netti, urticanti e iper-elettrici, una valanga di detriti che ti arriva addosso, con il solo breve intermezzo di “Zzyzx”, spartiacque con la seconda parte dell’album, che non risparmia nessuno e lancia in rapida sequenza le tre sassate “I.O.U.”, “Landfill” e “Nervous System”. “Wait In Line”, la già citata “Eyes Peeled” e “Kicking A Can Of Worms” chiudono i giochi in maniera magistrale, magari ripetendo pedissequamente la medesima formula (l’unico appiglio possibile a beneficio degli immancabili detrettori di turno), ma senza mai tirare la gamba indietro, puntando dritti al bersaglio e facendolo esplodere in mille pezzi.

Ulteriori piacevoli conferme arrivano a settembre del 2017 dal terzo lavoro del trio, Strange Peace, di nuovo su Sub Pop, ma questa volta prodotto da Steve Albini, un’ideale chiusura del cerchio dai molteplici significati, con le prime due tracce in scaletta, le devastanti “Mess Of Wires” e “Drained Lake”, da sole sufficienti a qualificare l’ottima riuscita di un matrimonio che non avrebbe certo potuto avere esiti meno che memorabili. Due dichiarazioni d’intenti che non fanno sconti, le nuove apocalissi soniche poste in terrificante sequenza che confermano il talento di una band ben al di sopra della media, protagonista di undici assalti all’arma bianca capaci di trovare nella voce di Alex Edkins l’espressione in grado di rappresentare tutta la sofferenza del mondo, in maniera ancor più vivida rispetto al passato. Il drammatico svolgimento di “Lost In The Blank City” è il loro nuovo manifesto sullo smarrimento metropolitano, ma l’intero album sublima quella perfetta sintesi di Nirvana e Fugazi che probabilmente lo stesso Cobain avrebbe approvato. E lo fa non soltanto nei brani tirati al massimo (“Mr. Plague”, “Common Trash”), ma anche in quelli nei quali si traccia un’ipotesi di ritornello appena più fruibile (ma sempre immerso in una coltre di pulviscolo sonoro, “Cellophane”), o quando si punta sui minimalismi noise che insistono sull’apatica ripetizione di poche note (“Caterpillar”, “Sink”).
Strange Peace è un disco tellurico che ha il suono di un attacco di panico, è musica resa d’impulso, senza starci troppo a pensare, senza fare calcoli, puntando su alti volumi, e su distorsori con i led fissi sul rosso, una miscela esplosiva che concretizza malesseri interiori e angosce incurabili. La tensione è palpabile, il pericolo incombente, la nevrosi costante, in un processo di autopolverizzazione che tiene l’ascoltatore immobilizzato sull’orlo del precipizio, perennemente aggredito da un senso di minaccia che non molla la presa, ma poi, a ben sentire, tutto risulta clamorosamente armonico (e qui risiede il più grande risultato del team), come una sorta di caos ordinato, proprio lo stesso che emergeva fra le pieghe di "Bleach” e “In Utero”. Verso il finale l’irresistibile doppietta “Escalator Teeth”/”Dig A Hole” sono un concentrato di potenza ed energia, due minuti fulminanti che fungono da viatico per la conclusione affidata a “Raw Materials”, un treno lanciato in corsa contro un muro, con dentro Jesus Lizard e Sonic Youth intenti a suonare l’ultima canzone prima della fine del mondo.

Il 12 luglio del 2019 arriva Automat, a tutti gli effetti considerabile una sorta di "Incesticide" dei Metz. Automat infatti non è un vero e proprio “nuovo” album del trio canadese, bensì una raccolta di materiale risalente al primissimo periodo di vita della band (tutti i singoli pre disco d’esordio e relative b-side), più altre rarità successive. Si parte proprio dalla prima emissione, gennaio 2009, contrassegnata dalla rabbia post-hardcore che trasuda dall’incedere metal di “Soft Whiteout” e dalle chitarre che grattugiano l’aria nell’approccio industrial di “Lump Sums”, resa ancor più cupa da quelle grida indecifrabili che dal sottosuolo penetrano dritte fin dentro le viscere. A quel tempo il primo album era ancora lontano, ma i germi erano già stati tutti disseminati. Il terrorismo sonico di “Ripped On The Fence”, che arriverà in giugno, e la wave rumorista di “Automat” (agosto 2010) che va a parare dalle parti degli A Place To Bury Strangers, sono parti di un puzzle che pezzo dopo pezzo mostra chiare le proprie coordinate, confermate dalle più recenti “Can’t Understand” (2013) ed “Eraser” (2016, nel periodo a cavallo fra “II” e “Strange Peace”). Nel mezzo un paio di brani già editi, ma la versione 7’’ di “Negative Space” e il demo di “Wet Blanket” sono alternative take delle tracce presenti nell’omonimo esordio del 2012.
Una potenza di suono impressionante, senza compromessi, un noise trip di sola andata per l’inferno, che si consuma in dodici tracce ancor più estreme rispetto a quanto già ascoltato nei tre album fin qui pubblicati. Ma il pregio maggiore di Automat risiede nella grande organicità dell’insieme, nonostante si tratti di una compilation di materiale non concepito per convivere sotto lo stesso tetto. Segno che nel tempo la formazione di Toronto ha saputo conservare e preservare le proprie caratteristiche peculiari. La sensazione complessiva è “stupefacente”: le rimanenze di magazzino dei Metz, da sole, avrebbero decretato le fortune di qualsiasi altra band post-hardcore al mondo. Questo per far comprendere l’importanza di un disco che completa l’intero scibile classificabile alla voce “Metz”, ma che non è certo indirizzato in maniera esclusiva ai maniaci completisti di Alex Edkins e soci. Nella versione in vinile di Automat, sono state inserite anche tre bonus track: le cover di Sparklehorse (“Pig”), Urinals (“I’m A Bug”) e Gary Numan (“M.E.”).

Le tre cover a partire dal 20 agosto saranno reperibili in maniera separata, all'interno dell'Ep M. E.: un omaggio, ma al contempo la sfida di cucire la propria estetica su composizioni non proprie. “Pig” degli Sparklehorse di Mark Linkous, (l’originale era contenuta in “Good Morning Spider” del 1998) e “I’m A Bug” dei punk rockers californiani Urinals vengono rese ancor più intransigenti, fagocitate dal caratteristico approccio sonico del trio canadese. La prima era stata pubblicata in uno split a tiratura limitata immesso sul mercato per il Record Store Day 2012 da Sonic Boom, un negozio di dischi di Toronto, la seconda venne diffusa soltanto su YouTube nel 2014.
Ma è con il pezzo conclusivo, l’unico finora inedito, che dà anche il titolo all’intero Ep, “M. E.” di Gary Numan (da “The Pleasure Principle”, 1979), che Alex Edkins e soci di spingono oltre, verso territori meno battuti, dove l’influenza wave emerge con forza, pur se immersa in una coltre di elettricità. Esercizio ben svolto, che nulla aggiunge a quanto sin qui prodotto dai Metz, di gran lunga più interessanti quando impegnati su materiale autografo. Ora che i cassetti sono stati interamente svuotati e resi pubblici, restiamo in attesa delle prossime mosse…

Le mosse successive si concretizzano in piena pandemia: Atlas Vending, il quarto album dei Metz, di nuovo iconicamente edito da Sub Pop, viene pubblicato all'inizio di ottobre 2020. Atlas Vending non sposta granché nel coerente baricentro stilistico della band canadese, ma aggiunge a suo modo qualche sprazzo di novità, che si scorge in particolare nella coda strumentale noise-psych-shoegaze della conclusiva “A Boat To Drown In”, giocata sulla forza dirompente di un semplice riff formato da appena due accordi. Per compensare una traccia così insolitamente lunga, Atlas Vending propone anche brani che trovano la propria forza nel dono della sintesi, come nel caso della brevissima “No Ceiling”, che si consuma nell’arco di poco più di un minuto, e nella spinta propulsiva industrial-punk che caratterizza la violenta “Parasite”.
Oltre a questi, gli episodi migliori si individuano nell’irruenza dai ritmi serratissimi di “Blind Your Industrial Park” e “The Mirror”, e nella definitiva rivelazione dell’amore sconfinato verso i Fugazi, che arde verace in “Hail Taxi”. La brutale potenza del sound firmato Metz viene espressa anche questa volta in un ventaglio di canzoni che puntano dritte al sodo, lasciando intatti la rabbia e il fragore dei dischi precedenti. Ansia, frustrazione, voglia di vomitare malessere e disillusione, amori svuotati, gioventù sprecate, ma soprattutto una sezione ritmica dalla potenza nucleare e meravigliose chitarre dissonanti (“Sugar Pill”), che talvolta risuonano minacciose (“Pulse”), come sirene d'allarme di rifugi antiaerei.

Impossibilitati a promozionare con un tour il nuovo lavoro, a ottobre del 2020 i Metz organizzano uno show (ovviamente a porte chiuse) presso l'Opera House di Toronto, da trasmettere in streaming. La registrazione dell'esibizione si materializza ad agosto del 2021 nel loro primo disco dal vivo, Live At The Opera House. La band propone l’album integralmente, rispettando la medesima sequenza della versione in studio, più due bis, “Negative Space” e “Wet Blanket”, entrambi estratti dall’omonimo esordio del 2012.
Prodotto da Graham Walsh degli Holy Fuck, Live At The Opera House” viene accompagnato da un live-film diretto da Scott Cudmore, e prelude a un lungo tour annunciato per i primi mesi del 2022, per il quale sono state programmate un consistente numero di date da tenersi fra Nord America ed Europa.

Nella primavera del 2022 Alex Edkins debutta discograficamente col proprio progetto solista, Weird Nightmare, diffondendo l'omonimo album, anche questo via Sub Pop. Progettato durante i mesi della pandemia, “Weird Nightmare” affianca qualche canzone che era rimasta nei cassetti di casa Edkins, non in linea con il mood del trio di Toronto per via delle strutture più canoniche, ed esperimenti condotti nella solitudine domestica fra un lockdown e l’altro, qui potenziati dal contributo del batterista Loel Campbell, già con Wintersleep e Holy Fuck. Come antidoto alla depressione, in questo periodo Edkins ha deciso di sostituire il buio con la luce, evitando di ricercare a tutti i costi soluzioni violente e disturbanti, per architettare un ruvido alt-pop nel quale divengono quasi sempre predominanti gli aspetti melodici.
Weird Nightmare non possiede la potenza dei dischi dei Metz, né intende ricercarla, anche se un paio di tracce (“Nits”, “Oh No” con l’ospitata di Chad VanGaalen) si ritrovano a lambire le medesime sponde. “Wrecked”, cantata a due voci con Alicia Bognanno dei compagni di etichetta Bully, ha lo spirito indie che andava forte nelle college radio americane in voga negli anni Novanta, “Lusitania” e “Sunday Driver” potrebbero essere scambiate per due outtake dei Pixies, “Searching For You” è un velocissimo power-punk. E come corollario, sul finale si incontrano un bozzetto acoustic-folk (“Zebra Dance”) e l’avvolgente chiusura affidata a “Holding Out”.

I Metz non cedono mai a lusinghe, non cercano l’anthem, rifuggono le mode e i compromessi, se ne fregano dell’hype, si dimostramo completamente disinteressati al numero di copie che riusciranno a vendere: giunti al quarto disco, confermando sempre livelli di assoluta eccellenza, è impossibile evitare di considerarli fra le migliori hardcore-grunge-punk band di tutti i tempi, senza nulla, ma davvero nulla da invidiare ai classici del circuito Dischord/Touch & Go.
Tutti coloro che da ora in avanti vorranno emulare la medesima attitudine dovranno partire anche da questo entusiasmante trio canadese, in grado di aggiornare nel nuovo millennio lo stato dell’arte di una materia che - grazie (anche) ai Metz – è tornata a essere magmaticamente incandescente ed estremamente attuale.