National

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Sad Songs For Dark Times

I National sono una delle band più atipiche e insieme più significative del decennio che si è appena concluso. Brillanti e mondani, ma al contempo trasandati e crepuscolari, con uno spiccato senso dell'ironia. Partiti da un canonico indie-rock con venature roots per approdare da una parte in territori "di confine" (il revival post-punk, le sfumature dark e noir all'europea, il minimalismo da camera), dall'altra al recupero del pop più nobile. Alla ricerca, di quella "perfect song" dichiarata fin dai loro primi intenti

di Simone Coacci, Claudio Lancia

I National sono una delle band più atipiche e insieme più significative del decennio che si è appena concluso. Semi-professionisti arrivati al successo non proprio giovanissimi e per questo abbastanza maturi e intelligenti da serbare un atteggiamento accorto e defilato nei confronti della popolarità (anche nel caso di quella indie e pseudo-tale). Sempre coccolati dalla critica ma solo recentemente (dopo l'affermazione di Boxer nel 2007) rivelatisi a una platea internazionale. Attenti a non prendersi mai troppo sul serio. Senza inalberare pose da poeti metropolitani. Mantenendo l'hype a una distanza di sicurezza. Midnight Bohemians. Dei romantici provinciali a New York, ché sebbene Cincinnati, loro città natale, abbia più di 300.000 abitanti, al cospetto della Grande Mela un po' tutto il resto del mondo è provincia. Brillanti e mondani ma al contempo trasandati e crepuscolari. Intellettuali della musica con uno spiccato senso dell'understatement e dell'ironia.

Musicalmente il gruppo di Matt Berninger e dei fratelli Dessner e Devendorf (ma anche, e nemmeno poco, di Padma Newsome) dà (in un certo senso) la misura di quella che è stata l'evoluzione del "vecchio" rock alternativo americano (e di quello newyorkese, in particolare) nel nuovo millennio: partiti da un canonico indie-rock con venature roots di stampo urbano, per approdare da una parte in territori "di confine" (il revival post-punk, le sfumature dark e noir all'europea, il minimalismo da camera), dall'altra al recupero di una forma più nostalgica e accorata di canzone pop, nel senso più alto del termine, di una più artigianale estroversione melodica. Entrambe perturbate dal di dentro e sottilmente slittate fuori contesto. Alla ricerca, album dopo album, di quella "perfect song" dichiarata negli intenti in uno dei loro primi pezzi. E arrivandoci maledettamente vicino. Conseguendo negli anni uno status di piccolo ensemble cantautorale paragonabile, con le dovute proporzioni e tenuto conto delle diverse ascendenze, a quello dei Bad Seeds nel decennio precedente.

Caratterizzante in tal senso la figura carismatica di Berninger - cantante che in certe inflessioni può ricordare il Nick Cave più intimista e assorto, per come fa del distacco baritonale e dell'emotività melodica il suo tratto distintivo - autore di testi intelligenti e ricercati, in bilico fra impressionismo lirico, introspezione ironica e chiosa sociale, che lo elevano fra i cantori più originali della precarietà esistenziale post 9/11. Dal 1999 al 2009, dagli ultimi e poco gloriosi giorni della presidenza Clinton alle speranze riaccese dalla profezia di un "Mr November", Barack Obama, col compito improbo di chi deve voltare una delle pagine meno edificanti della storia "nazionale". Una "storia d'appartamento", spiata dalle tendine di una camera da letto, indagata attraverso i piccoli grandi incidenti quotidiani, in quella sfera privata che è l'unica salvezza per chi cerca rifugio dalla pubblica follia del proprio tempo.

American Mary: l'amore al tempo di Ground Zero


NationalNew York è il luogo dove nascondersi, smarrire o scoprire se stessi. Non sono parole mie ma di Truman Capote. E uno che appena maggiorenne abbandona le cime di granturco di Monroeville per quelle dei grattacieli di Manhattan, sa bene di cosa sta parlando. Anche la storia dei National comincia con un trasferimento a New York. Anche se di certo meno traumatico. Dalla contea di Hamilton a quella di Brooklyn. Dal fiume Ohio all'East River. Matt Berninger, i gemelli Aaron (polistrumentista: basso, chitarra, piano, batteria) e Bryce Dessner (chitarrista) e i fratelli Scott (basso e chitarra) e Bryan Devendorf (batteria), tutti sui venticinque e qualcosa, tutti cognomi originari del centro-Europa, sono cinque ragazzi di Cincinnati, che a cavallo del nuovo millennio, si ritrovano, per vie traverse, nella città che non dorme mai. Chi per motivi di studio, come Bryce che frequenta la Yale School Of Music e può già vantare un curriculum ragguardevole (la rock-band Project Nim col fratello Aaron nella seconda metà dei 90, la collaborazione con i Bang On a Can All-Starr, che lo mette in contatto con i grandi nomi della scuola minimalista - da Philip Glass, a Terry Riley, a Steve Reich - la militanza parallela nei Clogs con Padma Newsome, figura chiave per la crescita artistica della band, come vedremo poi), chi per lavoro come Matt, operatore di una qualche compagnia coinvolta nel boom del "dot-com", chi per altro.

I loro destini s'incrociano, saldandosi definitivamente tra la fine del '99 e l'inizio del 2000. Quando cominciano a vedersi tutti i giorni dopo il lavoro e nei week-end per scrivere e provare dei pezzi che poi registrano su un comune quattro piste. All'inizio è poco più che un passatempo tra amici, vecchi compaesani che vogliono restare in contatto per non essere inghiottiti nell'anonimato della metropoli ("una fiera di pazzi" come la definiva vent'anni prima un altro provinciale: Bruce Springsteen del Jersey). Ma l'amicizia virile c'entra fino a un certo punto: i cinque sono anche ottimi musicisti di diversa estrazione le cui qualità sembrano fondersi con disinvoltura in un sound che di giorno in giorno, di prova in prova, comincia a rivelare le sue potenzialità. Si sente, insomma, che c'è qualcosa di speciale in quello che fanno, che è scattata la scintilla, e i Dessner, più esperti, sono i primi ad accorgersene. Tanto da esporsi, anche economicamente, in proprio con la creazione di un'etichetta di famiglia, la Brassland Records (in società con il critico e giornalista Alec Hanley Bemis), nata essenzialmente con lo scopo di pubblicare, in totale serenità e indipendenza, i debutti paralleli di National e Clogs.

La data chiave è il 2001. L'omonimo disco di debutto dei National esce il 30 ottobre. A poco più di un mese dagli attentati alle Torri Gemelle. In piena fobia da carbonchio e antrace. Con l'operazione "Enduring Freedom" e Bill Gates che presenta il nuovo sistema operativo Xp a rassicurare il vacillante patriottismo dell'americano medio. Nella stessa settimana in cui musicisti da tutta l'Unione donano l'intero ricavato dei loro concerti ai familiari delle vittime dell'11 settembre.
The National è l'istantanea che fotografa un gruppo molto promettente, essenziale negli arrangiamenti, abile nella scrittura, con idee già abbastanza chiare anche se ferme a uno stadio iniziale di sviluppo (la produzione, incolore e rigorosamente autarchica, penalizza in parte la piena riuscita del materiale).

L'impianto è scarno e prevalentemente acustico (con voce, chitarre e piano, in evidenza), sospeso fra indie-rock anni 90 e alt-country urbano, modernista, con rimandi piuttosto marcati a gruppi come Wilco e Uncle Tupelo e ai classici del cantautorato rock americano metabolizzati in un'interpretazione personale quanto basta. Rispetto ai dischi che sanciranno la loro ascesa musicale, si avverte però che manca ancora qualcosa: le canzoni sono concise e un po'contratte, modellate sul calco induttivo dei generi, prive di quel respiro orchestrale e di quella carica ritmica (i Devendorf, specialmente Bryan alla batteria: piano, ripetitivo, sfumato) che in seguito diventeranno veri e propri punti di forza del loro sound.

Il quadro compositivo risulta, a uno sguardo d'insieme, tutt'altro che sgradevole: l'opener "Beautiful Head" ha un passo quasi twee emendato in perfetto idioma americano, "Cold Girl Fever" e "Anna Freud", fra le melodie più riuscite del lotto, sono ballate romantiche e metronomiche, in "The Perfect Song" e "John's Star" affiorano, in nuce, asciutte potenzialità elettriche e distorsive (ottimo, come un po' in tutto l'album, il lavoro alle chitarre dei Dessner) accompagnate da (a)tonalità noir alla Tindersticks (specie nel cantato di Berninger), mentre "Watching You Well" e "Bitters & Absolut" presidiano il versante più country oriented. Altrove si guarda al passato, ma con un occhio più sfuggente che nostalgico: il ritmo ossessivo/percussivo post-velvettiano e il tono reediano di "Son", la nashvilliana "American Mary", i Creedence sempre con Lou Reed al microfono di "Pay For Me", l'epica younghiana di "The Theory Of The Crows". Più defilata, quasi fuori fuoco "29 Years" (il cui testo diventerà poi "Slow Show" in Boxer), incisione sporca e in bassa fedeltà che si accoda al filone degli Oldham, dei Molina e dei Joyner.

Un altro punto a favore degli esordienti lo segnano i testi, che rivelano già, fra le righe, il talento descrittivo di Berninger: piccoli schizzi d'intimità, memorie crepuscolari che trascendono la loro naturale cornice domestica per disegnare, attraverso il senso di smarrimento/fallimento sentimentale dei suoi protagonisti, un quadro dolente e ironico dell'America contemporanea che come la protagonista di "Beautiful Head" sembra essere cambiata da un giorno all'altro, diventando vuota e menefreghista, "alzando gli standard" della sicurezza a scapito di quelli della felicità e della libertà; altri temi che poi diverranno ricorrenti: l'innocenza/incoscienza perduta e il rimpianto dell'adolescenza in "The Perfect Song" e "29 Years"; la storia di una ragazza di provincia che rinnega se stessa per conquistare lo scettro del "fake empire" di là a venire, come fa la reginetta di bellezza di "Anna Freud"; l'infanzia segnata da una famiglia allo sfascio in "Son".

Sad Songs For Dirty Lovers


Nonostante il gruppo fosse virtualmente sconosciuto, non avendo di fatto mai suonato dal vivo prima dell'uscita del disco, The National ottiene buoni consensi da parte della critica e un discreto seguito presso il pubblico. Assicurando alla band uno zoccolo duro di appassionati, localizzato principalmente fra l'Ohio e l'area di New York. Nei due anni successivi, pur conservando la loro ragione semi-professionale (l'attività di musicisti rimane, per alcuni di loro, una seconda e saltuaria occupazione), i National lavorano al secondo album, sempre autoprodotto su Brassland, potendo contare su un budget più cospicuo e sull'innesto di due collaboratori che nel tempo diverranno inamovibili, rivelandosi un ideale complemento della formazione originale.

Il primo, come anticipato in precedenza, è Padma Newsome. Australiano, classe 1961, già violinista nell'orchestra sinfonica di Sydney e musicista girovago (a un certo punto molla baracca e burattini e parte per un viaggio alla ricerca di se stesso che dura quasi sei anni e lo condurrà fino a un ashram del New South Wales!), arrangiatore e compositore di stile neo-classico e minimalista volto al recupero della musica tradizionale. È lui, l'uomo dal braccio d'oro, il musicista giusto per portare a compimento le intuizioni armoniche dei Dessner, condurli fuori dalle secche di certi canoni indie e conferire spessore e originalità al sound della band. Il secondo è Peter Katis giovane ingegnere del suono e produttore indipendente (con la sua Tarquin Records) della scena newyorkese che ha già all'attivo la co-produzione del debutto degli Interpol (a cui i National verranno talvolta paragonati specie per Boxer) "Turn On The Bright Lights", uno dei dischi più acclamati del decennio, e il lavoro con gli Oneida in "Each One, Teach One".

È anche grazie al loro contributo, unito a una crescita esponenziale sotto tutti i punti di vista, che il gruppo può fare veramente la differenza su Sad Songs For Dirty Lovers. In questo secondo album - quasi perfetto fin dal titolo: vera e propria epitome della loro poetica musicale - i semi piantati al debutto fioriscono in modo rigoglioso, armonizzandosi in una più complessa e variegata flora sonica. I progressi sono evidenti in primo luogo sul piano della scrittura, decisamente più raffinata, matura e personale, plasmando in maniera circonfusa i limiti della canzone senza perdere l'innata fragranza melodica. Così pure negli arrangiamenti, caratterizzati da una ricchezza strumentale da ensemble pop/rock e da una spiccata propensione atmosferica. Maggiore è anche la varietà di generi e stili accostati: sul basale retroterra alt-country si stagliano via via più nitidamente sfaccettature post-punk, punk'n'roll melodico, slo-core, pop da camera e perfino tracce di puntilismo elettronico. Migliora (e non poco) anche la qualità della produzione: tersa, aderente, brillante, flessuosa. Fulcro cinetico di questa piccola metamorfosi è la sezione ritmica (capitanata dallo straordinario batterista Bryan Devendorf) quasi irriconoscibile rispetto al disco precedente: vigorosa eppure agile, versatile ma puntuale, camaleontica per come sa alternativamente tratteggiare contrasti in sottofondo, sospendersi in modo soffice ed elegante o prodursi in repentini crescendo sincopati.

La forza espressiva acquisita dai "nuovi" National si rivela in tutta la sua efficacia fin dalla doppietta in apertura: "Cardinal Song" - il cotè più tenero, soffuso, malinconico (il testo: una sorta di ironico breviario del perfetto seduttore che, alla resa, sfocia nell'amarezza e nella solitudine), la "sad song" che ricorda più da vicino gli ultimi Red House Painters - la ritmica felpata, il soffice interplay elettro-acustico delle due chitarre (il tone onirico dell'elettrica, le pennate crepitanti dell'acustica) e poi il cambio netto in coda, boudoir per sola voce, acustica e violino; "Slipping Husband" - l'altra faccia: aspramente rurale, escrudescente, post-punk - andatura sferzata, chitarre al galoppo, vimini di fingerpicking, tintinii di vibrafono e cori femminili nel ritornello per descrivere in pochi versi la figura di un padre assente e alcolizzato, l'ingresso traumatico nell'età adulta di un giovane di belle speranze, portata fino all'esasperazione da Berninger su toni quasi screamo ("Dear we better get a drink in you/ before you start to bore us").

In assonanza, con la prima: "90 Mile Waterfront", spartita in due da un lancinante assolo di violino di Newsome; "It Never Happened", base alt-country, melodia morbida e sardonica, una delle più memorabili, poi, verso metà del pezzo, dissolvenza incrociata e cambio di scena: solo chitarra e batteria per una digressione strumentale insistita e screziata che rimanda quasi ai Sonic Youth del decennio precedente; il pop-noir da camera di "Thirsty": batteria leggera e increspata di controtempi, piano che entra sul quarto, ricami di tastiere vintage, violino e un crescendo finale quasi da gospel "fuori orario". In dissonanza, con la seconda: le movenze acide e abrasive di "Murder Me Rachael" veloce, incalzante, percussiva, e il dark-punk di "Avaliable", con le chitarre che duellano e si sovrappongono, la bruma di fuzz, il basso cavo e vitreo, per la disperata allegoria di due amanti mercenari che si consumano a vicenda.

Poi un singolare trittico di contaminazioni che potremmo definire "countroniche": l'agrodolce "Sugar Wife" (ritmica electro e fiati ovattati), "Trophy Wife" (vivace satira anti-borghese sullo stile de "Il Laureato") e, la più riuscita, "Patterns Of Fairytale" col picking educato, i loop onirici e vocalità fra Cohen e i Tindersticks riverberata nel finale dal controcanto femminile. Unica concessione all'epica cantautorale americana più classica: la torch song finale, "Lucky You", riscattata comunque da tocchi raffinati e personali (il break dopo il secondo ritornello).

Albino Alligator


NationalOsannato dagli osservatori più attenti della nuova scuola indie (Pitchfork, ad esempio, lo inserì fra i migliori dischi dell'anno con la votazione di 8.6), Sad Songs consolida la fama di culto dei National negli Usa e dà loro, finalmente, l'opportunità di "giocare coi professionisti" (parafrasando il titolo di una delle canzoni del venturo Boxer): nel 2004 lasciano la Brassland (che continuerà indipendentemente la sua attività producendo altri gruppi affiliati) e firmano con la Beggars Banquet, una delle maggiori realtà della discografia alternativa mondiale.

A sancire questo commiato, nello stesso anno il gruppo rilascia l'Ep intitolato Cherry Tree, ultimo atto con l'etichetta "di famiglia". L'uscita è comunque poco indicativa. Pur non trattandosi di scarti o di bozzetti tirati via, infatti, i pezzi hanno mediamente poco a che vedere con la direzione intrapresa dal gruppo e difficilmente avrebbero potuto adire agli standard del nuovo album. A parte una versione dal vivo "Murder Me Rachael" e una "All The Wine" che tornerà buona in futuro, il brano più interessante è senza alcun dubbio la title track: che parte come un pezzo alla Cohen per picking e voce, cui poco a poco s'aggiungono il piano jazzato e la batteria in sordina, poi il violino tagliente e klezmer di Newsome che intrecciano e s'arroventano fino a scatenarsi in una coda centrifuga e vorticosa. Il resto sono gradevoli pennellate acustiche come "Wasp Nest", o le più cupe "All Dolled-Up In Straps" e "I Don't Mind" (la cosa più vicina a Oldham che il gruppo abbia mai scritto).

Il primo lavoro per la Beggars, invece, esce nel 2005 e s'intitola Alligator. Lungi dal lasciarsi distrarre o intimidire da pressioni esterne in qualche modo legate alla sua nuova situazione contrattuale, la band si mette al lavoro riconfermando in toto la squadra che così bene aveva figurato su Sad Songs (Katis, Newsome, ma anche Nick Lloyd, organista, tastierista e collaboratore fin dagli esordi) e allargando l'informale ensemble ad altri strumentisti.
Sul piano stilistico Alligator è la più che degna prosecuzione del discorso avviato dal suo predecessore: elementi che si richiamano al "nuovo" post-punk degli anni Zero in progressiva e convergenza con l'elegante cantautorato classico e minimalista a cui la band ha sempre aspirato. Mix irresistibile di ritmiche marziali e sincopate, tambureggianti, e di ariose, ma mai stucchevoli, aperture melodiche e cameristiche. Mentre questi aspetti assumono via via una maggiore centralità nel suono di Alligator, si riduce sensibilmente la componente ascrivibile all'alt-rock/alt-country degli anni 90.

In apparenza "leggero", omogeneo, controllato, meno debordante, il terzo full length del quintetto di stanza a Brooklyn è, quanto a songwriting, il più popular e immediato realizzato dalla band fino a quel momento. Come se la varietà e le variazioni del precedente fossero state compresse e cesellate in un formato asciutto e simmetrico. Di grande impatto e singolare efficacia.

Con la sua batteria scandita e contrastata e il lavorio delle chitarre fibrillanti, "Secret Meeting" ci offre, in apertura, un perfetto esempio di questo nuovo baricentro pop-wave cantautorale. Mentre "Karen" - sghembo incedere pianistico, malinconica nuance d'archi, la voce, un lamento basso e sconsolato - contiene uno dei loro incisi più disinvolti e contagiosi di sempre. A suo modo geniale e tremendamente orecchiabile anche "Looking For Astronauts" , una sorta di wave'a'billy semi-acustico. Nevrili lacerti folk-wave che assumono una chiara tonalità coheniana in "Baby We'll Be Fine" e una spudorata licenza onirica e ballabile in "Friend Of Mine", con le sue impercettibili sfumature electro. Mentre sul versante più classicista si segnalano la trenodia di "Val Jester", la ballata crepuscolare e metronomica "Daughters Of Soho Riots", il minuetto da camera di "City Middle" col suo sommesso mormorio corale che cresce nella seconda parte. Un persistente richiamo alle origini traspare, invece, dai pezzi più duri e chitarristici: il rock'n'roll istintivo di "Lit Up", l'hardcore melodico degli Husker Du cantato come farebbe Nick Cave in "Abel", il folk-punk sincopato dell'ottima "Mr November".
 
Nei testi, si rafforza ulteriormente il sottotesto che lega privato e pubblico, lirico e politico, in una serie di allegoriche specularità fra le tormentate vicende sentimentali dei protagonisti e il triste crepuscolo del sogno americano all'alba del secondo mandato di George W. Bush: la tenera e tragicomica storia d'amore fra un uomo di mezz'età e una giovane spogliarellista in "Karen" riflette il senso di sbandamento emotivo di un intera nazione ("Well, whatever you do/ Listen, you better wait for me/ No, I wouldn't go out alone into America"), l'ex-yuppie in disarmo notturno di "Baby We'll Be Fine", gli eroi della nuova frontiera, della conquista dello spazio che non ci sono più ed è inutile cercarli ("Looking For Astronauts"), fino alla caustica "Mr November", in parte ispirata alla sconfitta di John Kerry nel novembre del 2004, esplicita critica all'apatia e alla rassegnazione dell'elettorato, all'incapacità dell'America di preservare, in questo inizio di millennio, i valori libertari e democratici su cui è stata costruita.

Waitin' for Cinderella Man, ovvero, Boxer


Alligator ottiene un duplice risultato: fare centro sia nel cuore della critica (che, salvo poche eccezioni, ribadisce ed estende le belle parole già spese per Sad Songs) che del pubblico (70.000 copie vendute sul mercato indie in tempi di file-sharing et similia sono, per certi versi, un piccolo miracolo). Il gruppo è ormai una realtà di primo piano della musica alternativa. E, grazie al sostegno della Beggars, possono permettersi di affrontare il loro primo vero tour americano da headliner con i Clap Your Hand And Say Yeah (la "big thing" dell'a.d. 2005: fra l'altro una delle prime band divenute famose, prim'ancora di pubblicare un solo singolo, grazie ai pezzi in condivisione su Myspace. Caso emblematico di quanto i meccanismi dell'offerta musicale siano mutati nell'arco dell'ultimo decennio) come spalla. La definitiva consacrazione è dietro l'angolo e arriverà con l'album successivo pubblicato, in ossequio alla solita cadenza biennale, nel 2007.

Boxer è il punto più alto e l'ideale compimento della trilogia inaugurata da Sad Songs. Quasi la summa e il nul plus ultra delle caratteristiche più originali messe in luce nel corso della loro maturazione sonica. I legami fra la componente neo-wave (sempre più venata di dark e meno di punk/indie-rock), quella  ascrivibile al minimalismo classico (sempre più elaborato, stratificato) e il songwriting di scuola folk/country (completamente traslato, filtrato rispetto alle origini) si rinserrano in modo focale fino a diventare complementari e inscindibili nella maggior parte dei pezzi. L'architettura dell'opera rimanda, per molti versi, a quella di Alligator. Ma i suoni e le atmosfere sono sensibilmente più urbane, elettriche, cupe, nervose, oppressive. E la qualità dei pezzi rasenta, mediamente, l' eccellenza. Dai brani più tirati e angolari come "Mistaken For Strangers" (forse la cosa più vicina ai Joy Division che il gruppo abbia mai inciso) e "Apartment Story" (perturbante e melodica in egual misura), al pop sofisticato e orchestrale di "Racing Like Pro", "Ada" e "Gospel", impreziosite dall'apporto soffuso e avvolgente della sezione di fiati (e di Sufjan Stevens al piano); passando per l'ouverture classica e la ritmica tagliente di "Squalor Victoria", il lied post-moderno tutto in levare di "Fake Empire" (uno dei loro brani simbolo), la base alla Cure e il cantato brunito e carezzevole di "Brainy". Con le più cantautorali "Green Gloves", "Start A War" e soprattutto "Slow Show" (glaciale e vetroso sottofondo d'archi sul tipico giro di chitarra di derivazione country) e la darkeggiante "Guest Room" a incorniciare un disco praticamente senza punti deboli.

A livello testuale, Boxer affronta, con più coerenza e spessore che in passato, il tema cardinale della perdita dell'innocenza ("another uninnocent elegant fall/ into the unmagnificent lives of adult"), della fine della giovinezza (i corpi dentro e fuori dai costumi da bagno, dai vestiti, dall'acqua, distesi sull'erba, che portavano i segni dell'erba, che passavano da una stanza all'altra, crescevano negli specchi) e dell'ingresso nel ciclo alienante e vizioso dell'età adulta (la "sala degli ospiti" della canzone omonima) come sintomi di una decadenza politica, morale e civile che sta corrodendo il paese. La mesmerica sazietà del consumismo occidentale ("Fake Empire"), l'amicizia che sbiadisce nel cassetto della memoria ("Green Gloves"), la condanna alla solitudine o quella alla compagnia in un rapporto di coppia che se ne va in malora ("Racing Like A Pro", "Apartment Story", "Ada").

La rivincita di Mr November


Boxer
vende 170mila copie solo negli Stati Uniti. È il classico grande successo indie. Che proietta i National verso una audience più vasta, internazionale. Che gli schiude le porte di Billboard (col numero 68 come picco) e della televisione nazionale (le apparizioni al Letterman Show, il video di "Apartment Story" in rotation nella fascia notturna di Mtv). È un pass per il tour di spalla ai Rem e per i principali Festival americani ed europei (è la prima volta che la band mette piede nel vecchio continente). Ma il gruppo ci va con i piedi di piombo. Non cerca di battere il ferro finché è caldo, d'incanalare il consenso verso una serie d'uscite programmate a tavolino. E quando lo fa è per una giusta causa: come nel luglio del 2008, quando una t-shirt con l'immagine di Barack Obama e le parole sibilline di "Mr November" viene messa in commercio e il ricavato devoluto al fondo elettorale del candidato democratico. Campagna elettorale che sarà scandita dalle note di "Fake Empire", parte integrante della colonna sonora di moltissimi eventi tra cui la Convention Democratica del 28 agosto dello stesso anno. E stavolta, è il 4 novembre 2008, "Mr November won't fuck us over" e ce la fa. E il cerchio si chiude. Nello stesso anno i National pubblicano con la loro vecchia etichetta una raccolta d' inediti, cover e brani registrati dal vivo intitolata The Virginia Ep.
Nel 2009, con il gruppo ormai accasato alla 4D nell'ambito della ristrutturazione del Beggars Group, Aaron e Bryce Dessner curano la ventesima edizione della compilation di beneficenza organizzata dalla Red Hot, "Dark Was The Night".

Divenuti una delle big thing alternative del decennio appena trascorso, i National giungono a un punto focale della loro carriera con High Violet (2010). Il nuovo album rallenta quell'evoluzione nel segno della continuità che aveva caratterizzato la trilogia dei lavori precedenti, cristallizzando il quoziente sonico ottenuto in Boxer e aggiungendovi alcuni additivi che non spostano, comunque, in maniera significativa l'asse musicale perseguito dalla band. Fusione a caldo di post-punk nevrile e sincopato, per quanto ben temperato dalle melodie, e cantautorato che attinge, nei suoni e negli arrangiamenti, al minimalismo da camera caro a gente come Clogs (il gruppo gemello di Bryce Dessner e Padma Newsome). Con quest'ultimo reagente che prende il sopravvento: accompagnamenti (archi, tastiere e fiati) ariosi e stratificati che lasciano in ombra le chitarre, progressioni piene e solenni, linee melodiche più morbide, meno contrastate, dove la voce di Berninger, ossessiva e vellutata, assume un rilievo via via più plastico e (fatto inedito) viene qua e là doppiata da impercettibili rimandi a certa coralità folk-pop di matrice nordamericana.
L'iniziale “Terrible Love” gioca su un suono di chitarra sporco sporco, angolare, percussivo, assale e sovrasta l'armonia acustica e delicata (per chitarra e piano) fino a radicalizzarsi in una sorta di centrifuga distorsiva. Poi, l'equilibrio si sfalda in favore di un approccio più rarefatto, orchestrale con le chitarre in apnea e i controtempi perturbanti in sottofondo: “Sorrow”, la caliginosa, sincopata apatia di “Little Faith”, “Conversation 16”, dove le strie corali, le tastiere e gli archi prendono il sopravvento, la fantasmagoria quasi dark di “Anyone's Ghost”, “Bloodbuzz Ohio” che dall'attacco sembra “Apartment Story” pari pari ma poi cresce più soliloquiante e melò.
Tutto molto curato, anche se manca forse il fattore sorpresa. Tanto che il meglio, stavolta, i National lo riservano quando abbandonano ogni parvenza pop-wave per brani più slo e semi-acustici (con l'eccezione della sfocata e pretenziosa “England”): il folk da camera di “Runaway”, un incrocio di Leonard Cohen e Sufjan Stevens (i pattern di fiati e archi), la superba, ciondolante armonia di “Vanderlyle Crybaby Geeks”.
Un album conservativo, di transizione, che conferma la bontà del songwriting dei National, ma non aggiunge nulla d'imprescindibile a una discografia fin qui senza macchia.

Il successivo Trouble Will Find Me (2013), lungi dal definirsi un passo falso, lascia comunque aperto il dubbio su quanto una band possa cavalcare le proprie soluzioni vincenti prima che queste arrivino a definirsi prevedibili. Esempio lampante è costituito da quelle che nascono come le scelte stilistiche di maggior interesse (synth, drum machine), ma che invece funzionano più come finezze integrative che come indici di volontà di esplorare nuovi orizzonti. Ciò che rimane in primo piano sono costruzioni ritmiche e vocali tanto sintomatiche del gusto dei musicisti quanto veicolanti sensazioni di déjà vu, a cominciare da “Don’t Swallow The Cap”, antipasto messo in rete prima dell’uscita dell’album, da annoverarsi con “Graceless” tra le classiche cavalcate pop-wave in punta di piedi che ormai si potrebbero scrivere nel sonno. E che sia un po’ di stanchezza quella inizia a trapelare dall’operato dei National lo dimostrano anche le take di Matt Berninger, forse mai così dimesso nel suo ventriloquismo e rinunciatario ad aggredire le canzoni là dove invece se ne sentirebbe il bisogno.
A tal proposito va sottolineata l’azione benefica da parte di compagni di merende (Sufjan StevensSt. Vincent, il sempre presente Richard Reed Parry e una Nona Marie Invie in meritata crescita di status),chiamati a rinverdire le trame e non a caso presenti in molti degli episodi più riusciti, come il pop-anthem “I Should Live In Salt”, il finale a briglia perlomeno allentata, à la “Terrible Love”, di “Sea Of Love” o la spettrale chiusa per archi e voci che suggella splendidamente “This Is The Last Time”. L'album, pur senza grandi picchi, sa difendersi con refrain efficaci anche quando si ha la sensazione che manchi il centesimo per fare il dollaro (“I got a trouble inside my skin/ I try to keep my skeletons in” in “Slipped”, difficilmente resistibile).
Ancor più attraente risulta poi il colpo di coda finale in cui, smessi i panni in cui si trovano fin troppo comodi (“I Need My Girl”), i Nostri prima partecipano al party revival della kosmische musik entrando sì dalla porta di servizio, ma con lo smoking giusto (“Humiliation”), poi volgono lo sguardo all’America dei loro padri sciorinando un mid-tempo che coccola il ricordo di Levon Helm per le strade di Brooklyn (“Pink Rabbits”). Spetta a “Hard To Find” il compito di chiudere in una solennità volutamente accennata, sospesa in un etere di chitarre e synth, prima che il passo felpato di Bryan Devendorf non intervenga a portarsi via canzone e album, ma probabilmente non tutti i dubbi. La maturità mostrata dal gruppo è dimostrazione di un controllo eccessivo, certamente sulla base di una raffinatezza superiore, ma che quando si associa a una band di tale levatura sa anche di colpi tenuti in canna. Al momento gli ingranaggi continuano a funzionare, ma cresce sempre di più la speranza che uno degli ultimi astri del pop-rock americano non rischi alla lunga di sedersi, adagiandosi sugli allori della propria grandezza.

Nuovi orizzonti ?

La lungimiranza dei National prevede di mischiare le carte e rivedere quanto meno gli aspetti musicali nel successivo Sleep Well Beast. Pubblicato a settembre 2017, è un disco che parla di rapporti interpersonali sempre in bilico fra disfacimento e flebili sforzi per salvarli, di incomunicabilità, del bisogno di un bicchiere per affogarvi i problemi e trovare la forza di affrontarli. Ma soprattutto è un disco che segna una svolta forte, che dal punto di vista musicale muta il mondo dei National: pur proseguendo nel confortevole solco già ben tracciato in passato, la band esplora nuove vie espressive, concentrandosi su un utilizzo dell’elettronica in grado di conferire tensioni finora inedite. E’ il disco che i National non avevano ancora mai fatto prima, il più sperimentale, una sorta di personale “Kid A” in formato light, l’atto di discontinuità nel quale le derive elettroniche costruiscono un eclettico contenitore diverso dal solito per le parole di Matt Berninger, un nuovo affresco dei nostri tempi che non disdegna di mostrare i muscoli, a partire dalla seconda traccia, “Day I Die”, tanto per confermare che, accanto alle atmosfere melodiche studiate per spezzare il cuore dell’ascoltatore, i National vogliono conservare un animo che sia anche “garage”. I testi di Berninger, pur nell’apparente cripticità, tendono a spiegare la situazione raccontata sin dai primi versi: nella maestosa eleganza di “Guilty Party”, la canzone perfetta, l’instant classic dell’album, il protagonista cerca con non troppa convinzione di porre rimedio a una relazione entrata in una fase di stanca. I punti di vista familiari questa volta sono ancora più spinti, perché parte dei testi sono stati pensati a quattro mani da Matt e la moglie Carin Besser, scrittrice ed ex editor del New Yorker, una coppia non in crisi che ha cercato di immaginare e materializzare in strofe un percorso coniugale in disfacimento. I non sempre facili rapporti marito-moglie vengono esplicitati con quell’approccio fra il malinconico e il rammaricato, inconfondibile cifra stilistica del gruppo, e restano il concreto valore aggiunto di un album che trova nell’equilibrata alternanza fra morbide ballad incentrate sul piano (“Born To Beg”, la struggente love story “Dark Side Of The Gym”) e increspature elettriche (“The System Only Dreams In Total Darkness” è la più riuscita, con quel drumming sempre rigorosamente basato sui tom) la forza per assurgere a nuovo manifesto del gruppo. Fra i brani più lenti a spiccare è “Carin At The Liquor Store”, omaggio simultaneo alla moglie e all’inseparabile bottiglia (chi li ha visti live sa quanto siano vere queste parole). Matt, il vino, la moglie, John Cheever, il piano che disegna scenari notturni, quella voce che toglie il fiato. Non c’è un solo minuto sprecato in questo album.
Nei primi versi della toccante “Empire Line” ritorna il riferimento a personaggi osservati durante il sonno, ma questa volta l’immagine – di una delicatezza disarmante - è quella di un padre che guarda il proprio figlio dormire in macchina durante un lungo viaggio. I figli tornano nella spettrale lullaby finale (la title track) costruita sullo steso tappeto sintetico di “Guilty Party” al quale vengono ad arte tarpate le ali, impedendogli di decollare, lasciandola in uno stato di “semi-incoscienza dark". La bestia del titolo – ha spiegato la band – rappresenta  il futuro, i nostri pargoli che la sera si addormentano lasciando i padri con quella selva di interrogativi ai quali i National qui non danno risposte. Quando emerge il coraggio di affrontare i problemi e il desiderio di risolverli (“Let’s just get high enough to see our problems” canta Matt in “Day I Die”) un senso di reale impotenza echeggia sottopelle (“Nothing I change changes everything” in “Walk It Back”). Le domande di un figlio che diviene padre, di un marito che diviene vittima dell’agognata stabilità, di un cittadino che vede le propria città cambiare ogni dieci anni, trovandola sempre vitale, l’ebbrezza del cambiamento al quale egli stesso non vuole rinunciare, anche se sul calore emanato dalla propria comfort zone (una famiglia, la propria casa) non è facile per nessuno porre la parola fine.
La reinvenzione dei National passa anche attraverso la consapevolezza di essere cresciuti, di essere diventati adulti e genitori (“Became a father when I was still a son” cantano in “Sleep Well Beast”), di voler artisticamente evolvere senza per questo dover mutare del tutto. Ogni disco dei National rappresenta a suo modo lo specchio dei tempi nei quali è stato concepito: se qualche anno fa le loro canzoni esprimevano le paure post 9-11 dell’americano medio, oggi i cinque non possono astrarsi dall’esigenza di materializzare una posizione che, nel bel mezzo del 2017, non può che essere anti-Trump. Difficile, per chi è stato apertamente schierato prima a fianco di Obama e poi a favore di Hilary Clinton, rinunciare al ruolo di crooner fra i più “politici” della propria generazione, ma anche questa volta Matt non lo interpreta seguendo un populismo fine a sé stesso, bensì attraverso segnali da decodificare che agiscono sottotraccia. Sta di fatto che quando si tira in ballo la politica, i National intervengono alzando i volumi, progettando impennate improvvise che si materializzano nella furia elettrica di “Turtleneck”, l’episodio più “hard” del lotto, nel quale Nels Cline diviene l’esempio da emulare quando la temperatura si fa rovente. Ma in questo album i frangenti grintosi non sono pochi, e passano per il crescendo da manuale di “I’ll Still Destroy You” e attraverso le chitarre sopra le righe di “Day I Die” e “The System Only Dreams In Total Darkness”. Altrove i pianoforti imperiosi e le soffuse pennellate d'autore contribuiscono a far sì che molto del materiale possa continuare a suonare familiare, confortevole, rassicurante, carezzevole, il che consentirà loro di non perdere nemmeno uno dei vecchi fan. Siamo pertanto al cospetto di un rinnovamento nel solco della continuità: senza bisogno di ricorrere a produttori di grido, i National architettano dall’interno un suono che si fa ancor più “forte” e contemporaneo, un superbo mix scolpito in dodici tracce che ricorderemo con affetto anche fra molti anni, integrate alla perfezione con i classici di “Alligator”, “Boxer” e “High Violet”. I National sono oramai una band che somiglia soltanto a sé stessa, protagonista di quel romanticismo “maleducato” dove son sempre pronti a chiedere scusa, sottovoce, con fare che da anni appartiene a loro e soltanto a loro. Respiriamo ogni giorno, e scartabelliamo nella rete, nella speranza di scoprire canzoni come queste. E qualche volta ce ne innamoriamo perdutamente.

Essere costantemente “fuori moda”, e non certo adoni da copertina, evitando con accuratezza di scrivere potenziali hit di massa (forse potevano esserlo “Mistaken For Strangers” o “Bloodbuzz Ohio”?) ha consentito ai National di scavallare tutti quegli hype che negli ultimi vent’anni hanno avuto come conseguenza il precoce declino di molte band coeve. Perseverare lungo un percorso dedito a ricerca e perfezionismo ha condotto il quintetto dell’Ohio a definire un nuovo sfidante progetto condiviso con Mike Mills, regista del toccante cortometraggio “I Am Easy To Find”, interpretato da Alicia Vikander (Premio Oscar come Miglior Attrice non Protagonista nel 2016 per “The Danish Girl”), parte essenziale di questo step artistico. Mills è anche co-produttore (e in piccola parte co-autore) dell’ottavo album della formazione americana, oltre un’ora di musica, sedici tracce, alcune delle quali rimaste fuori da tracklist del passato, il progetto più articolato e collaborativo di sempre dei National, per la prima volta disposti a lasciar entrare qualcuno in maniera tanto netta nel processo creativo.

I Am Easy To Find, l'album, esce per 4AD il 17 maggio 2019, arricchito da un parterre di voci femminili coinvolte che, oltre a conferire grazia e a interpretare il punto di vista della donna nei testi, assicurano un’opportuna discontinuità a canzoni che altrimenti avrebbero corso il rischio di risultare monocordi. Gail Ann Dorsey (per anni corista e bassista di David Bowie), Sharon Van Etten, l’irlandese Lisa Hannigan, l’inglese Kate Stables, la francese Mina Tindle (moglie di Bryce Dessner) ed Eve Owen si spartiscono con il baritono di Berninger le strofe di queste inedite adult contemporary ballad, concepite con un gusto a metà strada fra il confessionale e l’avanguardistico, dove a dominare sono soprattutto il pianoforte (la title track, l’egregia conclusiva “Light Years”) e i rigogliosi arrangiamenti per archi (“Quiet Light”). Le chitarre restano un passo indietro, fungendo da strumenti di ricamo e abbellimento, tanto che gli episodi più ritmati si riducono a un paio, mancando quasi del tutto quelle increspature che instillavano energia in tutti i dischi precedenti (”Turtleneck” è già un lontano ricordo), qui presenti giusto nelle percussività dal sapore etnico di “Where Is Her Head” e nella già nota “Rylan”, risalente alle session di “High Violet”, dal quale mutua l’atmosfera generale, una delle tracce che piacerà di più ai sostenitori storici della band. Dal punto di vista strettamente musicale, il rischio è quello di accartocciarsi su sé stessi, in un minimalismo slo-core sempre sul punto di apparire pedante a un ascolto distratto. Le scelte compositive spaziano dall’approccio cameristico (l’inizio di “Hey Rosey”), figlio degli studi classici dei gemelli Dessner, agli slanci decostruttivisti simil Radiohead (la chitarra trattata e spezzettata che apre “You Had Your Soul With You”) già presenti in “Sleep Well Beast”. Ma dove il disco di due anni fa si presentava come apertamente sperimentale, rompendo la monotonia di “Trouble Will Find Me” e osando verso nuovi orizzonti stilistici, “I Am Easy To Find” si assesta su scenari più “classici”, lasciando emergere persino un taglio spirituale, sacro, per i cori (eseguiti dal Brooklyn Youth Chorus) inseriti sul finale di “Oblivions”, all’inizio della strumentale “Dust Swirls In Strange Light” e nei brevi intermezzi “Her Father In The Pool” e “Underwater”.
Con i National, però, qualsiasi discorso non può mai prescindere dai testi: dalle odi alla crisi di coppia (che ritornano in “Quiet Life”) all’inesorabile marcia del tempo che avanza (fulcro tematico del cortometraggio), sino ai memorabili stream of consciousness che contrassegnano “The Pull Of You” (dove si staglia la migliore impennata vocale di Berninger) e “Not In Kansas” (lo zenit dell’album, sullo smarrimento delle proprie radici), Matt e la moglie Carin continuano a scrivere il sussidiario di vita quotidiana dell’America del nuovo millennio. Fra citazioni di R.E.M., Strokes e Patti Smith I Am Easy To Find riesce così nell’intento di consolidare con autorevolezza la fama e lo stile del gruppo, rafforzando un trademark che identifica un’estetica oramai riconoscibilissima. I National non sono certo nuovi alle connessioni con il mondo del cinema, ma questa volta il progetto può dirsi davvero compiuto. La forza delle immagini nel rigoroso bianco e nero di Mills, e il suo punto di vista nella produzione delle canzoni, hanno consentito a disco e cortometraggio di intercettarsi e influenzarsi simbioticamente a vicenda: le canzoni hanno uno svolgimento cinematografico dal fortissimo potere evocativo, la pellicola diviene ancor più malinconica e commovente con un commento sonoro tanto dolce e dolente. Testi, musiche e trasposizione cinematografica raggiungono assieme un risultato complessivo che separatamente non avrebbero potuto avere. Dovendosi invece soffermare alla mera analisi delle sedici tracce che compongono il disco, sono fuori discussione l’eleganza, la classe e la delicatezza di molti passaggi. Tutto risulta confortevolmente familiare, sin troppo, e questo risulta essere l’unico peccato veniale della band: un repentino ritorno al “tradizionale” dopo il coraggioso cambio di prospettiva impresso da “Sleep Well Beast”. Il loro modo per continuare – in qualche modo - a sorprenderci.

Matt solista

A più di vent'anni dagli esordi della band, nel 2020 arriva Serpentine Prisoner, l'esordio solista di Matt Berninger. In realtà una sortita semi-solista (in compagnia del ben meno noto Brent Knopf dei Menomena) si era già verificata cinque anni prima a nome El Vy. Abituati ad immaginare la voce di Berninger e il chamber-rock sofisticato dei National lavorare all'unisono, era difficile figurarsi che questo disco potesse discostarsi, perlomeno in parte, così tanto dal suono della band. In effetti, le prime due tracce vedono il cantautore non allontanarsi troppo dalla sua comfort zone, prima con una breve e delicata riflessione sull'amore per piano e chitarre languide ("My Eyes Are T-Shirt"), poi con un brano prima zoppicante e poi incalzante che sembra uscito da "Trouble Will Find Me" ("Distant Axis"). È dalla successiva "One More Second" che la scelta di Berninger di affidare le sue parole alle cure di un produttore importante come Booker T. Jones, proveniente da quella Memphis così distante dall'idea di musica dei National, prende forma per risultare sin da subito una scelta appropriata. Da una parte c'è l'usuale confessione berningeriana, questa volta recitata col tono implorante di un amante che ha da convincere l'amata della bontà dei suoi propositi (Give me one more year to get back on track/ Give me one more life to win you back), dall'altra il solito inizio sottotono dell'apparato strumentale si arricchisce a poco a poco di sfumature e pienezza; assoli di tastiere vintage, un organo magniloquente a riempire le strofe che si fanno sempre più tumultuose, i dettagli sferraglianti delle chitarre, il pianoforte guizzante. Un trionfo di suoni caldi, quasi inaspettati, che, presentato come singolo, ci aveva fatto rizzare le antenne e alzare le aspettative. Anche l'altro singolo, la title track posta in chiusura, sebbene più trascinata, utilizza le stesse dinamiche e i sintetizzatori tanto cari a Jones.
È ancora più ricca e inattesa la svolta blues-western delle trame musicali di "Loved So Little", che tra il marcato incespicare della chitarra e armoniche sabbiose racconta la sua storia diabolica come il Nick Cave di "The Red Right Hand" - certo con il vestito meno stropicciato e una passione per il demonio meno accentuata.
L'amore che strappa i capelli torna a farla da padrone nella mesta "Take Me Out Of Town", abbellita al suo culmine emotivo dalla brezza disegnata dai fiati, mentre sono archi ricolmi di dolore a marcare i momenti più struggenti di "Collar Of Your Shirt", comunque attraversata dalle ricorrenti quanto deliziose tastiere retrò.
Tra i momenti più à-la National, comunque importanti per l'economia di una scaletta che fa dell'alternanza tra novità e rassicurazione la sua forza, c'è sicuramente il duetto con Gail Ann Dorsey (una "Silver Springs" che sarebbe potuta essere inclusa in "I Am Easy To Find") e la piano ballad con rinforzo orchestrale "All For Nothing". Personalità sfaccettata, romanticismo, voglia di osare, di prendersi sul serio e un minuto dopo dissimulare, uniti a un'attenzione per i dettagli maniacale, che parte dalla musica e arriva al ritratto in copertina (avete fatto caso all'ombra del mocassino?), segnano il trionfo solista di un frontman che dimostra ancora una volta la sua unicità e l'importanza inconfutabile nella gerarchia della sua band.

Gli album gemelli

Ad aprile del 2023 la band al gran completo pubblica il nono disco, First Two Pages Of Frankenstein, undici canzoni che riportano l’attitudine dei National dieci anni indietro, non soltanto azzerando la stimolante novità portata dagli innesti elettronici che animavano l’ottimo “Sleep Well Beast”, ma anche ridimensionando la multidisciplinarietà espressa dal più dispersivo “I Am Easy To Find”, risultando dal punto di vista strettamente musicale una formazione troppo rassicurante, troppo controllata, senza più nulla di avventuroso da presentare, senza essere disposta ad assumersi alcun rischio. Le sperimentazioni restano fuori dalla porta, destinate invece alle opere (soliste e di coppia) prodotte dai gemelli Bryce e Aaron Dessner, capaci di muoversi negli ultimi anni fra ricerca avanguardistica, colonne sonore e blockbuster per la superstar Taylor Swift. Proprio lei ricambia il favore mettendo la propria voce in “The Alcott”, così come Sufjan Stevens pone il sigillo nell’evocativa “Once Upon A Poolside” (applausi) e Phoebe Bridgers in “This Isn’t Helping” e “Your Mind Is Not Your Friend”. Duetti – va detto - poco invasivi, pensati per far sì che ogni canzone resti sempre inequivocabilmente una canzone dei National.
Le tracce che interrompono la monocromaticità del lavoro sono “Tropic Morning News” e “Grease In Your Hair”, unici diversivi per un progetto che si mantiene ancorato su morbidi, malinconici e minimalisti territori chamber pop. Centellinato nell’arco di diversi mesi (alcune tracce erano in scaletta già nel tour dell'estate precedente), First Two Pages Of Frankenstein è il disco con la gestazione più tribolata nell’oramai lungo percorso artistico del quintetto di Cincinnati, un progetto costruito a fatica, dribblando blocchi dello scrittore, depressioni e attaccamento alla bottiglia che hanno caratterizzato la recente esistenza di Matt Berninger. Sarebbero stati sul punto di sciogliersi, ma grazie al libero sfogo assicurato dalle singole carriere soliste i National sono di nuovo qui, sopravvissuti, a raccontarci nuove storie, senza troppi sussulti, con qualche sbadiglio ma anche senza mai sfigurare.

A soli cinque mesi di distanza arriva Laugh Track, annunciato con appena un paio di giorni di preavviso. Le due canzoni diffuse poche settimana prima, “Alphabet City” e “Space Invader”, lasciavano presagire più che altro l’imminenza di una deluxe edition di “Frankenstein”, e invece la bulimia compositiva dei National recapita sulle piattaforme di tutto il mondo un disco gemello, Laugh Track, come le risate preregistrate utilizzate durante i programmi televisivi, disco ancor più esteso del precedente, con materiale quasi interamente concepito durante le medesime session, e una copertina che ne rafforza la specularità. A un primo ascolto, magari non troppo focalizzato, Laugh Track potrebbe essere percepito come l’ennesimo nuovo lavoro dei National di cui nessuno sentiva la necessità. Gli ingredienti sono confortevolmente impastati nella modalità a loro consueta, per dar vita a canzoni che tendono ad apparire come copia carbone di altre composte in passato, ed in effetti brani come “Turn Off The House” o “Tour Manager”, ma anche come la più vivace “Deep End”, sembra di averli già ascoltati decine di volte nei precedenti lavori del quintetto.
Ma guardando meglio dentro queste dodici nuove composizioni, si scorgono non pochi elementi capaci di destare impressione. La nervosa coda strumentale di “Space Invader” (già la conoscevamo, ma immersa dentro “Laugh Track” trova ancor più senso), la smisurata eleganza di “Hornets”, e ancor più, proprio a fine corsa, quasi a voler promettere inediti scenari futuri, gli oltre sette minuti più sorprendenti, racchiusi dentro “Smoke Detector”, uno slancio dall’inequivocabile sapore alt-rock (post-punk ho preferito evitare di scriverlo). Suoni che scuotono, finalmente, suoni uditi molto raramente dentro un pezzo dei National, che modificano in maniera sostanziale il significato dell’intero album. E’ stata l'ultima traccia composta per questo disco, scaturita da un sound check particolarmente proficuo e plasmata on the road durante il recente tour. L’esistenza di “Smoke Detector” ha dato senso all’obiettivo di raccogliere sotto lo stesso tetto quanto era rimasto inutilizzato dalle session di “Frankenstein”, metterlo in bella forma senza smussarlo troppo, unirlo ai duetti con Rosanne Cash (“Crumble”) e Phoebe Bridgers (la title track) e concedendo una nuova opportunità a “Weird Goodbyes” singolo in coppia con Bon Iver diffuso nell’estate del 2022. “Laugh Track” forma con “Frankenstein” un combo efficace, che non inquinerà le scalette del prossimo tour ma le renderà più imponderabili.

Quella messa in musica dai National in venticinque anni di carriera è raffinata poesia, visioni malinconiche graffiate da quei sussulti che lasciano affiorare riferimenti post-punk coltivati in gioventù. Una gioventù affossata dal trascorrere del tempo, da relazioni andate in frantumi, da un forte senso di inadeguatezza, da un sottile male di vivere che sprofonda nell’alcool e nella solitudine di uno scenario metropolitano straniante. Se il nucleo sempre più affollato di detrattori li accusa di apparire monocordi, i cinque musicisti originari dell’Ohio hanno sempre risposto escogitando non poche mosse a sorpresa.
Come quando nel 2007 si imposero all’attenzione internazionale con un album, “Boxer”, e un singolo, “Mistaken For Strangers” che hanno fatto scuola negli anni Zero; come quando nel 2017 con “Sleep Well Beast” dimostrarono di saper contaminare la propria poetica con la contemporaneità dei suoni elettronici; come quando sono esplosi in mille direzioni soliste, spaziando fra colonne sonore, minimalismo da camera e adult songwriting; come quando sono diventati collaboratori super contesi persino dalle star più acclamate, come Taylor Swift, sdoganatasi presso il circuito indie grazie alla doppietta “Folklore” / “Evermore”.

Contributi di Andrea D'Addato ("Trouble Will Find Me") e Michele Corrado ("Serpentine Prisoner")

National

Discografia

THE NATIONAL
The National(Brassland, 2001)

6,5

Sad Songs For Dirty Lovers(Brassland, 2003)

7

Cherry Tree (Ep, Brassland, 2004)

6

Alligator(Beggars Banquet, 2005)

7

Boxer(Beggars Banquet, 2007)

8

The Virginia Ep(Ep, Beggars Banquet, 2008)

5,5

High Violet (4AD, 2010)

8

Trouble Will Find Me (4AD, 2013)

6,5

Sleep Well Beast (4AD, 2017)8
I Am Easy To Find (4AD, 2019)7,5
First Two Pages Of Frankenstein (4AD, 2023)7
Laugh Track (4AD, 2023)7
MATT BERNINGER
Serpentine Prison (Concord, 2020)7
Pietra miliare
Consigliato da OR

National su OndaRock

National sul web

Sito ufficiale
Myspace
Testi
  
 VIDEO
  
Apartment Story(video ufficiale da "Boxer", 2007)
Mistaken For Strangers(video ufficiale da "Boxer", 2007)
Fake Empire(live al "Letterman Show", 2007)
Abel(video ufficiale da "Alligator" 2005)
Lit Up(video ufficiale da "Alligator", 2005)
 Daughters Of Soho Riots (video ufficiale da "Alligator", 2005)      
Available(videoclip da "Sad Songs For Dirty Lovers", 2003) 
Slipping Husband(live da "Sad Songs For Dirty Lovers", 2003)