Pearl Jam

Pearl Jam

La sponda "classic" del grunge

Assieme a Nirvana, Soundgarden, Alice In Chains e Mudhoney sono stati i maggiori esponenti del Seattle Sound. Ripercorriamo la storia di una delle band cardine degli anni 90, e del suo leader Eddie Vedder, da molti considerato il vero rappresentante di una generazione

di Claudio Lancia e Paolo Avico

In quanti nella prima metà degli anni 90 avrebbero ucciso per Eddie Vedder? Tale era il suo ascendente verso i ragazzi della Generazione X, e tanto era adorato dalle masse, che lui stesso ebbe a un certo punto paura di affrontare l’immensa popolarità che divenne fra le principali cause del suicidio di Kurt Cobain, l’altra grande voce del disagio adolescenziale messo in musica dal movimento grunge.
A distanza di molti anni dalla pubblicazione del multimilionario Ten, i Pearl Jam restano fra i pochi protagonisti in pista di quell'epoca, ancora in grado di dare alle stampe dischi credibili e autorevoli. Certo, la rabbia che rese immortali i primi tre lavori della band è svanita, e difficile possa essere altrimenti dopo oltre ottanta milioni di copie vendute, ma i Pearl Jam nel tempo si sono sempre confermarti affidabili e rispettabili.

Le origini: Green River, Mother Love Bone e Temple Of The Dog

La storia parte da lontano, nel 1984, quando il bassista Jeff Ament e il cantante Mark Arm formano i Green River, uno dei gruppi che più hanno influenzato il Seattle sound negli anni 80. A loro si aggiunge, l'anno seguente, il chitarrista Stone Gossard. Giusto il tempo di pubblicare un paio di Ep e di sfornare l'alternative hit "Swallow My Pride" e nel 1987 i Green River si sciolgono, a causa di inconciliabili punti di vista fra la coppia Gossard/Ament (più favorevoli ad ammorbidire il sound per puntare al successo) e la coppia Mark Arm/Steve Turner (più intransigenti), i quali daranno vita di lì a poco ai Mudhoney. Nel 1988 uscirà postumo su etichetta Sub Pop l'unico album dei Green River, Rehab Doll, e soltanto nel 2016 la raccolta di vecchie registrazioni 1984 Demos.
Dalle loro ceneri prendono presto vita i Mother Love Bone, composti da Andy Wood, Stone Gossard, Jeff Ament, Bruce Fairweather e Greg Gilmore. Dopo l'Ep Shine (1989), contenente la cult song "Crown Of Thorns/Chloe Dancer ", il gruppo ha in preparazione l'album d'esordio, Apple, ma il 16 marzo 1990 il cantante Andy Wood muore per un'overdose di eroina. Apple uscirà postumo, nel luglio del 1990; due anni più tardi, dopo il boom dei Pearl Jam sarà ripubblicato assieme all'Ep precedente e a un paio di inediti nella compilation Mother Love Bone. Nonostante il contratto con una major, i componenti della band - distrutti dal tragico evento - decidono di sciogliere il progetto. Nel 1993 uscirà l'home video The Love Bone Earth Affair, con riprese live e interviste a Wood, Gossard e Ament, molte delle quali mai viste prima.

Dopo alcune esperienze musicali poco impegnative, Ament e Gossard, insieme al chitarrista Mike McCready (da poco conosciuto) e a Matt Cameron (il batterista dei Soundgarden), incidono un nastro contenente il materiale che di lì a poco sarebbe diventato la musica dei Pearl Jam. Nel frattempo Dave Krusen rimpiazza Cameron alla batteria e il demo finisce nelle mani di Jack Irons, ex drummer dei Red Hot Chili Peppers, il quale lo consegna a Eddie Vedder, un amico che lavora presso una pompa di benzina a San Diego e ama trascorrere il tempo libero facendo surf e cantando nei Bad Radio, una piccola band locale. Nel giro di pochi giorni Vedder scrive i testi e registra le parti vocali di quei brani (diventeranno "Alive", "Footsteps" e "Once"), in una sorta di mini-opera sulle vicende della propria adolescenza, denominata "Mamasan". 
A seguito della reazione entusiasta di Ament e Gossard, Eddie parte per Seattle, dove, altrettanto celermente, avviene la stesura delle composizioni che andranno a comporre Ten, il primo album del gruppo. Inizialmente la band decide di chiamarsi Mookie Blaylock, omaggio a un famoso giocatore di basket, ma quasi subito il nome si trasforma in Pearl Jam, in riferimento a una particolare marmellata allucinogena che la nonna di Vedder (Pearl, appunto) preparava con il peyote per il marito indiano, secondo i canoni e la tradizione dei popoli precolombiani. Il titolo dell'album - Ten - intende mantenere un legame con il primo nome del gruppo, essendo 10 il numero di maglia con cui giocava Blaylock nei New Jersey Mets.

Nel frattempo, prima dell'esordio vero e proprio dei Pearl Jam, nel 1990 Vedder, Ament, McCready e Gossard prendono parte, su invito di Chris Cornell e Matt Cameron dei Soundgarden al progetto Temple Of The Dog, concepito in memoria dello scomparso Andy Wood, per lunghi mesi compagno di stanza e amico fraterno di Cornell. Inizialmente recepito in maniera tiepida, Temple Of The Dog dopo l’esplosione del Seattle sound diventerà un best-seller, un vero e proprio disco di riferimento dell'intera scena. Il singolo portante, "Hunger Strike", resterà alla storia come la prima traccia cantata da Eddie Vedder con i nuovi compagni, finendo persino in heavy rotation su MTV.
Il gruppo si è riunito nel 2016 in occasione del 25° anniversario, pubblicando una nuova edizione del disco, arricchito da materiale inedito e versioni alternative, e realizzando alcune date dal vivo in territorio americano. C'era la possibilità che il gruppo tornasse a scrivere materiale nuovo, quando Chris Cornell si è tolto la vita, improvvisamente, il 18 maggio 2017, ponendo così nella maniera più tragica possibile la parola fine a quell'esperienza.

L'uragano Ten

Tra il marzo e l'aprile del 1991 vengono effettuate le registrazioni di Ten, il primo disco dei Pearl Jam (Dave Krusen lascerà il gruppo poco tempo dopo, rimpiazzato prima da Matt Chamberlain e poi da Dave Abruzzese). L'album, a differenza della maggior parte di quelli dei "cugini grunge" (che hanno reso celebre l'etichetta indipendente Sub Pop) esce per una major, la Epic (Sony), grazie ai contatti che Ament e Gossard hanno mantenuto con Michael Goldstone (ex Polydor, poi passato alla Sony) dai tempi dei Mother Love Bone. In Ten risultano evidenti le influenze assimilate da musicisti del passato: il drumming pesante, alla maniera di John Bonham, i soli di chitarra di hendrixiana memoria, la voce di Vedder, che suona come una sorta di riedizione anni 90 di quella di Jim Morrison (non a caso Vedder sarà invitato dai superstiti Doors nel 1993 per interpretare, dal vivo, "Roadhose Blues", "Light My Fire" e "Break On Through"). Anche gli Who (uno dei gruppi preferiti di Vedder) e il Neil Young "elettrico" (considerato un autore grunge ante litteram) fanno sentire la loro presenza nel sound. Il giornalista Allan Jones, riferendosi a "Oceans", il brano più delicato e malinconico del disco, trova nella voce di Vedder persino tracce del lirismo di Tim Buckley, immaginando la song come l'ideale proseguimento di "Starsailor".
L'esordio dei Pearl Jam si discosta in maniera massiccia dai lavori degli altri gruppi di Seattle: nulla a che vedere con la furia punk dei Nirvana o con l'heavy sound di Alice In Chains e Soundgarden. Rappresenta piuttosto il lato classic rock del grunge, un movimento che si contraddistingue più per l'origine geografica e il malessere di fondo che non per le caratteristiche formali della musica. Ciò non toglie meriti ad un esordio che, pur non presentando grandi innovazioni o sperimentazioni, sa trasmettere - anche nei momenti più hard - l'atmosfera malinconica e disillusa, a volte quasi depressa, tipica della poetica grunge. Quasi tutti questi brani resteranno dei classici nel repertorio dei Pearl Jam, e continueranno ad essere fortemente presenti nelle esibizioni dal vivo. Sia quelli più aggressivi ("Once", "Even Flow", "Why Go"), sia i più riflessivi ("Black", "Jeremy", "Alive") fisseranno degli standard di riferimento.

A colpire le giovani generazioni è la sincerità dell'opera, che pesca a piene mani nel passato dei membri della band, ma soprattutto in quello del cantante Eddie Vedder, principale autore dei testi. "Alive" è un'epica cavalcata rock, che ruota attorno a un immortale giro di chitarra per poi lanciarsi nel finale in una jam che pare non finire mai, il testo riguarda il passato di Eddie, la traumatica scoperta della morte del padre naturale, del quale la madre per anni gli aveva celato la vera identità. Ma ogni traccia dell'album è lo spaccato, spesso tragico e amaro, delle vite di diversi personaggi. Lo spleen di Vedder, con quel cantato doloroso e la voce tanto cavernosa quanto potente, si fa eco del disagio di una moltitudine di giovani che si rispecchiano nei personaggi descritti in Ten, decretandone da subito un successo straordinario.
"Why Go" racconta di una ragazza rinchiusa in una clinica dai genitori perché scoperta mentre fumava uno spinello, "Once", feroce incipit dell'album, è il flusso di coscienza di un serial killer, "Even Flow" è un trascinante rock che si concede una parentesi psichedelica nella parte centrale, dove Vedder si fa cantore delle dure condizioni di vita di un senzatetto. "Jeremy" è una ballata dolente ispirata a un vero fatto di cronaca: un adolescente americano che, armato di pistola, aveva fatto strage dei suoi compagni di classe, per poi togliersi la vita. "Porch" (che dal vivo si trasforma sempre in una psichedelica jam infinita) e "Deep" (su una ragazza che ha subito violenza sessuale) sono i brani che si staccano dal tipico suono del gruppo: se la prima si avvicina al punk, anche se poi nel ritornello torna a essere melodica ed epica in stile Pearl Jam, la seconda tenta un'incursione in territori proto metal. Non mancano momenti più intimisti: "Black" è "la" ballad per antonomasia, la storia di un amore finito, "sfumato in nero", "Oceans", contraddistinta da fragorose chitarre acustiche e da un ritmo animalesco, ricorda molto gli Zeppelin del terzo album, anche se nella parte finale Vedder si concede un falsetto nello stile di Bono. Molto psichedelica anche "Garden", ricca di riferimenti religiosi, ma distante dalle vette del disco (la seconda parte di "Ten" non si assesta sui medesimi livelli delle prime sei, straordinarie, canzoni), mentre "Release", un lento brano d'atmosfera, quasi mistico, si trasforma in un'epica cavalcata alla U2, concludendo alla grande il disco, rappresentando la struggente preghiera di Vedder al padre scomparso. 

Durante le session di Ten vengono registrati altri brani, tutti interessanti ma non inclusi nell'album. "Yellow Ledbetter", dal testo enigmatico in cui ricorrono immagini di guerra (nel 91 siamo in piena guerra del Golfo), è tra le prove più emozionanti del gruppo, così come "Footsteps", solo chitarra e armonica, in cui il vocalist della band si mette di nuovo a nudo. Il funk di "Dirty Frank" e la lenta "Wash" finiranno nella prima ristampa dell'album, e molte altre ne seguiranno negli anni successivi.
Paradossalmente, Ten è uno degli album di cui il gruppo si mostrerà meno soddisfatto: la produzione di Rick Parashar (non confermato negli album successivi) conferisce a ogni traccia un suono troppo perfetto e brillante, che non rispecchia l'essenzialità violenta che la band dimostrerà invece di possedere. Jeff Ament parlò di "uso smodato dell'eco", di una "patina metal" appiccicata a ogni brano, e più volte sia lui che Vedder esprimeranno il desiderio di voler rimixare l'intero album. Dichiarazioni della band a parte, sarebbe impossibile immaginare Ten in modo diverso, e passerà alla storia come uno dei lavori più amati e importanti dell'intera scena grunge, aprendo le porte del circuito mainstream a decine di altri gruppi. Ten catapulta nel giro di pochi mesi i Pearl Jam nell'olimpo del rock, beneficiando - ma anche partecipando - della contestuale affermazione su scala mondiale della scena grunge (risale allo stesso periodo la pubblicazione del best seller "Nevermind" dei Nirvana).

Il bruciante successo ottenuto porta i Pearl Jam ad essere inseriti fra i protagonisti, nel 1991, della pellicola e della colonna sonora (insieme, tra gli altri, a Soundgarden, Alice In Chains, Mudhoney, Screaming Trees e Smashing Pumpkins), del film "Singles" di Cameron Crowe, perfetto spaccato della Seattle dell'epoca. 
Il soundtrack ripesca due brani dalle prime session dei Mookie Blaylock, riveduti e corretti, mai editi in alcun disco dei Pearl Jam ma rimasti loro grandi classici del primo periodo: le memorabili "State Of Love And Trust" e "Breathe".

Il successo dei singoli “Alive”, “Even Flow” e - soprattutto - “Jeremy”, forte di un video massicciamente trasmesso da MTV, rendono la band molto popolare, tanto da venire invitata a registrare un celebre set acustico per la serie Mtv Unplugged. I Pearl Jam avevano appena portato a termine il primo tour americano. Eddie Vedder era in procinto di diventare una sorta di semidio, e già stava ragionando con Stone Gossard e Jeff Ament su come impostare il disco successivo. Una sera gli rubarono una borsetta con dentro i testi di “Vs”, che dovette quindi riscrivere da capo, ma qui la fotografia scattata è un attimino precedente: immortala per sempre la sera del 16 marzo del 1992, quando a New York registrarono l'esibizione in grado di certificare che i ragazzi ce l’avevano fatta, l’ondata grunge li stava per trasformare in rockstar. Il format dell’esibizione Unplugged non era stato lanciato da molto, giusto un paio d’anni, e la band di Seattle fu fra le prime a sperimentare l’opportunità del set edulcorato, servito in modalità acustica. Ma a differenza di molte altre formazioni, riuscì a farlo con un piglio tutt’altro che dimesso: niente archi, niente ninne nanna, solo cinque ragazzi con i loro strumenti per cantare tutto il disagio post adolescenziale del mondo, racchiuso in canzoni che stavano facendo la storia e sarebbero rimaste immortali, tanto da costituire ancora oggi, a quasi trent’anni di distanza, la spina dorsale dei torrenziali live act del quintetto.
La voce di Vedder scava dentro l’anima, sin dai primi versi di “Oceans”, i suoi occhi spiritati ci lasciano ancora stupiti, tutto pare costruito per diventare iconico, i primi due pezzi con il cappellino, poi coi lunghi capelli sciolti, su “Porch” via la giacca per mostrare la t-shirt verde militare e salire sullo sgabello. C'è l’andatura elettrizzante di “State Of Love And Trust”, l’unico pezzo non contenuto in “Ten” (era sul soundtrack di “Singles”), gli assoli di Mike McCready, il futuro guitar hero del gruppo, il drumming sicuro di Dave Abbruzzese. C’è la struggente “Black”, ci sono i tormentoni “Alive” e “Jeremy”, ma soprattutto ci sono “Even Flow” e “Porch” trasformate in trascinanti jam, come sarebbe sempre accaduto dal vivo. Queste canzoni non furono mai raccolte in un disco ufficiale, anche se – ovviamente – ben presto circolarono sotto forma di bootleg, a sedare la crescente sete di musica dei fan. Nel 2019, a distanza di quasi tre decenni vennero pubblicate per la prima volta su vinile sette delle canzoni registrate quella sera, lasciando fuori la cover di “Rockin’ In The Free World” (che non venne trasmessa neanche in tv) ma includendo l’iniziale “Oceans” (anche lei non trasmessa). Lo show andò in onda il 13 maggio del 1992 e diede nuovo slancio alle vendite di Ten che raggiunse ben presto la seconda posizione nelle chart statunitensi, arrivando a vendere, nel tempo, soltanto in patria, oltre tredici milioni di copie, senza tener conto delle successive release celebrative. La storia era scritta, ed era soltanto l’inizio…

Vs e Vitalogy completano la trilogia iniziale


Nella primavera del 1993 i Pearl Jam tornano in studio per la registrazione del loro secondo lavoro, Vs. Con il nuovo produttore Brendan O'Brian (già con Aerosmith, Stone Temple Pilots, Red Hot Chili Peppers e Black Crows), cambia l'approccio con lo studio di registrazione: i brani vengono suonati live, con il minor numero di take possibili e le sovraincisioni ridotte all'osso. Il risultato è evidente: Vs suona molto più crudo e vigoroso, meno artefatto rispetto al precedente. Nei brani più diretti ("Go", "Animal", "Blood") continuano a sentirsi le influenze dei guru del rock vecchio stampo (oltre a soliti Led Zeppelin ed Hendrix, anche Stooges ed MC5), ma compaiono alcune morbide ballad  ("Daughter", "Ederly Woman Behind The Counter In A Small Town", la conclusiva "Indifference") a smorzare i toni e rendere il disco vario. L'attesa è tanta che Vs vende negli Stati Uniti un milione di copie soltanto nella prima settimana, grazie alle sole prenotazioni: un record destinato a restare a lungo imbattuto.
L’improvviso ed enorme successo crea tensioni all’interno della band, ma soprattutto tra la band e l’”esterno”, che si manifesta in una crescente insofferenza nei confronti dei meccanismi promozionali dell’industria discografica. A partire da Vs. il gruppo decide di non realizzare videoclip, una scelta mantenuta sino al 1998, e ancora più significativa perchè maturata da una fomazione che all'esordio seppe aggiudicarsi ben quattro MTV Video Music Award per il clip di "Jeremy". Contemporaneamente la battaglia condotta contro la società Ticketmaster, colpevole di monopolizzare la gestione e i prezzi dei biglietti dei concerti, porterà i Pearl Jam all'impossibilità di esibirsi dal vivo per diversi mesi.

Nel frattempo la Epic, per tentare di combattere la dilagante diffusione di bootleg illegali non autorizzati (sovente di pessima qualità) pubblica tre Ep live, tutti intitolati Dissident, che raccolgono registrazioni provenienti dagli show del trionfale tour di Vs, in una sorta di greatest hits live contenente gran parte del materiale fino a quel momento edito dalla band.

Il passo successivo è Vitalogy (1994), anticipato dal singolo “Spin The Black Circe”, un garage-punk anfetaminico che si aggiudicherà pochi mesi più tardi il Grammy Award nella categoria "Best Hard Rock Performance". Vitalogy (1994) è il capolavoro assoluto dei Pearl Jam, la logica evoluzione di Vs, essendo identica la formula utilizzata per la sua produzione. Per un verso è il disco più heavy dei Pearl Jam ("Last Exit", "Not For You", "Spin The Black Circe", "Whipping"), per l'altro presenta alcune ballad nello stile di quelle contenute nell'album precedente ("Nothingman", "Better Man", "Immortality"). All'interno di Vitalogy c'è spazio anche per alcuni momenti "sperimentali", come "Pray, To", "Bugs" (in cui Vedder si cimenta con la fisarmonica), ma soprattutto "Hey Foxymophandlemama, That's Me", un brano di otto minuti formato da un delirante collage di voci e rumori, il momento più psichedelico della carriera dei Pearl Jam.
Il suicidio di Kurt Cobain lascia una chiara impronta sul disco, evidente in brani come “Last Exit” e “Immortality”. Tale evento costituisce uno spartiacque non solo per la storia del rock anni 90 ma anche per la storia dei Pearl Jam, che dopo Vitalogy prenderanno sempre più le distanze da ciò che resta del movimento grunge, per ritagliarsi uno spazio autonomo all’interno della scena rock.

Ma gli equilibri all'interno del gruppo si stanno pericolosamente modificando. Il duo Ament-Gossard è sempre meno rilevante in fase di scrittura, mentre va acquisendo importanza crescente il contributo di Vedder, che ora dal vivo imbraccia anche la chitarra ed è (ovviamente) divenuto l'elemento più riconoscibile del quintetto. Con il passare degli anni la sua figura diverrà sempre più centrale, non soltanto in fase compositiva, ma nell'intero processo decisionale, del resto il surfista di San Diego è ora una delle più adorate rockstar del globo.
Durante le session di Vitalogy, il primo disco nel quale le scelte di Eddie diventano determinanti, emergono numerose frizioni interne.
Voci di corridoio narrano che si arrivò a rischiare lo scioglimento del gruppo. A farne le spese sarà il batterista Dave Abbruzzese, estromesso dalla band prima della fine delle registrazioni, tanto che la traccia conclusiva è già suonata dal nuovo batterista, Jack Irons, ex Red Hot Chili Peppers. Abbruzzese paga un atteggiamento ritenuto troppo da rockstar e poco in linea con quello degli altri quattro. Nonostante venga da molti ritenuto il "vero" batterista dei Pearl Jam, non sarà convocato neppure - molti anni più tardi - in occasione dell'ammissione della formazione nella Rock'n'Roll Hall Of Fame, decisione aspramente criticata da parte dei fan.

L'esperimento successivo dei Pearl Jam costituisce per molti versi il canto del cigno del movimento grunge, e non a caso chiuderà "Hype!", il documentario del 1996 sulla scena di Seattle. Si tratta della Self Pollution Radio, una diretta radiofonica officiata dalla band, mai pubblicata ufficialmente ma ampiamente reperibile come bootleg, che vedrà alternarsi per tutta la notte esibizioni di Pearl Jam, Soundgarden e, tra gli altri, Mad Season.
Questi ultimi, un supergruppo formato da Layne Staley degli Alice In Chains, Mike McCready dei Pearl Jam e Barrett Martin degli Screaming Trees, pubblicheranno di lì a poco il notevole Above (1995), disco grunge filtrato attraverso la lente del blues e dalla psichedelia.

Nel 1995 i Pearl Jam registrano insieme a Neil Young, con il quale hanno già suonato dal vivo svariate volte, Mirror Ball. Il disco esce ufficialmente a nome del solo canadese e il quintetto di Seattle viene citato fra i musicisti di accompagnamento all'interno del booklet, senza mai essere espressamente citato con il nome Pearl Jam.
A nome della band uscirà invece l'indispensabile Ep Merkinball, costituito da due brani registrati nelle medesime session: “I Got ID”, un rock ruvido arricchito da un'emozionante cavalcata elettrica finale, e “Long Road”, splendida ballad che già rivolge lo sguardo verso il futuro.

Post Grunge

Il successivo No Code (1996) si distingue per il tentativo di scrollarsi di dosso il sound che li ha caratterizzati fino a quel momento, ma il risultato è a tratti frammentario, privo di amalgama. Un disco riuscito a metà, con strizzate d'occhio al punk ("Lukin", "Habit", "Hail, Hail"), al country rock à la Neil Young ("Smile", "Red Mosquito"), svolgimenti che ricordano Springsteen ("Off He Goes") e una sorta di british glam rock ("Mankind", composta e cantata da Stone Gossard).
Ma No Code contiene anche la strutturata "Present Tense", fra i vertici artistici del gruppo, un concentrato di malinconia, delicatezza, disperazione e poesia. No Code chiude definitivamente la parentesi grunge dei Pearl Jam, e li proietta verso una nuova, inedita dimensione, che li porterà nel tempo ad essere riconosciuti come una delle migliori classic rock band in circolazione.

Yield (1998) segna il ritorno verso un sound più viscerale, con una cura diversa per i suoni, a tratti più "puliti" e radiofonici, vedi i singoli "Wishlist" e "Pilate". Da menzionare l'iniziale "Brain Of J.", "Faithful", "No Way", la rabbiosa "Do The Evolution" e l'epica "in Hiding". "M.F.C." è stata composta durante un soggiorno romano della band. Fa discutere la somiglianza esistente tra il singolo "Given' To Fly" e "Going To California" dei Led Zeppelin
Per molti Yield è l'ultimo album dei Pearl Jam che valga la pena prendere in considerazione: da lì in poi molti fan della prima ora si sentiranno traditi dal progressivo ammorbidimento del gruppo, che in realtà, almeno in una prima fase, cerca semplicemente di non restare imprigionato in un cliché. L'ispirazione al momento resta, mentre la fan base si arricchisce cammin facendo, rimpolpata dalle nuove generazioni.  

Live On Two Legs è il resoconto del tour mondiale del 1998, a partire dal quale Matt Cameron, ex Soundgarden, prende il posto di Jack Irons alla batteria.
Il maggior hit dei Pearl Jam arriva, invece, nel 1999, grazie al singolo “Last Kiss”, una cover pubblicata con lo scopo di raccogliere fondi da devolvere ai rifugiati del Kosovo.

Nel 2000 Binaural rappresenta al meglio i Pearl Jam formato nuovo millennio. Un disco che si mantiene ancora su livelli più che dignitosi, segnalandosi per ìl cambio di produzione, affidata a Tchad Blake, e per il tentativo di rivestire i brani di un suono più avvolgente e caldo. Il collegamento alle radici punk-rock restano assicurate dal formidabile tris d'apertura, composto dalle brucianti "Breakerfall", "God's Dice" ed "Evacuation", tutte sotto i tre minuti. 
Seguono le egregie ballad, “Light Years” e “Nothing As It Seems", che confermano la propensione mainstream della band. Da segnalare anche le ottime prestazioni di "Insignificance" e "Grievance".

Riot Act
, pubblicato nel 2002, si trascina invece in maniera più stanca, vantando la hit “I Am Mine" e atmosfere più tetre, ma perdendo quasi completamente la rabbia del passato, sostituita da un velo di cupa rassegnazione.
Un disco per lunghi tratti deludente, fortemente influenzato dalla difficile contingenza politica (la band dirà la propria nell'esplicita invettiva anti presidenziale "Bu$hleaguer") e dalla tragedia di Roskilde, per la quale "Love Boat Captain" rappresenta un'ode ai fan scomparsi.

Va meglio con la doppia raccolta di rarità e memorabilia Lost Dogs (2005), che ha il merito di recuperare b-sides e chicche fino allora appannaggio dei fan di più stretta osservanza. 

La vera dimensione dei Pearl Jam “anni 2000” diventerà però quella live. Il gruppo trascorrerà gran parte della decade calcando i palchi di tutto il mondo. Ai momenti difficili (la già citata tragedia consumatasi durante il Festival di Roskilde, nel 2000, arriverà a minare l'unione stessa del gruppo) la band saprà reagire concependo show sempre più intensi e lunghi, eventi leggendari che non di rado supereranno le tre ore di durata.
Dal tour di Binaural in poi ogni concerto dei Pearl Jam sarà reso disponibile in formato integrale sia in cd che in formato digitale. Si tratterà di bootleg ufficiali, di ottima qualità che diventeranno ambiti fra i collezionisti.

E' solo Classic Rock? I dischi recenti e il Vedder solista

Nel 2006 esce Pearl Jam, un lavoro sanguigno, energico, vitale, a tratti feroce e abrasivo. La posta in gioco simbolica è il futuro dell’America “post 11 settembre”, la vittoria “dimezzata” in Iraq e le troppe scelte sbagliate fatte dall’amministrazione americana. L’album è suddivisibile in una prima parte fortemente elettrica, e in una seconda più eclettica, nella quale spesso la rabbia si stempera in arrangiamenti e interpretazioni che si muovono in direzioni differenti. Del primo ciclo fa parte il tris d’apertura: “Life Wasted”/“Worldwide Suicide”/“Comatose”, nelle quali l'antagonismo punk viene sorretto da una possente e compatta ritmica. “Severed Hand” e “Marker In The Sand” dimostrano invece la capacità di mutare pelle, con tanto di nastri mandati al contrario e l’ostinato tribale della batteria che non mancano di aprirsi verso ritornelli melodicamente irresistibili. Deliziosa, anche la successiva “Parachutes”, un pop acustico sospeso tra Beatles ed Elliott Smith, morbido e soffuso, con un organo hammond in sottofondo.
La seconda tranche esordisce con il midtempo Rem style “Unemployable” e l'hardcore sfrenato di “Big Wave”, per poi cedere alla ballad “Gone”, con struttura affine alla "vecchia" “Betterman”: partenza solitaria con la chitarra arpeggiata e cavalcata con il gruppo al completo. Dopo i cinquanta secondi di organo a canne di “Wasted Reprise” e l’altro filler “Army Riserve” l’album si congeda con “Come Back”, vibrante di passione soul dedicata a un’ipotetica compagna scomparsa (si muove sui medesimi sentieri di "Black”), e “Inside Job”, lungo e maestoso elettro/acoustic rock punteggiato dal pianoforte, con un epico crescendo che si protrae per sette minuti. L’“avocado album”, come è stato ribattezzato per via della copertina, nella quale il frutto esotico fa bella mostra di sé su sfondo azzurro, ha senz'altro il merito di mantenere accesa la fiamma, proprio quando la band sembrava destinata a una prematura flessione artistica. 

Nel frattempo Eddie Vedder si concede il prevedibile esordio solista, firmando la colonna sonora di Into The Wild, pluripremiato film diretto da Sean Penn, tratto dal bestseller omonimo di Jon Krakauer sulla fatale esperienza in Alaska compiuta da Christopher McCandless. Vedder firma, in solitudine, un concept sulla vicenda di McCandless, composto da undici brani brevi e concisi, adatti alla pellicola quanto a un ascolto fluido e mai stancante.
E' un lavoro rock-folk a tratti epico (“Setting Forth”, “Hard Sun”) spesso riflessivo, incentrato sulla voce baritonale di Vedder e su chitarre fingerpicking (“Long Nights” e “Guaranteed”, fra le migliori composizioni mai dispensate dal cantante). Vengono in mente anche dei Pearl Jam epurati dalle tendenze più distorte e irruente ("Far Behind"), altrove emergono inevitabili riferimenti springsteeniani e younghiana. La cover di “Society” è una collaborazione tra Vedder e l’autore Jerry Hannan.

Il disco successivo dei Pearl Jam, Backspacer esce nel 2009 e denota una certa continuità rispetto all'approccio ruvido e diretto del predecessore. Ma, smaltita la sbornia d'indignazione civile contro l'amministrazione Bush, i toni si fanno meno accesi e vibranti, le gradazioni più soft, l'umore generale più disteso ed edonista. E' rock classico, con escrudescenze punk, anabolizzazioni hard, la solita predisposizione al pathos e qualche episodio cantautorale. L'opener "Gonna See My Friends", con quel familiare riff stentoreo è una botta street-rock triviale e adrenalinica. "Got Some", "Johnny Guitar" e "Supersonic" insistono e sviluppano, con risultati altalenanti, un'ebbrezza rock'n'roll da "American Graffiti". Non va meglio con "The Fixer", spuntatissimo singolo con fregole sintetiche vagamente new wave.
La scrittura si risolleva quando la palla torna tra le mani di Vedder, il quale pennella i due acquerelli acustici "Just Breathe" (più bucolica) e la sofferta "The End", oppure quando McCready si gioca la carta del soft-rock in "Force Of Nature". "Amongst The Waves" e "Unthought Known" sono strade che i nostri hanno già percorso in passato, mentre "Speed Of Sound", un accorato mid-tempo con piano e organo in evidenza e le chitarre in sordina, punta (quasi) tutto sullo charme dolente e carezzevole del cantato. Per gran parte dei fan Backspacer rappresenterà dal punto di vista artistico il punto più basso della parabola dei Pearl Jam.

La seconda uscita solista di Vedder, nel 2011, lo vede alle prese con l'ukulele, strumento verso il quale non ha mai nascosto una particolare passione, e che in questa occasione diviene il motivo conduttore. Ukulele Songs è una raccolta di brani per lo più originali, alcuni pienamente compiuti, altri veri e propri schizzi, alcuni già editi (l'opener "Can't Keep" figurava in una versione full band in "Riot Act", mentre la commovente "Goodbye" era nella colonna sonora di "A Broke Down Melody" nel 2006) e alcune cover, tra cui una sorprendente "Dream A Little Dream" in chiusura.
Caratterizzato da un'accentuata componente roots, "Ukulele Songs" a tratti ristagna, ma può vantare momenti memorabili, fra i quali il singolo "Longing To Belong", ennesima testimonianza delle grandi abilità di scrittura di Vedder. In "Tonight You Belong To Me" a dar man forte interviene Cat Power, in meno di due minuti di irresistibile romanticismo. Vedder punta tutto sull'aspetto intimo e lirico, sacrificando di contro ricchezza e varietà musicale. A metà tra il divertissement e il disco da cantautore "adulto", Ukulele Songs si pone come opera minuta, fragile, introspettiva, permeata da un senso di leggerezza.

Il 15 ottobre 2013 viene pubblicato il decimo album in studio, Lightning Bolt, che non si discosta dalla altre produzioni recenti. Due singoli hanno anticipato l’album nei mesi immediatamente precedenti: “Mind Your Manners”, con la sua piacevolmente spiazzante attitudine simil-hardcore, e “Sirens” con le eleganti delicatezze pronte ad avvolgere l’ascoltatore. Anche “Sleeping With Myself” era già nota, in quanto contenuta (in una versione più "nuda") in Ukulele Songs: un brano al quale Eddie Vedder ha voluto concedere una seconda opportunità, lasciandolo rivestire di un sobrio arrangiamento full band. Per il resto Lightning Bolt è divisibile idealmente in due parti: per metà abbastanza tradizionalmente (e prevedibilmente) Pearl Jam, per l’altra metà rivolto verso nuove strade, vedi gli accenti urban blues di “Let The Records Play” o le intriganti rarefazioni di “Pendulum”, vetta del disco con un testo basato sulle oscillazioni che caratterizzano la natura umana, un brano che testimonia quanto la coppia Ament / Gossard sia in grado ancora di costruire grandi pezzi.
La produzione torna salda nelle mani di Brendan O’Brien colui che ha firmato gran parte dei migliori lavori del combo di Seattle, e anche in questo caso contribuisce a mantenere il disco compatto, in equilibrio fra gli efficaci episodi elettrici (“My Father’s Son”, con il basso di Jeff Ament sugli scudi, la contagiosa “Infallible”), e le impareggiabili dolcezze sulle quali la band va oramai sul sicuro (le conclusive “Yellow Moon”, con tanto di solo del guitar hero Mike McCready e “Future Days”, con il contorno di archi), direttamente figlie del Vedder di “Into The Wild”. C’è qualche compitino ben svolto, vedi “Swallowed Whole”, la title track, e l’iniziale “Getaway”, rafforzata da uno di quei ritornelli che una volta ci facevano sentire al centro del mondo. Lightning Bolt è un album per metà egregio e per l’altra metà semplicemente pregno di quell’onestà che continua a porre i Pearl Jam al di sopra di tutto quel “mordi e fuggi” che caratterizza l'attuale panorama musicale. Le nostre orecchie e la nostra attenzione sono troppo spesso distratte da un eccesso d’offerta musicale che non potrà mai essere assorbita da un’adeguata domanda. In tale caos discografico fermarsi un attimino ad ascoltare questi cinque (ex) ragazzi è il modo migliore di ringraziarli per tutte le emozioni che hanno regalato in passato. Un atto dovuto da tutti coloro che hanno sognato, pianto, trovato le spiegazioni del proprio malessere nella poetica di “Ten”, “Vs” e “Vitalogy”.

Dall'ingresso nella Rock'n'Roll Hall Of Fame ai nostri giorni

Nel 2017 giunge scontato, al primo anno di eleggibilità, l'ingresso nella Rock'n'Roll Hall Of Fame. Intanto si rincorrono voci su un probabile nuovo album, che al momento non vengono confermate dai diretti interessati.
Eddie Vedder ne approfitta in estate per mettere in piedi un fortunato tour europeo solista, che tocca a fine giugno anche l'Italia per il Firenze Rocks, e per due serate (assieme al cantautore irlandese Glen Hansard e a un quartetto d'archi) Taormina, nella suggestiva location del Teatro Antico.

A fine 2017 i Pearl Jam pubblicano Let's Play Two, un film-documentario-concerto che unisce musica e passione per lo sport, affidato alla regia di Danny Clinch, già a fianco della band dieci anni prima per le riprese di "Immagini in cornice". Accanto al film-dvd, viene pubblicato un disco dal vivo, sorta di colonna sonora con 17 tracce tratte dai concerti tenuti nello stadio della squadra di baseball dei Chicago Cubs (della quale Vedder è grande tifoso) il 20 e il 22 agosto del 2016. Lo show diventa anche il modo per celebrare il ritorno alla vittoria dei Cubs, che dopo ben 108 anni sono tornati ad aggiudicarsi le World Series.
Accanto alle scontatissime evergreenBlack”, “Jeremy” ed “Alive”, troviamo la sana scarica adrenalinica di “Last Exit”, la sempre intensa "Release" e l'irrinunciabile “Corduroy”; fra il materiale meno datato brilla “Inside Job”, mentre la recente “Lightning Bolt” soccombe all’infausto confronto con i pezzi storici. A fine selezione compaiono “All The Way”, brano di Vedder solista dedicato proprio agli amati Cubs, uscito come singolo nel 2008, e la cover dei Beatles “I’ve Got A Feeling”. In scaletta anche una delle più riuscite cover mai diffuse dai Pearl Jam, “Crazy Mary” di Victoria Williams, che nel 1993 fece parte di “Sweet Relief”, compilation pubblicata per una raccolta fondi finalizzata a sostenere gli artisti affetti da sclerosi multipla in difficoltà economiche.

A marzo del 2018, mentre la band è impegnata in alcune date in Sud America, viene rilasciato un nuovo singolo, "Can't Deny Me": nascono quindi grandi aspettative su un probabile nuovo album. In estate tornano in tour in Europa, Italia compresa. Ben tre gli spettacoli programmati nella nostra penisola: Milano, Padova, ma soprattutto Roma, dove ritornano dopo un'assenza durata ben ventidue anni.
A inizio tour viene cancellata all'improvviso la seconda data di Londra (poi recuperata in coda) a causa dei problemi di voce di Eddie Vedder, che in pochi giorni recupera pienamente la propria condizione riuscendo a concludere tutti gli show previsti.

Il 29 novembre 2019 viene pubblicato per la prima volta il vinile con la celebre esibizione del 16 marzo 1992 per la serie MTV Unplugged.
A dicembre 2019 viene diffusa sulle piattaforme di streaming una special playlist nella quale la band inserisce dodici dei singoli natalizi che negli anni sono stati riservati ai membri del Ten Club, il fan club ufficiale. L'iniziativa, denominata 12 Days Of Pearl Jam, prevede la messa on line di una traccia al giorno per dodici giorni, nel periodo pre-natalizio. La prima emissione ha riguardato "Let Me Sleeep (It's Christmas Time)", il primo singolo di Natale dei Pearl Jam, pubblicato nel 1991 e già incluso in passato nella raccolta "Lost Dogs".

Per il 2020 sono in programma un nuovo tour europeo (l'appuntamento con l'Italia è fissato a Imola per il 5 luglio) e soprattutto la pubblicazione di un album di inediti, annunciato venerdì 10 gennaio attraverso una sorta di caccia al tesoro globale, con indizi sparsi in alcune delle più importanti città del mondo. L'album si intitola Gigaton e arriva venerdì 27 marzo, nel bel mezzo del disastro pandemico da Covid-19. L'album è anticipato dal singolo "Dance Of The Clairvoyants", costruito su un groove che richiama i Talking Heads per rappresentare il tentativo di scrollarsi di dosso le consuetudini, il desiderio di aggiornarsi, rinnovarsi, affidandosi peraltro a un nuovo produttore, Josh Evans, al posto dello storico Brendan O’Brien. Ne risulta una delle migliori trasposizioni possibili del loro suono agli anni Venti, sventolata con coraggio, per fare in modo che l’etichetta di “dinosauri del rock” finisse appiccicata sul volto di qualcun altro. E' la canzone musicalmente più interessante di Gigaton ma resta un episodio isolato: (quasi) tutto il resto dell’album suona Pearl Jam nella maniera più tradizionale che si possa immaginare.
Niente influssi electro, al bando gli svarioni funk, nessun episodio alieno alle loro consolidate abitudini compositive. Un disco che, come d’abitudine, ripropone una democratica alternanza fra pezzi più tirati, i rockettoni iper classic da stadio, perfetti per tutte le stagioni e per tutte le generazioni, e quelle ballad diventate col tempo sempre meno sofferte e sempre più malinconicamente simili fra loro. Qualche colpo illuminato si intercetta nello spirito avventuroso della bass guided track “Quick Escape” (scritta da Jeff Ament, con un giro di basso che con un briciolo di fantasia potrebbe ricordare l’andatura degli Editors di “Sugar” e della Bjork di “Army Of Me”), oppure nello slancio ritmico dell’altro singolo anticipatore, “Superblood Wolfmoon”, energetica composizione che cela dietro un mood spensierato il ricordo di una persona cara recentemente scomparsa. La prima parte dell’album funziona abbastanza bene, completata da “Seven O’Clock”, pensata per rinnovare la tradizione dei grandi mid-tempo del quintetto, con una coda che riporta in scena il passo epico dei classici, e dalla trascinante opening song “Who Ever Said”, solita prevedibile partenza super sprint. L’unico momento minore della prima mezzora è “Alright”, una noiosa lullaby che manda la band in sofferenza, incapace di trovare la via d’uscita da una comfort zone a tratti insopportabile.

La seconda metà dell’album procede a velocità di crociera, dominata (ma sarebbe il caso di dire “castrata”) dall’eccesso di auto controllo, attraversata da un sentore di monotonia appena interrotto dai ritmi up della sequenza “Never Destination” / “Take The Long Way”: la prima è quasi un r&b impazzito (ma sono fiati quelli che si scorgono sullo sfondo?), l’altra è il contributo dai tratti heavy di Matt Cameron. Il resto della tracklist scorre fino al termine senza colpo ferire. A tratti si ha quasi l’impressione di avere fra le mani una manciata di outtake ripescati dal fondo di un cassetto. E dopo lo sbiadito esperimento firmato da Stone Gossard, “Buckle Up”, sorta di funerea christmas song che fallisce il bersaglio ripiegandosi su sé stessa, Gigaton – letteralmente – si spegne, con le tre tracce finali scritte a immagine e somiglianza del Vedder solista, quasi un “disco nel disco”: del resto è il medesimo schema già presentato nel tritico che chiudeva “Lightning Bolt”. Arrivano infatti prima una ballad dalle inflessioni country per sole voce e chitarra, “Comes Then Goes” (il mesto omaggio a Chris Cornell?), che procede stancamente, senza sussulti, per oltre sei minuti di assoluto immobilismo, e le ultime due composizioni, “Retrograde” e “River Cross”, che indugiano sulle rassicuranti atmosfere che già furono di “Into The Wild”. Un finale in calo, che non rende giustizia a quelle che erano apparse oneste e accettabili premesse. Un album zeppo di déjà-vu, con poche novità soffocate nei cliché di strade già battute, e molto meglio, parecchi anni fa. Chissà se a guidare le scelte abbia influito il timore di deludere la larga schiera dei fan di lungo corso.
Mike McCready ogni tanto esegue uno dei suoi numeri da circo, talvolta scimmiottando le peripezie di altri guitar hero (ora Eddie Van Halen, ora Stevie Ray Vaughan), rischiando così di far mettere in discussione dai detrattori la propria personalità, persino Cameron pare imbrigliato in esecuzioni troppo “telefonate”. Poi, certo, nessuno potrà applicare a Gigaton il bollino di “disco brutto”, i Pearl Jam non saranno mai in grado di farne uno, sapranno sempre garantire un livello minimo sindacale di qualità, e in caso di disastro ci sarà sempre la voce di Vedder a mantenere la nave a galla. Ma pare inevitabile considerare Gigaton, a pari merito con “Backspacer”, come il loro lavoro meno riuscito. Per fortuna l’evidente costante calo di ispirazione non inficia la consueta attenzione ai testi, con la band in prima linea nella Resistenza anti-Trumpiana (gli Stati Uniti stanno entrando nella campagna elettorale che condurrà alle Presidenziali), e nella promozione di una forte coscienza ambientalista, sottolineata anche dal concept grafico dell’album. Alcuni versi potrebbero persino essere letti come inconsapevoli profezie riguardanti la complicata situazione contingente. Colpisce in particolare il “We’re stuck in our boxes / When it’s open no more” oppure il grido “I’m Positive, Positive, Positive” che emergono fra le righe di “Dance Of The Clairvoyants”. Vedder e compagnia si ritrovano così ad aver partorito uno dei loro gadget più modesti per giustificare un nuovo tour che non potrà (per il momento) partire: non esattamente il risultato che avrebbero sperato. Ma poco male: i loro fan più affezionati resteranno impassibili ad attenderli, pronti a sborsare fior di quattrini per la prossima deluxe edition, l’ennesima sequenza di bootleg ufficiali, gadget di ogni tipo, e un biglietto area pit per il prossimo concerto. Sperando di aggiudicarsi la rincorsa verso un posto in transenna, per provare a portarsi a casa un plettro di Mike o il tamburello di Eddie. E magari incrociare i propri occhi con i suoi, e sentirsi per qualche istante al centro del mondo. In una di quelle notti d’inizio estate da ricordare per l’eternità.

Se la pandemia da Covid-19 costringe la band a posporre il tour europeo al 2021, le vendite di Gigaton non vanno poi troppo male: nonostante le recensioni non sempre positive, il disco va al numero 5 negli Stati Uniti (dove nella versione in vinile vende ben 14000 copie nella sola prima settimana) e al numero 6 nel Regno Unito, raggiungendo addirittura la prima piazza nella classifica italiana.
Prima della fine dell'anno una nuova traccia scritta dal batterista Matt Cameron, “Get It Back”, viene inclusa nella compilation benefica Good Music To Avert The Collapse Of American Democrazy, in favore del voto alle elezioni presidenziali americane, che saranno vinte poche settimane più tardi dal candidato democratico Joe Biden contro il Presidente uscente, il repubblicano Donald Trump, osteggiato dalla band.

Eddie Vedder nel periodo di isolazionismo casalingo registra alcune canzoni e il giorno di Natale del 2020 diffonde a sorpresa un Christmas gift, l'Ep Matter Of Time, estensione del singolo “Matter Of Time” / “Say Hi”, diffuso a novembre in occasione del Venture Into Cure, un evento in streaming a favore della ricerca contro l’epidermosi bollosa, una malattia genetica ereditaria che provoca una forte fragilità a cute e mucose. I proventi derivanti dalla vendita del singolo sono stati destinati alla EB Research, organizzazione che vede fra i principali co-fondatori proprio Eddie Vedder e la moglie Jill.
“Matter Of Time” è una toccante ballad suonata al pianoforte, una piacevole eccezione nella lunga carriera di Eddie, mentre in “Say Hi” il cantante si accompagna soltanto con la chitarra acustica: si tratta di una sorta di filastrocca scritta per Eli Meyer, un bambino di sei anni afflitto dalla rara e invalidante sindrome. La scaletta di questo Ep è stata arricchita da tre tracce del repertorio dei Pearl Jam, registrate unplugged in casalingo: “Future Days”, originariamente contenuta in “Lightning Bolt”, è stata eseguita in occasione dell’edizione 2020 dei Game Awards, “Just Breathe” e l’evergreenPorch” sono invece riprese da una session tenuta in ottobre per un evento Amazon. L’unica vera novità risiede quindi nell’esecuzione live, sempre in versione “acoustic at home”, della cover di Bruce Springsteen “Growin’ Up”.

Durante il 2020, dopo la pubblicazione di “Gigaton”, Vedder aveva già diffuso lo strumentale “Cartography”, molto vicino alle atmosfere di “Into The Wild”, scritto per la colonna sonora del documentario “Return To Mount Kennedy”.
Si segnalano anche una canzone pubblicata da Stone Gossard, "Near", e un nuovo progetto varato da Jeff Ament in coppia con John Wicks, denominato Deaf Charlie.

Nel 2021 secondo rinvio del tour europeo estivo dei Pearl Jam, a causa delle non ancora risolte problematiche legate alla pandemia. Eddie Vedder ne approfitta per perfezionare la colonna sonora del nuovo lungometraggio dell'amico Sean Penn, Flag Day, presentato in anterpima al Festival dei Cannes. Il soundtrack viene pubblicato a fine agosto e contiene inediti scritti ed eseguiti, oltre che da Vedder, anche da Glen Hansard, Cat Power, e - per la prima volta su disco - dalla figlia di Eddie, Olivia.

A Febbraio 2022 arriva un nuovo capitolo di Vedder solista, Earthling, anticipato nelle settimane precedenti dai singoli "Long Way", "The Haves" e "Brother The Cloud". Earthling è stato suonato e scritto con una line up base che comprende Chad Smith alla batteria, Andrew Watt al basso (responsabile anche della produzione) e Josh Klinghoffer alle chitarre, colui che da qualche mese suona dal vivo con i Pearl Jam come chitarrista aggiunto.
Fra gli ospiti figurano Elton John in “Picture”, sin troppo facile da prevedere come il vero pomo della discordia dell’intero lavoro, Stevie Wonder all'armonica nella sfrenata "Try", e Ringo Starr alla batteria in "Mrs. Mills", traccia che richiama i Beatles di "Sgt. Pepper’s”. Tutto suona estremamente familiare, ma sono i dettagli, le sfumature, a rendere Earthling diverso da qualsiasi altro capitolo abbia mai visto Vedder protagonista.

In occasione del Record Store Day 2023, per celebrare i 25 anni di "Yield", i Pearl Jam immettono sul mercato il live Give Way, registrazione di un concerto tenuto il 5 marzo 1998 a Melbourne, Australia. La registrazione, trasmessa da un’emittente radiofonica locale, venne all'epoca pubblicata in sole 50.000 copie e allegata alla videocassetta “Single Video Theory”. Ma la band, che non aveva approvato l’operazione, fece ritirare dal mercato e distruggere tutte le copie, tranne alcune oramai in circolazione, le quali raggiunsero negli anni successivi discrete quotazioni.
Give Way è il primo album dal vivo mai pubblicato dai Pearl Jam con Jack Irons alla batteria, il quale avrebbe abbandonato i Pearl Jam soltanto un paio di settimane più tardi per problemi di salute, sostituito da Matt Cameron. Give Way, che contiene 17 delle 25 canzoni eseguite quella sera, rappresenta un documento interessante, che coglie la band in un momento complicato, di trapasso, incastrata fra album onestissimi ma non più memorabili, e l’impeto post adolescenziale che inizia a lasciar sempre più spazio al mestiere e a lavori che si presenteranno sempre meno brillanti. 

Tra tragiche morti (Andy Wood, Kurt Cobain, Layne Staley, Chris Cornell) e scioglimenti inevitabili, i Pearl Jam sono rimasti, insieme ai Mudhoney, gli unici testimoni del movimento grunge, nato, cresciuto - o meglio bruciato - e spirato a Seattle tra gli anni 80 e 90.
Il fisiologico calo dell'ispirazione ha prodotto lavori che palesano uno standard immobilistico, di maniera, conservatore, perfetto per rassicurare i fan storici e immettere nuovo carburante per incendiare il motore inesausto delle loro tournée mondiali, dimensione nella quale il gruppo riesce ancora a dare il meglio di se, giustificando nel tempo la propria costanza e linearità.



Contributi di Ariel Bertoldo ("Pearl Jam"), Claudio Cataldi ("Ukulele Songs")

Pearl Jam

Discografia

PEARL JAM:
Ten (Epic, 1991)

Vs (Epic, 1993)

Dissident Ep (live, Epic, 1994)

Vitalogy (Epic, 1994)

Mirror Ball (with Neil Young, Reprise, 1995)

Merkinball Ep (Epic, 1995)
No Code (Epic, 1996)

Yield (Epic, 1998)

Live On Two Legs (live, Epic, 1998)

Binaural (Epic, 2000)

Riot Act (J Records, 2002)

Lost Dogs (rarities, Epic, 2003)
Rearviewmirror (best of, Epic, 2004)
Pearl Jam (J Records, 2006)

Backspacer (Universal, 2009)
Lightning Bolt (Monkeywrench/Universal, 2013)
Let's Play Two (live, Universal, 2017)
MTV Unplugged (live, Legacy, 2019)
Gigaton (Monkeywrench/Republic, 2020)
Give Way (live, Epic, 2023)
Dark Matter (Monkeywrench/Republic, 2024)
EDDIE VEDDER:
Into The Wild (soundtrack, J Records, 2007)
Ukulele Songs (Universal, 2011)
Matter Of Time (Ep, Monkeywrench/Republic, 2020)
Flag Day (soundtrack, Seattle Surf/Republic, 2021)
Earthling (Seattle Surf/Republic, 2022)
GREEN RIVER:
Come On Down (Ep, Homestead, 1985)
Dry As A Bone (Ep, Sub Pop, 1987)
Rehab Doll (Sub Pop, 1988)
MOTHER LOVE BONE:
Shine (Ep, Mercury, 1989)
Apple (Mercury, 1990)
Mother Love Bone (compilation, Mercury, 1992)
TEMPLE OF THE DOG:
Temple Of The Dog (A&M, 1991)
Pietra miliare
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