Slipknot

Slipknot

Nu-metal in maschera

Capitanati dal versatile frontman Corey Taylor e trascinati dal travolgente batterista Joey Jordison, tra alti e bassi, gli Slipknot dall'Iowa si sono conquistati la fama di gruppo più violento del nu-metal e sono finiti al centro di mille polemiche e controversie

di Matthias Stepancich, Alessandro Mattedi

C’è chi li ama incondizionatamente, chi invece li odia a priori: gli Slipknot dall’Iowa, nell’ambito di tutto il cosiddetto nu-metal, sono stati e sono tuttora una delle formazioni più discusse e controverse – ma anche di successo. Sono rappresentativi dell’ala più estrema del movimento e spesso hanno flirtato con i suoni di groove, thrash e death-metal. Nonostante queste influenze, il pubblico del metal estremo più purista ha spesso rigettato il gruppo, non sempre con critiche coerenti e nel merito. La maggior parte dei fan degli Slipknot è invece nata in ambiente alternativo.
Il gruppo è spesso uscito fuori dai canoni del nu-metal, almeno della maggior parte dei gruppi del settore, per dare sfogo a un’ispirazione che negli ascolti personali dei membri del gruppo attinge ora dal metal più efferato e violento, ora dal rock alternativo o dal post-grunge. Gli Slipknot riescono a ricercare la violenza massima per poi aprirsi a divagazioni emotive, scrivere ballate melodiche, virare sul groove e rifondarsi cercando di avvicinarsi a un sound più tradizionale; sono capaci di passare da momenti esaltanti ad altri mediocri con nonchalance anche nello stesso album. Il tutto, portandosi dietro un’immagine che mira a scioccare e provocare, e che ha fatto discutere tantissimo, nel bene e nel male.

I membri del gruppo non si presentano con nomi e cognomi, ma come numeri, e soprattutto indossano tutti maschere grottesche (da clown, da serial killer con spuntoni, o da mostro). Si potrebbe considerare tutto questo una trovata commerciale per vendere ai ragazzini, si tratta però anche di un messaggio di rigetto dei canoni sociali comuni e dell’industria musicale. È di fatto un modo di disumanizzare i componenti della band, sottolineando provocatoriamente che nello showbiz si è comunque dei "prodotti", e di distogliere l’attenzione dai singoli individui per far concentrare sulla musica. Servono a stupire, a scioccare, non a caso esiste un termine per quei gruppi che alla musica, di qualunque tipo, abbinano travestimenti, costumi e atteggiamenti fuori dagli schemi sui palchi: shock-rock.
I musicisti dell’Iowa non sono stati i primi né saranno gli ultimi a cimentarsi in queste provocazioni sul palco. Negli anni 70 erano Alice Cooper e Kiss, ad esempio, negli anni 80 Gwar e King Diamond, negli anni 90 Marilyn Manson, nei 2000 gli Slipknot. A un certo punto i fan del gruppo sono entrati in una polemica con i fan della formazione alternative-metal dei Mushroomhead, che accusavano il primo di avere copiato le maschere dei secondi (che si sono formati e hanno pubblicato un anno prima degli Slipknot). Dopo un po’ i Mushroomhead hanno spento i bollori del pubblico affermando apertamente che maschere, trucco e travestimenti di per sé non sono stati certo inventati da loro e che molti altri ne hanno fatto uso in precedenza, e altri sarebbero seguiti (ad esempio, i primissimi Mudvayne che si ispirano proprio agli Slipknot).
A parte alcuni aggiornamenti estetici, il gruppo manterrà lo stesso tema di base per le maschere e gli stessi personaggi “inscenati”. Le maschere si sono rivelate utili anche per mantenere un po’ di privacy: nel 2005 in un’intervista il percussionista Chris Fehn addirittura le definì “una benedizione” per i membri del gruppo, perché così non venivano riconosciuti in pubblico. Al di fuori del palco e dello studio di registrazione, solitamente, gli Slipknot si comportano da anti-divi.
Naturalmente, c’è chi li ha giudicati unicamente per le maschere, sia snobbandoli a prescindere che trovandoli attraenti per questo, non scindendo l’immagine dalla musica.

Sono ben 9 (!) i membri ufficiali: oltre ai componenti classici come cantante, due chitarristi, bassista e batterista, la formazione ufficiale prevede anche uno scratcher, un responsabile dei campionamenti e due percussionisti di supporto alla batteria. In effetti, ci sono molti altri gruppi che di fatto presentano formazioni simili, solo che chi si occupa di effettistica, sampling, turntablism o percussioni addizionali non viene considerato membro del gruppo ma citato nei crediti degli album tra i contributi, al pari di altri ospiti, del produttore o del responsabile del missaggio. Negli Slipknot, invece, sono considerati membri permanenti e stabili. C’è chi ha sostenuto che si tratti di marketing a tavolino, con membri facilmente rimpiazzabili dalla label grazie alle maschere: invece per quasi quindici anni la formazione degli Slipknot è stata stabilissima, dall’esordio ufficiale a oggi, cambiando solo a causa di tragedie personali e rivelandosi molto più affiatata di innumerevoli altri gruppi che rinnovano la loro line-up quasi a ogni disco. 

Il nucleo iniziale del gruppo si costituisce nel 1993, quando diverse realtà musicali che spaziano tra il death-metal e il funk si scambiano membri e costituiscono jam-session varie nell’underground della città di Des Moines. È in questi ritrovi che i membri del gruppo iniziano a pianificare iniziative comuni. Dopo diversi cambi di line-up, la band si forma ufficialmente nel 1995 su iniziativa di Shawn Crahan (percussioni), Andrew Row in arte Anders Colsefni (voce) e Paul Gray (basso). Ai tre si aggiungono rapidamente Joey Jordison (batteria, ma aveva già suonato con gli altri tre non ufficialmente in precedenza), Craig Jones (tastiere e sampling) e i chitarristi Donnie Steele e Josh Brainard. Il primo viene rimpiazzato dopo poco da Mick Thomson, ma il suo nome sarebbe tornato in futuro. La provenienza da Des Moines della maggior parte dei membri, ma soprattutto dall’Iowa, caratterizzerà in maniera particolare il gruppo, che ne farà un proprio trademark, una fonte d’ispirazione tanto a livello tematico quanto d’attitudine – nonché un modo per associare allo stato l’immagine del gruppo, cosicché quando si parla di Iowa diventa difficile non pensare anche agli Slipknot. Eppure, gli album con cui hanno sfondato non sono stati registrati in Iowa...

Dopo le demo iniziali, agli Slipknot si aggiungerà anche, al posto di Colsefni, il frontman Corey Taylor, un versatile cantante che può sfoderare un canto-ruggito feroce e scatenato, spesso un vero e proprio growling che cerca di sembrare alienato e alienante, quasi malato; sa però destreggiarsi anche con linee vocali pulitissime fino a sfociare in strofe quasi rappate. Ha un precedente in Dez Fafara dei Coal Chamber, gruppo coetaneo degli Slipknot, che propone sonorità simili ma più influenzate da Deftones e darkwave, e avrà un seguito in Chad Grey dei Mudvayne, che direttamente evolvono il sound slipknotiano in una direzione prog/math. Nato in povertà da una famiglia multietnica, Corey Taylor non conobbe mai suo padre (che abbandonò la madre appena saputo della gravidanza) e crebbe in quello che definiva “un buco nel terreno con edifici intorno”. Per un certo periodo fu costretto a essere un senzatetto (ne parla in “Left Behind”) e dovette fare molti sacrifici per uscir fuori dalla sua situazione. Fu sua nonna a fargli scoprire la musica rock da bambino, mostrandogli la sua collezione di dischi di Elvis Presley, mentre il fascino per le maschere e l’horror nacque con la visione di un trailer del film “Halloween”. Subito dopo il giovanissimo Taylor iniziava ad ascoltare i Black Sabbath (paragonò casa sua alla copertina del loro primo disco), i Faith No More (“se non fosse stato per Mike Patton non sarei qui ora”), i Death (“la musica di Chuck per me fu davvero importante mentre crescevo, era tanto intricata e interessante”) ma veniva anche abusato sessualmente da un vicino di casa di 16 anni. La sua adolescenza fu estremamente difficile, divenne dipendente da cocaina e tentò il suicidio per overdose appena maggiorenne. Sua nonna ne ottenne l’affido e gli permise di terminare gli studi e di comprarsi i primi strumenti musicali. Fondò gli Stone Sour nel 1992, ma dal 1997 è parte degli Slipknot.

I suoi testi esprimono molto disagio, rancore e frustrazione. Messe a confronto con il padrino delle tematiche del nu-metal, Jonathan Davis dei Korn, le canzoni che scrive non sempre risultano all’altezza a livello lirico, sembrando più spesso degli sfoghi poco elaborati che abusano di parolacce come se fossero un ingrediente magico, alternando veemenze vissute e consistenti ad aperte banalità, senza la profondità psicologica e la caratterizzazione korniane. Molte associazioni di genitori hanno accusato gli Slipknot di incitare alla violenza, e Taylor è rimasto sconvolto quando, dopo alcuni crimini efferati, i responsabili (come per i videogiochi) hanno dichiarato di essersi ispirati a questa o quella canzone. Taylor ha sempre ribadito che il messaggio che vuole trasmettere è positivo, di riscossa e riscatto. Se sul palco e negli incontri promozionali in cui indossa il costume, è scatenato, mostra una presenza scenica formidabile abbinata a volgarità e teatralità; ma una volta dismessa la maschera, si rivela sempre tranquillo, gentile e umile. È anche il primo a presentarsi quando si vuole far festa in un locale e brindare a qualcosa. Purtroppo, però, i problemi con l’alcolismo hanno compromesso la sua vita.

Comunque sia, a farsi notare principalmente nella musica degli Slipknot è il batterista Joey Jordison, che è fra l’altro il principale fruitore di metal estremo (e non solo) nel gruppo. Spesso si distingue per la velocità e la violenza delle esecuzioni, ma sono soprattutto le combinazioni ritmiche e le trovate tecniche che escogita assieme ai due percussionisti a donare linfa vitale ai brani. Si tratta di un ottimo batterista, duttile e travolgente. È anche una persona piuttosto umile e con una vasta cultura in ambito rock&metal: nelle interviste, cita tra i suoi batteristi preferiti nomi del calibro di John Bonham, Neil Peart, Danny Heifetz, Hellhammer, Brann Dailor, Keith Moon e soprattutto Dave Lombardo, che per lui è un mito; per tutti si leva il cappello spendendo profonde parole di stima e rispetto (“These are dudes that I still look up to, and I still practice along to them even though there’s no way I can get close to their majesty”). Le sue performance in passato sono state spesso generalmente sottovalutate dagli ascoltatori del metal estremo (sempre per pregiudizi in quanto “nu”) e, per contro, sopravvalutate dagli ascoltatori nu-metal (nei casi in cui non conoscono altri batteristi anche più brutali e tecnici e ritengono esista solo lui e che sia il non plus ultra). Tuttavia, negli ultimi anni, complice la pervasività di Internet e la possibilità per la musica di diffondersi molto più velocemente di prima e di essere discussa apertamente, c’è stata una sua meritata rivalutazione e non è raro trovare estimatori di Jordison anche tra chi ascolta principalmente metal più tradizionale. Purtroppo, nel 2016 ha rivelato di essere affetto da una malattia rara, la mielite trasversa, in cui il midollo spinale si infiamma, compromettendo le funzioni motorie, e ciò ha posto fine alla sua carriera.

Sconosciuto alla maggior parte dei fan iniziali (almeno prima che Internet pervadesse tutto), il primo vero album della band si intitola Mate. Feed. Kill. Repeat. ed è stato pubblicato nel 1996. Il gruppo, ufficialmente, lo considera però una demo, tant’è che lo stile non è ancora quello che si affermerà nei lavori successivi, sebbene ne presenti diversi ingredienti; alla voce non c’è ancora Taylor ma Colsefni. Soprattutto, non è compatto e unitario, bensì una collezione di episodi differenti apparentemente slegati tra loro. Il disco sostanzialmente parte da una base thrash/death-metal alla quale abbina crossover, alternative-metal e industrial in un ibrido inquietante e dalle atmosfere generalmente claustrofobiche ma capaci di capovolgersi completamente subito dopo divenendo giocose e sarcastiche.
Il primo brano, che si intitola come il gruppo, vorrebbe così essere rappresentativo dello stesso: riff rocciosi e marci, passo cadenzato, atmosfere oscure, assolo raggelante. Colsefni è impegnato in un growl catarroso e distaccato. “Gently”, invece, inizia come allucinante pezzo acustico prima di evolversi in un death-metal distorto e macabro. Per l’aspetto più estremo della musica degli Slipknot i punti di riferimento sembrano essere soprattutto i Morbid Angel, gli Obituary, i primi Sepultura (quelli di "Morbid Visions", "Beneath The Remains" e in parte "Arise") e anche i primissimi Fear Factory ("Soul Of A New Machine" e "Concrete"). C’è anche un elemento industriale, caratterizzato dalle sonorità atroci e alienanti dei Godflesh, con i Killing Joke a costituire un’altra influenza importante.
I binari però cambiano rapidamente con “Do Nothing/Bitchslap”, un bizzarro mix di funk, death-metal e fusion, scandito dai bassi slappati, dall’alternanza di vocal growlati o quasi rappati, e dagli insoliti intermezzi funky tra le distorsioni che spezzano in maniera veemente l’atrocità. “Only One” prosegue su queste coordinate, ponendo maggiore enfasi sulle parti rap (vicine a Mike Patton per tonalità ma anche ai Body Count per l'abbinamento con le chitarre abrasive). Qui si riscontra maggiormente un’influenza distorta e trasfigurata dei Primus e anche dei Mr. Bungle, soprattutto nei bassi. In misura minore si intravede anche il retaggio dell’omonimo esordio dei Korn che ha di fatto fondato il nu-metal, sempre a livello di ritmiche e atmosfere, ma il riffing sincopato tipico del genere non trova ancora spazio negli Slipknot.
“Tattered & Tom” fa emergere più chiaramente quest’ultima influenza in alcuni suoni di chitarra allucinogeni, mentre “Confessions” è una parentesi interamente funk-rock a tinte latine. Non si può dire che gli Slipknot non si distinguano dalla massa. Inoltre, in questi pezzi gli assoli cedono il posto a un approccio più incentrato sulla cadenza ritmica, non vi è nemmeno una forma-canzone perché il gruppo evita ritornelli o melodie orecchiabili (tranne negli inserti funkeggianti, con l’intento però di farli suonare bizzarri e fuori luogo). “Some Feel” ritorna su suoni metal più estremi, prima della suite conclusiva “Killers Are Quiet/Dogfish Rising”, estenuante e sostenuta marcia industrial-ambient che sfocia poi in una serie di campionamenti. Negli intenti, è praticamente una risposta a “Daddy” dei Korn, ma meno rivoluzionaria.

Dopo l’uscita dell’album, e lo scarso successo ottenuto nei contatti con le label e le stazioni radio, il gruppo toglie il microfono a Colsefni perché reputa la sua prova vocale troppo bestiale, paragonandolo al primo Max Cavalera (Sepultura), e cerca qualcuno di più versatile per ottenere maggiori presenze in radio. Inoltre, Colsefni non indossava maschere come i compagni ma un mix di face-painting, nastro adesivo isolante e pellicce, e questo atteggiamento non piaceva agli altri compari perché comprometteva l’immagine della band. La scelta ricade così su Taylor, che suonava negli Stone Sour ma che ritenne di avere maggiori speranze di avere successo con gli Slipknot. Colsefni inizialmente rimane per backing-vocals e in appoggio alle percussioni, ma rapidamente si stanca e annuncia il suo addio. Anche Josh Brainard lascia per divergenze artistiche e il suo ruolo come chitarrista viene preso da Jim Root, un amico di Taylor che suonava con lui negli Stone Sour. Alla formazione si aggiungono Chris Fehn alle percussioni e Sid Wilson al turntablism, portando così il numero di componenti a ben nove. Gli americani decidono allora di resettare tutto e ricominciare da capo, con un nuovo esordio e nuovi piani.

Nel 1999 esce il debutto ufficiale Slipknot. Il gruppo questa volta parte come base dal nu-metal impostato dai Korn, con il loro riffing sincopato e ribassato, e lo trasfigura velocizzandolo, appesantendolo, rendendolo schizoide e allucinato, tramite l’aggiunta di una forte componente groove-metal (ispirata da Sepultura e primi Machine Head soprattutto) e di sfuriate occasionali che attingono dal death-metal (sia in riff ronzanti che in blastbeat inseriti appositamente in punti specifici). Rispetto al metal estremo, l'approccio è invece quello di un disco iconoclasta e fuori dagli schemi. La produzione è affidata a Ross Robinson, guru del sound nu-metallaro, con il preciso intento di ottenere quel determinato suono grezzo e senza compromessi.
Con 15 brani più varie bonus-track, è anche un lavoro con molta carne al fuoco: “(sic)” è travolgente e devastante, “Surfacing” è una valanga esplosiva e raccapricciante, “Spit It Out” è quasi rap-metal ed è tra le più vicine concettualmente alla demo iniziale. “Scissors” è una continuazione del concetto dietro a “Killers Are Quiet”, nel rappresentare cioè una traccia di autopsicoanalisi con cui Corey Taylor cerca di esorcizzare le proprie angosce interiori. Qui Corey Taylor suona davvero come un pazzo al microfono e la sua interpretazione è travolgente, tra growl ferocissimo e parti sussurrate maniacali.
A livello compositivo l'album si rivela compatto, con un filo conduttore che collega fra loro i brani senza sembrare una collezione di idee assemblate come il predecessore. Jordison è l’anima dell’album e lo trascina con le sue soluzioni accattivanti e il piglio trascinante che riesce a imprimere alle canzoni, tutte tiratissime e fortemente improntate sull’aspetto ritmico. È presente una componente scratchata/elettronica, sotto forma di riempimenti d’accompagnamento, spesso proposti in chiave anti-melodica per suonare invece più cupi e alienanti.
In effetti il disco ha la capacità di suonare coinvolgente e orecchiabile pur perseguendo soluzioni stilistiche che negli intenti si distanziano dalla melodia. Ci sono ancora elementi industriali, amalgamati nel contesto (per esempio il raggelante industrial/nu di “Liberate” o i suoni da incubo di “Prosthetics”), purtroppo non sviluppati maggiormente. Al contempo gli elementi più funk e giocosi del precedente disco sono stati epurati, ma Slipknot risulta più innovativo per due motivi principali. Innanzitutto, il modo in cui estremizza in maniera folle e massimalista il nu-metal (anche se probabilmente non sarebbe neanche da considerarsi nu-metal tout-court, bensì come una versione schizzata del groove-metal aggiornata ai tempi e alle sonorità del nu-metal, con forte caratterizzazione ritmica e rinuncia agli assoli). E poi per la sua capacità di mostrare un’alternativa, quanto a violenza ed efferatezza, tanto al nu-metal (che nel mainstream si sta nel frattempo melodicizzando) quanto ai canoni di gran parte del metal estremo in generale, un'operazione stilisticamente non ortodossa e aperta a contaminazioni che farebbero gridare al “tradimento” i più tradizionalisti.

Il disco riscuote un successo fenomenale, oltre le aspettative: nel sostrato giovanile americano di fine anni 90 riesce a catturare alla perfezione il bisogno di sfogarsi e la necessità di pesantezza del pubblico, rendendo accessibile la violenza e venendo incontro ai gusti musicali dell’epoca, invece di riproporre per l'ennesima volta gli stilemi old-school del thrash e del death. In Europa, però, il successo è inferiore. La popolarità mediatica che il gruppo raggiunge soprattutto tra i più giovani, anche per l’immagine provocatoria assunta e le trovate spettacolari inscenate ai concerti (ad esempio, piattaforme mobili rotanti che sollevano la batteria e la capovolgono, mentre Jordison fissato con imbracature continua a suonare come se nulla fosse) lo rendono però inviso al pubblico metal tradizionale, che lo considera “falso metal” commerciale. I media tradizionalisti, infine, si preoccupano della cattiva influenza che questi nove teppisti dell’Iowa possono avere sulla gioventù americana.

Nel frattempo, un attimo di contestualizzazione musicale/temporale. Possiamo suddividere l’ondata nu-metal in tre fasi: la prima è quella iniziale, capitanata dai Korn, dai Deftones e dai loro immediati cloni, che introdussero il genere nel biennio 1994/1995; la seconda arriva nel 1997/1998 e oltre all’esplosione commerciale del genere vede una sua decisiva inclusione di elementi caratteristici dell’hip-hop, prima sporadicamente accennati, ora parte integrante del sound di molti gruppi che esordiscono in questo periodo, ed è esemplificata dai Limp Bizkit; infine, nel 2000/2001, il genere raggiunge il suo picco di commercializzazione, ma anche di banalizzazione e assoggettamento all’ottica mainstream, mettendo in luce la sua vena più “pop” prima di implodere negli anni immediatamente successivi e cedere il posto a nuovi trend musicali. Simbolicamente Slipknot, nonostante la presenza di scratching e di alcune strofe quasi rappate, si distanzia da queste tendenze andando a esplorare i connotati più estremi che il nu-metal può avere.

Il suo successore Iowa, uscito nel 2001, si pone simbolicamente in contrasto con l’ultima tendenza, e lo fa in maniera ancora più decisa ed esplicita, risultando praticamente in antitesi sonora a ciò che gruppi come i Linkin Park stanno proponendo al grande pubblico. Il loro “Hybrid Theory” esce proprio nel 2001, ma un disco come Iowa è agli antipodi come sonorità, attitudine, intenti e atmosfere. A nessuno degli Slipknot interessa farsi passare per un gruppo nu-metallaro, tant’è che nelle interviste si definiscono ironicamente “metal metal” e asseriscono che il gruppo è stato associato al genere solamente per coincidenza temporale.
Iowa rappresenta un’espansione e un’ulteriore estremizzazione dei connotati di Slipknot, nonché la definitiva evoluzione del loro sound, coniugando un personale mix di nu-metal, groove-metal e death-metal con suoni ancora più alienanti, batteria ancora più violenta, testi ancora più aggressivi (a volte efficaci, a volte insulsi). È più oscuro, pesante e tecnico del suo predecessore. Nel muoversi in questa direzione riesce a trovare una dimensione orecchiabile più coesa e definita, con alcuni pezzi davvero trascinanti come riffing e ritmiche, che non indugiano nelle trovate pop/radiofoniche dei Linkin Park.
Al tempo stesso, il suo suonare folle e squilibrato tende a tratti a farlo sembrare un po’ confuso nel songwriting. “Left Behind” e “My Plague” addirittura vengono nominate per un Grammy, ma le maggiori hit del disco sono “Disasterpiece” (malatissima e alienante) e “The Heretic Anthem” (un tributo alla doppia grancassa di Dave Lombardo). La title track è un seguito di “Scissors” e “Killers Are Quiet” come intenti autopsicanalitici. Rimane, come già detto, un disco significativo nel contesto del nu-metal, ed è stato molto discusso nel bene e nel male, scatenando feroci dibattiti. La foto del nero capro in copertina sembra suggerire intenti anti-conformisti e misantropi.
Shawn Crahan avrebbe commentato così le sessioni di registrazione: “Quando abbiamo fatto Iowa, ci odiavamo l’un l’altro. Odiavamo il mondo; il mondo ci odiava”. Sono state registrazioni molto dure e travagliate, esacerbate dai conflitti con Robinson, dai problemi di Taylor con l’alcol e degli altri componenti con le droghe. Le associazioni cristiane e genitoriali hanno accusato il gruppo di traviare i giovani e indurli al satanismo e alla violenza. Il pubblico metal tradizionalista ha invece recepito questo lavoro e questa immagine come un tentativo di atteggiarsi a metallari, suonando pesanti in maniera fine a se stessa, anziché aderire ai canoni sonori del “vero metal”, rubandone al contempo l’iconografia. In poche parole, ha accusato gli Slipknot di essere dei poser. Questa interpretazione è fuorviante e fraintende il contesto del gruppo: che li si ami o si odi, è innegabile che gli Slipknot abbiano coniato con questi due dischi un approccio originale e particolare, personale.
C'è anche qualcuno che ne raccoglie l'insegnamento e riesce a proporne una nuova e creativa variante, superando l'ensemble dell'Iowa in tutto: i Mudvayne nei loro primi due album usciti nel 2000 e nel 2002 partono dal sound slipknotiano e lo arricchiscono con tecnicismi e influenze math-rock, funk-rock e progressive-metal, merito anche di una portentosa sezione ritmica che ha poco da invidiare a Jordison e soci. Purtroppo, nei lavori successivi si riveleranno meno ispirati.

Nel 2002 Corey Taylor riforma gli Stone Sour assieme ai vecchi membri del gruppo, dopo esser stato invitato dal chitarrista Joel Ekman a una reunion: il risultato è un esordio omonimo. Il disco offre spunti interessanti ma difetta di personalità: il gruppo si adagia sulle coordinate del post-grunge, tra momenti più aggressivi e metallici in cui si avverte l’influenza slipknotiana, altri più melodici e hard-rock, e persino qualche placida ballata.
Sarà decisamente più maturo e caratterizzato il successivo Come What[ever] May del 2006, che trova un approccio personale e rappresenta un esempio di come il post-grunge possa essere radiofonico e consistente, al contrario di molte altre band (come Nickelback o Creed) che diluiscono eccessivamente la proposta in cliché hard-pop-rock preconfezionati. Purtroppo con Audio Secrecy nel 2010 gli Stone Sour scadranno proprio in quest’ultima tendenza. Torniamo però agli Slipknot.

In maniera reciproca, così come il primo disco degli Stone Sour mostra qualche influenza degli Slipknot, l’influenza degli Stone Sour fa capolino in Vol. 3: The Subliminal Verses, nuovo appuntamento in casa Slipknot uscito nel 2004. Si tratta di un disco che pone definitivamente la band su di un piano distinto dal semplice nu-metal (che nel frattempo si è evoluto in tutt’altre direzioni ed è imploso lasciando il posto ai trend melodic-metalcore ed emo nelle classifiche). La produzione è stavolta affidata a Rick Rubin, ma in studio si fa vedere di rado e a caro prezzo, causando malumore nel gruppo.
Già dal binomio introduttivo (“Prelude 3.0” e “The Blister Exists”) si intravede una marcata apertura a suoni più vicini al rock alternativo, rimescolato a istanze nu-metal ed estreme. La successiva “Three Nil” si incentra su di un groove-metal sporcato dal death-metal tramite tremolo-picking e blastbeat, concedendosi un’apertura melodica nella parte centrale. “Duality” e “Welcome” rimescolano industrial-rock e nu-metal, mentre nel ritornello Taylor si avvicina nelle linee vocali a vari act pop/grunge. Quest'ultimo è citato più esplicitamente in “Before I Forget”, “Vermilion” è una power-ballad che trasfigura il post-grunge in una versione angosciata e oscura, mentre “Circle” e “Vermilion pt. 2” sono ballate acustiche melodrammatiche, abbastanza sorprendenti nel contesto della discografia degli Slipknot.
“Pulse Of The Maggots” è un bizzarro e paranoide electro-nu-metal, esaltato dall'assolo schizzatissimo. “The Virus of Life” è un angosciante ma ripetitivo industrial/death. La conclusiva “Danger” è una soffusa e meditata coda di tastiera. In generale tutto l’album salta di palo in frasca tra riff groovy, aperture death, rallentamenti midtempo, sfuriate di doppio pedale, arpeggi melodici, sequenze sincopate più tipicamente nu e power-chords radiofonici. Tutto ciò rende al tempo stesso il disco variegato, ma anche molto discontinuo e incostante, impedendogli di trovare un vero filo conduttore. L'impressione è quella di una raccolta di idee sparse non adeguatamente sviluppate. Molti riff risultano insipidi e gli arrangiamenti danno l’idea di essere semplificati rispetto al loro potenziale. Taylor si esprime in un’interessante prova vocale in cui suona più maturo e controllato, ma anche molto meno furioso e inquietante. Jordison, per contro, sfodera alcune delle sue prestazioni migliori di sempre.
Vol.3 è per forza di cose un album di transizione, in cui sperimentare nuove sonorità addizionate al proprio stile, cercando di metabolizzarle e rifinirle. Un lavoro non del tutto riuscito ma con diverse frecce nella faretra.

All Hope Is Gone (2008) nasce con l’intento di distanziarsi da quanto mostrato in Vol. 3, attribuendo le divagazioni più melodiche al solo Rubin e promettendo un lavoro molto più pesante e metallico. In effetti è un lavoro molto metal nel senso tradizionale del genere. “Gematria” è un furioso apripista, tra riff groove-metal, attacchi thrash, un assolo tecnicissimo e la solita batteria infuriata. La riuscitissima title track a chiusura dell’album alterna ronzanti riff death-metal ad altri caustici e martellanti, maggiormente thrashy, mentre l'assolo è furioso e taglientissimo, e i blastbeat travolgenti. Viene però portata una maggiore apertura melodica nel chorus energico e d'impatto: è questo il maggior punto di contatto col precedente album, la pervasività dei ritornelli melodici.
Il singolo “Psychosocial” si adagia su riff meccanici che ricordano i Rammstein, per poi orientarsi su un groove/industrial in stile Fear Factory, mentre nel ritornello le chitarre si trasformano in un muro sonoro per sostenere le melodie interpretate dalla voce pulita di Taylor; infine l'assolo, dopo esser iniziato manieristicamente riprendendo la rapidità macabra di certi album death, si trasforma improvvisamente in un ondeggiamento di note catchy e accattivanti. “Dead Memories” è più soft e sfocia direttamente in un ritornello emotivo avvolgente.
“Gehenna” (uno dei brani migliori) è un incubo groove/death retto dal ritmo midtempo e da sfuriate violente, mentre nel ritornello Taylor tira fuori dal cappello un falsetto inquietante. “Sulfur” mescola death-metal e alternative-rock (con inserti di scratching), “This Cold Black” è un mix di nu-metal e death-metal, “Wherein Lies Continue” ha una sezione ritmica terrificante in contrasto con un ritornello melodicissimo pop-oriented, “Snuff” è invece addirittura una ballata melodica in perfetto stile Stone Sour, fin troppo affine all'estetica del gruppo: è praticamente un plagio a "Bother".
Purtroppo il resto dei brani è fiacco, stanco e troppo derivativo. Nonostante gli intenti, il gruppo realizza un punto d’incontro tra i momenti più sparati ed estremi tipici dei primi due dischi e le maggiori aperture melodiche di Vol. 3, cercando di personalizzarlo con maggiori influenze dal metal estremo anni 90. Dei primi purtroppo manca l’approccio stilistico originale e l’inquietudine psicologica (il songwriting non dice molto di differente rispetto a svariati gruppi groove-metal e deathcore), del secondo manca la varietà (era meno a fuoco ma certamente più coraggioso ed eterogeneo). 
Nuovamente il risultato è discontinuo, a diversi brani convincenti e trascinanti se ne affiancano altri la cui struttura risulta monotona, i cui riff più aggressivi sanno troppo di già sentito e i cui ritornelli melodici sono troppo insipidi. Non aiuta la lunghezza della tracklist, che mostra come si sarebbero potuti evitare numerosi filler. Il disco è sottotono rispetto alle aspettative, che promettevano un macigno devastante, e si rivela per la seconda volta un album di transizione, da cui raccogliere i momenti migliori scartando il resto. La produzione è affidata a Dave Portman (Mudvayne, Otep, Evanescence) e per la prima volta le sessioni di registrazione si svolgono a Des Moines.

Potrebbe tutto questo essere la base per una rifondazione e un nuovo inizio. Purtroppo, nel 2010 muore Paul Grey per overdose da morfina. Il gruppo ne esce moralmente distrutto e per la prima volta si presenta senza maschere in conferenza stampa e a un concerto tributo (dal vivo il suo ruolo viene temporaneamente occupato dall’ex-chitarrista Donnie Steele).
Nel dicembre 2013 invece il sito della band annuncia all’improvviso che Joey Jordison ha lasciato la band, per “ragioni personali” non meglio specificate. Jordison però risponde di non avere lasciato gli Slipknot e di essere rimasto sconvolto dalla notizia. Senza due colonne portanti della formazione, il futuro della band è molto incerto.

I won't let you disappear
I will keep your soul alive
if I can't keep you here

Ci vogliono altri 4 anni perché gli Slipknot entrino in studio, con Alessandro Venturella come nuovo bassista (alternato a Donnie Steele e agli altri membri del gruppo) e Jay Weinberg come nuovo batterista: .5: The Gray Chapter rimescola gli stilemi esplorati dal gruppo nella sua discografia ed è un po’ un sunto della sua carriera, riprendendo soprattutto i toni più caustici dei primi dischi, con qualche apertura più groove/thrash e melodica dai successivi lavori (ma senza eccedere), e suoni corposi poco distorti vicini agli Stone Sour. Le chitarre trovano complessivamente più spazio, suonando soprattutto come una mezza via proprio tra i primi dischi e gli Stone Sour. Le atmosfere sono cupe, ma non opprimenti. Weinberg svolge un buon lavoro alla batteria per i compiti essenziali, e si fa notare per la pesantezza, ma non possiede la varietà percussiva travolgente e inaspettata di Jordison; come risultato, il disco sembra molto meno dinamico di quel che potrebbe essere. Tra i brani migliori ci sono “AOV” e “The Devil in I” che mescolano nu-metal, melodic-death-metal e thrash-metal, la quasi-ballad oscura “Killpop”, il nu-death-metal allucinato e viscerale di “The Negative One”, l’intenso groove-metal di “Nomadic”. Quest’ultima e “The One That Kills the Least” propongono due degli assoli slipknotiani più interessanti della loro carriera (data la loro rarità, quando ne inseriscono uno è già di per sé qualcosa che si fa notare).
La ballata dark-rock “Goodbye” mostra parti atmosferiche avvolgenti, quando però queste vengono spezzate dall’inserto di parti distorte e batteria pesante, il risultato complessivo stona un po’. Il resto non mostra particolari guizzi e suona ancora una volta discontinuo, un insieme di buoni pezzi alternati ad altri più insipidi.
Il disco ottiene risposte contrastanti sia dal pubblico che dalla critica. Nuovamente, nonostante gli anni passati dall’ultimo album, o forse proprio a causa di questo, non si respirano ventate d’originalità e voglia di rompere gli schemi come agli esordi. Anzi, la sensazione è che senza l’apporto di Gray il gruppo abbia esaurito le idee innovative e per questo non possa far altro che guardare al passato e adagiarsi su stilemi consolidati. Anche gli inserti di scratching sembrano più cliché. Si sente anche la mancanza di Jordison a conferire linfa vitale e personalità alla sezione ritmica.
Nonostante tutto, The Gray Chapter rimane un lavoro più spontaneo, sentito e viscerale di molti gruppi thrash/death che si limitano a riciclare stilemi di 30 anni prima, o di band melodic-metalcore che non vanno oltre la mera fotocopia. Il lato peggiore sono i testi di Taylor, davvero troppo blandi: per quest’occasione (il tributo a Paul Gray) si poteva cercare di scriverne di più consistenti, ma ormai non c'è da aspettarsi altro su quel versante.

Nel 2016, finalmente, si viene a scoprire il problema dietro la dipartita di Jordison: la diagnosi di mielite inversa.
L'ultimo disco in casa Slipknot è anticipato dal litigio con il percussionista Chris Fehn, che a marzo cita in tribunale il gruppo accusandolo di non averlo pagato; dopo pochi giorni lascia la band chiudendo così un periodo di 20 anni trascorsi assieme.
Archiviata la frattura interna, il gruppo entra in studio e registra We Are Not Your Kind, titolo che è un manifesto (forse non molto originale) di spirito alternativo e anticonformista.

Prima ancora delle sessioni di registrazione, a ottobre 2018 la band aveva rilasciato il singolo "Solway Firth", un classico groove-metal influenzato dai primi Machine HeadSulla scia del precedente lavoro, anche quest'album manifesta un'adesione sincera e nostalgica al passato, specificatamente al periodo degli esordi, con l'aggiunta di alcune aperture melodiche (soprattutto nei ritornelli) più caratteristiche di Vol. 3, facendolo in maniera più netta ed esplicita, con refrain più diretti e senza alcun assolo, soprattutto però con maggiore ispirazione nel songwritingNon sono da aspettarsi novità o sorprese: riffing ribassato che ibrida nu-metal, groove-metal e death-metal, batteria furiosa e impetuosa, atmosfere opprimenti, linee vocali aggressive ma capaci di intonazioni pulite melodiche, presenza occasionale di scratching (sempre minore). Il lato migliore dell'album è di riuscire a mantenersi costante per tutta la sua durata, senza filler o brani eccessivamente incostanti. Gli Slipknot riescono a confezionare il loro album più maturo e ispirato da molti anni. Un passo avanti anche rispetto ad altre formazioni nu-metal classiche che nei loro ritorni al passato si sono mostrate altalenanti, mescolando buone canzoni ad altre mediocri (si pensi ai Korn). Di primo acchito si potrebbe criticare il fatto che manchi la carica innovativa degli esordi, ma l'impressione viene mitigata da due fattori. Il primo è la certosina cura riposta a livello di effettistica e produzione, con inserti elettronici, acustici e altri dettagli melodici qua e là a impreziosire il lavoro, che non suona semplicemente pestato ma relativamente ricercato. Il secondo è una nuova questione di contestualizzazione, esattamente come era avvenuto con Slipknot o Iowa che rappresentarono all'epoca un'alternativa, un'altra via per dire, estremizzata, furiosa e psicotica alla tendenza mainstream del nu-metal di quel periodo che era diventato radiofonico e pop (esemplificato dai Linkin Park). Negli ultimi anni c'è stato un revival di quella precisa tendenza, con varie nuove formazioni che hanno preso ispirazione proprio dalle coordinate e dai cliché imposti dai Linkin Park e dai loro immediati cloni. Oppure, si sono diffusi numerosi gruppi che a quel nu-metal mescolano il melodic-metalcore degli anni 2000, ottenendo il cosiddetto "nu-metalcore", non sempre genuino.
We Are Not Your Kind, così, si pone come alternativa più essenziale, "back to the roots", feroce e per certi versi espressiva, viscerale, di queste tendenze.

(Contributi di Matthias Stepancich e Giuseppe Dalicante)

Slipknot

Discografia

Mate. Feed. Kill. Repeat.(Pale One, 1996)7
Slipknot(Roadrunner, 1999)7.5
Iowa(Roadrunner, 2001)7
Vol. 3: The Subliminal Verses (Roadrunner, 2004)6.5
9.0: Live (live, Roadrunner, 2005)
All Hope Is Gone(Roadrunner, 2008)6
Antennas to Hell(antologia, Roadrunner, 2012)
.5: The Gray Chapter(Roadrunner, 2014)6
We Are Not Your Kind(Roadrunner, 2019)6
Pietra miliare
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