Spoon

Spoon

Gli underdog dell'indie-rock

La saga della band di Britt Daniel e Jim Eno, dagli inizi difficoltosi alla conquista delle classifiche di vendita americane. Un lungo e personale percorso diviso tra rock alternativo contemporaneo, 80’s e vecchio rock’n’roll, che ha fatto della formazione una delle più celebri realtà indie degli States

di Michele Corrado

Dall’Italia, dove la band non ha mai fatto numeri degni di nota tanto da decidere di saltarla in diversi tour (altrove trionfali), la dimensione del fenomeno Spoon è difficile da quantificare. Proponendo un mix rock perfettamente contestuale alla scena indie-rock degli anni 00 (e dunque debitore degli 80’s) quanto incline alla smargiasseria, alla sensualità conturbante e agli hook dei Rolling Stones, tanto emozionante quanto perfetto per ballare, il gruppo di Britt Daniel e Jim Eno ha sfondato spesso e volentieri il muro della top ten di Billboard, oltre che dominato le classifiche dei dischi indipendenti quasi ad ogni sua uscita del nuovo millennio. Non soltanto grazie alla potenza di fuoco radiofonica di numerose sue hit, ma anche al posizionamento strategico di alcuni brani in episodi chiave di serie Tv iconiche quali “The O.C.” e “Scrubs”, i texani sono diventati un oggetto di culto capace di penetrare a più livelli la pop culture americana.

Per la band di Austin il successo non è però arrivato repentinamente, è stato invece il traguardo di un percorso lungo e tortuoso, durante il quale non sempre la fiducia riposta dalle etichette nella formazione ha dato i frutti sperati, producendo talvolta abbandoni prematuri, scossoni e cambi di line-up. Durante una carriera lunga ormai più di cinque lustri, gli Spoon non hanno mai mutato forma, rimanendo sempre coerenti a un outfit indie-rock ruvido, ma sempre orecchiabile, con decine di ritornelli memorabili nel taschino. Tuttavia, nonostante la crescente fama sulla quale avrebbero potuto adagiarsi, gli Spoon hanno osato ad ogni uscita con nuove trovate, virate sonore e inedite addizioni, arrivando a sfiorare ad esempio il kraut-rock – da sempre pallino di Daniel e Eno, sin dalla scelta del nome della band, che onora il celebre pezzo dei Can.
Proprio questo bilanciamento tra audacia e fedeltà alla propria discendenza indie, oltre a una capacità di scrittura superba e indomabile, hanno garantito agli Spoon una carriera lunga (finora) nove dischi dalla qualità media altissima. Un risultato sfuggito anche a band considerate seminali, come certamente gli Spoon non sono, ma qualitativamente più altalenanti (i Pixies, gli Strokes?).

1993 – 1998: una partenza tutt’altro che bruciante

Già insieme in una band country di scarso successo chiamata The Alien Beats, nel 1993 il cantante e chitarrista Britt Daniel e il batterista Jim Eno scritturarono il secondo chitarrista Wendel Stivers e il bassista Andy McGuire per formare gli Spoon. All’inizio della carriera degli Spoon, l’idea al centro della loro musica era molto semplice: riff di chitarra semplici e trascinanti, ruvidità e atteggiamento appresi da Pixies e Pavement, Daniel alla costante ricerca di refrain facili da mandare a memoria. Insomma, tutto quello che nella seconda metà degli anni Ottanta e nella prima dei Novanta andava per la maggiore: volevano giocare facile, potremmo azzardare.
Con in canna una canzone come “Nefarious” (al centro di un omonimo Ep rilasciato nel 1994) i live della band in giro per il Texas, in particolare quelli al The Pink Flamingo Club, si fecero un’ottima nomea e seguendo il più canonico dei copioni, attirarono l’attenzione di numerose case discografiche.

La prima a scritturare gli Spoon fu nientedimeno che la leggendaria Matador, che nel 1996 pubblicò il loro sfortunato Telephono. Il disco, tutt’altro che malvagio, totalizzò poche migliaia di copie vendute. A causa di alcune controversie legate agli introiti, reputati da Stivers e McGuire insoddisfacenti, i due lasciarono la band.
Invero il primo Lp degli Spoon è un disco abbastanza ordinario, specie per quegli anni in cui di buon indie-rock rumoroso e stizzoso se ne produceva a pacchi, ma diverse sue canzoni, nonostante la produzione piuttosto povera, rimangono in testa con prepotenza – merito soprattutto della personalità e della riconoscibilità di Daniel come vocalist. È il caso della succitata mina “Nefarious”, ma anche della strascicata “Towner”, dove Daniel, accompagnato da chitarre sanguinanti, sfodera uno dei suoi timbri più riusciti, quello a metà tra struggimento e sensualità. Nonostante sia un mezzo plagio delle dinamiche Black-Deal al centro di numerosi brani dei Pixies, “Dismember” è un gran bel sentire. Anche le più sgolate e schizoidi “Cvantez” e “The Government Darling” sono difficili da dimenticare.
Privo di ulteriori vette, il resto del lavoro ci porta a considerare Telephono come il più tipico dei dischi d’esordio, ossia il seme grezzo di un talento ancora tutto da esplorare e sfoggiare.

Nuovamente soli, nel 1997 Daniel e Eno registrarono un altro Ep con Matador (Soft Effect, che sarebbe poi stato incluso da Merge in una riedizione di Telephono), che tuttavia non riuscì a rilanciare la band. Sconfortato dai risultati di queste prime uscite ma non per questo disposto a gettare la spugna, il nucleo fondante degli Spoon iniziò a orientarsi verso sonorità più pop, moderne e sofisticate. Fiutando che la Matador, etichetta storicamente e fieramente indie, non fosse contenta della direzione intrapresa, nonostante potesse registrarvi un altro disco, Daniel preferì rompere consensualmente con la label. Quando nel febbraio 1998 la band firmò con Elektra, major che tra le altre cose aveva seguito i Pixies nel loro periodo più fortunato, il secondo disco degli Spoon era già quasi ultimato, con le parti di basso affidate all’ottimo Josh Zarbo – che sarebbe rimasto in formazione fino al 2007, contribuendo dunque all’intera golden age della band.
Nonostante il sound molto più originale e accattivante, che sacrifica grandi dosi di rumore, lavorando di finitura su linee chitarristiche devote alle geometrie di Talking Heads, Wire e Television, nonostante anche il plauso della critica, quasi unanime nel considerare gli Spoon ben più che una next big thing, anche A Series Of Sneaks fu un fiasco commerciale. Molto più interessata al denaro che la Matador, Elektra non tardò a voltare le spalle alla band. Il primo a tradire fu il responsabile di produzione degli Spoon, Ron Lafitte, che a soli quattro mesi dall’uscita del disco rinunciò al suo incarico prima del licenziamento della formazione, evidentemente già nell’aria. Inaciditi e delusi, gli Spoon dedicarono a Lafitte due brani taglienti e ironici, “Lafitte Don’t Fail Me Now” e “The Agony Of Lafitte”, che chiudono il disco nella versione ristampata da Merge nel 2002. Due brani molto sinceri e piccati (“Oh tell me, don't tell yourself/Are you ever honest with anyone?”), che con le melodie teatrali, le chitarre tese e un dolcissimo xilofono impreziosiscono ulteriormente un disco già molto buono e solido.

Se di problema si può parlare, l’unico che affligge A Series Of Sneaks è la mancanza di una o più canzoni capaci di catturare l’attenzione a discapito delle altre, una di quelle potenziali hit che dal disco successivo sarebbero arrivate a grappoli. La forza dell'album risiede invece proprio nella sua costanza, nell’assenza di brani deboli, nella raffinatezza nelle scelte melodiche e degli effetti applicati alle chitarre, sempre sfiziosi ma mai ridondanti, che non appesantiscono un sound agile, snello, scattante, all’occorrenza nervoso e affilato. Con soltanto quattro delle quattordici canzoni originariamente incluse in scaletta più lunghe di tre minuti, A Series Of Sneaks strizza l’occhio all’art punk e si presenta come un mosaico di chitarre irte e ritmiche squadrate. I tempi ridotti delle canzoni sono però sufficienti a innestare melodie e balzani squarci di modernità nella mente di chi ascolta.
Poco più che un’introduzione al disco e al sound rinnovato, “Utilitarian” cattura subito l’attenzione con un’alternanza micidiale di riff baldanzosi e slogan urlati con determinazione da Daniel. “The Minor Tought” presenta chitarre ancora più pungenti e scarne; mentre “Execution” sfrutta la contagiosità di hand clapping e fischiettii per ammiccare al rock’n’roll degli Stones. “30 Gallon Tank” è un tripudio di coretti nevrotici e dadaisti incastonati tra una linea di basso elettrica e il borbottare stizzoso della chitarra.
“Metal Detektor” è tra i momenti più distesi del lotto, con una melodia fluttuante ad anticipare il riffing ribollente e fluviale di “June’s Foreign Spell”. La segue una serie di bozzetti più che di canzoni, tra i quali va segnalata la trendy “Staring At The Board” che quasi mostra la via all’iconica cantilena di Julian Casablancas. Prima dei due brani dedicati a Lafitte, concludono la versione originale del disco uno scazzo post-punk senza freni (“Quincy Punk Episode”) e la scivolosa e ammiccante “Advance Cassette”.
Frammentario, sfuggente, nevrastenico, stracolmo di idee, esuberante, talvolta impreciso e strabordante, A Series Of Sneaks prende mille rotte, proprio come le automobili stilizzate sulla splendida copertina, ma in fondo è chiaro che si tratti soltanto dell’inizio di un viaggio.

1999 – 2006: l’approdo a Merge e l’agognato riscatto

Dopo un anno di riflessioni e sperimentazioni, la band firmò con la Merge dei Superchunk. La collaborazione non soltanto avrebbe lanciato una volta per tutte gli Spoon, ma avrebbe costituito un tassello fondamentale del percorso intrapreso dall’etichetta per marchiare a fuoco la storia dell’indie-rock a cavallo tra anni 90 e 00 – tra le altre cose, Merge ha infatti prodotto titoli fondamentali di Neutral Milk Hotel, Arcade Fire e Magnetic Fields. Daniel, Eno e Zarbo trovarono in Laura Ballance e Mac McCaughan della Merge due mentori ospitali, che, lasciandoli relativamente liberi, ne stuzzicarono la creatività a tal punto da inaugurare quella che sarebbe stata una vera e propria golden age. Di lì a poco gli Spoon avrebbero infatti dato vita a quattro dischi pressappoco privi di punti deboli, con alcune canzoni destinate a memoria imperitura.

Il primo frutto del sodalizio tra Spoon e Merge fu l’Ep Love Ways, alle cui registrazioni non prese però parte Zarbo che si era preso una breve pausa dal progetto. Il bassista rientro però presto in formazione per realizzare il superbo Girls Can Tell del 2001.
Lungo soli 36 minuti, il disco è praticamente tutto il contrario di A Series Of Sneaks. Laddove il lavoro precedente presentava perlopiù una serie di bozzetti fulminei in luogo di canzoni vere e proprie, schegge nevrotiche declamate da Britt Daniel invece di testi dal senso compiuto, Girls Can Tell trova compiutezza melodica e testuale in ogni suo episodio. Undici canzoni relativamente distese, dove le chitarre, pur spigolose, disegnano angoli meno contundenti e gli interventi della viola e del mellotron completano un’atmosfera più fumosa e romantica di quanto fatto vedere in passato. Per certi versi si tratta di un disco che suona molto più da major del predecessore e che strizza l’occhio non più soltanto agli 80’s ma anche ai 60’s.
Tanto sono chiari e immediati i brani, che identificare tra questi i primi classici della band è un gioco da ragazzi, anche per qualcuno completamente all’oscuro della discografia degli Spoon. L’opener “Everything Hits At Once”, che nel 2019 la band avrebbe scelto come titolo del suo best of, è un prodigio di armonizzazioni, vivacità melodica e ritornello da canticchiare giulivamente. Più rustica e struggente, “Lines In The Suit” è un trionfo di sensualità melodrammatica incarnata dal tono sofferto di Daniel. In poche parole: due indie hit americane immortali.
Mossi da riff ruggenti, “Believing Is Art” e “Take A Walk” sono i frangenti più in linea con gli esordi della band; mentre l’utilizzo insistente del mellotron in “Anything You Want” e “1020 Am” permette la generazione di suggestioni inedite. Nella prima delle due canzoni lo strumento offre semplicemente il contrappunto all’ennesima grande parte cantata di Daniel, mentre nella seconda immerge il disco tra vapori sessantottini. “This Book Is A Movie” è uno strumentale dal passo cinematografico nel quale i riff di chitarra si muovono felpati tra tastiere che intonano arie noir e la ritmica geometrica. Chiude un altro futuro inno indie notturno e umido intitolato “Chicago At Night”, che strozza il disco in una pozzanghera illuminata da neon e tastiere soffuse.
Assestatosi alla posizione 46 della classifica dei dischi indipendenti di Billboard, Girls Can Tell offrì soltanto una pallida avvisaglia del potenziale commerciale degli Spoon, totalizzando comunque più copie vendute di tutta la produzione precedente messa insieme.

Per molti il miglior disco degli Spoon, di certo quello che può accontentare più palati, Kill The Moonlight segnò un’ulteriore evoluzione nel sound della band. La propensione alla melodia è la stessa che anima di Girls Can Tell, ma gli arrangiamenti sono molto più spartani e minimali, l’amalgama degli strumenti meno pastoso. Utilizzando sapientemente il silenzio come spazio tra le varie parti strumentali, la produzione di Mike McCarty riesce a valorizzare consistenza, timbri e sfumature di ogni strumento musicale. Un’altra novità consistente è l’uso insistito del pianoforte, che in Kill The Moonlight è importante almeno quanto la chitarra. Questa scelta fu per la musica degli Spoon una specie di rivoluzione copernicana. Daniel e soci passarono infatti dal totale rifiuto dello strumento a farne il motore della loro nuova musica. In un’intervista dell’epoca, il cantante dichiarò che all’inizio della carriera gli Spoon non avrebbero mai preso in considerazione l’uso del pianoforte, perché band da loro idolatrate come i Wire non lo avrebbero mai fatto, ma che una volta maturati si erano resi conto di quanto quell’atteggiamento fosse stato ottuso e controproducente, che il pianoforte è fondamentale in tanta musica che adorano, come quella di Marvin Gaye o della Plastic Ono Band.
Meglio tardi che mai, viene da pensare ascoltando Kill The Moonlight. Il piano è infatti l’anima di quella che è probabilmente la traccia più famosa mai registrata dagli Spoon: “The Way We Get By”. Un inno alla vita semplice ed euforico che sarebbe stato scelto come colonna sonora di “Stranger Than Fiction”, commedia surreale con Will Ferrel del 2006 per la quale Daniel ha selezionato alcuni brani, ma anche di "The O.C." e della versione americana di "Shameless". Anche un altro capolavoro del disco, la frizzante “All The Pretty Girls Go To The City”, è decisamente piano guided, così come la romantica ballata che chiude l'intero lavoro, “Vittorio E.”, e la più breve “Something To Look Forward To”.
“Stay Don’t Go” è un indie-rock catchy e ammiccante che attorciglia le strofe attorno a un sample febbrile e sincopato della voce di Britt; mentre la successiva “Jonathan Fisk” è la consueta bordata chitarristica destinata ai fan della prima ora, adornata però dal succoso supporto del sassofono. Con le sue tastiere ad altissimo voltaggio, un ritornello da mandare a memoria e l’approccio moderatamente sperimentale, “Small Stakes” è un altro instant classic.
Kill The Moonlight migliorò anche la performance commerciale del suo predecessore, raggiungendo la posizione 23 della classifica dei dischi indipendenti di Billboard. Gli effetti travolgenti di un classico come “The Way We Get By” si sarebbero però visti soltanto qualche anno più in là.

Arrivato sugli scaffali dei negozi nel maggio 2005, Gimme Fiction fu distribuito ancora una volta da Merge, con il supporto di Matador (tra l’etichetta e la band i rapporti non si erano mai veramente incrinati) per coprire il mercato europeo – un terreno in cui gli Spoon hanno sempre faticato a metter radici.
Arrestando le proprie osservazioni al sound del quinto disco degli Spoon, viene da pensare che le novità apportate rispetto alla fatica precedente siano poche, e in effetti lo sono – del resto Kill The Moonlight era il lavoro di una band nel pieno della sua maturità artistica. Analizzando più a fondo le undici canzoni di Gimme Fiction, sono però evidenti un grande sforzo e un deciso passo in avanti dal punto di vista compositivo, che ne fanno il disco ad oggi più ambizioso della formazione di Austin. Con brani che deragliano spesso dai binari della tradizionale sequenza strofa-ritornello-strofa (seguita in passato piuttosto fedelmente dagli Spoon, specie nei due dischi precedenti) per raggiungere destinazioni inattese.
Anche gli umori che si riscontrano sono piuttosto distanti da quelli più scanzonati di Kill The Moonlight, con un alone di mistero calato un po’ ovunque. Sin dalla fantastica, ammiccante copertina che ritrae una moderna cappuccetto rosso fotografata di sguincio, un’invitante pifferaia magica che, seducendolo, attrae l’ascoltatore in quel mondo patinato e torbido che a questo giro sono le canzoni partorite dalla penna, mai così simbolista e ambigua, di Britt Daniel.
Posto al centro del sound, il basso pulsante di Josh Zarbo prende le redini di brani ipnotici come “I Turn My Camera On”, gran numero dance-punk ispirato dall’ascolto reiterato dei Franz Ferdinand, e “The Beast And Dragon Adored”. In quest’ultima, possenti bassi di pianoforte fanno vibrare l’aria e creano una tensione palpabile che viene scardinata, ridotta in brandelli dagli sfregi di chitarra della conclusione. Anche in un’atmosfera tesa come questa, Daniel riesce a piazzare un refrain indimenticabile dei suoi: “I got to believe it come from rock and roll/ Believe it come from rock and roll”. “My Mathematical Mind” è ancora più frenetica: il pianoforte e il basso si propongono in un intreccio che non lascia respiro, il finale è una tempesta di rumori che sbucano da ogni spazio.
Zarbo e Eno sfoderano in “Was It You?” e “They Never Got You” il loro lato più metronomico, la devozione mai sopita alle ossessioni ritmiche dei kraut-rocker, debitamente filtrati dalla lente modernizzante degli Stereolab, i cui insegnamenti vengono abbinati all’occorrenza a contagiosi handclapping, in un mix che rifugge ogni coordinata di tempo e stile. Il rock’n roll contagioso di cui gli Spoon erano ormai maestri prende lussureggiante forma nella beatlesiana “I Summon You”: riff stoppato di chitarra acustica, strofa appiccicosa tanto quanto il ritornello, leggero insaporimento di sintetizzatori sul finale.
Anche Gimme Fiction sarebbe stato letteralmente saccheggiato da serie Tv e cinema. L’immediatezza e la carica emotiva di canzoni come “Sister Jack”, “I Turn My Camera On”, “I Summon You”, “The Infinite Pet” avrebbero inondato serial come “The Simpsons”, “Veronica Mars” e “Scrubs”, nonché il cult per indie-kid di Marc Webb “500 Days Of Summer” (2009). Il disco divorò la classifica indie di Billboard conquistandone presto la vetta, facendo per giunta capolino in quella generale alla posizione n.44.

2007 – 2010: quattro underdog in cima alle classifiche

Dopo Gimme Fiction gli Spoon erano ovunque. Britt Daniel, Jim Eno, Eric Harvey (pianista e tastierista fondamentale per il nuovo sound della band in pianta stabile dal 2004) e Rob Pope (che dal 2007 in poi sostituì Zarbo al basso) calcavano i palcoscenici dei Late Show dei vari Letterman, O’Brien e compagnia cantante senza soluzione di continuità; con un po’ di ritardo erano diventati la nuova next big thing statunitense e ad attendere spasmodicamente l’uscita di Ga Ga Ga Ga Ga (licenziato sempre da Merge, questa volta con l’ausilio di Anti-) c’erano ben più che i soliti indie-kid.
Il sesto disco degli Spoon fece letteralmente il botto, scuotendo le classifiche di Billboard con un sonoro primo posto in quella dei dischi indipendenti e il decimo in quella generale. Probabilmente proprio a causa della grande esposizione vissuta dalla band in quel periodo, che la pose in continuo contatto con il pubblico, ogni canzone di questo disco dal titolo dadaista e misterioso sembra fatta per essere cantata a squarciagola, mandata a memoria, ballata col sorriso stampato sulle labbra. Handclapping come se piovesse, intonazioni lennoniane, ritornelli rotondi e radiofonici, ritmiche irresistibili, melodie lussureggianti ed euforiche a pacchi. Ma anche, al solito, cura maniacale in sede di registrazione, col sapiente Jon Brion a fare compagnia al solito Mike McCarthy esaltando la precisione totale e la strabordante inventiva dei quattro musicisti.
Apre le danze un indie-rock diretto e sfacciato, intitolato “Don’t Make Me A Target”: riff elettrizzante, elegante finitura di piano, solito ritornello infettivo e finale cacofonico quanto basta. Un pattern di pianoforte ossessivo tormenta “The Ghost Of Your Lingers” dall’inizio alla fine mentre, echi vocali e rumori sinistri infestano il brano come presenza oscure. Il lieve sperimentalismo del pezzo non inficia minimamente il suo potenziale pop. “You Got Yr. Cherry Bomb” è un’altra hit micidiale con tanto di ottoni scintillanti intorno ai lussureggianti chorus; mentre “Don’t You Evah” affila il tiro della ritmica per riscaldare le dancehall indie a inizio serata con un groove vagamente dance-punk e note di chitarra bagnate in una coppa di vodka. Fiati d’altri tempi fanno capolino in questi e altri brani del disco, rappresentandone un gustoso insaporimento che ne esalta gli angoli pop.
Due rock’n’roll che brillano per immediatezza e freschezza come “Rhythm & Soul” (con un grandioso intervento del flauto che si intreccia a una chitarra fuzzata) ed “Eddie’s Ragga” conducono a un’altra gemma: “The Underdog”. A suo modo un inno generazionale, la canzone è rivolta a tutti gli underdog, letteralmente gli sfavoriti in una competizione, i sottovalutati dunque, gli ultimi della classe, i nerd, gli sfigati, gli adolescenti  brufolosi, i secchioni e chi più ne ha più ne metta. Che vengono incitati da squillanti riff di tromba e da una chitarra acustica spennellata con brio e fantasia affinchè per una volta ce la facciano, la abbiano vinta, proprio come gli Spoon, underdog per antonomasia. 
A dispetto del titolo orientale, “My Little Japanese Cigarette Case” conclude tra chitarre spagnoleggianti una passeggiata rock condita da effetti stranianti e potenti riff. In mezzo a tutto questo ben di Dio, una gemma dalla melodia cristallina e dalla cadenza vivace come “Finer Feeling”, che band indie odierne pagherebbero per avere in repertorio, finisce quasi col passare in secondo piano; mentre la suadente ritmica acustica di “Black Like Me” conclude 36 minuti di pop- rock praticamente perfetti. Una collezione di canzoni che non teme rivali tra i pesi massimi indie del suo decennio (i vari Arcade Fire, Franz Ferdinand, Arctic Monkeys), il cui peso è però difficile da cogliere appieno dalla nostra parte dell’oceano.

Nonostante gli Spoon non avrebbero mai più rilasciato un disco apertamente pop come Ga Ga Ga Ga Ga, il successo di quest’ultimo negli Stati Uniti fu così straripante e l’infiltrazione delle sue canzoni nella pop culture così tentacolare, da influenzare positivamente le vendite dei lavori successivi, anche in assenza di hit istantanee e accessibilità, come nel caso di Transference del 2010. Nonostante suoni come una reazione inversa alla debordante melodiosità del suo predecessore, caratterizzato com’è da spigoli e strutture tutt’altro che semplici o riconoscibili, il disco raggiunse la posizione numero 4 della classifica generale di Billboard.
“Before Distruction” e “Is Love Forever?” aprono la scaletta con arrangiamenti posizionati giusto in mezzo alla pulizia asettica di Kill The Moonlight e alla frenesia palpabile di A Series Of Sneaks. “The Mistery Zone” è tutta un borbottare di tastierine noir che si interrompe bruscamente proprio quando la canzone sembra incamminarsi verso una qualche sorta di climax; anche la successiva “Who Makes Your Money”, basata però su incalzanti riff di chitarra, si interrompe beffardamente sul più bello, quando pare voler imboccare un ritornello o qualcosa di simile. Uno sfogo.
Il titolo di “Written In Reverse”, una canzone in cui la proporzione usuale tra le parti cantate e quelle suonate del rock viene ribaltata, appare come un manifesto programmatico della rivoluzione anti-climax di Transference. “Saw The Light” gioca altrettanto sporco: nei primi minuti sciorina per bocca di Britt quello che potrebbe sembrare un ritornello, che però non ritorna, viene invece riposto nel cassetto in favore di una lunga, ispida sfilata di chitarre, tra le quali si infila occasionalmente un pianoforte ramingo.
Chiunque sia alla disperata ricerca di qualche canzone più propriamente definibile tale, ne troverà un pugno nella seconda parte del disco, a partire dalla ruggente combinazione di Beatles e Television “Trouble Comes Running”. Breve e dolcissima, “Goodnight Laura” è una confortante ninna nanna postmoderna. Chiude la bellissima “Nobody Gets Me But You”, episodio scheletrico, squassato da turbini pianistici e interferenze elettroniche. Un’altra grande canzone indie-rock come non se ne sentono più. L’ambizione, la sfida intentata dagli Spoon con Transference si palesa anche nell’inconsueta durata di oltre quaranta minuti (soltanto “Gimme Fiction” fa lo stesso), nei quali i fan che si erano accostati alla band soltanto da Ga Ga Ga Ga Ga vengono deliberatamente provati, pungolati. Le imprevedibili geometrie di questo lavoro esaltano la grandeur tecnica ed esecutiva del quartetto, il disco però fallisce talvolta, sebbene raramente, in termini di comunicatività.

2011 – oggi: una longevità invidiabile

Già dichiarato indirettamente attraverso un disco di rottura come Transference, il rapporto controverso e conflittuale di Daniel e soci con il successo venne espresso con veemenza dal titolo del disco successivo: They Want My Soul. Loro sono sicuramente i discografici, in tutta probabilità parte dei fan, e l’anima che vogliono succhiare è quella di Britt. Il quale talvolta la concede ben volentieri, accade ad esempio in questo disco numero otto, targato 2014. They Want My Soul è in tutta probabilità la cosa più vicina a Ga Ga Ga Ga Ga mai realizzata dagli Spoon, dove però al posto dell’euforia del'album del 2007 troviamo alte dosi di nostalgia (come se la band fosse tutt’un tratto divenuta consapevole dell’innocenza perduta) e al posto del pianoforte ariose tastiere imbottite di echo.
Primo disco realizzato per Loma Vista invece che per Merge, They Want My Soul vide entrare in formazione con il compito di rimpolpare il suono Alex Fischel, diviso all’occorrenza tra chitarra e tastiere. Alla produzione intervenne David Fridmann (produttore storico di Flaming Lips e Mercury Rev), chiamato in causa per facilitare gli intenti psichedelici della missione oltre che per rinfrescare l’atmosfera. Nei quattro anni che precedettero il disco (la pausa più lunga mai intercorsa tra due uscite degli Spoon) tutti i membri del gruppo, bisognosi com’erano di staccare un po’ la spina, si erano infatti dedicati a disparati progetti paralleli – Jim Eno produsse diverse band emergenti, Britt Daniel fondò i Divine Fits insieme a Dan Boeckner dei Wolf Parade, mentre Rob Pope andò in tour con i suoi Get Up Kids).
Due chitarre carnose che avanzano come ancheggiando, la voce ostentatamente roca di Britt, un ritornello chiaro e tondo con tanto di uh la la la: con “Rent I Pay” gli Spoon ritornano agli adorati 60’s degli Stones in un battito di ciglia. Altrettanto graffiante e sexy, “Do You” permane nel decennio dorato animata da pennate pimpanti sulla chitarra acustica e il proverbiale handclap; pacificante il finale, che sfuma tra mugolii e rilassate note di flauto. Insiste su coordinate rock’n’roll anche la title track.
Altra fan favourite istantanea, “Inside Out” intrappola una melodia dolcissima in una bolla di battiti narcotizzati e adornamenti orientali di tastiere. E’ la prova finale di una fantasia in fatto di arrangiamenti che non conosce limiti. La sapienza e l’esperienza di Fridmann in console esaltano il gioco di contrasti di “Knock Knock Knock”, nella quale il basso e la chitarra acustica avanzano a passo marcato nell’atmosfera sintetica realizzata da beat machine e tastiere. Ci scappa anche un assolo di chitarra urticante che squarcia la canzone. Tastiere ad alta velocità echeggiano sulla superstrada synth-pop di “Outlier”, che comprime in quattro minuti e mezzo tutte la fasi della carriera dei Primal Scream. Si balla duro.
Mozzafiato il finale romantico affidato a “New York Kiss”: la Grande Mela sotto la pioggia, di notte le tastiere scalpitano palpitanti di batticuore, il neon delle insegne degli H24 è ovunque, sulle strade, nelle pozzanghere, negli occhi brillanti dei protagonisti del bacio.
Con They Want My Soul gli Spoon indovinarono un’altra collezione di canzoni rotonde e immediate, sebbene più cupe e ambigue, che ne fecero brillare la stella anche nel nuovo decennio. Un lavoro con cui la band raggiunse nuovamente la posizione numero quattro della classifica di vendite americana. Certo, l'album manca della freschezza e, viene da pensare, dell’effetto sorpresa di Ga Ga Ga Ga Ga, ma conferma una longevità creativa e una costanza qualitativa senza pari, perlomeno tra i colleghi indie-rock contemporanei.

La prova del nove, letteralmente del nove, di questo assunto arriva con Hot Thoughts del 2017 (Matador), un disco frammentario, schizofrenico, episodico. Forse gli Spoon non avevano più nulla di nuovo da dire, metteteci anche che l’indie-rock era totalmente passato di moda, la scena in cui si affacciavano non aveva nulla a che vedere con quella di una decina di anni prima. Eppure, semplicemente riprendendo le centinaia di idee disseminate nei dischi precedenti, riplasmandole, inscatolandole in nuove canzoni, ecco prendere forma un patchwork vitale e compiuto. Un’opera nona più fresca di numerosi esordi.
La title track è un ribollente condensato di ritmi spigolosi, linee di chitarra tortuose e xilofoni martellanti, un oggetto cangiante e ammiccante pronto per radio e piste da ballo. “WhisperI'lllistentohearit”, suonata tutta d’un fiato come ne va pronunciato il titolo, è un punk’n’roll supersonico con tastiere cibernetiche in luogo delle chitarre. “Shotgun” mantiene lo stesso, tesissimo tiro; mentre “First Caress”, deliziosamente jaggeriana, gommosa e avvolgente, è un’altra potenziale killer track radiofonica.
Hot Thoughts sorprende ancor più quando abbassa i ritmi, puntando ad atmosfere ipnotiche e velatamente psichedeliche. Piazzata a metà scaletta, “Pink Up” è un conturbante sogno tropicale, guidato da tastiere sensuali e sibilanti. I cinque minuti finali del disco, affidati ai sassofoni di “Us”, sono ancora più sorprendenti, mentre “Tear It Down” tradisce il suo Dna indie con un’emozionante quanto inattesa coda dreamy.

Me ne sono suonati in testa diversi di titoloni e leit motiv sui quali incentrare la mia recensione del nuovo disco dei texani Spoon. Non avrei saputo quale scegliere, non devo sceglierne uno soltanto e ritengo facciano tutti più o meno centro. Eccovene quindi una piccola cernita.
Dell’impossibilità degli Spoon di scrivere un brutto disco.
Dieci dischi e non sentirli.
Lucifer On The Sofa: ossia come fare un grande disco rock’n’roll nel 2022.
Non perdono colpi Britt Daniel, Jim Eno e gli altri. Anzi. Variando quel giusto la loro inconfondibile formula indie-rock ad ogni giro di giostra, sopravvivono ai decenni e alle mode – decisamente meglio peraltro di tanti colleghi di generazione (The NationalArcade Fire, per sparare qualche nome grosso). E così eccoceli qui, ancora una volta, ancora con un gran disco. Il numero dieci, il loro più classico.
Quasi diviso idealmente in una prima parte più sparata e gagliarda ed una seconda a luci soffuse, “Lucifer On The Sofa” inizia con una cover, “Held” di Bill Callahan (era Smog), impernata su un riff corto, tagliente e irresistibile. Inizialmente sghemba e spoglia, la canzone pompa gradualmente più rumore per fare da ponte alla scatenata “The Hardest Cut”, un tripudio di ritmi, battimano e affilati fendenti di chitarra. E’ solo il primo di una serie di agganci clamorosi tra un brano e l’altro, che fanno del disco quasi un’opera architettonica, ottima nelle sue singole parti, ma congegnata al dettaglio anche nella sua struttura.
Prima di una emozionante e liberatoria (come ultimamente lo sono pochi brani rock) “Wild”, che comprime Primal ScreamRolling Stones (quel piano!) e Pixies in tre minuti e rotti, si rifiata con la ciondolante “The Devil & Mister Jones”, un rock lento ma brioso che si dipana in una lunga e sinuosa coda per chitarra elettrica e ottoni.
Per due brani irruenti e decisamente chitarristici come “Feels Alright” e “On The Radio” (dove però a dettare il ritmo della cavalcata è il pianoforte), troviamo due ballad romantiche, “My Babe” e “Satellite” che bilanciano la saccarina in eccesso con la giusta dose di ironia e twist strumentali. Il tocco fiabesco del mellotron, i fiati soffiati lunghissimo e le ritmiche down-tempo imbastite dalla batteria di Jim Eno rendono invece deliziosamente sospese e notturne, anche vagamente psichedeliche (e qui si sente il tocco di uno dei produttori chiamati in causa, quel Dave Fridmann celebre per l'apporto a Flaming Lips e compagnia bella), le bellissime e stravaganti “Astral Jacket” e “Lucifer On The Sofa”.
Meno ambizioso, ma anche certamente molto meglio riuscito del predecessore Hot Toughts (che nel 2017 ha segnato il ritorno della band in casa Matador), Lucifer On The Sofa ha davvero la statura di quello che soliamo etichettare come instant classic e si posiziona giusto mezzo gradino più sotto i quattro capolavori rilasciati dagli Spoon tra 2001 e 2007 per Merge.

Spoon

Discografia

Nefarious (Ep, Fluffer, 1995)

Telephono (Matador, 1996)

Soft Effects (Ep, Matador, 1997)

A Series Of Sneaks (Elektra, 1998 - Merge, 2002)

Loveways (Ep, Merge, 2000)

Girls Can Tell (Merge, 2001)

Kill The Moonlight (Merge, 2002)

Gimme Fiction (Merge, 2005)

Ga Ga Ga Ga Ga (Merge, 2007)
Transference (Merge, 2010)
They Want My Soul (Loma Vista, 2014)
Hot Thoughts (Matador, 2017)
Everything Hits At Once (raccolta, Matador, 2019)
Lucifer On The Sofa (Matador, 2022)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Nefarious
(da Telephono, 1996)

30 Gallon Tank
(da A Series Of Sneaks, 1998) 

The Way We Get By
(da Kill The Moonlight, 2001)

The Beast And The Dragon Adored
(da Gimme Fiction, 2005)

 

The Underdog
(da Ga Ga Ga Ga Ga, 2007) 

 

Out Go The Lights
(da Transference, 2010)

 

Inside Out 
(da They Want My Soul, 2014)

 

Hot Thoughts
(da Hot Thoughts, 2015)

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