Steven Wilson

Steven Wilson

Un autoritratto rock (e altre storie)

Messi da parte i leggendari Porcupine Tree, il frontman inglese ha dato avvio a una carriera solista votata a una sempre maggior libertà espressiva, spostando l'accento dalla storica vena progressive a quella di sensibile e raffinato songwriter

di Michele Palozzo e Matteo Meda

"To be or to be like?"
Quella della linea sottile tra costume e identità, del rapporto problematico tra vena creativa e stilema è una vecchia storia nel mondo del rock, una di quelle che animano da sempre il dibattito più appassionato quanto quello più sterile. Qualcosa che spesso si risolve in luoghi del tutto estranei all'artista, come l'essere utilizzato tra gli argomenti principe da un critico nel giudicare un'opera (il classico "suonare troppo uguali a se stessi").
Ma in occasioni più rare, al di là delle diatribe tra addetti ai lavori e delle discussioni tra fandom, c'è da credere che il problema si presenti, in forme più nobili e intime, anche all'attenzione degli artisti stessi. O almeno di quelli fra loro la cui parabola produttiva mantiene un forte legame, variamente percettibile, con eventi autobiografici, percorsi emotivi, fantasie, desideri, e quanto più appartenga alle sfere più intime della propria personalità.
Qual è il confine tra l'avere uno stile "personale e inconfondibile" e il suonare in un "certo modo", magari fin troppo ripetitivo? E quale spazio può trovare, all'interno di una formula sedimentata nel tempo, la creatività, se intesa come "slancio" espressivo? Come esplorare territori nuovi mantenendo coerentemente il medesimo abito? E infine, quanto di quell'abito è frutto davvero delle proprie istanze creative, e quanto è prodotto di fattori altri - primo fra tutti il desiderio di "coltivare" un pubblico, di non deluderne le aspettative, di assecondarne i desideri?

Capita pure che tali interrogativi possano sfociare in risposte problematiche, in prese di coscienza decisive, far scoprire che talvolta anche i propri abiti preferiti possono risultare stringenti, far percepire il bisogno di un ritorno a quella nudità talvolta quasi combattuta, rifiutata, estinta. Un bisogno che, fuor di metafora, può condurre a scelte drastiche volte a ritrovare il rapporto più puro con la propria sfera creativa, rinunciare alla forma e alla coerenza stilistica per ritrovare una sostanza rimasta per troppo tempo nascosta, forse anche zittita. Talvolta magari inconsciamente e sulla scorta di un fortissimo entusiasmo, come quello che può originare dall'inatteso e travolgente successo di una creatura nata quasi per gioco. Una linea narrativa simile è quella che racchiude la storia recente di Steven Wilson.
In un'intervista rilasciata al Guardian in occasione dell'uscita di Hand. Cannot. Erase (2015), il principale portabandiera della resurrezione psych-prog degli anni Novanta raccontava: "Ultimamente mi sentivo a disagio all'interno dei Porcupine Tree. Sentivo di essere diventato schiavo di quel sound. Non pensavo ad arrangiare un pezzo come sentivo di volerlo, ma a farlo in una maniera tale in cui i fan potessero riconoscerlo, e dire 'sì, è un pezzo dei Porcupine Tree!'. Ho sentito e sento tuttora il bisogno di dedicarmi a me stesso, di fuggire da quello stereotipo. Non so se sarà per sempre, ma ora è così".

Per quanto inattesa possa essere risultata la sospensione di un'avventura musicale durata oltre vent'anni come quella del gruppo madre, la cesura tra Wilson e i (suoi) Porcupine Tree è stata tutt'altro che un evento inatteso, o difficile da comprendere nelle sue linee di sviluppo. Al di fuori della cerchia dei fan irriducibili - diremmo anzi cultori - l'ultimo album in studio ("The Incident", 2009) era stato accolto come il primo segnale di un'ispirazione calante, non più predisposta a una svolta di portata simile a quella, per esempio, di "In Absentia" verso le sonorità metal. E i precedenti "Deadwing" e "Fear Of A Blank Planet" sono ad oggi considerabili come i prodotti più emblematici e "riassuntivi" dell'intero percorso del marchio. I punti d'arrivo di una ricerca nata come revival floydiano di una one man band camuffata da quartetto rock e passata, previa costituzione di una band autentica con strumentisti di fama internazionale (Richard Barbieri e Gavin Harrison, mostri sacri reinventati ad hoc nell'orchestrina diretta da Wilson), attraverso una moltitudine di fasi e altrettanti lavori decisivi - dall'insuperato "Signify" al fondamentale "Stupid Dream" fino ai già menzionati prodotti del nuovo millennio. A volerla leggere fantasiosamente, si potrebbe persino menzionare quanto "Sleep Together", tormentato e buio epilogo di "Fear Of A Blank Planet", suonasse perfettamente come possibile epitaffio, celebrazione ultima e quasi funerea della conclusione di un percorso, nonché anticipazione di uno spasmodico bisogno di fuga, di riconciliazione tra creatività e identità. This means out/ This is your way out/ Do or drown/ Do or drown in torpor/ Leave no trace/ All my files erased/ Burn my clothes/ Burn my Prada trainers/ This is fate/ This is your escape/ Leave here now/ Leave here, now it's over.

Per la storica formazione inglese il tour che ha fatto seguito al doppio "The Incident", documentato in maniera più o meno frammentaria nel live "Octane Twisted" (ad oggi l'ultima uscita ufficiale della band) ha dunque funto formalmente da ultimo atto. Non sono stati diffusi annunci ufficiali riguardo allo iato, ma a ogni domanda nel merito Wilson ha ribadito con forza quanto già riportato, aggiungendo (in maniera più o meno sbrigativa) che al momento non ci sono strade percorribili con la band e che, con una cosciente dose di egoismo, il suo interesse presente è completamente indirizzato alla propria carriera da autore solista. Un'avventura attraverso cui ha riunito sotto un medesimo nome (stavolta il suo, non più quello di un progetto, a testimoniare ulteriormente la necessità profonda di una "riaffermazione" personale) le diverse linee stilistiche sviluppate in vent'anni parallelamente al binario principe dei Porcupine Tree - dagli slanci tra prog-pop ed esotismo di Blackfield e No-Man alle tentazioni cosmiche di I.E.M. (Incredible Expanding Mindfuck), fino alle dilatazioni e contorsioni tra ambient-drone e bass music a nome Bass Communion. Ne è una dimostrazione inconfutabile anche solo il fatto che dal 2009 a oggi, a fronte di una pressoché totale cessazione dei progetti in questione - ad eccezione di Blackfield, ormai in mano al solo Aviv Geffen - siano usciti ben sette lavori in studio, tra cui un album di cover e uno di "transizione", e che ad essi si siano accompagnati numerosi, sempre più ampi e frequenti tour in giro per il mondo.

Narrare di questa nuova avventura di Wilson come di un allontanamento a gambe levate dal suo passato sarebbe però semplicemente deformante rispetto alla realtà dei fatti. Da un'analisi ad ampio raggio del percorso tracciato nei quasi dieci anni della sua attività eponima emerge infatti uno scenario sonoro paradossalmente molto "continuo". Un percorso che ha condotto infine a un'evasione più o meno completa dal prog-rock delle origini nell'ultimo To The Bone (2017), passando però attraverso una vasta gamma di sfumature, talvolta in assoluta coerenza con le sonorità tipicamente associabili al nome dei Porcupine Tree. A risultare radicalmente differenti, già dal primo Insurgentes, sono semmai alcuni dettagli fondamentali: il tenore decisamente più impegnato e autobiografico dei testi, la rinuncia alla ricerca di una necessaria coerenza stilistica interna a ciascun album, lo stile più immediato delle canzoni, la tendenza ad accogliere quando non a esaltare un certo istrionismo. Più che negli arrangiamenti e nelle sonorità in senso ampio, è nel rifiuto dell'auto-limitazione e nell'avallo della spontaneità compositiva e autoriale che risiede il vero senso della svolta intrapresa da Wilson in questo percorso solista. Una svolta che preferisce una narrazione senza filtri del sé a spese di qualsiasi residua referenzialità: a un marchio, a un pubblico, a un'idea univoca e predeterminata di stile. Una svolta, in ultima istanza, di natura strettamente "autobiografica".

220_insurgentes_02Al di sopra di ogni sospetto, ma a posteriori in maniera tutt'altro che sorprendente, il debutto solista avviene ancora in epoca Porcupine Tree, nel periodo immediatamente successivo a "Fear Of A Blank Planet". Il primo parto del nuovo percorso, Insurgentes, vede la luce dunque nel novembre 2008, con una prima edizione per Headphone Dust, prima della ristampa ad opera di Kscope nel febbraio 2009, e rappresenta in qualche misura il gemello "diverso" e "sregolato" del quasi contemporaneo lavoro sfornato con la band. Pur condividendo in toto la poetica esistenzialista e le tinte tendenzialmente scure, e risultando dunque inequivocabilmente congiunti, i due lavori si distanziano radicalmente a livello di atmosfere e sviluppo. Tanto "Fear Of A Blank Planet" era misurato, equilibrato al millimetro e "classico" - al punto tale da risultare forse il lavoro che meglio incarna l'immaginario Porcupine nella sua ampiezza complessiva - tanto Insurgentes è un lavoro caotico, "di getto", che trasuda un'urgenza espressiva senza filtri né autocontrollo alcuno.
L'album riprende buona parte delle tendenze post-prog degli ultimi Porcupine Tree, nonché moltissime variazioni su temi provenienti dal materiale della band o da outtake di album precedenti, declinandole però in una cornice ispirata prevalentemente dalle sonorità della new wave e del post-punk anni 80, dai Joy Division ai Cure - influenze che in qualche modo presagiscono già le numerose direzioni musicali alle quali Wilson si rivolgerà in seguito. Anche nella line-up figurano musicisti principalmente afferenti al dominio progressive: oltre alla batteria del pluriennale compagno Gavin Harrison, troviamo diversi ospiti d'eccellenza, tra cui il bassista crimsoniano Tony Levin e Jordan Rudess, tastierista dei Dream Theater, il versatile fiatista Theo Travis (due brani con lui in "Stupid Dream" e nella raccolta di outtake "Recordings") e, in una breve comparsata, la vocalist irlandese Clodagh Simonds (con Mike Oldfield in "Hergest Ridge" e "Ommadawn").

Con Insurgentes emerge inoltre un altro dei tratti fondamentali e distintivi della carriera solista di Wilson: la volontà di creare narrazioni audiovisive potenti e immaginifiche, vieppiù prossime agli stilemi della cinematografia contemporanea. Il singolo di lancio parla chiaro: prendere a prestito il nome del controverso regista americano Harmony Korine è un atto surrealista al pari del suo grottesco infierire sul degrado della civiltà occidentale; il testo, come per altri all'interno dell'album, non ha una diretta correlazione con il titolo e non segue pedissequamente un filo logico, bensì sperimenta accostamenti spontanei di parole e frasi che vanno a fondersi e confondersi nel tessuto musicale, dissociate dal loro valore semantico comune (Feel, no shame, too brave/ Feel, afraid, to wait forever). Un ulteriore aspetto che emerge per la prima volta è l'interesse per dissonanze ed elementi di derivazione noise con cui Wilson si sente ora libero di sperimentare, ispirandosi alle atmosfere da incubo evocate dal primo David Lynch, visionario maestro del sound design oltre che della settima arte in senso proprio.
L'eclettismo dei brani riuniti in Insurgentes tradisce, oltre alla già menzionata impazienza di fuggire dagli stringenti stilemi della band, un comprensibile e conseguente momento di indecisione sul cammino da intraprendere. L'album si configura dunque come un contenitore di idee abbozzate o tenute a lungo da parte, riproposte con una pregnanza emotiva sorprendente, benché di fatto prive di un legame organico. "Veneno Para Las Hadas" prende addirittura le mosse da una citazione diretta della chitarra diafana che inaugurava la suite "The Sky Moves Sideways", costruendovi attorno un'ambientazione imperturbabile; dalle asprezze di "In Absentia" ha invece origine un lungo strumentale in crescendo ("No Twilight Within The Courts Of The Sun") e, a mo' di intermezzo, la sua sommessa "Twilight Coda" in acustico. Nondimeno si intravede qualche barlume dell'intimo songwriting occasionalmente incastonato fra le migliori pagine del gruppo storico, da "Signify" a "Lightbulb Sun": la malinconica e fatalista "Get All You Deserve" anticipa l'intensa chiusa della title track, per solo pianoforte e voce (Now, out of death, you speak in tongues/ And, out of breath, your work is done/ And your dream absolves/ And your past dissolves).

220_graceÈ soltanto una volta sospesa l'attività in studio e live dei Porcupine Tree che fa la sua comparsa il secondo e più ambizioso album doppio, Grace For Drowning. Si tratta del disco che avvia formalmente la "carriera solista" di Wilson, realizzandolo definitivamente come autore rock in senso stretto. Dal punto di vista prettamente musicale, l'operazione passa attraverso un processo di scrematura, selezione e raffinazione di alcuni degli spunti più proficui emersi da Insurgentes: il ritorno in prima linea del basso, fortemente sacrificato negli ultimi lavori della band, l'attrazione per ambientazioni tenebrose e acide, l'impronta più "classica" e meno invasiva dei synth.
Ad implemento di questi elementi, l'album rivela alcuni dei fattori pronti a divenire perni fondanti della poetica autoriale di Wilson di qui in poi, dalla sempre maggiore complessità degli arrangiamenti all'ampliamento dello sguardo diretto verso il prog-rock classico degli anni Settanta, fino a una costruzione narrativa che collega immagini autobiografiche e metafore tratte da aneddoti, fatti di cronaca e aspetti della vita quotidiana, riuniti nella forma del "concept album".
In tal senso, il titolo si ispira alle testimonianze di persone comuni che hanno avuto esperienze di pre-morte: coloro che hanno rischiato l'annegamento raccontano di come, dopo una prima fase di agitazione e panico, sopravvenga una sensazione di calma, un placido abbandono che anticipa la cessazione del respiro. Una metafora che Wilson adotta per esprimere il suo crescente senso di liberazione nel poter fare ciò che gli piace o lo incuriosisce senza curarsi del giudizio altrui, dopo anni di ansia da prestazione nel dimostrare al mondo le proprie qualità di musicista. Da prodotto di un caotico bisogno di "sfogo creativo", l'istrionismo si trasforma dunque qui in autentica chiave stilistica, scelta precisa e ponderata in vista della narrazione musicale. Esaurita la foga estemporanea che aveva alimentato il lavoro precedente e assunto il controllo delle sue stesse emergenze creative, Wilson pare per la prima volta "servirsi" in senso funzionale allo slancio creativo e fortemente consapevole di testi e partiture, aprendo il suo universo sonoro a uno sguardo il più ampio possibile sul panorama seventies nel suo complesso. Nella line-up figurano nuovamente Rudess e Travis, al basso di Tony Levin si alternano Trey Gunn e Nick Beggs, mentre alla batteria troviamo Nic France e Pat Mastelotto (coi King Crimson da "Thrak" in poi).
Lo shift stilistico è da subito evidente, ed è in particolare la sfaccettata rivoluzione dei King Crimson a fungere da fonte di ispirazione primaria, dalla crudezza elettrica di "Larks' Tongues In Aspic" e "Red" al gusto per l'ornamento barocco di "Lizard", pietra di paragone confrontata direttamente nella suite "Raider II", maestoso compendio riservato al pre-finale dell'album.
La diretta conseguenza di questo onnipresente riferimento - la figura eclettica del deus ex machina Robert Fripp - è la capacità di gestire organicamente composizioni complesse e multiformi pur senza perdere di vista la componente più romantica di quella mitologia. Sintetizzatori Moog e mellotron, cori e sezioni orchestrali ammantano le sequenze più liriche ("Deform To Form A Star", "Postcard") come quelle di maggior furore strumentale ("Sectarian"): nello spazio di dieci minuti, "Remainder The Black Dog" accentra una quantità di arricchimenti e deviazioni stilistiche - dal prog sinfonico alla jazz-fusion sino all'avant-metal - che chiunque altro avrebbe gestito in maniera scomposta e magmatica, laddove Wilson giustappone ciascuna intuizione in un dialogo serrato e "cinematico" nel suo vorticoso sviluppo para-narrativo.

220_ravenSe Grace For Drowning segna la transizione da una visione in toni di grigio a uno scenario policromo, il successivo The Raven That Refused To Sing (And Other Stories) costituisce un vero e proprio viaggio a ritroso, quasi una "parentesi" fuori dal tempo rispetto all'evoluzione designata a posteriori dalla carriera solista di Wilson. Un episodio che condivide con i suoi predecessori una radicale idea di libertà creativa, con la metafora autobiografica che si sposta dalla narrazione in prosa in prima persona a un omaggio fiabesco al proprio "mondo ideale". Autentico progetto di restaurazione settantiana, questa volta in una direzione che conduce senza mezzi termini al sound storico di Genesis, Yes e Emerson, Lake & Palmer, l'album è il massimo compimento della "nostalgia factory" che l'intera carriera di Wilson musicista ha rappresentato. Facile ricondurre il contributo decisivo a questa mutazione all'incontro con l'immarcescibile Steve Hackett, con cui Wilson ha condiviso il palco in alcune date del "Genesis Revisited Tour" (2010) e le cui sonorità corali e vagamente etniche sono richiamate in più di un passaggio del disco.
Attraverso questa testimonianza diretta e uno studio accurato e dettagliato, Wilson si immerge nei suoni che l'hanno cresciuto musicalmente, se ne serve con maestria e senza remore, tenendosi a distanza da ogni forzato tentativo di "re-interpretazione" e modernizzazione, ridando piuttosto vigore e nuova linfa a motivi timbrici, sonori e musicali che appartengono alla storia del rock. Il tutto attraverso il recupero di strumenti d'epoca (Mellotron, Farfisa, vari sintetizzatori modulari e analogici), uno studio accurato e analitico delle tecniche compositive e della narratologia prog. Rimanendo nel parallelo con la settima arte, lo si potrebbe paragonare a ciò che Martin Scorsese ha voluto rievocare con "Hugo Cabret", ravvivando il fascino arcaico delle pellicole di Georges Méliès, precursore degli effetti speciali a venire; nell'artwork illustrato da Hajo Mueller, co-autore di alcuni episodi, la sua centenaria luna antropomorfa assume l'espressione del Grido di Edvard Munch e al contempo, forse, strizza l'occhio alla copertina dello "schizoid man" crimsoniano.

"Luminol" funge da lungo antefatto dedicato al tempo che passa, alle rughe che solcano il volto delle vecchie glorie della musica (He strums the chords with less than grace/ Each passing year etched on his face/ The words he sings are not his own/ They speak of things he'll never know), riportando la memoria al "classicismo esotico" di "Close To The Edge" fra Hammond e cambi di tempo, aperture corali e giochi di pieno e vuoto, esplosioni e ammiccamenti. La più dolce e spensierata "Drive Home", quasi un "secondo tempo" di "Postcard", si dirige invece dalle parti dei Genesis di "A Trick Of The Tail", mentre "The Pin Drop" cerca e trova l'effetto montagna-russa, rimarcando con la sua coralità l'incredibile affiatamento della band.
Fra gli apici del lavoro spicca "The Watchmaker", cavalcata interamente strumentale, che parte fra arpeggi di chitarra per esplodere poi in un unisono di voce, elettrica, ritmo e tastiere, passando nel mezzo per un assolo pianistico in tempo dispari. Il più misurato finale affidato alla title track, forse il pezzo più intimo dell'intero album, conduce per mano alla porta di uscita di un mondo fatato, portando a conclusione un viaggio temporale condotto con maestria compositiva e superba padronanza di strumenti espressivi storicamente complessi da gestire.

La successiva pubblicazione dà conto di una passione coltivata negli anni, a lato dei progetti più imponenti, e dispensata a piccole dosi in sei cd singoli dal 2003 al 2010, ognuno dei quali contenente un inedito e una cover. I brani riuniti in Cover Version non sono semplici esercizi di immedesimazione: con essi Wilson invoca autori passati e presenti, arcinoti e sotterranei, chiedendo loro il permesso di appropriarsi per un momento delle loro creazioni, reinventandole a propria immagine. Nessuna crisi d'ispirazione, soltanto la libera ricerca di emozioni da replicare e fare proprie in virtù di una diretta rispondenza tra sensibilità artistiche. Questo il senso e il motivo per cui questa raccolta si inserisce appieno nella produzione solista di Wilson: è un nuovo modo di mettersi a nudo, che sembra dirci - come lo scarno schizzo a matita della copertina che lo ritrae - "Anche questo sono io".
Ed è sorprendente - come deve esserlo stato per lui in prima istanza - la particolarità dei nomi chiamati in causa: c'è un piacere tanto sottile quanto unico nello scoprirsi in sintonia con una hit sui generis come "Thank U" di Alanis Morissette ("How 'bout changing a line 'cause it don't make sense?", l'unico ritocco al testo originale); o nel ripescaggio di un malinconico bozzetto metropolitano degli ABBA, perfetto nell'adattamento per la chitarra acustica di Wilson, che in queste riletture decide di giocare al ribasso concentrandosi sulla sua voce delicata e nasale. Solo il cavallo di battaglia di Prince, "Sign 'O' The Times", offre l'occasione adatta a una sferzata hard-rock nello stile dei Porcupine post-2000.
Brevi momenti di intimismo richiamano gioielli del passato come "How Is Your Life Today?", dove la vena di songwriter del frontman emergeva già in modo cristallino. Anche gli (ex) inediti qui contenuti non smentiscono la strada intrapresa negli ultimi anni: una musica che ormai lascia trasparire completamente le sue origini progressive/psichedeliche - su tutti l'indizio della chitarra frippiana in sordina di "Please Come Home". Da segnalare anche "The Unquiet Grave", un traditional avvolto in tenui overdub vocali in delay, e la romantica "Well You're Wrong", al ritmo di una ninnananna, con una tastierina soffice per tappeto e poche note di coloritura al pianoforte. La chiusa ambient di "An End To End" sigilla questo diario di sensazioni semplici che arriva dritto all'essenza di ciò che oggi Steven Wilson rappresenta come musicista indipendente.

220_hceSe non stessimo trattando di un artista con trentacinque anni di carriera alle spalle, non esiteremmo a definire Hand. Cannot. Erase. il suo album della maturità. Ciò, evidentemente, non per mancanza di precedenti prove di bravura, ma per la raggiunta e del tutto manifesta capacità di Wilson nell'amalgamare ogni aspetto della sua multiforme produzione in una narrazione quantomai emozionale e intima. Si tratta, di fatto, del primo album che lo caratterizzi pienamente come songwriter rock.
È un tragico (e a suo modo poetico) fatto di cronaca, già narrato in un documentario del 2011, a guidarlo verso un ritorno alla realtà e al tempo presente: si tratta del caso di Joyce Vincent, ritrovata morta nel suo appartamento londinese dopo più di due anni da dispersa, durante i quali nessuno si era reso conto della sua assenza. Una profonda compassione fa sì che gli sforzi di Wilson siano volti a immedesimarsi secondo diverse prospettive femminili, in un passaggio di consegne tra ieri e oggi che prende forma in "3 Years Older", l'ultimo omaggio ai Genesis prima del tramonto, introdotto in "First Regret" da un tappeto di piano ed elettronica soffusa. L'arrivo del mattino creativo è per certi versi sconvolgente: a inaugurarlo la title track, una pop song sincopata in cui emergono con forza radici British - e non è un caso che qui si trovi uno dei numerosi assoli memori dei Camel di Andrew Latimer. Bastano poche parole a celebrare la resistenza di un legame autentico che, tra sensi di colpa e reciproche solitudini, non cede comunque al peso degli anni.
Il tempo, la sua inerzia e l'impotenza dell'individuo nei suoi confronti: questo in definitiva è il tema che, in varie vesti testuali e musicali, con insistenza si manifesta in Hand. Cannot. Erase.. Il placebo dell'abitudine eretto a principale responsabile, ma al tempo stesso scomodo (e finto) alleato nella lunga analisi di "Routine" (Routine keeps me in line/ Helps me pass the time/ Concentrate my mind/ Helps me to sleep), tra mille cambi di scenografia il cui comun denominatore sta nella meticcia trasfigurazione prog di Steve Hackett. Nel turbinio di immagini e suoni in salsa trip-hop di "Perfect Life" è la stessa Joyce a raccontare dettagli della sua storia, tramite la voce narrativa di Jennifer Begley.
Rimane salda, in tutto ciò, la libertà di seguire i propri flussi di coscienza e memoria musicale: la matrice prog sopravvive nello spirito e nell'ossatura dell'insieme, ma le singole sequenze vanno a toccare una gamma assai più ampia di influenze e sfumature. Merito anche della band, la stessa di "The Raven..." qui confermatissima seppur in un contesto totalmente diverso. Chiare reminiscenze prendono dunque forma nella parte centrale dell'album: la prima alla furia di Insurgentes rievocata con classe su "Home Invasion", la seconda all'era psichedelica, nello spettacolare assolo di Moog di "Regret #9". Altre sono sparpagliate nel quarto d'ora scarso di "Ancestral", dallo scenario marziale dei primi minuti alle esplosioni ripetute della seconda metà, con tanto di travolgente assolo di chitarra.
La natura silenziosamente autobiografica dei testi, celata dietro la metafora narrativa, rivela la sua portata in "Transience": un episodio coerentemente breve, l'istante che sfugge di mano a Wilson bambino ("It's only the start", ripete incessante), in viaggio sulle rotaie di un treno e sui sentieri di un folk melanconico, da annoverare tra i frammenti più intimi che egli abbia mai scritto. Il culmine di questa è raggiunto nello straziante pre-finale di "Happy Returns", lettera al fratello sulle divisioni che il tempo e le vicende personali generano tra le persone care (Hey brother, I'd love to tell you I've been busy/ but that would be a lie/ 'cos the truth is the years just pass like trains/ I wave but they don't slow down).
Siamo realmente al calo del sipario su un intero capitolo della carriera di Wilson, quello delle band e dei tanti progetti meticci: un'epoca che si chiude forse definitivamente per fare spazio alla definitiva consacrazione come musicista, songwriter e prima ancora artista e uomo, (finalmente) libero di far sentire la sua voce.

Il suono della pura nostalgia, tanto nella strumentazione quanto nel mood delle liriche, continua a essere l'elemento che tradisce in maniera inequivocabile l'appartenenza del "quarto album e mezzo" alle accorate sessioni di Hand. Cannot. Erase.: ma 4 ½ , purtroppo, raccoglie perlopiù qualche strumentale rimasto orfano o, in un paio di casi, banali canzoni senza ambizione.
Dal tema del rimpianto, principale chiave di lettura del recente album, Wilson tratteggia la struttura di "My Book Of Regrets", che rimarrà l'episodio più compiuto di questa appendice: sembrerebbe quasi un prologo alla tragedia della ragazza deceduta nel proprio appartamento (Under neon lights she walks home/ Back to her apartment, oh a safe way/ Harbored when she locks the door she could slip away); e in modo quasi palese, benché forse inconscio, il secondo riff con la chitarra acustica ricalca la falsariga di quella "Time Flies" che suggellava il canto del cigno a nome Porcupine Tree, e che ammanta il brano di quella malinconia che è l'eterna compagna dell'adultità. Sulla stessa scia, nello strumentale "Year Of The Plague" ritornano i colori ad acquerello degli arpeggi hackettiani, stavolta ammantati dal vibrare di un violino.
È poi la volta dell'insipida "Happiness 3", dalle ritmiche quadre e invariabili: non che la semplicità sia di per sé un difetto - tutt'altro, guardando ai risultati sinora dimostrati da solista - ma laddove essa è accompagnata da una magra ispirazione melodica, diventa difficile accorgersi di stare ascoltando qualcosa di veramente nuovo. E non fa nulla per dissipare l'effetto patchwork anche il secondo strumentale "Sunday Rain Sets In", che dall'introduzione parrebbe una sorta di ballata dark-jazz nelle vicinanze di "Twin Peaks", per poi risolversi una volta di più in un mesto intermezzo crimsoniano.
Per uno scossone come si deve occorre attendere "Vermillioncore" che - organo Hammond a parte - è un puro revival della fase transizionale di "Stupid Dream" e "In Absentia" verso il contagio metal (nello specifico la matrice sembrerebbe la stessa di "Wedding Nails").
Con ciò giungiamo, infine, proprio a "Don't Hate Me": una superflua rivisitazione, poiché di aggiornamento non si può parlare, data la persistente indole retrò che circonda 4 ½ nel suo insieme - con la superflua aggiunta vocale della musa israeliana Ninet Tayeb, i cui squeak risultano semplicemente irritanti; nel mezzo non manca nemmeno una turnata di assoli tra tastiere e sax d'occasione su un altezzoso giro di basso, prima della decelerazione che conduce verso l'ultimo reprise.
La prematura ricomparsa sugli scaffali non è del tutto trascurabile, ma nel conteggio tra il quarto e il quinto opus di Wilson, forse, non c'era davvero spazio per un "mezzo album", che per la prima volta non offre alcun valore aggiunto alla sua produzione.


220_totheboneI'm tired of Facebook/ Tired of my failing health/ I'm tired of everyone/ And that includes myself.

Anche dopo diversi ascolti di To The Bone, è questo passaggio del singolo di lancio "Pariah" a rimanere più di tutti impresso nella mente. Ciò non soltanto perché fa riferimento diretto a uno strumento che, in una certa misura, sta logorando la vita e le relazioni di tutti, ma perché rivela una frustrazione che sembra accomunare già molti artisti del presente: essere costretti a un'esposizione mediatica ininterrotta, nutrendo l'occhio famelico e annoiato di un pubblico che ha sviluppato una nuova dipendenza da intrattenimento, che dal tubo catodico ha fatto il salto verso supporti dai quali, di fatto, non possiamo separarci.
Siamo stanchi, annoiati, nauseati dalle persone e dal loro "io" ipertrofico: non è difficile immaginare che un musicista, emergente o navigato che sia, si trovi prima o poi a fare i conti con un'immagine distorta di sé, una trappola identitaria alla quale si vorrebbe sfuggire prima di soccombervi. È un punto di vista che l'ascoltatore medio sembra aver difficoltà a comprendere, non accettando che un artista possa imboccare strade divergenti dagli standard dell'uno o dell'altro: così, come una profezia auto-avverante, al disvelamento di ogni nuova anteprima di To The Bone si è manifestata una sequela di commenti ironici, talvolta persino offensivi, sulle nuove predilezioni stilistiche di Wilson, che includono anche voci in falsetto e ritmi pop quantomai slanciati.
Nel giro di poco si sono sprecati i paragoni con la transizione dei Genesis dall'era Peter Gabriel a quella (da molti vituperata) di Phil Collins: va ricordato però che, per quasi tutti i gruppi progressive storici, il passaggio all'universo pop è stato non soltanto un "compromesso storico" necessario alla sopravvivenza, ma anche un segno del tempo che cambia le forme di ascolto e le predilezioni sonore del pubblico. Per l'ex-leader dei Porcupine Tree adottare quegli stilemi è, sì, la risposta a una necessità di cambiamento per certi versi spiazzante, ma è anzitutto un'ulteriore sfumatura di quella nostalgia che ha guidato e ispirato ogni fase della sua carriera, come frontman e ancor più da solista - non ultimo, poi, nel ruolo di "restauratore" dei cataloghi di King Crimson, Yes, Jethro Tull, Gentle Giant e altre leggende.

Ogni aspetto dell'attività artistica di Wilson ne conferma la qualità di colto musicofilo che negli anni non si è affatto crogiolato nella propria comfort zone: egli stesso ricorda le critiche alla svolta metal di "In Absentia" - oggi tra i dischi-simbolo degli anni Zero - e con piena coscienza si prepara al tour in cui presenterà canzoni che solo di primo acchito potrebbero sembrare in parte estranee al suo raggio d'azione usuale.
Se oggi troviamo in copertina un ritratto di Steven anziché un soggetto dal forte impatto immaginifico, è probabilmente in virtù del fatto che i contenuti stessi dell'album spostano il punto focale dalla narrazione (o l'epos, nel gusto pomposamente vintage di The Raven) alla lucida autoanalisi, al tentativo di "mettere a nudo" un sentire ancora più personale e veicolare un inedito sguardo sul presente.

Anche solo cinque anni prima, un pezzo come "Permanating" sarebbe stato impensabile all'interno del repertorio di Wilson, e proprio per questo arriva come una ventata rigenerante, discostandosi con decisione dalla vena profondamente malinconica che da sempre contraddistingue il songwriting del capofila del rock inglese. Un analogo senso di liberazione e levità circonda il ritornello di "Nowhere Now", episodio che, con parole normalmente consone a una hit radiofonica, evoca nientemeno che uno spensierato librarsi tra le nuvole (Here above the clouds/ I am free of all the crowds/ And I float above the stars/ And I feel the rush of love).
Siamo in totale ed evidente contrasto con l'invocazione del brano citato più sopra, dove il soggetto principale viene enfaticamente apostrofato dalla musa Ninet Tayeb come pària, ossia l'ultimo degli ultimi nella piramide sociale. Più avanti non mancano ulteriori ombre: "People Who Eat Darkness" esprime la preoccupazione del diventare estranei persino a distanza ravvicinata, chiusi nelle nostre vite tanto simili eppure così nettamente divise (Pretend that we're not here/ If you look the other way we disappear/ We want you to ignore/ The people who eat darkness from next door); nella lunga "Detonation" percussioni digitali introducono l'impersonificazione di un terrorista che si rivolge al proprio dio silenzioso, del quale si fa crudele messaggero prima di compiere l'azione omicida (And the ones who are given it all/ The good looks, the wealth/ And the charm and the innocence/ They are all gonna fall/ But I will take it back).

Una gran quantità di elementi, in definitiva, fa pensare proprio agli anni 80 di Peter Gabriel, dall'impegno delle liriche e la varietà di registri affiancati nella tracklist alle scelte d'arrangiamento, finanche alle brillanti cromie della cover, speculari a quelle di "Us". E se l'incedere subdolo e ossessivo di "Song Of I" ha il fascino sinistro di una "Intruder", l'accorata dedica di "Refuge" ai profughi delle guerre nel terzo mondo non è forse la sua personale "San Jacinto"? (And if you ask me again/ Is this life?/ I don't see I have a choice/ But I still smile/ And bide my time.)
Rimane ugualmente spazio per momenti in cui l'impronta melodica di Wilson si fa assolutamente inequivocabile, dal beffardo alt-rock di "The Same Asylum As Before" alla parentesi acustica "Blank Tapes" arrivando all'ultima eterea invocazione di "Song Of Unborn", puro revival Porcupine Tree dei tardi 90, una mano tesa a conforto di chiunque sia messo alla prova da una vita e una società che non riescono ad andare incontro al cambiamento (Now the shadows are long/ And the cities are lost terrain/ When you wake up every day/ To find nothing's changed).
Più che nella scrittura vera e propria, allora, si può dire che questo sia l'album "pop" di Wilson in quanto ha voluto finalmente concedersi carta bianca, nel bene e nel male, muovendo un altro passo al di fuori del culto da concept-album. Non tutti riusciranno ad accettare che To The Bone sia semplicemente una libera raccolta di canzoni che, invece di alimentare esclusivamente la memoria di un glorioso passato, ci parlano di un artista che vive sempre meno sulla scorta dello stesso, traendone spunto soltanto nella misura in cui esso può assisterlo nella ricerca di una voce nuova, ovvero nella sua mai sopita crescita artistica.

Annunciato dal singolo "Personal Shopper" nel marzo del 2020, rimandato al 12 giugno dello stesso anno, quindi posticipato al 2021, The Future Bites dimostra come Wilson non solo abbia imparato a nuotare nell'orgia tecnologica dei moderni synth, ma li sappia dominare, usandoli come strumento narrativo della società contemporanea. E se in To The Bone l'oggetto di sdegno era Facebook, in The Future Bites è la febbre del consumismo il presupposto delle intelligenti provocazioni in forma canzone del musicista inglese. Anche questa volta Wilson sale sul carro degli sgomenti, indicando senza remore il nemico (il consumismo) e allo stesso tempo confondendo con fare beffardo l'ascoltatore devoto, invitandolo a comprare qualsiasi artefatto che brandisca il titolo dell'album.
The Future Bites non è solo una provocazione geniale, ma anche un disco ricco di prospettive future (è uno dei primi album mixati in Dolby Atmos Surround). Wilson si muove nell'ambito della struttura-canzone con una disinvoltura che è già di per sé arte. L'affascinante "Man Of The People" prende per mano il soul e lo veste di sonorità Pink Floyd-iane, fino a inondare di bellezza e indulgenza un testo tra i più politici del lotto, mentre la sobria malinconia di "12 Things I Forgot" svela ammirazione per quella strenue poetica pop che 10cc, E.L.O. ed Elton John hanno reso nobile. Ed è una gradita convergenza creativa quella che vede l'appena citato Elton John incauto protagonista dell'esternazione elettronica e dance dell'album, ovvero i quasi dieci minuti di "Personal Shopper". Spetta al re del pop, infatti, elencare la lunga lista di prodotti oggetto del forsennato consumismo che è argomento centrale del brano (il video è oltremodo inquietante), mentre in sottofondo scorre l'estatica forma sonora disco-rock che a suo modo eredita la natura incalzante di "Relax" e della visionarietà di Giorgio Moroder.
Un disco che conferma l'attitudine di Wilson nel non ripetersi mai: infatti nessuna delle opere finora messe in campo dal musicista dell'Hertfordshire è stata concepita come approfondimento di precedenti capitoli discografici. Non fa dunque eccezione quest'ultimo, che pur accennando per un minuto ("Unself") un'indulgenza lirica verso il passato, trancia subito di netto l'atmosfera con l'ingegnosa e destabilizzante trip-hop/dance/r&b/rock di "Self", che in quasi tre minuti pone le basi per lo sviluppo del disco, svirgolando lievemente verso l'eccellente elettro-funk quasi surreale di "King Ghost", dove tutto è asservito alle glorie dell'elettronica, voce inclusa, per poi colpire al cuore del mainstream con un funk-rock-gospel greve e graffiante ("Eminent Sleaze") che ha la stessa intensità apocalittica di "Another Brick In The Wall".
Le nove tracce non sono riflessioni morali, ma originali e informati punti d'osservazione. Qui alberga più lo spirito del David Bowie era berlinese o la febbre ritmica di Peter Gabriel dell'album "IV" che non il languore dei Camel di "Moonmadness" o dei Genesis di "Selling England By The Pound".
Inutile districarsi in discussioni sul tono asettico della pop-wave di "Follower" (Bowie meets Sparks) o sulla più carezzevole comunicatività di "Count Of Unease" (l'immancabile omaggio ai fan oltranzisti): non c'è secondo o frazione di secondo in queste nove canzoni che non abbia una propria ragion d'essere. Il tempo, gran galantuomo, renderà merito all'ennesimo colpo da maestro del musicista inglese.

Successivamente alla reunion dei Porcupine Tree avvenuta nel 2022 per la pubblicazione di "Closure/Continuation", Wilson torna, nel 2023, a dare lustro alla propria carriera solista, distribuendo un nuovo lavoro, il più variegato della sua discografia, intitolato The Harmony Codex.
Va detto che la sua progettualità artistica ha sempre previsto, soprattutto nei lavori solisti, una spasmodica ricerca di non ripetere il medesimo canovaccio strutturale, talvolta sorprendendo anche i più avvezzi. Anche in questo caso l’obiettivo sembra raggiunto: progressive-rock, pop, psichedelia, tratteggi di jazz e tanta elettronica, sono i gustosi ingredienti di questo articolato prospetto.
Le lunghe suite “Inclination”, “Impossible Tightrope” e “Staircase”, mostrano la motilità e la dovizia delle intuizioni di Steven Wilson, voglioso, in questi brani, di alternare continuamente gli scenari sonori, proponendo con costrutto anche misture sulla carta poco consone a congiunzioni, come archi ed elettronica ambient ovvero sassofono e tendenze post-industrial. pattern che solleticano “Economies Of Scale” tracciano una linea stilistica decisamente innovativa per il musicista britannico, tesa a proporre fragranze prog-jazz che vanno a posizionarsi in un’ipotetica zona presidiata da Massive Attack e Radiohead.
Non mancano soluzioni più immediate, come da almeno un paio di suoi album a questa parte. “What Life Brings” e soprattutto “Rock Bottom”, tendono la mano al mondo pop, conservando un alto grado d’intensità e pregio. Nel secondo dei due brani citati, è il duetto con l’artista israeliana Ninet Tayeb (autrice del pezzo) a ritagliarsi uno degli spazi essenziali dell’intero disco. Un rapporto consolidato, il loro, che aveva già guadagnato applausi ai tempi di To The Bone, forse l’album più vicino al pop pubblicato da Wilson.
In quest’occasione l’efficacia interpretativa di Tayeb collima alla perfezione con le armoniche molto floydiane previste da Wilson, su un testo che tratta la difficoltà nell’affrontare una crisi sentimentale, vicina alla rottura, ma che cerca di conservarsi in ogni modo (il videoclip è di certo evocativo).
The Harmony Codex, come accennato in apertura, è un disco multiforme, probabilmente non il migliore in assoluto della produzione solista di Steven Wilson, ma che non sorprenderebbe, col tempo, veder scalare le posizioni di un’ipotetica graduatoria, fino a raggiungere la posizione d’élite.
Registrato, come sempre, in modo impeccabile e da ascoltare, se possibile, con strumentazione idonea per gustarne ogni recondito dettaglio, il disco conferma che siamo al cospetto di un artista completo e di grande spessore, nel suo percorso da solista lanciato verso l’assoluta libertà d’azione, situazione che all’interno dei Porcupine Tree non può necessariamente accadere.


Contributi di Gianfranco Marmoro ("The Future Bites"), Cristiano Orlando ("The Harmony Codex")