Stooges

Stooges

Una folgorazione proto-punk

I germi del punk in piena fioritura hippie. La fine di tutto ("No Fun") nell'era delle utopie. La furia selvaggia di un'anarchia musicale assurdamente in anticipo sui tempi. Ripercorriamo l'esperienza-shock di Iggy Pop e compagni, dalle prime incendiarie performance alla inaspettata reunion del Duemila

di Claudio Fabretti + AA. VV.

I germi del punk in piena fioritura hippie. La fine di tutto ("No Fun") nell'era delle utopie. La furia selvaggia di un'anarchia musicale assurdamente in anticipo sui tempi, e per questo del tutto incomprensibile all'epoca. Per una volta, l'aggettivo "rivoluzionario" non stona, quando si parla degli Stooges da Detroit. Una delle esperienze più esplosive e preveggenti dell'intera storia del rock, al punto da generare negli anni una sequela di cloni a ciclo continuo. Eppure, in fondo, tutto si consumò in un quadriennio. In quel trittico micidiale di album che fece esplodere l'America sotterranea a cavallo tra i decenni 60 e 70.

Detroit, città industriale per eccellenza, capitale dell'industria automobilistica, svela il suo cuore di tenebra, marcio e nichilista, ergendosi a nuova Mecca per una generazione di proto-punk assetati di sesso, droga e rock'n'roll. Perché è questo, in fondo, che offrono gli Stooges. L'elisir puro del rock, intorbidito però da un'aura perversa e sordida, ereditata dei baccanali più dissoluti dei Velvet Underground e dalla liturgie più inquietanti dei Doors di Jim Morrison. Proprio quest'ultimo è l'uomo sulla via di Damasco del giovane James Jewel Osterberg (Ypsilanti, Michigan, 1947), meglio noto in seguito come Iggy Pop (dal nome di un tipo strano della città natia, Jim Popp, a cui gli altri membri della band dissero che somigliava una volta che si rasò le sopracciglia). Un giorno, stregato dalle esibizioni di Morrison, Osterberg prende una drastica quanto inconvertibile decisione che gli cambierà la vita per sempre: emulare il suo eroe dionisiaco, cimentandosi anch'egli nella figura del performer oltraggioso.

Eppure l'adolescente James - figlio di un'impiegata e di un insegnante, cresciuto con la famiglia in una roulotte (per una bizzarra scelta del padre, non per povertà) - sembra destinato a una vita ordinaria: scuola, sport, amicizie "normali". A farlo deragliare, è la passione per il rock'n'roll, sviluppata dall'alba dei 60, quando fonda i Megaton Two (insieme con l'amico Jim McLaughlin) dal cui nucleo sbocciano The Iguanas (da qui il suo celebre soprannome) e i Prime Movers.
Scampato al servizio militare e abbandonata l'università, Iggy molla gli ormeggi e sprofonda in un vortice di droghe e sballi suburbani. A fargli compagnia, nella piccola frazione di Ann Arbor (periferia di Detroit), i due fratelli Ron e Scott Asheton, rispettivamente chitarra e batteria. I tre fondano gli Psychedelic Stooges, in omaggio ai comici "The Three Stooges", assoldando anche un loro amico, il bassista Dave Alexander.

Debuttano nella notte di Halloween del 1967. Ed è proprio il carisma del frontman ad attirare una folla di curiosi alle loro prime esibizioni. Iggy Stooge - come ora si fa chiamare - è un animale da palcoscenico, un satiro lussurioso che incendia l'audience ricorrendo a ogni forma di esibizionismo, comprese forme di autolesionismo selvaggio. Durante i live non di rado si procura ferite sul petto e sulle braccia; e c'è chi lo ritiene il vero inventore dello stage diving (il tuffo verso i fan delle prime file). "Allora c'era caos un po' dovunque, le uniche certezze le avevi sul palco, mentre quando scendevi tutto tornava misterioso - racconterà Iggy - Il mio scopritore che mi introdusse all'Elektra Records rimase incantato non dalla nostra musica ma dalla violenza con cui mi esponevo all'audience quando suonavamo nei locali di Los Angeles".

Danny Fields dell'Elektra in quel 1968 è a Detroit per ingaggiare gli Mc5, "fratelli maggiori" dei nostri, nonché loro accaniti sostenitori. I live degli Stooges lo lasciano di stucco. "Sono un pandemonio infernale" giura a tutti, scommettendo sui quattro teppisti del Michigan. La label - una delle più lungimiranti della storia del rock - suggerisce alla band di eliminare il termine "Psychedelic", ormai non più così in voga. Restano solo gli Stooges. Un quartetto al tritolo, tanto potente quanto ammaliante, nel suo intercalare episodi sfrenati con autentici "cerimoniali", lenti e ipnotici. Sconvolgenti per l'epoca, oltre alle performance, sono anche i testi, crudi e licenziosi come nella miglior tradizione velvettiana.
L'inesauribile Iggy si conquista anche un briciolo di notorietà in più grazie a una turbolenta relazione con Nico, la musa di Andy Warhol e dei Velvet Underground. Finisce, invece, il legame con la fidanzata Paulette Benson, dalla quale ha già avuto un figlio (Eric).

StoogesCorre l'agosto 1969 quando l'Elektra pubblica l'album d'esordio della band, intitolato semplicemente The Stooges. A produrlo, viene chiamato nientedimeno che John Cale, ormai in rottura con i Velvet Underground e pronto a scommettere sul talento di questa combriccola di sbandati. Ne nasce un disco aspro, ruvido e "garage" nel sound, ma assai meno spartano e rozzo di quanto si potrebbe immaginare. Perché oltre a far deflagrare le loro chitarre sature e a innalzare i loro possenti muri ritmici, gli Stooges sanno anche scrivere canzoni. Con refrain secchi e diretti, che vanno dritti al bersaglio, atmosfere suggestive e un'interpretazione vocale che aggiunge sempre morbosità e magnetismo. Pronti via, e parte subito un fendente secco come "1969": ritmo boogie ballabile, ritornello conciso rock'n'roll, un basso che pompa sangue, Iggy che urla sguaiato la sua noia: "It's another year for me and you/ Another year with nothing to do". Un inno (i Sisters Of Mercy lo vireranno in tonalità dark) ma è tutto ancora, in un certo senso, "classico". Quasi una versione sporca di Bo Diddley. A portare per mano l'ascoltatore nel mezzo dell'orgia è la successiva "I Wanna Be Your Dog". Tre-accordi-tre di chitarra, per cominciare. E tre minuti di delirio, tra urla, feedback acidissimi e oscene profferte sessuali, suggellati dall'assolo urticante di Asheton. L'ululato cavernoso di Iggy invoca un amore animalesco, totale: "Now I'm ready to close my eyes/ And now I'm ready to close my mind/ And now I'm ready to feel your hand/ And lose my heart on the burning sands/ And now I wanna be your dog".
Dopo aver tirato la tensione allo spasimo, gli Stooges rallentano. Ma "We Will Fall" è un'altra stanza della perdizione, stavolta oscura, asfittica, opprimente: un sabbah psichedelico ripreso da un canto rituale indiano, che si trascina per dieci minuti, con la viola ossessiva di John Cale che non dà tregua, i wah-wah distanti delle chitarre, il recitato straniante di Iggy e i cori d'oltretomba sullo sfondo. E' forse il momento più velvettiano (ma anche doorsiano) del disco, assieme a "Ann", altro bel lento cupo e inquietante: la voce torbida di Iggy annega in un reticolo di chitarre ruvide, e il suo grido stavolta è strozzato, mesto deliquio di un amore impossibile: "I looked into your cool cool eyes/ I felt so fine, I felt so fine/ I floated in your swimming pools/ I felt so weak, I felt so blue". Pura poesia della depravazione. Ma poi la batteria prende quota e la chitarra esplode in una delle distorsioni più lancinanti di sempre.
L'altro manifesto proto-punk del disco è "No Fun". Ovvero il nichilismo dei Sex Pistols dieci anni prima, a spezzare i sogni di Woodstock. Addio flower-power ed età dell'Acquario. La festa è finita, c'è solo il nulla. Il suono alienato della periferia industriale americana condensato in un pugno di riff, convulsioni e handclapping, con il solito assolo al fulmicotone di Asheton a suggellare il tutto. Rotten & C. non potranno non ricordarsene, dedicandole una cover, sul lato B del singolo "Pretty Vacant".
Anche gli episodi apparentemente minori dell'album svelano una potenza frastornante: "Real Cool Time" è un baccanale di riff abrasivi e drumming forsennato, con l'immancabile solo di Asheton a chiudere; l'altra scarica di adrenalina di "Not Right" e l'incubo a luci rosse di "Little Doll" ricalcano la struttura collaudata - riff primordiali e distorti, bordate del basso, batteria martellante - ad assecondare l'istrionismo vocale di un Iggy sempre alle prese con i suoi deliri lascivi e frustrati.

Nonostante il clamore, però, il disco non sfonda: le vendite non sono proprio all'altezza delle aspettative, anche se quei fortunati trentacinquemila, per dirla con Eno, saranno probabilmente diventati tutti musicisti, come quanti acquistarono "VU & Nico". Eppure già si percepisce che si è di fronte a un "classico". Il sound degli Stooges, infatti, è privo di ogni connotazione temporale. La voce di Iggy ricorda quella di un Mick Jagger ancora più sporco e depravato. Il suono della chitarra di Ron Asheton è disintegrato, distorto, inconfondibile. Insieme ai concittadini Mc5, gli Stooges interpretano la rabbia e il malessere di una gioventù che proprio in quel momento si sta auto-celebrando nei raduni oceanici del rock. La loro musica è una discesa negli inferi della noia, della decadenza, della perdizione. Un nichilistico "no future" ante-litteram. Iggy & The Stooges diverranno le icone post-summer-of-love di un movimento che celebra il degrado morale e psichico della razza umana, auto-erigendosi come "borderliner" di una società votata al consumismo e all'estremo culto del benessere.
Ma è soprattutto musicalmente che The Stooges si rivelerà uno snodo cruciale, fomentando la riscossa garage degli anni a venire e fungendo da pietra angolare definitiva per la generazione punk-wave.

Per promuovere il disco, il quartetto del Michigan si cimenta in un'intensa attività live, con il suo leader assoluto mattatore. A Cincinnati, Iggy Pop trascorre buona parte del concerto in mezzo al pubblico e quando torna sul palco è completamente cosparso di burro di noccioline. A Boston, per scaldare un'audience distratta, salta e si contorce sul palco, poi si taglia il torace e comincia a sanguinare. Lo shock è definitivo. E non meno sconvolta è la sua vita privata, che lo vede convolare a nozze con la diciannovenne Wendy Weisberg, per poi chiudere tutto con un annullamento di comune accordo un mese dopo.

StoogesIl secondo atto degli Stooges si consuma nel 1970. E prende il nome ironicamente affibbiato da Iggy alla fattoria che ospitava le loro deliranti session, nei dintorni di Ann Arbor: Funhouse, la casa del divertimento.
Rifiutata la produzione "troppo intellettuale" di Cale a beneficio di quella più sanguigna di Don Gallucci (già con i Kingsmen di "Louie Louie"), il gruppo osa forse ancor di più nell'alzare il tiro, sfornando un album incendiario, significativamente griffato dall'artwork rosso-fuoco.
Le prime tre tracce non sono altro che un antipasto, un assaggio del "delitto sonoro" che si materializzerà nella seconda parte del disco. Il blues sudicio di "Down On The Street" - con un riff prepotente e i latrati di un Iggy fuori controllo - trasuda tutta la ferocia di un disco che antepone l'immediatezza e l'improvvisazione a ogni posa. Il frastuono di "Loose" lambisce l'hard-rock, con un drumming furibondo e il fraseggio infuocato di Asheton, mentre l'urlo programmatico di "T.V. Eye" innesca un altro delirio acido a velocità supersonica. I sette minuti di "Dirt", in un certo senso, anticipano le atmosfere torrenziali del lato B: un blues distorto e magnetico, con la voce di Iggy abilmente coadiuvata dal disordinato ma efficacissimo chitarrismo di Asheton. "Dirt" termina con un senso di vuoto e di attesa, che sfocerà bestialmente nella già citata seconda parte dell'album.
Un attacco sinistro e minaccioso di chitarra scandisce l'inizio di "1970", primo vero assalto alle coronarie di un ascoltatore che dopo pochi minuti verrà indelebilmente "stuprato" dall'incredibile miscela di rabbia, rantolii e istinto animale che pervade tutta l'opera. Ecco allora il caotico, peccaminoso finale stile "primal-scream" di "1970", nel quale le grida scorticatissime e abrasive di Pop danno vita a un incubo dal quale sembra impossibile svegliarsi. E' il trionfo della voce (quasi) hardcore di Iggy, genialmente accompagnata da un disconnesso, stralunato sax, in quest'occasione suonato da un formidabile Steven McKay, che conferisce un senso di vuoto e smarrimento totale. "I Feel Alright" ripete ostentando sempre più le sue scartavetrate corde vocali Pop, quasi a segnare un destino già segnato. A suo modo, decadente.
Esaurito il "calderone-erotico-sadomaso" di "1970", ecco il funk lascivo della title track, che ne è l'ideale proseguimento, quasi si trattasse di un corpo, di un'entità a sé stante, persa nella sua aurea di eterna infelicità e rabbia metropolitana. In questo frangente il sax di McKay è magistrale e "ingrossa" egregiamente il clima ai confini della realtà. E' un festival di macabre, ultradistorte e selvagge sonorità, un melting-pot grandguignolesco che pone come baricentro il grido, malato e drogato, solitario dell'Iguana. Chitarra, sax, voce e una secchissima batteria sembrano seguire percorsi autonomi, sebbene in realtà tutto venga miracolosamente tenuto in bilico da una strettissima fibra che rimarrà intatta fino alla fine del disco.
Poi viene il finale: un marasma di follia e autodistruzione in cui i quattro giovanotti di Detroit sfogano la loro rabbia. "L.A. Blues" non è affatto un blues, ma una inverosimile e indigeribile accozzaglia di chitarre ultra-sature, anarchica batteria e sax in bilico tra inconcepibili strilli e stonature volute e momenti di brevissima lucidità: una celebrazione del rumore più primitivo, spostato e nichilista che si possa immaginare. Un lungo, fastidioso, ficcante sibilo, e poi la voce di Iggy Pop, esausta e rantolante, giungono ad annunciare l'epilogo di una vicenda che non ha eguali nella storia del rock.

Il nuovo tour per promuovere il disco porta i figli della Motor City in giro per l'America. Il camaleontico Iggy cambia ancora pelle, divenendo Pop (dalla presunta somiglianza con Jim Popp, un tipo che viveva ad Ann Arbor). Ma cominciano le prime frizioni all'interno della band.
Nel 1971 Iggy, Ron, Scott e Dave si lasciano in malo modo per sopravvenuti problemi di cocaina e divergenze artistiche. Il sound furibondo degli Stooges viene, così, smorzato come un amplificatore al quale viene staccata all'improvviso la spina.

La band, tuttavia, non è ancora da seppellire. David Bowie, esploso in Inghilterra con il capolavoro "Ziggy Stardust" nell'estate del 1972, invita pubblicamente Iggy e soci a tornare in pista e li affida alle cure del suo manager, Tony DeFries. Ecco, allora, i nuovi Stooges (ribattezzati Iggy & The Stooges) riformarsi a Londra con Ron Asheton spostato al basso e James Williamson alla solista. Gli effetti saranno più che vistosi.

Stooges - Iggy PopIl gruppo, però, non si fa affatto prendere (come i Mott The Hoople o Lou Reed, per citare i due album prodotti da Bowie) dalla moda imperversante del glam e rifiuta la produzione di David, che interverrà soltanto in seguito, in fase di mixaggio (a detta di alcuni, rovinando il suono originario).
La musica è ancora terribilmente ad alto volume, depravata e animalesca. "Search And Destroy", "Your Pretty Face Is Going To Hell" e "Death Trip" sono assalti alle coronarie che proseguono, anche se in toni più smorzati, la linea da "stupro dell'ascoltatore" tracciata in Funhouse. Eppure, oltre a essere più "pacato" (termine alquanto paradossale), Raw Power, abbandonando quella specie di "wall of sound" messo su da Ron Asheton, appare molto più vario rispetto ai due album precedenti. "Gimme Danger" è una ballad killer di intensa bellezza, "Penetration" è contaminato da un uso insolito quanto affascinante di celeste; mentre "I Need Somebody" offre un blues demoniaco, "Shake Appeal" potrebbe essere un voodobilly ante litteram.
Raw Power offre questo e molto di più.
Con Jim Morrison sepolto a Parigi, Iggy Pop adesso ha la strada spianata. A lui, senza ombra di dubbio, il trono dei grandi animali da palco, delle grandi attrazioni in quel grande circo itinerante che è il rock'n'roll.

Raw Power, però, è anche il canto del cigno degli Stooges: l'ultimo, turbolento concerto al Michigan Palace di Detroit, immortalato nel live Metallic Ko (1976), sancisce lo scioglimento, tristemente simboleggiato dalla Fun House rasa al suolo per far posto a un'autostrada.

I quattro prendono strade diverse. Iggy Pop vive un periodo di profonda crisi, prima di risorgere alla corte del Duca Bianco, dando il via a una fortunata carriera solista. Scott Asheton entra nella Sonic's Rendezvous Band di Fred "Sonic" Smith (ex-Mc5). Il fratello Ron si infila in diverse band: dai New Order dell'ex-Mc Dennis Thompson ai Destroy All Monsters, fino ai New Race, con lo stesso Thompson ed ex-componenti dei Radio Birdman. E Dave Alexander, il grande bassista dei primi due dischi, muore nel 1975, a 27 anni, per una polmonite sopraggiunta dopo anni di eccessi alcolici.

Per uno dei corsi e ricorsi storici del rock, nel 2007 arriva anche la loro clamorosa reunion. I prodromi, in realtà, c'erano stati quattro anni prima, quando gli ex-Stooges si erano già riuniti (Pop alla voce, i fratelli Asheton alla chitarra e batteria, e il nuovo bassista Mike Watt, ex-componente di Minutemen e fIREHOSE), partecipando alle registrazioni dell'album solista di Iggy Pop "Skull Ring" e riprendendo l'attività live, a cui aveva preso parte anche MacKay.
Ma è una reunion senza senso. Come se gli Stones si fossero sciolti dopo "Exile On Main Street" e riformati nel 2000 anziché invecchiare sotto i nostri occhi. L'idea "Stooges" - luogo comune del rock, del punk, della musica giovanile, ribelle, decadente, bla, bla, bla - è troppo forte, cristallizzata, inattaccabile, tanto codificata da essere divenuta sfuggente.

Così in The Weirdness Iggy Pop, gli Asheton e Mike Watt giocano a fare gli Stooges e si divertono molto. Produce Steve Albini, ma la sua presenza non è indispensabile né determinante, se non nel dare alla batteria quel tipico suono arioso "alla Albini" che qui chissà cosa c'entra. L'Asheton chitarrista domina, Iggy gigioneggia come sempre ma in questo caso calca la mano (sessant'anni e "la mia idea di divertimento è uccidere tutti quanti"), Watt c'è e non c'è. C'è McKay con il suo sax sì, ma qui sembra più che altro un turnista da piano bar, melodioso quando serve e spompato quando occorre esagerare.
Le canzoni? Sì, ci sono anche quelle, qualche sfuriata interessante ("My Idea", il ritornello becero di "Free & Freaky", "Greedy Awful People", la scontatissima ma efficace "I'm Fried", il tentativo poco riuscito di "Mexican Guy", che osa un ritorno sui luoghi di Funhouse) e un paio di pezzi più morbidi: "The Weirdness", una ballata caracollante adatta a un ritrovo di Hell's Angels in pensione, e "Passing Cloud", classico brano d'atmosfera a fine scaletta. Poi altri riempitivi, che non aggiungono granché a un disco tutt'altro che impeccabile. Ma ciò che più di ogni altra cosa affiora dalla dozzina di tracce di The Weirdness è l'idea di un gruppo che si rimette in scena alla luce di tutto ciò che è stato detto, scritto, pensato e immaginato da altri in sua assenza.

Il peso dei decenni è troppo, l'operazione è a metà tra il sano divertimento e la presa in giro di se stessi e del pubblico pagante, perciò è il caso di riderci sopra e non infiammarsi troppo perché "questi non sono i veri Stooges".
A compromettere le prospettive future alla rinata band, arriva il 6 gennaio 2009 la notizia della morte di Ron Asheton, stroncato da un infarto.

E mentre proliferano antologie, live, bootleg e raccolte di ogni sorta, a testimonianza di un mito mai tramontato, non resta che continuare ad abbeverarsi alla furia primordiale della loro musica. E non abbassare mai il volume, neanche un po'.

Dopo il sostanziale fallimento dell’operazione di restyling albiniana (The Weirdness) e la morte di uno dei loro uomini simbolo (il mitico chitarrista Ron Asheton), i nuovi Stooges sembravano intenzionati a giocarsi l’ultima carta rimasta loro in mano: un ulteriore rimpasto storico-stilistico che ha visto il ritorno nella formazione titolare di James Williamson e la conseguente celebrazione dei fasti di Raw Power, l’ultimo vero album stoogesiano degno di questo nome, prima con la riedizione dell’originale (nel 2010) e quindi con un tributo dal vivo (Raw Power Live: In The Hands Of The Fans, 2011). Il che di per sé non era mica una cattiva notizia, anzi, semmai è il contrario: il grande (e non l’unico) problema del nuovo Ready To Die (2013) è che di quel garage-glam tutto eyeliner sbavato e coltellaccio a serramanico non è rimasto nulla, se parliamo di sonorità e meno che meno a livello di scrittura. Infatti, nonostante l’impegno di Williamson (anche produttore) che si prodiga nei suoi tipici assoli tirati, insistiti e un po’ invadenti e la presenza di eccellenti musicisti come Mike Watt al basso e Steve Mackay al sax, il rifferama è modesto e la voce di Pop, carismatica e vissuta finché si vuole, ormai quasi del tutto priva del mordente dei suoi numeri migliori.
Un pezzo come “Dirty Deal”, punk’n’roll contrastato e dissonante con il sax in evidenza, ci dà dentro come si deve, se non altro, mentre di “Dd’s” va detto che ha un discreto groove e poi immaginarsi il 66enne Pop in adorazione di un paio di tettone misura “double D” (una nostra “quinta” all’incirca) fa sempre un po’ simpatia e tenerezza (“I’m down on my knees/ for your Dd’s”). A queste potremmo aggiungere un brano acustico e introspettivo, tipico dell’Iggy senile, come la quasi alt-country “The Departed”, ma il giudizio complessivo cambierebbe poco.
Quanto al resto è come una colossale pillola di Viagra che non fa effetto, fra "punkettoni" adolescenziali senza capo né coda come “Job” o “Gun”o la più funkeggiante “Sex And Money” e non è che sia molto d’aiuto alzare i volumi delle chitarre come in quella specie di street-rock anni 80 che è la title track.
L’insieme, più che gli Stooges vecchi o nuovi, ricorda una versione peggiorata di certi dischi solisti dell’Iguana a inizio anni 90.

Contributi di Alan Tasselli ("Funhouse"), Mauro Vecchio ("Raw Power"), Luca Fusari ("The Weirdness"), Simone Coacci ("Ready To Die")

Riferimenti biografici

Paul Trynka - Iggy Pop - Lust For Life (Arcana)

Federico Guglielmi - Cuore Selvaggio (Mucchio Extra, 2009)

Stooges

Discografia

Stooges (Elektra, 1969)

9

Funhouse (Elektra, 1970)

8

Raw Power (Columbia, 1973)

7,5

Metallic Ko (live, Skydog, 1976)

No Fun (antologia, Elektra, 1980)

I'm Sick Of You (antologia, 1981)

I Got A Right (antologia, Reverige, 1987)

The Weirdness (Virgin, 2007)

5

Ready To Die(Fat Possum, 2013)

4

Pietra miliare
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Testi degli Stooges
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Un documentario sugli Stooges (videoclip)
We Will Fall (da Stooges, 1969)
Tv Eye (live, at the Cincinnati Pop Festival, 1970)
Gimme Danger (videoclip da "Raw Power", 1973)
I Wanna Be Your Dog (live, 1979)
No Fun (live in Detroit, 2006)