Thee Oh Sees - John Dwyer

Thee Oh Sees - John Dwyer

I pirati della Bay Area

Dal miserabile lo-fi rumorista degli esordi in solitaria alla certosina opera di ricodifica del garage-rock in chiave psichedelica: l’inarrestabile ascesa del vulcanico ras della Bay Area, al comando della sua più audace creatura ma anche prima della sua fondazione

di Stefano Ferreri

John Dwyer è sempre stato un artista sfuggente. Uno di quelli che non amano fermarsi o lasciarsi incasellare e quindi insistono nella loro fuga perenne e incomprensibile ai più, cambiando senza posa indirizzi, denominazioni e abiti musicali, non sempre in maniera consapevole o, quantomeno,  non per mero calcolo. Anche un artista improbabile, a dirla tutta. Uno che, ci si limitasse agli ingannevoli dettagli offerti dall’apparenza, non si sarebbe portati ad accreditare di nulla, anzi. Non ha, e mai ha avuto in fondo, l’aspetto e la condotta del lord inglese.

Chiunque abbia avuto modo di trovarselo di fronte su un palco non potrà che celebrare la sua levatura da podio in un eventuale certame per il titolo di frontman più grezzo del rock alternativo tutto: mimica insana e linguacce da malato di epilessia, movenze oltremodo forsennate, portamento da camallo squilibrato e una di quelle fisionomie da bassifondi che avrebbero fatto la gioia di Lombroso. L’abito non farà il monaco ma fornisce senza dubbio un enorme contributo nel creare il personaggio e nel renderlo più che riconoscibile. Nel caso di John è del corredo di inseparabili canotte a righine che si parla. Dei capelli a fungo sparati sulla fronte appena sopra quel paio d’occhi, sgranati come neanche in una sessione della “Cura Ludovico”. E poi di quella sterminata rassegna di tatuaggi a tutto campo, in bella vista la parola “SONG” piazzata proprio sotto la gola, per non parlare dell’intero stormo di rondini che decora il braccio e la spalla destri. A fissarlo mentre mastica plettri e suona come un tarantolato, le chitarre tenute sistematicamente all’altezza delle ascelle, non gli si darebbero due soldi. Né potrebbero agevolare l’eventuale inconsapevole osservatore i suoi bizzarri vocalismi sguaiati, impossibili da far rientrare anche con tutta la fantasia di questo mondo nella categoria del bel canto, eppure così cruciali nel conferire quell’irrinunciabile tocco di isteria alla sua corazzata e nell’orientare verso la farsa punk l’impronta di una band come i Thee Oh Sees, notoriamente anguillesca quando giunga l’ora delle classificazioni. Non ce lo si immaginerebbe proprio nei panni del polistrumentista rigoroso, eppure in una decina di anni Dwyer ha imparato da autodidatta a cimentarsi con ogni sorta di gingillo musicale, migliorandosi grazie a un’autodisciplina quanto mai sorprendente e spingendosi in qualche caso a esplorare in perfetta solitudine i propri limiti di creativo, come se a sostenerlo avesse il consueto paracadute di un gruppo vero. Pare difficile crederlo, ma il cantante e musicista californiano è ben al di là della macchietta slacker che i ritratti disseminati in rete gli hanno cucito su misura come perfetto immaginario tascabile, dalla categorica lattina di cheap beer in mano all’eccentricità da scoppiato indossata con calore opportuno. E’ piuttosto un tipo forbito, un animatore che ha fatto i compiti a casa e oggi si diletta nei panni del fotografo appassionato, un vero punto di riferimento per gli amici della scena garage della Bay Area.

ok220x270_xixPartito dalla calma piatta di Providence, nel Rhode Island, Dwyer incontra il successo (di nicchia) con i Thee Oh Sees a San Francisco, senza averlo davvero inseguito. Più per gioco che per altro si ritrova a dirigere un movimento che neppure si è mai spacciato come tale: il carisma innato e il ruolo di collettore esercitato in quel contesto offrono impulso e prospettive a un’ampia schiera di formazioni dell’area metropolitana, e molto fa in tal senso anche l’etichetta da lui fondata all’origine di tutto, la Castle Face, soltanto otto anni fa, peraltro. Nonostante i discreti riscontri ottenuti, John e la sua più fortunata avventura rimangono tuttavia un capitolo a parte anche nello specifico della nuova onda impazzata sotto il sole della California nell’ultimo lustro: figura centrale lui, come si è visto, ma realtà unica e in fondo sfuggente il gruppo, slegata per estetica dalle ben più portanti esperienze dei vari Ty Segall o Mikal Cronin. Il suo schietto e incontaminato primitivismo musicale rimane un dato difficile da contestare oltre che una preziosa patente di autenticità. Lo stesso discorso vale per la band. Una di quelle rare flottiglie che amano andare per la propria strada senza negare per questo chiarissimi legami con il passato. Una tradizione però costantemente rielaborata e attualizzata, stando attenti a captare nuove inclinazioni o orientamenti sonori, evitando di appiattircisi in modo passivo e rinnovando anzi il proprio stile senza alcun timore. Una compagine in continua evoluzione quindi, che ha eletto l’assoluta noncuranza strategica e commerciale a sistematico modus operandi, un’inarrestabile macchina da concerti che ha fatto del garage-revival screziato di psichedelia – ma filologicamente corretto – la propria cifra chiave, a riprova della qualità di una proposta che non prescinde dai classici del genere e si conferma squisitamente “colta” anche in un ambito di applicazione dove lo scarso riguardo formale e l'estasi rumorosa hanno così tanta voce in capitolo. Da bravi virtuosi in maschera, i quattro statunitensi non si sono mai stancati di assimilare, ibridandoli con i propri stilemi da onnivori deviati, oltre interi decenni di furiosa musica rock. E questo senza limitarsi a imperversare nell’attualità come schegge incoerenti e del tutto folli. Una linea di continuità, nel loro caso, pare piuttosto evidente: ben poche altre realtà nella scena psych-rock di questi anni possono infatti vantare un sound ormai classico e riconoscibile come il loro.

Prima dei Thee Oh Sees, oltre i Thee Oh Sees

ok220x270_viiE’ quindi scattata a Providence la prima fotografia di questa storia. Punto di partenza e insieme misera nota a margine nella vicenda artistica del suo protagonista. John vi si fa le ossa, suona la chitarra in una misconosciuta band noise cittadina, i Landed, con la quale pubblica un disco nel 1998, “Everything’s Happening”. Il contesto del Rhode Island tuttavia è quanto di meno vivace si possa immaginare al termine di un decennio di grandi impulsi per la musica alternativa. Così, quello stesso anno, il ventiquattrenne Dwyer fa le valigie e prende casa a San Francisco. Inizia a comporre musica in proprio con l’alias Orinoka Crash Suite, ma è per il suo limitato contributo (stridori e ritmiche ossessive) nei Burmese, combo grindcore fresco di trasferimento dall’Iowa, che il Nostro torna a scrivere il proprio nome nei credits di un disco. E’ il 2000. I tempi per un’esperienza più significativa sono maturi e il travolgente power-noise di Pink & Brown ha modo di concedersi l’onore dell’esordio. A caratterizzare questo duo di pazzi scatenati – John nelle vesti di “Pink”, Jeff Rosenberg in quelle di “Brown”, quasi si trattasse di un film di Tarantino – è la sua natura irriducibile e allergica a qualsivoglia forma di accomodamento, un’inclinazione quanto mai convulsa, pestona. Dopo un primo passo non troppo convincente, la sgangherata coppia pubblica per Tumult un buon sophomore, Shame Fantasy II (2003), a base di riff infestanti, batteria stile compressore diesel e monconi vocali schizoidi à-la Ian Svenonius (“Union Bomb”), flebili belati che, in un prolungato e stordente fortunale rumorista, non hanno modo di emergere dalla marea sonica. In questa prima parentesi importante, giunta al capolinea dopo neanche tre anni dall’avvio, John pone le basi per quello che rappresenterà forse il marchio di fabbrica di tutte le sue prime produzioni, la regola aurea di una generalizzata approssimazione. Inevitabile che la formula, ancora così acerba, abbia poche carte davvero valide in mano, ma non vi è dubbio che giochi al meglio la propria partita, tra assalti, asperità e tanta bruciante purezza. Shame Fantasy II è una corsa a perdifiato, una rovinosa caduta a rotta di collo da un pendio brullo, scosceso e pieno di spuntoni, una centrifuga impazzita e una collezione di chitarre-lamiera che restano tra le più taglienti dell’intero repertorio dwyeriano. Le botte di adrenalina si susseguono senza che sia mai concessa all’ascoltatore l’occasione per rifiatare. Non mancano, ovviamente, i momenti davvero esaltanti (uno per tutti, “Sheriff Jessum”), ma occorre essere preparati a una prova da autentici terroristi della pedaliera.

Quella dei Zeigenbock Kopf è invece un’amena digressione trash – spacciata per un collettivo techno-noise tedesco d’impronta marcatamente omosessuale e feticista – con John nei panni fittizi di Hans Bunschlaper (affiancato sul palco da un paio di non meglio identificati sodali, Uli e Detlef Bunschlaper). Si ricorda più per l’eccesso pacchiano delle sue mascherate live che non per la qualità di clangori, inserti robotici, paranoie industrial-pop e fuligine sintetica contenuti nei ben quattro album pubblicati tra il 2002 e il 2006 – Nocturnal Submissions il meno irricevibile – sotto questa ragione sociale. Non certo il progetto più riuscito della carriera, ma un’esperienza capace di lasciare a sorpresa qualche strascico creativo postumo nell’esordio solista di Dwyer, giunto solo nel 2014 sotto il moniker Damaged Bug.

ok220x270_v_01Affogato in guazze ultrariverberate e schizofreniche, formalmente non troppo distante dai Pink & Brown, il garage estremista degli Yikes rappresenta per molti versi l’avventura con più elementi di affinità nei confronti degli ormai prossimi Thee Oh Sees, e non soltanto per l’implicito seguito su lunga distanza che avrà la loro “Putrifiers” (pure molto somigliante al futuro classico della band californiana, “Ghost In The Trees”). Un solo disco a referto, Secrets To Superflipping (2006), con la bassa fedeltà a prevalere su qualsiasi ipotesi di criterio o buon riguardo verso l’ascoltatore: le chitarre hanno l’allucinante intransigenza delle sirene antiaeree, il tono è irruento, atroce, da battaglia, ed è sistematica la tendenza a perseguire la confusione come unico obiettivo. Ovunque nella schiuma elettrica che stordisce, l’orecchio non incontra altro che un vorticoso sudiciume imbandito da una compagine che picchia con regolarità metallurgica (“Sheets”). Slabbrati, deturpati, taglienti, naïf in maniera feroce ma, a suo modo, genuina: maestri di cerimonia in autentiche feste del tetano, tra ignobili spurgate di feedback e muraglie ritmiche in odore d’autismo, gli Yikes restano in fin dei conti un diversivo ludico non privo di un suo fascino sgarrupato e fuori catalogo. Sembra invece un’avventura in tutto e per tutto più lineare quella dei The Hospitals, partita nel solco di un garage-rock acido e stridente, carico di morchia rumorosa e dissonanze lo-fi come da repertorio dell’allora imperante Woodsist.

Il punto di svolta arriva nel 2008 con la pubblicazione del terzo lp, Hairdryer Peace, affresco nonsense sbrindellato e deragliante che riesce a far parlare di sé. In quella che è di fatto una creatura di Adam Stonehouse, John si limita alle escoriazioni sadiche della sua chitarra e abbandona presto gli occasionali compagni. Questo e i suoi altri progetti della prima ora ben si inseriscono nel quadro dei cosiddetti filoni weird-garage e shitgaze californiani, ma non mancano esperimenti con loffia synth-wave o sperimentalismi free-jazz che lo vedono impegnato più che altro come batterista (è il caso degli Sword & Sandals, altra opzione collaterale minore). Per brevissimo tempo Dwyer suona, e talvolta canta anche, nel collettivo death-metal Dig That Body Up, It's Alive!, nei Netmen (insieme a Brian Gibson dei Lightning Bolt) e nei The Drums, soltanto omonimi del ben più celebre combo newyorkese.

A brillare davvero, prima dei Thee Oh Sees, è la fortunata parentesi dei Coachwhips, terzetto weirdo-punk autore di cinque ottimi album in meno di un lustro, recentemente tirato fuori dalla naftalina in una serie di concerti-svago per un Dwyer in pausa di riflessione dalla sua band principe. Il miglior titolo del catalogo promette d’essere a mani basse il mini Bangers Vs. Fuckers, uscito per Narnack a fine 2003. Un’ondata devastante e feroce in appena una dozzina di rapide scudisciate, assalto frontale di erculea potenza che radicalizza la formula vincente dei White Stripes negli anni della loro esplosione (si senta in proposito “Recline, Recline”). Imperturbabili, travolgenti, diretti e amabilmente barbari, caotici senza mai risultare gratuiti nei loro affondi, gli autori sono un’esaltante combriccola di vandali che in diciotto scalcagnatissimi minuti prende a sberloni l’ascoltatore, alzando una quantità incredibile di polvere sul terreno e picchiando con furia cieca. La chitarra affilata e schiumante è la stessa che John sfoggerà negli anni a venire ma l’indole appare, se possibile, ancor più selvaggia e fieramente diy. Un vero gioiello, Bangers vs. Fuckers, da un gruppo di inattaccabile purezza, scatenato in un corpo a corpo violento con le nostre orecchie e del tutto libero di impazzare allo stato brado. Rigorosamente inafferrabili le liriche del capobanda, e quanto mai preziose le tastiere percosse senza alcuna pietà da Mary Ann McNamara, prima di rifiatare nell’allucinato finale di “Goodnite, Goodbye”.

Nel disco di commiato, Peanut Butter and Jelly Live at the Ginger Minge, le coordinate restano sostanzialmente le stesse ma il tono generale si fa anche più caustico e abrasivo: un trionfo di ossessioni schizoidi a base di organi dati alle fiamme e feedback sibilanti, esasperati all’ennesima potenza, che ha il suo culmine nella formidabile chiusa decadente di “Your Party Will Be A Success”.

John balla da solo

ok220x270_xxivAll’indomani dell’accantonamento dei Pink & Brown, Dwyer decide di dedicarsi con maggior concretezza al vecchio moniker Orinoka Crash Suite ed esce allo scoperto con questa stessa ragione sociale, sintetizzata da un acronimo (OCS) cui negli anni saranno accostate anche altre intestazioni (Orange County Sound la più accreditata). Il pretesto è la ricerca di un suono, qualcosa di caratteristico tramite cui registrare in proprio materiale nuovo in una baldoria di sperimentalismi domestici. Via via ci sarà spazio per una condivisione con altri musicisti, per l’evoluzione del progetto da semplice sfizio solista a band con tutti i crismi, ma in origine è soltanto il sodale Jeff Rosenberg ad affiancare John, in modo peraltro sporadico.
Il risultato delle prime flemmatiche sedute è 1 (Tumult, 2003), una collezione di segmenti sonori in cui nulla risulta minimamente accostabile alla forma-canzone. Si tratta più che altro di grottesche evoluzioni in cui i riverberi si gonfiano, fermentano e si dilatano in tetre distorsioni ambientali, oppure si trovano esacerbati in un guazzabuglio che sarebbe fin gentile definire pidocchioso. Il problema è che di questi insensati tormenti, di simili esercizi di puro terrorismo sonico, ne passano in rassegna ben cinquantadue, abbastanza atroci e, nell’insieme, terribilmente prolissi: miasmi informi, gorgoglii, rumorismi assortiti e droni a piacimento, increspati con somma lentezza e la cui staticità non impiega molto tempo per mostrare la corda.
E’ appena meglio la seconda delle due parti, infarcita di bozzetti (per lo più) strumentali in acustico e moderatamente disturbati, ma non viene mai meno l’impressione dell’esercizio fine a se stesso, anche nei rarissimi casi in cui sia possibile cogliere qualche spunto in merito alle future possibili applicazioni da parte del chitarrista. A conti fatti 1 si ricorda quindi per il poco che vale, un’accozzaglia di confuse ipotiposi in bassissima fedeltà che può aver senso consigliare, al più, ai soli irriducibili completisti. Rispetto allo sconclusionato ciarpame qui contenuto, i titoli delle due sezioni che compongono 1 (34 Reasons Why Life Goes On Without You e 18 Reasons To Love Your Hater To Death) rimangono impietosamente, a mani basse, il dettaglio migliore dell’intera operazione.

Non contento, nemmeno un anno dopo John rincara la dose. Insiste, con miglioramenti modesti, sulla medesima linea operativa del predecessore. 2 (Narnack, 2004) è un nuovo farfugliante ammasso di monconi acustici, rumenta di fondo ed effettacci in serie che solo di rado assomigliano – se si impiega quel po’ di fantasia – a brani fatti, con un capo e una coda (“I Would Drown In Regret”, il folk deviante di “No Bitches On This Train”). Abbondano gli assemblaggi malati fatti più di umori che di suoni, pastrocchi tirati su con niente per puro divertimento (le parentesi con il banjo, con la melodica o gli archi deturpati) e proposti in confezione infame. Sono invece ancora alquanto risicati gli interventi vocali, peraltro così timidi da sembrare trasparenti (“Left Me Dry”, “Killed Yourself”) fino all’ironico congedo autobiografico “JPD, A Young Man, Tells Goldylox Thanksss”, così garbato e insipido da rendere Dwyer pressoché irriconoscibile. In questo calderone malsano e schiumante sono quindi ancora pochi gli slanci espressivi degni di nota, quelli capaci di dar luogo a rielaborazioni davvero portanti per lo stile dei futuri Thee Oh Sees, al di là di un’indole già sufficientemente refrattaria agli incasellamenti di comodo.
2 si presenta insomma come l’opera di un artista indifferente, indecifrabile, gagliardamente naïf, che continua però a lasciare perplessi.

ok220x270_iIl 2005 è per il progetto OCS l’anno del capolinea. John, tuttavia, ha da parte talmente tanto materiale da potersi concedere il lusso di un doppio album di commiato. E’ in questo formato che, sempre per Narnack, vedono la luce gli ultimi due capitoli della ridotta discografia solista del primo Dwyer, i gemelli 3 – Songs About Death & Dying e 4 – Get Stoved (in seguito pubblicati anche separatamente, su vinile). A far compagnia al musicista di Providence c’è ora Patrick Mullins, assai parco con le percussioni e la sega musicale, mentre sono preziosi gli interventi corali dell’ancora acerba Brigid Dawson, già nei Mix Tape con Meric Long dei Dodos. Con Songs About Death & Dying la creatura di John entra finalmente in zona Thee Oh Sees, anche se tutto è ancora nebuloso, incespicante, soltanto abbozzato, e non sarà un caso che gli episodi migliori siano destinati a venire ripresi in seguito con ben altra vivacità. Qui il ritmo è ultrarallentato. Le voci escono sepolte, impastate, mentre sono praticamente assenti i contributi ritmici e le chitarre non si dimostrano in grado di scongiurare un tono generale esangue, da oltretomba. L’impressione è quella di uno smorto psych-folk tormentato da asperità di vario genere e mantenuto su un piano rigorosamente approssimativo, per quanto gli stilemi cardine della band che nascerà di lì a poco sembrino esserci già tutti, almeno in potenza.
Siamo ancora dalle parti del solipsismo tristanzuolo e disturbato delle precedenti uscite: fragilissime ipotesi di canzoni in acustico con sporcature, moncherini di cantilene che omaggiano persino il traditional country-folk, lasciando intuire la propensione onnivora di John (“Here I Come” o “Greedy Happens”, numero scarduffato che può ricordare il primo, cencioso Beck). Non si tradisce un’impostazione grossolana e ferocemente weird ma i lampi di grazia non mancano, pur facendo fatica a emergere in un quadro sonoro così improntato al sadismo. Ne escono bozzetti indolenti e spigolosi con Brigid non di rado protagonista, ancora in una forma più autistica che non realmente evocativa, eppure in grado di lasciar intravvedere quanto di buono saprà offrire alla causa grazie alla sua esile ma incantevole interpretazione retrò: uno di quegli espedienti di cui gli Ohsees faranno incetta, salvo tralasciarlo in maniera repentina al successivo cambio di denominazione come una pagina definitivamente chiusa. Appartiene invece al ramo delle ipotesi in seguito cestinate il John estatico e romantico di “Lily & Me” che, riascoltato col senno di poi, stupisce e fa persino tenerezza. Molto spazio in Songs About Death & Dying è riservato al rumorismo, invadente e disturbante: una grana costantemente sovraesposta, slabbrate rancide, deformazioni che diverranno abusate (“Oh No, Bloody Nose”); ma anche un picking limpido presto tradito dalla messe di riverberi, aberrazioni fantasmatiche di un abbozzo di band ancora orientato al sabotaggio marchiano, a una musica luministica e sperimentale, con tutte le ingenuità del caso (“I Am Slow”).

Get Stoved si presenta all’insegna di una minor timidezza nell’approccio, tra bei momenti di radiosa contemplazione pop in bassa fedeltà (“Wait All Nite”), ipnotiche ninnananne da sciroccati (“Crime On My Mind”), canzonette lordate senza troppo riguardo (“Devil’s Last Breath”) e nenie innocenti e tradizionaliste (“Oh Babe, It Ain’t No Lie”, “Cookie Destroyer”). Ancora una raccolta incoerente in maniera persino plateale e piena zeppa di difetti, ma capace di far riconoscere nelle sue idee zoppicanti la purezza del gruppo alle prime armi, ancora tutt’altro che smaliziato ma sincero come forse mai più, in seguito. Ascoltato quasi dieci anni dopo, gratifica l’estimatore dei Thee Oh Sees nel far vagliare le sue piste, chiamando a distinguere quelle in seguito abbandonate rispetto ad altre destinate a dare frutti in virtù dell’accresciuto coraggio e di amplificatori più aggressivi. I frangenti illuminati da seduzioni sottili non sono rari, ma tutto è mantenuto sul piano sempre imperfetto di questi semplici divertissement embrionali, condannati in molti casi all’oblio (emblematica “Harmony & Bells”, deliziosa). La tendenza è ancora quella alle divagazioni. Manca una linea guida stabile, certa, e per ora ci si accontenta del piacere di andare mollemente alla deriva.
Pur rudimentali e abbruttite nella forma, le melodie lasciano ben sperare in merito all’effettivo talento di Dwyer, qui ancora bischero e dondolante, perso nel suo rilassato nascondino espressivo. Questo quarto capitoletto dell’avventura OCS si aggiudica quindi in scioltezza la palma per le suggestioni più convincenti, ancorché sciorinate in una condizione di palese work in progress stilistico, oscuro ma fascinoso. Al termine del viaggio le intuizioni incoraggianti messe a referto sono numerose: abbastanza per delineare i tratti di un collettivo pronto a saltare finalmente il fosso, da questo curioso ma limitato dilettantismo a qualcosa di ben più significativo.

Garage aulico?

ok220x270_iiiIn poco più di due anni John ha dismesso Pink & Brown, Zeigenbock Kopf e Coachwhips. Nondimeno, la ricerca di un suono nuovo che era alla base dell’esperienza OCS può dirsi conclusa. Proseguire da solo, ormai l’ha capito, non avrebbe senso. Da qui la decisione di cooptare a tutti gli effetti in squadra la Dawson e ripartire con una nuova ragione sociale, provando a sviluppare quanto di buono espresso in precedenza. Gli Ohsees nascono così nel 2006 nel solco della continuità: stesso terzetto, stessa piccola etichetta, ma ambizioni in ascesa. La scelta di affidarsi a Dave Sitek per la produzione del nuovo album, assieme all’ospitata dell’altro TV On the Radio, Kyp Malone, dovrebbero dirla lunga in tal senso. The Cool Death Of Island Raiders insiste però a voler gareggiare col freno a mano tirato. In barba alle selvagge esasperazioni del marchio Coachwhips, quello dei primi Ohsees è un sunshine-pop deviatissimo. E’ intermittente, approssimativo, esile, jangly e claudicante, letteralmente annegato in una bagna di putrido lo-fi. Trame narcotiche, parche intrusioni elettroniche (a opera di Patrick Mullins) e il consueto armamentario bizzarro (la sega musicale si regala più di una comparsata) danno corpo a una miscela naïf anche gustosa ma indubbiamente fragilissima. Tra cinguettii, vaporose inquietudini, ritmiche sfuggenti (volutamente pasticciate) e gli eterei svolazzi di cui si fa carico l’anomala chanteuse inglese, la confusione tende a regnare sovrana: una selva lussureggiante in cui fanno breccia, di tanto in tanto, occasionali raggi di sole. Le infiorettature corali, anche quando incerte o solo abbozzate, già lasciano il segno. Si fa largo in questo modo un onirismo fantasmatico che conduce in una dimensione altra, tra cristalli multicolore, fermentazioni acide e sottili ombreggiature psichedeliche (preziosi i flauti), in cui nulla può essere sbrigativamente archiviato come sixties. Che si tratti di psych-folk non dovrebbero esserci dubbi, che sia carico di suggestioni, increspature riverberate e digressioni sfarfallanti, neppure. E tuttavia resta una proposta atipica e di non facile inquadramento.
“Broken Stems” è quanto di più simile a un brano-manifesto per questo sghembo rock-revival, tra garage pelle e ossa e stralunato girl group. E così “We Are Free”, altro episodio ultra-rappresentativo – forse il più romantico e crepuscolare – con un Dwyer ancora controllatissimo, placido, estatico, e una deliziosa pace dettata dalle chitarre prima che il rumore intervenga a saturare ogni spazio e la canzone si incendi in una piccola vampa noise. Sono ballate da cuori licantropi illuminate in esclusiva dalla luna, e non sono le sole. A fare eccezione resta, a dirla tutta, giusto quel paio di droni, lascito residuale degli estremismi ambientali dei primissimi OCS, che in questo contesto non aggiungono alcunché e, anzi, spezzano un flusso mesmerizzante mettendolo in pausa senza che se ne avverta davvero il bisogno. Questo capita a mezza costa e quasi in coda, appena prima di un’ultima immersione nella densa nebbia nostalgica (“You Oughta Go Home”), rischiarata a tratti solo dai jangle incoerenti e serafici di John. E’ il marchio di una band ancora povera e quieta, per nulla nervosa né esplosiva. Che si limita, al più, a regalare belle sensazioni lisergiche (“Cool Deaths”) in un quadro che non dista troppo dalla fumosa frammentarietà ipnagogica e rimane un delicato esercizio di stile in fondo fine a se stesso. Bislacco, straniante, anomalo nella sua ingenua inconcludenza, il germe e niente più di una formula ancora tutt’altro che definita.

ok220x270_xiGrandi novità sono comunque alle viste. Gli Ohsees diventano un quartetto grazie all’ingresso in squadra di Petey Dammitt dei Tres Ferocious, chitarrista che suona una Fender Jazzmaster come fosse un basso, servendosi di un dispositivo elettronico di sua invenzione. Curiosità a parte, per il sound della band questo rappresenta un grosso passo avanti in termini di irrobustimento, anche se i risultati concreti non si vedranno che un paio di anni dopo. Alla fine del 2006 John fonda inoltre una propria etichetta, la Castle Face, assieme a Matt Jones dei Blasted Canyons e al filmmaker Brian Lee Hughes.
La nuova fatica del gruppo, Sucks Blood, segna l’esordio per la piccola label che pubblicherà poi, tra gli altri, gli eponimi di Ty Segall e dei Fresh & Onlys, lavori di Bare Wires, White Fence, Warm Soda, Fuzz, Pow!, oltre a un’ampia serie di ristampe dal catalogo di Dwyer. E’ un album di consolidamento, questo, nella direzione già intrapresa in precedenza, e rivela una consapevolezza nuova. L’avvio è gracchiante, pidocchioso, catatonico, tutto vocette e strumenti gettati nella mischia alla rinfusa, ma senza sbracare. La chitarra, in particolare, sembra una grattugia e contribuisce a definire quella fisionomia sonora che, in sinergia con l’inconfondibile propensione indolente e da battaglia dei quattro californiani, diverrà ben presto un marchio di fabbrica degli Ohsees. I punti di contatto con l’esordio sono evidenti, a cominciare dalla languida malinconia retrò che nella superba title track fa bella mostra di sé. Ancora ritmi lenti e persino narcotici, quindi, ma anche una cura quasi pittorica delle sfumature nel contesto di una proposta anomala, densa di inquietudini, indubbiamente personale e seducente: coordinate ribadite da “Iceberg” in una forma se possibile anche più esile e quieta, con squisiti scorci da fini contemplativi che parrebbero piazzati appositamente per sconfessare lo stereotipo di John come autore oltremodo rozzo (la successiva “The Gouger”, con lui nei panni del sublime interprete demodé, non può che suonare allora due volte più bizzarra).

Ancora una volta, riascoltare a posteriori la compagine di San Francisco in questa sua prima, eccentrica incarnazione spiazza un po’, specie in virtù del peso ben più rilevante che Brigid Dawson aveva nell’economia del gruppo in questa fase, per così dire, estetizzante. Sucks Blood non tradisce una certa rigorosa coerenza, salvo riservare poi autentiche chicche come “Ship”, sempre in linea con un sunshine-pop-folk virato in tonalità rancide (e in sottofondo le campane, ad accentuare le coloriture acidule dell’insieme) o “Golden Phones”, uno dei primi gioielli della band. Essenziali, ultrariverberati ma anche straordinariamente melodiosi e limpidi, senza suonare per questo affettati o manierati, gli Ohsees colpiscono con la loro stupefacente delicatezza, testimonianza di gusto che nel bagaglio di una formazione garage scapigliata non si sarebbe mai indotti a sospettare.
Sporcate da rumori bislacchi e casalinghi, le tenui ballate ipnotiche rivelano attinenze inattese con le Cocorosie più auliche e meno trash (“What The Driven Drive”). Autentici maestri d’incanto insomma – stavolta è proprio il caso di dirlo – che non amano tuttavia sedersi sugli allori e sembrano tenere particolarmente alla sperimentazione di strane commistioni in episodi ribollenti, accesi da sprazzi di vitale inquietudine e capaci di fondere in maniera opportuna due anime ben distinte, quella eterea e svenevole di cui è portatrice la Dawson e una assai più cupa, nervosa, alienata, appannaggio esclusivo di Dwyer (“Invitation”, “The Killer”). A questo secondo indirizzo in particolare fa capo il tono guasto, flemmatico, morboso e volutamente disordinato più evidente in altri frangenti ma pur sempre tra le costanti espressive del gruppo, sensazionale nel caricare i propri brani di tensioni sotterranee destinate a restare sostanzialmente irrisolte. A completare il quadro, ecco un paio di ulteriori allucinazioni soniche che, mai come in questa occasione, si rivelano frutto di una prospettiva secondaria, ormai fuori fuoco.

ok220x270_xTra il 2007 e il 2008 gli Ohsees sono un cantiere aperto. In pochi mesi si avvicendano dietro i rullanti Patrick Mullins, Jigmae Baer (poi con Ty Segall per un’altra breve parentesi) e Mike Shoun, ma la discontinuità non lascia strascichi importanti in una fase in cui la batteria resta per il gruppo uno strumento fantasma, o quasi. Questo è tuttavia un biennio di profonde evoluzioni per la compagine statunitense, giunta di fatto al termine di un’esplorazione e pronta a inaugurare una nuova e ben più stimolante stagione. La fotografia del preciso istante di questo cambio di rotta – o meglio, l’ultimo fotogramma della vecchia band nell’atto stesso di passare il testimone a quella nuova – si intitola The Hounds Of Foggy Notion ed è ufficialmente un live album per quanto, paradossalmente, le registrazioni da cui nasce risultino più nitide e accurate che in tutti i precedenti lavori. Pochissime delle canzoni che lo compongono sono inedite. Le altre riescono però assai più fluide, veloci e armoniose rispetto alle versioni originali, presentate in un insieme finalmente coerente che fa di questa raccolta un lavoro solido e a sé stante, non certo inferiore per dignità artistica ai primi timidi passi del gruppo.
A prevalere, in tutto e per tutto, è la linea gentile che esalta il bizzarro revival psichedelico dove è indiscussa protagonista la voce eterea e senza tempo della Dawson, mentre le (ben poco appariscenti) percussioni si fanno carico dell’onere dei ritmi, nessuno strumento ambisce a prendere il sopravvento e lo stesso capobanda pare impegnato in una sessione di nascondino delle sue, con la chitarra ridotta a un semplice gingillo decorativo. Certo si tratta sempre del consueto psych-folk fragile e incespicante quanto originale, fortemente evocativo pur nei limiti di una confezione ancora poverissima (ma non miserabile). Come e meglio che in Cool Death e Sucks Blood, le infiorettature retrò portate in dote da Brigid conferiscono a queste canzoni scabre una fisionomia precisa e riescono nell’intento di regalare suggestioni incantevoli con pochissimo, scortate dal jangle dimesso ma splendente di John (“Dumb Drums”, la meravigliosa “Curtains”).

Ecco così, tra leziosismi da girl group in acido, andature rilassate e tenuemente ipnotiche, una ninnananna che culli placida l’ascoltatore (“Make Them Kiss”), o un fantastico numero passatista, diafano e raffinatissimo, che sa di insinuante filastrocca (“Dreadful Heart”), per non tacere della straniante cantilena dawsoniana trapuntata su un telone atmosferico di sfondo (“Highland’s Wife Lament”): psichedelia da quattro soldi, magari, ma d’effetto garantito. E riecco nelle sue ultime apparizioni la sega musicale di Mullins, deliziosa nei duetti con la chitarra e con la Brigid più languida di sempre (“Golden Phones”, non potrebbe essere altrimenti), a donare quel surplus di malia weird a queste piccole delizie. I brani vecchi trovano allora una definizione più appagante che rende loro giustizia; al resto provvedono gli immancabili richiami anni 30 e 40 nel malizioso gorgheggiare della vocalist. Con simili premesse, The Hounds Of Foggy Notion funziona anche come eccellente opera di sintesi per le prime esperienze della formazione californiana: una preziosa testimonianza stilistica della sublime peculiarità degli Ohsees prima maniera, destinata a non trovare significativi approfondimenti futuri e accantonata quindi presto dal gruppo, in marcia verso nuovi e più ambiziosi orizzonti. La sensazione di trovarsi immersi in un sogno privi di appigli temporali è forte, incerti i contorni, nebulose le vedute, sempre pallido e soffuso il luminismo, a fronte di un approccio emotivo ancora minimalista ma pur sempre capace di regalare nuance melodiche incredibilmente sensuali e, di fatto, memorabili. In questo quadro la ruvidezza è espediente adoperato con parsimonia così da risultare funzionale in maniera del tutto opportuna, al pari delle sottili marcature rumoriste: trucchi impiegati senza mai esagerare, impeccabili nel conferire un’aura romantica e decadente, o nel movimentare ulteriormente pezzi già ricchi di fascino, senza scadere in una crudezza noise fine a se stessa.
Quasi a margine, momenti più spigliati come “Block Of Ice” o “Ghost In The Trees” già anticipano ipotesi che il quartetto sta sperimentando altrove, in studio, pur mantenute qui in una variante poco chiassosa per non inficiare la coerenza unplugged della raccolta. Così nel disco è possibile reperire più di un’utile indicazione sull’imminente metamorfosi della band, anticipazioni da un nuovo album ormai di fatto pronto. Semi, germi, bozze, di uno slancio per il momento ancora solo in potenza, incerto, provvisorio, quanto mai interessante.
Ma questi saranno i Thee Oh Sees, tutta un’altra storia praticamente.

Benvenuto rumore. Benvenuto easy-listening. Benvenuti Thee Oh Sees

ok220x270_xxiiiIl salto di qualità è presto servito. Mike Shoun si prende un posto da titolare in formazione, dimostrandosi l’uomo giusto. Quello capace di catapultare la sua timida creatura in una dimensione “più festaiola”, di regalarle con quel drumming vertiginoso l’occasione per una brusca sterzata in primis caratteriale. Il salto di qualità non poteva che venire di conseguenza, accreditato finalmente ai Thee Oh Sees. Il cambio d’intestazione non va al di là di una vocale e di un margine di separazione in più, l’etichetta resta quella “di famiglia” dei due più immediati predecessori. Eppure The Master’s Bedroom Is Worth Spending A Night In è lontano anni luce da quanto licenziato da John sino a ora. Parte del merito, con ogni probabilità, spetta al guru della scena punk di Sacramento,  quel Chris Woodhouse tornato a collaborare con Dwyer dopo anni (“I’ve Visited The Island Of Jocks And Jazz” degli Hospitals, il precedente) e pronto a dare il via a un sodalizio che non verrà più interrotto. Anche all’ascoltatore privo di malizie non occorrono che pochi secondi per riscontrare come quella avvenuta nel quartier generale del gruppo californiano sia una svolta di quelle radicali. Le ritmiche si sono fatte preminenti, squillanti le chitarre, più rotondo e tonante il sound, sbarazzino il taglio: gli Oh Sees si sono trasformati all’improvviso in uno schiacciasassi, una “gioiosa macchina da guerra”, ma provano ugualmente ad approcciare formule più accessibili e trasparenti, meno fumose o caotiche.
Certo rumore, riverberi, tuoni, effettacci e pozze scurissime restano gli espedienti prediletti della compagine di San Francisco, ma ora le sue canzoni si scoprono granitiche e disinvolte come mai in precedenza. Sonorità ossessive e angoscianti hanno preso ad andare a braccetto con una godibilissima faciloneria slacker, dando vita a ibridi impuri, sinistri, minacciosi e pieni di sporcizia seppur assai meno ingenui di quanto potrebbe sembrare. Felicemente rock e devastanti, gli Oh Sees portano a sublimazione vecchi stereotipi garage negli incerti limiti di uno stile informe, incalzante, puntuto e totalitario. Come nell’incredibile “Two Drummers Disappear” (un rimando all’addio di Mullins e Baer?), dove la componente ludica è seconda forse soltanto all’impatto bruciante del loro arsenale, al solito denso di impurità, scaglie, ghiaia; o come in “Grease 2”, scorribanda gustosa come ne scriveranno a pacchi in seguito, leggere come filastrocche per bambini, taglienti come lamiere vecchie, robuste come la sgangherata centrifuga di una lavatrice.
Le cavalcate irresistibili si susseguono senza soluzione di continuità, ora più ora meno sgraziate per via di un’approssimazione comunque mai prevaricante. In questo marasma a ciclo continuo, le due chitarre si infiammano spesso e volentieri senza mai fermarsi, senza chiudersi in futili esercizi onanistici, preferendo insistere piuttosto nella loro impassibile corsa a perdifiato. Allo stesso modo, spirali e vortici disciplinati non fagocitano i brani privandoli di un loro pur sfuggente costrutto, e anche questa rientra di diritto tra le loro più meritorie prerogative: la forma non si impone mai di petto sulla sostanza. Se appare semplicemente formidabile il reattore ritmico alimentato dall’inesorabile grattugia elettrica di Dammitt, a risultare davvero ridimensionato è il ruolo della Dawson, pure insolitamente felpata e anguillesca (a tratti) accanto alla sua controparte maschile: ridotta a pallida enclave nel disco, “You Will See This Dog Before You Die” rappresenta una rimanenza irrancidita dal precedente catalogo, affogata qui senza alcuna pietà in un ambiguo e ingombrante field recording. I quattro californiani riescono implacabili in una parte centrale che si serve con fare malandrino di opzioni easy-listening, abbrutendole sistematicamente attraverso il proprio sudiciume noisy e i grimaldelli di un lo-fi tenuto comunque ben al di sotto della soglia di guardia: episodi potenti insomma, ma capaci di sposare una leggerezza più tipicamente pop. “Grease” rappresenta forse il titolo – passatista quasi per necessità – in cui è più facile cogliere la qualità dei detournement espressivi operati dal gruppo, filologico e accurato nei propri sabotaggi (anche da logori stilemi doo-wop).

ok220x270_xiiIrriducibili nella loro franchezza sin strafottente, John e sodali scrivono nei solchi dell’album alcuni dei loro più grandi classici per l’indiavolato repertorio live dei giorni a venire. Tra questi “Block Of Ice” e “Ghost In The Trees” ma anche il non proprio accomodante dodici pollici “Quadrospazzed”, uno dei brani più schiumanti e deliranti del lotto, festa di grovigli e canaloni sonici in cui il magma sonoro appare particolarmente irruento e travolgente (e la cui torrenziale virulenza troverà una degna continuazione in alcuni dei passaggi più detonanti e velenosi di Carrion Crawler / The Dream). Il disco è insomma come una nuvola nera che annunci tempesta e porti piogge acidissime. E’ un lavoro sensazionale già solo nei frangenti in cui si apre alla contemplazione come in “Graveyard Drug Party”, moloch estatico carico di contraddizioni e implicite tensioni sotterranee, che ricorda i Besnard Lakes effervescenti dello stesso periodo.
The Master’s Bedroom Is Worth Spending A Night In è davvero uno degli album chiave del collettivo. Vitalissimo, opportuno praticamente sotto ogni aspetto, cruciale per l’evoluzione della band. E transitorio, ma in un certo senso già definitivo. Folli e malinconici, aulici e zavorrati, i Thee Oh Sees costruiscono così le fondamenta di un’estetica che da qui in poi sarà – di volta in volta – sgrezzata o esacerbata, compromessa dall’incontro con un passato mitologico o scagliata come senza pilota in una prospettiva di compiaciuto deragliamento a tutto campo.
Da quando il quadrilatero perfetto ha preso forma con l’arruolamento di Mike Shoun, i Thee Oh Sees si impongono sempre più all’attenzione come formidabile band da concerti, selvaggia e travolgente il giusto. Con Master’s Bedroom danno il via a un tour pressoché ininterrotto che li vedrà sempre in giro per il mondo, a conquistarsi crediti col sudore e con i watt negli assolati pomeriggi dei festival più di grido, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, ma anche sui palchi scalcagnati dei piccoli club di provincia, in serate non esattamente da copertina. Spegneranno i motori solo cinque anni più tardi, molto tempo dopo esser stati notati e promossi dalla In The Red. La label losangelina che lanciò Jon Spencer Blues Explosion e Dirtbombs crede in loro e gli offre carta bianca.

ok220x270_xvCon Chris Woodhouse al suo posto in cabina di regia, la fiducia è ripagata presto grazie a Help, disco a dir poco estroverso che promette di spingersi ben al di là della scoperta citazione beatlesiana. “Enemy Destruct” è l’emblema di una partenza con il piede giusto: una botta di adrenalina piazzata subito in apertura, come a voler battere il ferro ancora incandescente dell’album precedente. Shoun picchia come un fabbro, le chitarre macinano e centrifugano con regolarità metronomica ma il delirio è sempre pronto a esplodere, dietro ogni angolo. La vena euforica degli statunitensi non impiega troppo tempo a imporsi, con un Dwyer decisamente sopra le righe alle prese con uno dei suoi inesorabili motivetti. L’abito è quindi più squillante che mai, il fervore prossimo a tracimare, mentre si strizza l’occhio a un pop felicemente revivalista. John e Brigid, in combutta per l’intera durata della corsa, evocano i fantasmi della new wave di marca B-52’s, anche se l’apparentamento è sempre stato seccamente rifiutato dalla band, ben più scapigliata e abrasiva del modello, lanciata come un’auto impazzita sugli ascoltatori. Dal punto di vista melodico si tratta della loro opera più ardita o compromessa, a seconda delle prospettive, ma i cedimenti verso l’easy-listening non si traducono mai in una banalizzazione dei propri schemi. Semplicemente si registra un loro temporaneo superamento messo in atto per puro diletto, senza fare troppi calcoli e senza snaturarsi con commistioni evidentemente poco opportune.
La compagine non rinuncia quindi al suo plateale disimpegno, a quella maschera tra il faceto e l’allucinato chiamata a dar luogo a un bel contrasto con i calibri pesanti del proprio armamentario rock, pure indebitato fino al collo nei confronti dell’ortodossia seventies (i flauti accendono vaghi aromi progressivi qua e là, per dire). Sono proprio questi scaltri cortocircuiti, attivati a intermittenza dai mesmerici vocalismi del capobanda, a irretire implacabilmente in virtù di quella weirdness che sa di scintillante coccarda, canagliesca ma non ruffiana. La vena schizoide torna insomma allegramente a fare capolino, anticipando qualche (estemporaneo) sviluppo futuro, per quanto non venga mai sconfessata la scelta di dare campo a una lievità particolarmente contagiosa (come nel jangle non esasperato di “A Flag In The Court”). Anche limitando le esternazioni rumorose o le iperboli ritmiche, anche tenendo a freno la sua cantilenante e beata noncuranza lo-fi, la formazione californiana ha le carte in regola per intrattenere a dovere il proprio pubblico e lo fa attraverso scorribande sbarazzine, più orientate al bubblegum o al surf-rock che non alle sinistre incarnazioni del lavoro precedente. Quando guardano senza indugi alla psichedelia westcoastiana degli anni d’oro i Thee Oh Sees si rivelano davvero convincenti, irresistibili. Una Dawson più volitiva in chiave estatica (“Can You See?”) pare molto meglio impiegata, a fuoco, perfettamente funzionale in ottica sunshine-pop, e poco importa per quel recupero bugiardo dei vezzosi cliché retrò, nella chiusa, dati in pasto a una bassa fedeltà che, quasi per necessità, ben si guarda dall’usare loro qualsivoglia riguardo. La distorsione lisergica, come accennato, non manca di farsi trovare nel posto e nel momento più adatti, al pari delle digressioni floreali, e questo fa indiscutibilmente di Help uno degli album più solari e gioiosi del gruppo, quello che – con ogni probabilità – i quattro di San Francisco si sono maggiormente divertiti a scrivere e registrare.
Poi certo, da un collettivo che ha eletto le infrazioni a stella polare espressiva sarebbe assurdo non attendersi eccezioni. Nello specifico di questo suo quinto Lp, l’anomalia si presenta piuttosto tardi con la torva e incombente “Destroyed Fortress Reappears”, animata dall’interpretazione autistica di John. La muraglia sonora resta preminente, ossessiva, implacabile, ma ad aprirvi una breccia è proprio quel fondo di alienante follia che deforma, corrompe e sgretola la solidità dell’impianto in un finale di combustioni forse inevitabili. Nel quadro generale la deviazione è comunque assorbita senza colpo ferire e la miscela non potrebbe anzi essere più godibile, un po’ come le inattese reminescenze sixties qua e là presenti, di volta in volta deturpate o anabolizzate a seconda dello spirito e del momento. Così il garage dei Thee Oh Sees ha finalmente una fisionomia limpida, disinvolta, e il successo della formula, almeno nel chiuso confortevole del loro orticello di riferimento, sembra davvero alla portata. Il merito va ascritto anche a un album di consolidamento importante quale Help rimane a tutti gli effetti.

Rumenta a go-go

ok220x270_xviiI due lavori pubblicati in poco più di un anno e l’alacre attività live concorrono a far circolare il nome dei Thee Oh Sees anche fuori della ristretta scena garage. Il 2009 si dimostra per loro un’annata di quelle memorabili: oltre alla consueta sfilza di uscite minori in sette e dodici pollici, il quartetto licenzia un Ep condiviso con il compianto Jay Reatard, uno in collaborazione con Paul Cary  e il primo di due split single cointestati al discepolo in rapida ascesa, Ty Segall; a una settimana da Help arriva inoltre nei negozi la prima raccolta di outtakes e amenità varie della carriera, Zork’s Tape Bruise, seguita a distanza di pochi mesi da un nuovo lp, Dog Poison.
Ad accomunare i due dischi, la ferma volontà di mettere in pausa quell’orientamento di maggior accessibilità che aveva reso irresistibili i più diretti predecessori, per potersi dedicare invece alle sonorità più crude e spregiudicate del proprio corredo. Zork’s Tape Bruise presenta la band di San Francisco in piena vigoria, persino aggressiva nel suo minaccioso incombere sull’ascoltatore. John e Brigid suonano la carica con le loro vocette indistinguibili mentre le chitarre scorticano, centrifugano e si accartocciano per combustione, salvo poi subito rientrare in pista come spettri elettrici. In quella che si rivelerà una delle collezioni più irruente e abrasive del loro catalogo, torna l’inconfondibile vena da battaglia che ha segnato a fondo tutte le prime esperienze di Dwyer: le canzoni hanno insomma l’aspetto di grattugie incuranti, sgraziate e pestone, per consolidare la formula di un garage-punk magari claudicante, ma perennemente allucinato e sempre feroce quanto basta. Si viaggia su coefficienti di tipicità elevati, con le classiche scorribande in forma di canzonette lunari e corazzate (emblematica “Bloody Water”, con la Dawson sugli scudi) in una confezione di qualità sempre accettabile, a riprova di come, nel loro caso, il confine tra pezzi titolari e seconde scelte resti del tutto aleatorio.
L’indole si mantiene opportunamente a mezza costa tra il ludico e il riottoso, così che gli urti generati dai distorsori e la potenza di fuoco del reattore di Dammitt riescano puntualmente attenuati dalla sdrammatizzante euforia che permea ogni interstizio, a mo’ di firma per una band tosta ma determinata a non prendersi mai troppo sul serio (anche per non scadere in una ovvia caricatura della cattiveria). Al di là della veste chiassosa e squillante ben oltre la loro già ragguardevole media, si ribadiscono i refrain fanciulleschi oltre a quel tono da allegri scoppiati, ingredienti fondamentali per disegnare l’ennesimo bel contrasto. Ai demo del primo disco, registrati dal solo John su un quattro piste (l’elegiaca “Heart Sweat” e le suadenti – malatissime – “Wave Hi To Vicar” e “Backdoor”, gli episodi migliori), si lascia preferire l’antologia di inediti e b-side del secondo. E’ qui ad esempio che si può reperire, in uno sviluppo felicemente delirante, l’autentica chicca di questa fase di caparbia evoluzione, “Kingsmeat”: stratificazioni, ulcerazioni, rigonfiamenti, fantasmi ultrariverberati, organetti e chitarre mugghianti si dividono la scena in un gioiello minore della discografia Oh Sees, di grande suggestione decadente ma senza la minima ombra di affettazione, con belle melodie da crepuscolo che si intuiscono sul fondo della torbida guazza elettrica, sigillo del romanticismo malato e deturpato di cui Dwyer si conferma l’inarrivabile campione. Altrove c’è spazio per opzioni insolite, proiettate nel passato (vecchi trucchi sinistri come la sega musicale), nel futuro (gli archi di “I Agree” che plasmano un camerismo vagamente funereo, un’atmosfera da festa sfiorita, in anticipo di qualche anno su Putrifiers II) o in un presente distopico perché spiazzante (il boogie lento e alienato di “Komas”, la prospettiva mimetica che in “Hey Buddy” li mostra prendersi cura dei cliché delle teen tragedy ballads dei ’60 alla maniera di Shannon & The Clams): soluzioni atipiche ma convincenti, per una combriccola di abili passatisti che ben conosce l’abc di genere e non delude neanche alle prese con il parassitismo stilistico.

Gustati distrattamente in quest’amena rassegna compilativa, i brani dei Thee Oh Sees sembrerebbero somigliarsi tutti, ma in realtà non ce n’è uno che sia uguale all’altro. Merito forse delle superbe doti da rabdomante improvvisatore che il capobanda non manca di esercitare. Alla deriva, eppure senza timori e, anzi, sempre nel segno di un beato trastullo. Sprofondi autistici e sublimazioni estatiche convivono al solito con un’eccelsa qualità della sintesi, schivando l’insincera comodità di un formalismo programmatico e ruffiano. Ne esce una raccolta tutt’altro che pretenziosa, con pezzi a loro modo classici e sorprendenti, che si apprezza anche per la sua pregevole varietà: episodi meno schiacciati dai loro stessi espedienti espressivi, e di più ampio respiro rispetto alla già lusinghiera norma del gruppo californiano. Pubblicato dalla microscopica Kill Shaman, Zork’s Tape Bruise è solo la prima licenza dell’anno dal contratto con la In The Red. A settembre anche la Captured Tracks può vantare nel proprio catalogo un album degli Oh Sees, il quanto mai enigmatico Dog Poison.

ok220x270_xxE’ sufficiente l’abbrivio, affidato alla farsesca “The River Rushes”, per registrare il ritorno allo squinternato e ciondolante psych-folk in salsa acustica degli esordi, animato qui dalle ormai consuete esternazioni weird (flauti rancidi, urletti e falsetti), in leggero anticipo sul farneticante florilegio di Castlemania. Il sound è volutamente sgangherato, fangoso, malsano, ma la Dawson non rinuncia a qualche decorazione aulica delle sue, pur vedendo ridotta la propria estenuata delicatezza a un esile ghirigoro, germoglio chiamato a farsi strada in un denso strato di umido, sudicio terriccio sonoro. Sbiellati, appesantiti, regolarmente sfibrati da deformazioni grottesche, i quattro di San Francisco si producono in una nuova galleria di antitormentoni puerili, canzoncine giocose corrotte con dolo dalla solita razione di bizzarre alterazioni e da un lo-fi tornato su buoni livelli di terrorismo sonico dopo quel paio di passaggi, per così dire, più potabili. C’è sempre un ché di inquietante dietro la loro idea di divertimento, o estate, come ben dimostrano gli spensierati motivetti di “Sugar Boat” e “Dead Energy”, godibili anche nella loro singhiozzante deriva nonsense. Ecco servita così una collezione di anomale ballate che emanano l’olezzo dei fiori ormai guasti, di colori alterati dal tempo, di un sistematico sabotaggio espressivo. Non ci sono calcoli tuttavia, e questo basta a preservare il disco dai rischi della maniera e di pose troppo furbe. Tutto è puntualmente ricondotto a una condizione di scherzo a briglia sciolta, e in quest’ottica anche brutture e sporcizia conquistano una loro (faticosa, occorre dire) dignità.
Con il flauto e le distorsioni che irrompono spesso come spiritelli, in uno sfrigolante sottobosco di assurde invenzioni, è alquanto divertente il fatto di non sapere mai bene dove sia Brigid a cantare, e dove piuttosto ci si trovi in presenza di una caricatura muliebre abbozzata da John. La naïveté del gruppo guarda insomma verso nuovi e più strampalati traguardi, e l’assenza di filtri consente a Dwyer di andare esattamente dove vuole: una landa di fantasie deteriorate da percorrere a piacimento, senza mappe o solidi appigli tramite i quali orientarsi. Le sinistre evocazioni sono presto dissimulate dal taglio ludico conferito dagli interpreti, quel tono da aberrante balocco meccanico assemblato alla meglio con materiali incoerenti e rigorosamente di recupero. E’ questo a fare di Dog Poison un pastiche di rimandi stilistici frammentari, un’incongruente antologia di brani-Frankenstein, sgraziati forse oltre il lecito ma a modo loro genuini. L’impressione, a conti fatti, è che l’album rimanga tuttavia una pagina minore della loro discografia, ben più spassosa per chi l’ha scritto o suonato che non per l’ascoltatore che se lo debba sorbire. Un capitolo a parte, la sosta consapevole in un inquietante lunapark dei loro, quindi qualcosa di diverso da un semplice passaggio interlocutorio: di simili valvole di sfogo, in fondo, Dwyer non ha mai smesso di aver bisogno.

ok220x270_iiNon trascorrono che pochi mesi e i Thee Oh Sees sono di nuovo in pista con un disco di inediti. L’incontinenza che li vede proporre nuova musica a getto continuo tende ormai al proverbiale, e non c’è un solo pezzo scritto sul loro conto che tralasci di menzionare questo dettaglio assieme alla fama (inconfutabile) di bestie da palco che in nemmeno tre anni hanno saputo cucirsi addosso. Dopo The Master’s Bedroom e Help non sembra poi irragionevole sperare nel colpo da knock-out tecnico che spinga la loro arte su più arditi livelli, ma il ritorno su In The Red, Warm Slime, sostanzialmente delude le attese. Registrato dal vivo su un otto piste Tascam 388 in appena mezza giornata, con l’intento di replicare senza adulterazioni l’energia delle loro performance live, l’album è letteralmente tiranneggiato dalla fantasmagorica introduzione affidata alla title track, emblematica prova di delirio e noncuranza strategica che con i suoi tredici minuti e rotti di cavalloni elettrici occupa tutt’intera la prima facciata.
La bassa fedeltà della casa non intacca un tono molto più sostenuto, adrenalinico e arrembante del solito, con quella sorta di antitormentone che si insinua subdolo e resta a fermentare nel cervello, gioioso mantra architettato come ponte ideale tra due coste rumorose: una più convenzionale, l’altra orientata al festoso furore rumorista e gracchiante che sempre più si impone come vera cifra del gruppo, tutta echi e riverberi squillanti. E in questo piacevole flusso schiumante e dilatato, esempio di terrorismo sonico pacifista aperto al diletto dell’improvvisazione, senza avvisaglie si viene poco alla volta risucchiati. L’ospitata (di ritorno) per Mike Donovan dei concittadini Sic Alps impreziosisce ma non stravolge questo vertiginoso tuffo nei tardi sixties che però, a conti fatti, suona più che altro come una lunga vacanza.
Colpisce nel resto del disco, un pugno di canzoncine da tre minuti ciascuna, il ricorso a una semplificazione della scrittura e degli arrangiamenti che premia il bozzettismo rock di pura sostanza. Prendiamo “Castiatic Tackle”, garage-punk veloce, abrasivo e approssimativo, in linea col migliore Dwyer-style. Forse i nuovi Thee Oh Sees pagano qualcosa in termini di eccessiva schematizzazione delle trame e della melodia: il songwriting appare basilare, ridotto all’osso e ammantato d’una scorza più diretta che mai, senza le bizzarre infiocchettature che avevano reso così irresistibili le precedenti prove dall’impronta più marcatamente retrò. E’ in questo ripensamento che alberga il carattere anomalo di Warm Slime, nella volontà di annullare le delicatezze passatiste accennate nei gradevoli quadretti di Sucks Blood o Hounds of Foggy Notion, per dare spazio a un cantato senza svolazzi e a un’indole che da acidula si è fatta più schietta e irridente. Anche il vetriolo si dimostra peraltro meno delirante e più disciplinato che ai tempi di The Master’s Bedroom, solo due anni prima peraltro. Canzoni come “Mega-Feast” sono autentiche ipotiposi, pezzi brevi, scapestrati e chitarrosi che lasciano margini esigui all’immaginazione, mentre i cromatismi restano confinati alle figure emaciate che in copertina ricordano vagamente la premiata ditta Klimt & Schiele. E poi si avverte terribilmente la mancanza della voce di Brigid Dawson, limitata nell’occasione ai cori cadenzati della militaresca “Everything Went Black”: davvero troppo poco per un’arma letale di tale risma.
Certo non siamo in presenza di un completo tradimento, gli amanti del genere possono stare tranquilli. “Flash Bats”, per dire, è un pezzo ancora più sommerso del consueto, con la voce di John sepolta sotto strati e strati di dissonanze, feedback cenciosi e una discreta mole di rumenta sonica. Il valore fidelizzante di Warm Slime è assicurato da questa sistematica negazione della bella forma, dell’equilibrio e della norma sonori. Come nel caso di “I Was Denied” dove, nonostante una melodia bubblegum di quelle tagliate con l’accetta, i suoni restano volutamente grezzi, scontrosi, e la produzione povera, poco elaborata. Ma sotto le scaglie della psichedelia in bassa fedeltà, dietro gli scampoli di rancidume noise che avvicinano quest’opera ai morbosi solipsimi dwyeriani di Dog Poison (analoghi anche i limiti), si conferma uno spirito pop genuino e fanciullesco che è il propellente ideale per liberare di slancio tutta la forza visionaria della propria irriverenza.

Una buona annata

ok220x270_xxiiAd appena un lustro dalla fondazione, i Thee Oh Sees possono essere considerati una vera garanzia. Non contenti per quanto di buono già realizzato, i quattro scelgono il 2011 per alzare il tiro con decisione: intensificano gli sforzi e mandano in stampa ben tre nuovi album, il primo dei quali un doppio vinile con dentro scarti e b-side in quantità, Singles Collection Volume 1 and 2. La copertina – due giovani che ostentano elementi dall’artwork di Master’s Bedroom e Help tatuati sul petto – chiarisce a sufficienza quelli che saranno gli orizzonti espressivi di una raccolta scarduffata come non mai. La prima parte, eccellente, non è in realtà neanche inedita, essendo uscita come bonus CD a completamento del più spregiudicato Zork’s Tape Bruise, un paio di anni prima. Rispetto ad essa, la seconda rassegna in questa sorta di beffardo anti-greatest hits si mostra subito assai più dispersiva, raccattando amenità varie (come il demo da tracheotomizzato di “Contraption”) e consuete frattaglie punk-pop amabilmente sbalestrate, disarmoniche, tutt’altro che imprescindibili. La centrifuga impazzita del gruppo continua a girare a pieno regime, trasandata, abrasiva e senza mete apparenti, mentre il materiale raffazzonato (tra cui l’embrione garibaldino e sferragliante di “Blood In Your Hear”) ben documenta più che altro l’esuberante gaiezza della formazione californiana nelle sue prolungate fasi di pausa in comfort-zone. Stilisticamente disomogenea, la collezione offre una visuale atipica su un gruppo ancora beatamente scapestrato, condizionato da schemi risaputi eppure incline ad azzardare qualche opzione bizzarra (ne è un esempio la rovinatissima sfuriata “The Drag”, non certo facile da incasellare).
Gli archi, gravi e funerei, fanno di rado capolino (“I Agree”, ibrido decadente) in una prospettiva decorativista che incontra la band fascinosa degli albori e che anche in seguito sarà adottata con parsimonia ma buon opportunismo. Sono però più caratteristici gli Oh Sees lenti e impastati delle pagine più grottesche e malsane (“7484”), le cui pedaliere in avanzato stato terminale certificano l’inclinazione cruda e meno accomodante dell’antologia. Un imbarbarimento che non risparmia i bozzetti acustici (come “Castiatic Tackle”) – sabotati dalla veste grossolana, spogliati della polpa rock come a voler svelare il cuore della propria follia – e sommerge sotto quintali di sudice storpiature anche le modiche tracce di Beatles in acido qua e là presenti (“Where People Do Drugs”). Di certo una bella palestra per la weirdness canagliesca di Dwyer, a sprazzi frivolo nelle sue canzoncine a base di falsetti e flauti malandrini, che non riescono a elevare tuttavia la semplice curiosità al rango del concreto interesse. Lo standard si mantiene su questi scalcinati livelli sino all’ultima ballata in scaletta, che mantiene il medesimo retrogusto rancido e non si sottrae alla logica delle precedenti, confermandone l’orientamento inessenziale adatto più che altro ai completisti irriducibili: la dimostrazione fattiva di come il gruppo abbia evidentemente bisogno di abbandonarsi di tanto in tanto al sonno della ragione, per liberare i suoi mostri più oscuri, informi, allucinati.

ok220x270_xviTra momenti più e meno brillanti, Singles Collection Volume 1 and 2 chiarisce una volta di più, se ancora ce ne fosse il bisogno, come il quartetto di San Francisco non ami i compromessi e renda egregiamente anche nelle parentesi di sostanziale svago, dove non esiste la minima possibilità, ancorché remota, che si stia lavorando in modo bieco per arruffianarsi eventuali avventori dell’ascolto facile. La doppia compilation esce ad aprile e funziona implicitamente come teaser per il nuovo disco, pubblicato con tutti i crismi solo qualche settimana dopo. A dirla tutta i Thee Oh Sees, in giro per l’Europa in quegli stessi giorni di primavera, non suonano alcuna delle canzoni nuove e nemmeno si portano dietro qualche copia della loro più recente fatica. Se commercialmente la scelta non può che destare perplessità, si riesce tuttavia a comprenderla contestualizzandola nel piano operativo di una band naïf come poche altre, in questo momento. Qualora i numerosi precedenti non avessero reso con adeguata chiarezza l'idea, Castlemania irrompe come prepotente dimostrazione che i Thee Oh Sees sono quanto di più distante in ambito rock alternativo dai concetti di allineamento e staticità. Se nei primi lavori la compagine californiana si era fatta apprezzare per un suo stile peculiare e riconoscibile (l'incontro degli spigoli in bassa fedeltà delle chitarre con gli irresistibili ghirigori retrò portati in dote da Brigid Dawson), per poi approdare in opere come Help a una formula di ragionevole compromesso e accentuata accessibilità, questo nuovo album sceglie di privilegiare la passione genuina e incontrollata di Dwyer sacrificando tutte le altre variabili.

Non è un caso. Come già in Dog Poison e, più tardi, in Putrifiers II, il vulcanico frontman cura in via esclusiva ogni dettaglio del disco, canta e suona praticamente ogni strumento (chitarre, basso, batteria, percussioni, tastiere, mellotron, synth, tromba, clarinetto, flauti e armonica) mentre resta invece marginale il contributo degli altri membri, con un paio di brani affidati alla voce della Dawson e poco o niente per i titolari Mike Shoun e Petey Dammit. Se come matrice si conferma il noise-pop leggerino già abbozzato a più riprese nel precedente Warm Slime, lo spirito è piuttosto quello da battaglia esibito in episodi meno accomodanti come Zork's Tape Bruise o il già citato Dog Poison. In comune con questi lavori si manifesta la tendenza, qui accentuata, a incrociare stilemi surf-canzonettari e sonorità garage deteriorate innescando senza posa cortocircuiti kitsch a dir poco stranianti (“Pleasure Blimps”, “Whipping Continues”). Proprio nei passaggi in cui l'easy-listening è assunto come pretesto poi puntualmente sconvolto dall'approssimazione e dal grottesco, dove le melodie sixties sono dirottate verso il più acido degli incubi (“Idea For Rubber Dog”) o compromesse da sporcature e inserti volutamente disturbanti, dove anche i depistaggi country-blues sono tradotti in neri esorcismi (“AA Warm Breeze”), va ricercato il piacere di una proposta tanto anomala, ingenua e in fondo realmente spensierata come questa. Sunshine Pop Album lo definisce con mirabile ironia la nota stampa, trascurando di rilevare come Dwyer sia da sempre un maestro nello svilire e nell'adulterare il nocciolo pop di ogni propria creazione.

ok220x270_xiiiPer quanto le sonorità acustiche siano per una volta prevalenti, a lasciare un'impronta indelebile in Castlemania è il loro dirompente infrangersi sulla rutilante e sporchissima scogliera elettrica. L'incontro assume i contorni di una festa gioiosamente isterica, frastornante nella sua sistematica sconfessione di ogni riguardo espressivo, ed è plausibile che dietro scorci senza filtri come questi roboanti fracassi da due minuti e via abbia preso forma proprio il disco che Dwyer aveva in mente da un sacco di tempo: un album sfarfallante e felicemente rancido, infarcito di sinistre filastrocche affogate in un clima di generale sadismo sonoro e contaminate da un gusto a suo modo inquietante ed infantile (esemplari in tal senso “Corprophagist” e la copertina con il celeberrimo Chatter Telephone della Fisher-Price). Non mancano perle più limpide come l'eccentrica “Corrupted Coffin”, funerea popsong con melodia floreale imbastita dall'organo ed esaltata da flauti e tromba, anche se la palma del pezzo più rappresentativo spetta per forza di cose al brano malatissimo che presta il titolo alla raccolta, fotografia sovraesposta dei Thee Oh Sees fieramente caotici del 2011. Soltanto verso il finale la devianza è in parte riassorbita, con un terzetto di cover – da misconosciuti artisti di fine anni '60: Norma Tanega, West Coast Pop Art Experimental Band (“I Won’t Hurt You, ospite l’amico Ty Segall) e gli olandesi Big Wheel – rese più accessibili ora dal contributo vocale di Brigid, ora da una preziosa velatura psichedelica stile “Magical Mystery Tour” (“If I Stay Too Long”, il passaggio più beatlesiano del disco).

ok220x270_ix_01Archiviati con questa spumeggiante (e purtroppo controversa) opera solista i capricci del loro leader, i Thee Oh Sees pervengono qualche mese dopo, con il doppio Ep Carrion Crawler/ The Dream, alla loro uscita forse più felice di sempre. Irrobustita da Lars Finberg degli Intelligence nei panni di secondo batterista e chitarrista, la nuova ricetta punta dritta a un suono impulsivo, detonante, senza posa, e al contempo stabile, organico e adulto. Le scariche che innervano le canzoni si rifanno sia ai grandi act del glorioso passato del rock lisergico sia alla psicosi di fine anni 70, cavandone una portentosa via media per le nuove generazioni. “Carrion Crawler” apre (letteralmente) le danze con un riff e un andamento prossimi all'“Interstellar Overdrive” dei Pink Floyd: stessa propulsione suicida, stessa furia imperterrita, una baraonda forse non così collettiva ma ugualmente sfaldata in senso acido. Il riff solenne riverberato, il canto innodico, il passo marziale di “Robber Barons” sono gli ingredienti dell'ultimo ritrovato in fatto di nobile revival psichedelico. “Chem Farmer” si presenta come baccanale senza voce, ma anche più virulento nei suoi accordi blues al fulmicotone, avviluppati in cortine di echi e convogliati in galoppate tribali.
“The Dream” abbatte altre frontiere. È la più anthemica e motorik della collezione. Il canto cadenzato modello aria medievale si staglia fantasmagorico in una jam demoniaca, bloccata – come in un maleficio – tra stasi, ipercinesi nevrotica ed esplosioni scalmanate.
Al di sotto della crosta di genere garage-rock, “Wrong Idea” è nient'altro che uno scherzo armonico ribollente, il cui canto inintelligibile non fa altro che seguirne le convoluzioni dinamiche. “Crack In Your Eye” riprende da dove finiva “The Dream”, con attacco a mo' di armonico da sciamano reso con la pura distorsione, battito da cerimoniale gotico e squittii stridenti di voce. Ampliando il già vasto spettro “Contraption/Soul Desert” fa volare ancora in orbita i B-52's (un'orbita tutta new wave, pungente in senso psychobilly), con un turbinio ossessivo e sempre più scalmanato. Una delle loro creazioni più spaccanti. “Opposition” offre l'unico vago ricordo del loro power-pop del passato prossimo, qui però potenziato con fare hardcore. “Crushed Grass” è un altro rinnovamento infuocato del garage-wave della band di Athens, e "Heavy Doctor" suona come se David Byrne fronteggiasse degli Animals acidificati al massimo. Estremi attributi confluiscono in questa fionda d'album. I membri e la loro distribuzione, per cominciare: la chitarra di Dwyer, hendrixiana fino al midollo per il suo disturbante contrappunto, il canto della Dawson, la seconda chitarra atmosferica di Peter Dammit. Soprattutto, un plauso va alla sezione ritmica, la doppia batteria di Michael Shoun e Lars Finberg. Ma anche al loro districarsi nei generi del cuore, quelli della San Francisco "acida", storica, gloriosa, da dove provengono, e in mescole velenose che danno vita a un nuovo immaginario forte. Come quello riassunto dall’immagine in copertina, disegnata da Elzo.

Dedicato alla memoria dell’amico Jay Reatard, di Jerry Fuchs e Gerard Smith, Carrion Crawler / The Dream resta opera imprescindibile non solo per gli Oh Sees ma per l’intera scena garage californiana negli anni di passaggio tra le ultime due decadi.

Gli ultimi fuochi

ok220x270_xivChi paventava come più scellerata delle strategie la sovraesposizione cui i Thee Oh Sees parevano aver abituato, può infine tranquillizzarsi. Dopo uno straordinario 2011, condito da due dischi di inediti, un’ampia raccolta di B-sides e la solita manciata di ardite collaborazioni, la band di San Francisco sembra optare saggiamente per una condotta di maggior riserbo: un solo Lp a referto e un paio di trascurabili split single (con gli apostoli The Mallard e Quintron & Miss Pussycat). A non venire meno sono comunque tanto la qualità effettiva della proposta, che resta agilmente tra le più interessanti in circolazione (nonostante lo stuolo di imitatori cresca a vista d’occhio, specie all’interno della scuderia di famiglia Castle Face), quanto il piacere dello scherzo e della sorpresa che il progetto californiano non ha mai smesso di coltivare, nel caso di Putrifiers II con la scelta ingannevole di un titolo che si propone come seguito di qualcosa che, di fatto, non esiste (se non si intende dar peso al brano omonimo degli Yikes, in guisa di precedente). A essere sinceri parlando dei Thee Oh Sees, una linea di continuità pare sempre evidente: ben poche altre realtà nella scena psych-rock di questi anni possono infatti vantare un sound ormai classico e riconoscibile come il loro.
Nello specifico di Putrifiers II – impreziosito da una produzione notevole oltre a due ospiti di lusso (Mikal Cronin al sax e Chris Woodhouse, che aggiunge ulteriore sostanza e profondità ad una sezione ritmica come sempre fenomenale) – la doppietta piazzata in avvio va implicitamente a completare la (parziale) svolta del corposo predecessore Carrion Crawler / The Dream, ribadendo che i banali vezzi del garage lo-fi restano una variabile di cui la formazione statunitense può tranquillamente fare a meno. Nella rombante partenza di “Wax Face” tutte le peculiarità stilistiche del gruppo (spirali di effetti, isteria elettrica, cori e urletti ultrariverberati) sono egregiamente espresse, con un talento nella sintesi ed una compattezza sonora che altrove, spesso, erano mancati. Nondimeno “Hang A Picture” fa centro nel solco delle tipiche esplorazioni tra rock revival e pungente psichedelia West Coast: limpida, precisa, rotonda, trottante e con più di una reminescenza dai tempi dei primi veri successi, The Master’s Bedroom e Help, vecchi nemmeno cinque anni peraltro. Coordinate analoghe anche per il singolo “Lupine Dominus”, una “My Sharona” in acido che la vocina infida di Brigid Dawson e i bramiti del Fuzz War trasformano in una sorta di rivisitazione, meno spigolosa, di uno dei migliori pezzi del repertorio live del gruppo della Bay Area, “Contraption/ Soul Desert”. Se in superficie sembra ridimensionata l’indole estremista, almeno rispetto agli episodi più naif e meno accomodanti del catalogo Thee Oh Sees, non ha perso smalto la sottile vena sperimentale che da sempre accompagna ogni loro uscita, quel gusto nel recuperare una tradizione per adulterarla a piacimento attraverso canaloni sonici ossessivi e ritornanti, distorsioni mai gratuite, ritmiche perentorie e fumose digressioni. Evoluzioni sghembe e rumorismo fine a se stesso sono quindi ridotti al minimo indispensabile ma il gruppo non rinuncia alle tonalità tra il rancido e il floreale che ne hanno ormai consolidato l’impronta.

ok220x270_viiiIn “Flood’s New Light” recupera ad esempio scampoli dell’infantilismo sfarfallante di Castlemania, con le giuste cromature e il disimpegno festante che sono inconfondibili specialità della casa. E, nello stesso genere, riecco in “Will We Be Scared?” il beat dei sixties rigorosamente deviato in linea con la propria indole stralunata (sulla falsariga dell’ormai lanciatissimo discepolo Ty Segall), un po’ come era capitato con le gustose cover da autentici carneadi della canzonetta che chiudevano quell’album acidulo e sgangherato. Pilotati dall’estro di un John Dwyer comunque assai meno scanzonato del solito, gli Oh Sees confezionano così uno dei loro lavori in assoluto più vari, dove la palma per la maggiore sorpresa spetta di diritto all’oscura e avvolgente “So Nice”, insolita per la compostezza marziale e per il ruolo cruciale del violoncello, seppur non più straniante del resto del lotto. Il brano che dà il titolo alla raccolta avvicina invece l’art-rock intimista dei Deerhunter e, tra meraviglia narcotica e improvvise illuminazioni, potrebbe quasi essere scambiato per una outtake da “Halcyon Digest”. Il vulcanico leader si concede poi il lusso dell’ennesimo colpo gobbo, sfoderando un pezzo curiosamente arioso e privo di asperità o artifici disturbanti, tra chitarre jangle-pop, archi e cantato adamantino (“Goodbye Baby”), ma non manca un omaggio alla psichedelia gentile e barocca del Ray Davies degli anni d’oro (“Wicked Park”).

Pur rallentando i giri sino al minimo sindacale di un Lp l’anno più immancabile razione accessoria in sette e dodici pollici, il gruppo di San Francisco rimane fedelissimo al motto del battere il ferro finché è caldo, sposato all’epoca – nemmeno dieci anni prima – in cui la ditta era un progetto collaterale del solo capocantiere John Dwyer e si chiamava ancora OCS. Mentre l’attività live della compagine californiana procede ininterrotta da tempo immemore, il suo 2013 discografico si apre con la pubblicazione in simultanea dell’Ep Moon Sick e di quello che, conti alla mano, dovrebbe essere il suo diciassettesimo album. Dopo cinque uscite con la In The Red, un John colmo di gratitudine sceglie di emanciparsi dalla label losangelina per tornare a pubblicare con l’etichetta di famiglia. Questo Floating Coffin, tocca chiarirlo subito, è un disco improntato al consolidamento. Osa un tantino meno rispetto ai suoi tre più immediati predecessori ma contribuisce a fissare con buon profitto le linee di una cifra stilistica e di un sound già considerevolmente peculiari, riuscendo nel contempo a presentarsi coeso come alla band non capitava forse dai tempi dell’ottimo The Master’s Bedroom. Nulla di nuovo sotto il sole della Baia quindi, eccetto la lapidaria ma sibillina didascalia darker and heavier affidata alle sempre attendibili note stampa della Castle Face. L’indizio è corretto. Da subito piacevolmente sinistre e gracchianti, le nuove canzoni si impongono in virtù di una personalità intensa ed equivoca, mentre la perentoria vigoria delle pedaliere rende come meglio non si potrebbe tutta la sporcizia minacciosa del loro inconfondibile afflato elettrico.

ok220x270_xxiLa sezione ritmica al solito poderosa, corroborata dalla seconda batteria di Lars Finberg e dalle percussioni di Chris Woodhouse, contribuisce a dare profondità a un lamento elusivo, angosciante e quasi sepolcrale, ed è da questo alveo cupo e gorgogliante che affiora come la più crudele delle lame arrugginite l’agguerrito fuzz del capobanda. Accade in “Night Crawler” ed è già una replica di quanto proposto nelle battute iniziali, con il sottofondo denso e magmatico tratteggiato dalla chitarra mugghiante di Petey Dammit a servire da perfetta cornice per lo sconclusionato retropalco di Dwyer – tutto urletti filtrati e barbagli in tonalità acidule – come sempre assoluto protagonista. La sgroppata euforica dell’opener “I Come From The Mountain” replica a grandi linee l’avvio arrembante di Putrifiers II, tra vortici sonici e canaloni d’impressionante compattezza, mentre nella festosa guazza di asperità, detriti noise e inserti vocali trillanti della title track, le esagitate sei corde del gruppo spurgano feedback come non mai. Guidati dallo strafottente capitano Dwyer ben saldo ai posti di comando, gli Oh Sees suonano robusti e tarantolati secondo copione ma anche alquanto precisi, aprendo a un quanto mai opportuno compromesso tra devastazione e raziocinio. La gioiosa altalena espressiva di “No Spell” rincara la dose alternando disciplina ed enfasi estremista, con le sonorità che paiono farsi più rotonde e cadenzate salvo rovesciare le premesse con nuove chiassose ulcerazioni. La band insomma non cede mai del tutto alla tentazione delle facili derive rumoriste: preferisce usare la testa e chiudere magari con eleganti nuance di effetti, come in questo caso, oppure con un bizzarro mix tra la propria più quieta incarnazione (modello The Hounds Of Foggy Notion) e la vaghezza sghemba ma fascinosa dei Sonic Youth di “Murray Street”.
Tra le pieghe di un album che garantisce al gruppo molti nuovi seguaci, capita di imbattersi in riff nitidi, squillanti e capaci di sedurre grazie a una mistificante fluidità, brillante imitazione di certi standard progressive (e addirittura funk), con il cantante che gigioneggia beffardo e chiude di fatto le porte all’ennesimo fallace apparentamento. Si divertono e confondono questi Thee Oh Sees, in maniera se possibile anche più subdola che in passato, senza artifici davvero scoperti o influenze certe. E intanto da bravi virtuosi in maschera assimilano, ibridandoli con i propri stilemi da onnivori deviati, oltre quarant’anni di furiosa musica rock. Per fortuna non si è riassorbita l’adorabile anomalia di quell’istinto ludico, la naïveté isterica e fanciullesca che da sempre rappresenta una delle variabili più audaci nel grezzissimo corredo dei quattro californiani. Lo dice chiaramente il delirio in copertina e lo conferma per analogia “Strawberries 1+2”, pezzo che s’impenna, sbanda e si dimena tra scorribande quasi punk, dilatazioni psych, vitali rigonfiamenti à-la Cramps e una graduale inesorabile discesa nell’oscurità, resa più pungente dai sempre impeccabili giochi d’ombre architettati da Dammit.
Se la disinvoltura dietro queste formule consolidate non fa più notizia, a sorprendere davvero, ancora una volta, sono le contaminazioni insolite e stranianti. C’è spazio così per il ritorno da sovrani di Brigid Dawson e del suo organo malefico (“Sweets Helicopter”) e per la parentesi ridanciana che rispolvera i frangenti più sopra le righe di Warm Slime, con tanto di lisergica ospitata per l’harpsicord di Kelley Stoltz (“Tunnel Time”). La chiusa con “Minotaur” è morbida e meno irrequieta della media, nel solco di una psichedelia limpida ma provocante (ribadita sull’Ep da “Candy Clock”, specie di detournement Kinks operato da Syd Barrett) che ha l’aspetto di uno scaltro incantesimo. A rendere il tutto particolarmente vibrante pensano l’uso eccelso degli archi e le voci ripulite dei due cantanti, davvero bravi nell’irretire l’ascoltatore con quello che è solo l’ultimo – e forse il più riuscito – dei loro villaggi Potëmkin.

ok220x270_ivGrazie a Floating Coffin il 2013 è per i Thee Oh Sees l’anno della consacrazione, almeno in ambito rock alternative. Per non farsi mancare proprio nulla, a novembre la formazione statunitense licenzia sempre su Castle Face l’ennesimo assemblaggio di scarti e amenità assortite, Singles Collection Volume 3. Come e più che nelle precedenti, analoghe occasioni, la vena si conferma squinternata e incontenibile, tra incursioni robuste quanto infantili e demo scalcagnati, a base di orlature sibilanti à-la Monks, botte ritmiche e chitarre alla cartavetro.  La partenza è nel segno della loro più faceta incarnazione, con John nei panni dello sporco diavoletto tentatore in una canzoncina stupida e dolciastra, che è ancora poca cosa rispetto alla rumorosa scorribanda da fabbri terroristi in cui imperversa di lì a breve (“What You Need”), con l’immancabile corredo di litanie, falsetti, riff mugghianti e ululati. Una variante marginale e risaputa, insomma, delle specialità della casa, e nondimeno godibile quanto potente. Poco oltre la brillantezza westcoastiana incontra l’irriverenza bambinesca degli Oh Sees in una “Wait Let’s Go” veramente riuscita, che profuma di tardi anni 60 ma anche di moderna weirdness.
Sono numerosi gli episodi squillanti e abrasivi in cui la maggior cura della parte produttiva (aspetto che ha visto crescere il gruppo in maniera esponenziale) non ammorbidisce comunque l’impatto bruciante e indomito del quintetto, piacevolmente sfrontato e vaneggiante. Per comprendere la compagine di San Francisco ormai giunta al traguardo dell’oggi, potrebbe valere più di tante parole la gioiosa b-side passatista intitolata “Devil Again”: gli Oh Sees e il Farfisa rappresentano una miscela micidiale in quanto a disimpegno e squilibrio, specie se lì attorno impazzano la grattugia elettrica di Dammitt e la dodici corde all’aceto di John. Il boogie allucinato di Mr. Quintron (già sodale degli Oblivians) trova un’insperata seconda vita nell’affettuosa rilettura di “FBI2” – con i californiani ebbri e sopra le righe come il delirio predicatorio e pazzoide dell’originale richiede – ma non è meno convincente la cover di “Burning Spear” dai primissimi Sonic Youth, schizoide e minacciosa al punto giusto. Fin troppo facile  completare la scaletta con il loro inno di battaglia (“Block Of Ice”, ovviamente) in un’esibizione tra le mura amiche dell’Eagle Tavern, e con quella del non meno irrinunciabile fortunale sonico di “Destroyed Fortress / No Spell”.
Nulla di nuovo, quindi. Ma con formule così ben rodate, l’apprezzamento è garantito quasi a scatola chiusa.

Puntini di sospensione

ok220x270_viDallo scorso dicembre i Thee Oh Sees sono una belva dormiente.
Dopo oltre cinque anni a tavoletta, una pausa era nell’aria. L’hanno annunciata direttamente dal palco della familiare Great American Music Hall di San Francisco, e in un certo senso è fuori luogo parlare di doccia gelata. Qualcuno avrà anche pensato a uno scherzo da buontemponi, venendo a sapere che un album nuovo di zecca era già in calendario per questo aprile. Non ci sono errori né malizie, però. Drop è pronto infatti da parecchi mesi e, presto o tardi, doveva uscire; Brigid Dawson ha salutato la Bay Area e preso casa a Santa Cruz, mentre John Dwyer ha fatto altrettanto a Los Angeles. Che non si tratti di una rottura vera e propria quanto dell’esigenza di dedicarsi ad altro, lo raccontano certe recenti note biografiche: il frontman ha tirato fuori dalla naftalina la sua precedente (e ancor più abrasiva) band, i Coachwhips, per una serie di concerti all’ultima goccia di sudore, ma nel frattempo ha anche mandato in stampa i vinili di quello che – omettendo gli esordi a nome OCS e dischi come Dog Poison e Castlemania, tutta farina del suo sacco – dovrebbe essere il suo primo album solista.
Dentro questo Hubba Bubba, digressione synth-wave dalle cadenze spesso e volentieri catatoniche, c’è tutta la passione del musicista statunitense per la paccottiglia ipnagogica e gli assemblaggi di suoni invertebrati, rigorosamente di recupero. Così quella ascritta a Damaged Bug prende corpo come fedelissima colonna sonora dell’alienazione dwyeriana, cupa e assai meno spensierata di quanto il taglio disimpegnato e approssimativo lasci intendere a un ascolto distratto. Una raccolta di divertissement che per impostazione programmatica può ricordare sia le sconclusionate esplorazioni in solitaria degli OCS, sia la rilassata futilità trash di alcuni dei suoi progetti minori come i Zeigenbock Kopf, evidenti nell’autismo post-industriale di “Rope Burn” (pure riscattato dalle sue belle infiorescenze rancide). Un discreto campionario di stranezze, quindi, articolato per scelta in tono monocorde e ritornante, con la chitarra di John limitata a pochi camei che corrispondono alle sole scorie residuali di marca Oh Sees: nell’avvio con “Gloves For Garbage”, numero sintetico dal sapore casalingo infarcito di umori bizzarri (ma sostanzialmente minimalista) nonché beffarda parodia di certe pose cold-wave, è lei a destare dalla generale letargia; in “Sic Bay Surprise” provvede invece a movimentare un garbuglio ancora vischioso, stralunato e pencolante, dominato dalla stessa rumenta ritmica già presente ovunque. Non occorrono che questi pochi indizi per intuire le finalità ricreative di un’operina registrata per puro diletto; uno scarto stilistico considerevole rispetto alle consuete produzioni del Nostro, orientato qui a radicalizzare le proprie ludiche prospettive in un prodotto che appare volutamente (e platealmente) dozzinale.

ok220x270_xviiiMa Hubba Bubba è anche un disco malato e claustrofobico, come certi foschi episodi della seconda facciata chiariscono in maniera eloquente: “1/2 An Aeroplane” in particolare, magma lento, simulacro plastico della disperazione, rannuvolamento che non lascia filtrare un solo raggio di sole; per non parlare delle suggestioni robotiche che in “Metal Hand” spingono al parossismo certi cliché retro-futuristi di trent’anni fa, sempre in chiave morbosa e con esiti apprezzabili. La sublimazione dei deliri della casa arriva però con il congedo, un pastrocchio senza capo né coda che celebra nella facezia la dionisiaca vitalità creativa del musicista californiano. Altrove fanno capolino scampoli di psichedelia narcotizzata in calchi sunshine-pop innaturali e abnormi, prolungate istantanee di un’inquietudine ormai guasta: gioco scoperto tra le pieghe di “Hot Swells” ma meno decifrabile in una “”SS Cassidinea” che, in un profluvio di buffi gorgheggi elettronici, colpisce più per l’interpretazione androgina sulla scia del primo Scott Weiland solista (la si confronti con “Desperation #5”, dal folle “12 Bar Blues”) che non per le reminescenze spaziali dai Flaming Lips di “Embryonic”. Poco oltre, ossessioni e fantasmi sembrano prendere vita come mostruose creature delle profondità oceaniche, rischiarate a intermittenza dalle loro animazioni elettriche nell’oscurità. E quelle stesse impressioni sono poi dilatate sino alla deformazione grottesca nel brano che presta il titolo alla raccolta, lasciando per paradosso alla voce di John un’intelleggibilità che quasi disperavamo di trovarle cucita addosso (e che fa il paio con la limpidezza melodica appena più convenzionale che si scorge in “Photograph”).

Forte di un’inessenzialità eletta a paradigma, Hubba Bubba merita di essere archiviato tra i lavori che non fanno mistero della loro marginalità. Che funzionano in via esclusiva come valvole di sfogo per chi li imbastisce. Soppesato sulla base di questo parametro e delle irrilevanti aspettative generate, può anche riservare al fruitore curioso più di una godibile gratificazione, sempre che – ma questo è chiaro – la weirdness portata in dote da Dwyer non presenti specifiche controindicazioni in chi vi presti orecchio.

220x270_i_17E poi, Hiatus o non hiatus, riecco i Thee Oh Sees.
Certo non sarà facile, d’ora innanzi, accogliere con lo stesso bronzeo contegno di ieri qualunque roboante dichiarazione venga sparsa ai quattro venti dalla voce monella di John Dwyer. Questo non solo per la burla del disco nuovo: si è mai visto un gruppo in pausa di riflessione che programmi con noncuranza una bella manciata di date festivaliere nell’estate ormai prossima? Ovviamente no, a meno che non si stia parlando di una band che non conosce altri giorni che il primo di aprile, interminabile e replicato a oltranza. Aspettavamo Drop come l’unica risposta plausibile sul conto dei vandali californiani. Vanamente, perché era fuori luogo in partenza ogni domanda riguardo al loro futuro. Quindi per il fatto di trovarci al cospetto, ancora una volta, di un’opera del solo Dwyer (assistito dal fidato tuttofare Chris Woodhouse). E infine perché questo nuovo lavoro – perdonateci, il conto complessivo delle pubblicazioni l’abbiamo perso da un po’ – è davvero sensazionale soltanto per come disattenda sistematicamente gli impegni, evasivo quasi per capriccio sin dall’abbrivio di “Penetrating Eye”.

Meglio così, in fin dei conti. Introdotti da una nenia ipnotica, i consueti bramiti fuzz intrattengono nell’ennesima, sciroccatissima, sfarfallante canzoncina, flusso denso e mesmerico che tende a tracimare e invadere ogni spazio come una colorata ossessione psych. Più trottante ma ugualmente vacanziera la successiva “Encrypted Bounce”, che ripropone l’ineffabile duetto muliebre della casa (con Greer McGettrick dei “figliocci” The Mallard a far le veci di Brigid Dawson) nel quadro di una nuova esplorazione anguillesca, in odore di jam asprigne e pachidermiche: pezzi insomma rilassati ma pur sempre riconoscibili, serpeggianti nel loro sbrindellato abitino motorik. Le vaghe ascendenze kraute provano a offrire un’ipotesi di criterio a queste informi perlustrazioni autistiche, ma la piena libertà espressiva rimane un idolo, una consegna irrinunciabile per John. Quello che si configura è allora un album di ripiegamento, chiamato a decelerare in maniera alquanto brusca dopo la grande spinta propulsiva delle ultime uscite, prediligendo una condotta di svagata indolenza. Nel contempo certe intuizioni di Putrifiers II e Floating Coffin sono comunque riprese e sviluppate, a riprova di come il musicista di San Francisco ami perseverare nel proprio lento (ma innegabile) tragitto evolutivo. Come già era capitato in entrambe le prove, “King’s Nose” offre un ruolo da protagonista al mellotron e apre a una più pronunciata nitidezza barocca.

220x270_iii_11In controluce rifulge il camaleontico talento di un artista da sempre a suo agio nel farsi infettare dal passato, per dar vita a innesti magari bizzarri ma originali. Stesso discorso per il radioso e tranquillizzante passaggio beatlesiano scelto per la chiusa, mimetica meraviglia retorica (con i fiati di Mikal Cronin) i cui brandelli di polverosa fantasia non possono che assomigliare alla promessa di un nuovo inizio. Si tratta però sempre di dilettevoli evasioni in alleggerimento, olimpiche quanto inessenziali, e questa è la vera inclinazione di Drop. Ecco spiegate allora le sottili reminescenze dai Deerhunter, in un altro episodio – “Camera (Queer Sound)” – che addolcisce verso il pop lo spigoloso revival rock psichedelico della compagine statunitense. Ed ecco perché venga subito in mente lo scapestrato entusiasmo dell’amico Ty Segall quando ci si lasci andare all’insolita leggerezza della title track, con le taglienti digressioni di una chitarra elettrica bizzosa ma espansiva. Questo per non parlare del tormentone-scherzo di “Put Some Reverb On My Brother”, filler con licenza di smorzare i toni sino al punto da risultare irritante.

 

La sorpresa arriva però un attimo prima del congedo. Nelle sue dilatazioni acide à la Syd Barrett, “Transparent World” si aggiudica in scioltezza la palma per il titolo più allucinato del lotto: ancora in termini placidamente narcotici, come a caccia di una pax lisergica che, a questo punto, potrebbe valere come più credibile manifestazione sonora dei puntini di sospensione dietro cui i Thee Oh Sees si sono trincerati, nel loro (finto?) nascondino. E’ da qui che, con ogni probabilità, ripartiranno quando sarà ora.

Non saremo mai così pignoli da pretendere comunicati che certifichino l’ufficialità degli avvicendamenti, ma rischieremmo davvero di passare per ciechi se non vedessimo che negli ultimi due anni i Thee Oh Sees hanno cambiato pelle. Sibillino fu quell’annuncio di hiatus arrivato come un fulmine a ciel sereno all’indomani di Floating Coffin e presto declassato a goliardica smargiassata, quando un album di inediti venne promosso come la più evidente delle smentite. Non sono trascorsi che tredici mesi da quel momento, ma adesso sappiamo con certezza che i vandali californiani non stavano scherzando affatto. Il nostro errore, allora, fu di scrivere di “immediata ripartenza”, ignorando di fatto come Drop fosse una fotografia già in parte ingiallita. Ai tempi la diaspora della band originale era in corso di attuazione e, in barba ai credits su quel disco registrato già da un po’, il gruppo poteva dirsi in congedo a tempo indeterminato per tre quarti. Restava in sella il solo condottiero, quel John Dwyer migrato dalla Bay Area a Los Angeles per distrarsi con amenità collaterali e continuare la propria avventura su binari nuovi. Lasciati a San Francisco e di fatto giubilati i formidabili depositari dei ritmi, Mike Shoun e Petey Dammitt, rottamata la tastiera di Brigid Dawson (che torna oggi come semplice voce sullo sfondo) cui si sono preferite le implicazioni lisergiche di un mellotron animato in prima persona, Dwyer ha rilanciato le azioni del collettivo nella più agile forma di trio, con alcuni aggiustamenti determinanti a livello di struttura, dall’ortodossia di un basso vero e proprio (in vece della chitarra di Dammitt, suonata come se lo fosse) alle conferma della doppia batteria, della sua elettrica in guisa di bestia totemica e dei contributi a tutto campo del fidato Chris Woodhouse, di fatto regista aggiunto. Il vero nuovo inizio per la compagine statunitense arriva quindi solo ora con il diciassettesimo titolo di una discografia fluviale, al netto di raccolte ed episodi brevi.

 

amIn apparenza, nulla di nuovo sotto il sole: Mutilator Defeated At Last parte nel segno di una quiete minacciosa, una lunga preparazione guardinga con il cantante placido folletto e la sua chitarra che andrà a prendersi, strada facendo, la solita esacerbante licenza alle scorticature. Se il sound insiste con le corpose innervature psych delle ultime uscite, è la sostanziale leggerezza del songwriting a fare la differenza, in una ricerca di agilità e spigliatezza che sfronda elucubrazioni e orpelli di forma per concedere più ampio respiro al vitalismo a briglia sciolta della casa. Con un canovaccio incentrato sulla pura scorribanda garage-punk, trionfo di un’isteria controllata ma godibilissima, si celebra una certa esuberanza gioiosa e dionisiaca fuggendo le complicazioni concettuali come la peste, e questo vale per la guizzante “Poor Queen” come per una “Withered Hand” da applausi a scena aperta, con gli immancabili bramiti elettrici e un capobanda in tonalità oltremodo epica. Aver da poco rispolverato la parentesi Coachwhips ha evidentemente lasciato più di un salutare strascico, visto che questi sembrano in assoluto gli Oh Sees più prossimi allo standard da battaglia e al primitivismo in bassa fedeltà di quella band incredibile. Più che i coretti della rediviva Dawson, “Turned Out Light” si lascia ancora ricordare per i cavalloni travolgenti, che qui ammiccano a certo rock elefantiaco dei settanta e, come di consueto, regolano con qualche punto di margine il Ty Segall affine dell’ultimo lustro (avventura Fuzz compresa). La centrifuga prende a macinare giri su giri, il motore romba, i filtri si lordano a dovere ma la sudicia auto da corsa del forsennato John continua imperterrita la sua corsa, tra un omaggio ai Led Zeppelin e le nuove mirabolanti architetture ritmiche a opera di Woodhouse e del nuovo soldatino Nick Murray (cui riesce la mezza impresa di non far rimpiangere Shoun). E tutto questo in un esercizio di autocitazione (“Lupine Ossuary”, gemella balorda della più datata “Lupine Dominus”), crudo, sanguinante, crampsiano e futile quanto si vuole, ma che si lascia fruire con sommo appagamento non solo dai fan di più stretta osservanza.

 

Si registra insomma una spiccata tendenza alla stilizzazione, una semplificazione dei propri codici consolidati che non inficia peraltro la qualità della proposta ma per una volta sceglie di privilegiare l’epidermide, il piacere quasi fisico del puro impatto. Un finale con qualche (gustoso) filler di troppo, speso per l’ansia di dimostrare ancora una volta il talento versatile della compagine, arricchisce una volta di più la tavolozza stilistica. Non manca ad esempio il consueto passaggio terso e disintossicante in cristallo acustico (“Holy Smoke”), mentre si va a chiudere nel solco di un bozzettismo scapestrato che esalta lo stereotipo luciferino e l’infantilismo pestone del frontman – quello di Castlemania per intenderci – ma ancora furbescamente depurato delle digressioni piùweird come a non voler lasciare nulla al caso o all’irregolarità selvaggia (“Rogue Planet”). E John è infine sinuoso in un numero anche elegante, per come non esita a rilasciare suggestioni lignee nella forma di una danza a suo modo sensuale ed elusiva (“Palace Doctor”). Nella pancia dell’album, comunque, è conficcata la più gradita delle sorprese. Quella vena amabilmente aromatica che il gruppo ha spesso riservato ai suoi numeri più posati offre il meglio di sé in una nuova gemma, “Sticky Hulks”, davvero splendente nel suo equilibrismo, con una bella grana vintage in mostra e la piena riconoscibilità di un marchio comunque mai appiattito sui cliché dello sterile revival necrofilo. Si avverte piuttosto un ché di ipnotico e liberatorio in questa nenia che parrebbe senza tempo, ma è solo l’ultima trovata dell’improbabile prodigio californiano. Ormai, ad ogni conto, non ci si può più dire stupiti e ci si limita ad accogliere con piacere ogni inedito ritrovato alchemico di una ditta entrata di fatto, e con autorevolezza, tra i nuovi classici del rock alternativo. La spinta sperimentale è ancora evidente ma resta più in ombra, sacrificata rispetto all’ardore e i muscoli.


Ne esce il disco più energico della band dai tempi di Carrion Crawler / The Dream. Niente male davvero per un’opera di passaggio quale Mutilator Defeated At Last rimane a tutti gli effetti.



Si accende il motorik

220x270_iv_13Un secondo viaggio della navicella collaterale Damaged Bug non era previsto, ma in una fase di evidente trasmutazione creativa per il suo pilota, John Dwyer, deve essersi reso evidentemente necessario. Non è trascorso che un anno da Hubba Bubba, l’ennesimo debutto solista del rocker di San Francisco, e la sua Castle Face ha già pronto in catalogo un sophomore assai meno avventato o inservibile di quel primo episodio che credevamo solo un estemporaneo (e autoreferenziale) balocco. Questa volta le esplorazioni di Dwyer sono giocose e raffinate come quelle degli Stereolab, con “Dots And Loops” a fare da ingombrante richiamo (“Grape Basement”, “Transmute”) assieme ai più ovvi Can e al primo Brian Eno (già citato apertamente, peraltro, nella copertina del lavoro precedente): meno scherzi invertebrati, quindi, meno autismo senza quartiere e più trascrizioni compiute del proprio songwriting in una forma finalmente libera, fluttuante, sinuosa e ritornante. Quella di Cold Hot Plumbs è un’elettronica che trova slanci motivazionali tanto nel pop quanto nel kraut-rock ma non rinuncia a tirare in ballo le sottili inquietudini psych grazie alle quali i Thee Oh Sees sono diventati una bella certezza, così come quella vena bizzarra e felicemente infantile che per il californiano resta chiaramente un’esigenza non silenziabile.

 

Come il singolo “Jet In Jungle” dimostra, da noir l’intonazione si è fatta leggera e sbarazzina, c’è più costrutto e meno sterile improvvisazione. In questo modo il Nostro riesce a parlare davvero con una voce nuova che svicoli dalle rigide costrizioni di genere, senza per forza chiudersi nella caricatura synth-pop in bassa fedeltà che ci si aspetterebbe da lui, volendo assecondare quella sua weirdness sconfinata. I passaggi suggestivi che possono ricordare la sua più celebre creatura sono numerosi e particolarmente convincenti (“Der Mond”, “The Frog”), tra fraseggi atmosferici, effrazioni lisergiche (il radioso sunshine nel refrain di “Cough Pills”), inflessioni robotiche che fanno tenerezza o derive spacey che, molto opportunamente, non calcano mai la mano, mantenendosi piuttosto in un sorprendente equilibrio di spunti. Così il disco ha modo di intrattenere e dispensare a un tempo tutte le sue fascinazioni liofilizzate, senza scadere nella farsa pidocchiosa di tante smargiassate ipnagogiche ma anche senza mai prendersi troppo sul serio.

 

Sin dall’intestazione, Cold Hot Plumbs si rivela un album che tradisce un debole per le antinomie, per quanto armonizzate con gusto tralasciando soluzioni chiassose e facendo fruttare un bel campionario di effettistica vintage, di borborigmi e gorgoglii, sonorità liquide, gommose e sfrigolanti. Il garage di partenza è trasfigurato in una svalvolata ricodifica che sa di futurismo ludico, talvolta infatuato di un’estetica funky di recupero, più spesso di un pacioso minimalismo dalle infinite modulazioni onomatopeiche. E’ solo un attimo di ricreazione a fronte dell’ininterrotto tour de force dell’animazione principe. Però sa farsi apprezzare e in futuro potremmo anche scoprire, chissà, di non volerne più fare a meno.


220x270_ii_17Discorso che vale, a maggior ragione, per il progetto veterano e partecipato. Anche se una forma fatta e finita verosimilmente non la assumeranno mai, la metamorfosi dei Thee Oh Sees che vi raccontiamo da qualche tempo a questa parte può in un certo senso dirsi compiuta. Registrato dall’ormai irrinunciabile Chris Woodhouse, che con i suoi contributi percussivi, chitarristici e all’organo, funge di fatto da regista occulto e membro aggiunto del gruppo, il diciottesimo capitolo della loro avventura discografica, A Weird Exits, è anche la prima raccolta di materiale inedito con la nuova sezione ritmica, già impiegata dal vivo negli ultimi diciotto mesi (la si può ascoltare nel primo vero live album della band, “Live In San Francisco”, uscito a inizio estate) , e composta dai due batteristi Ryan Moutinho e Dan Rincon, oltre al bassista dei Sic Alps Tim “Hecubus” Hellman. La doppietta che apre i giochi si impone come discreto assalto frontale, con menzione speciale per la muraglia di granito di “Ticklish Warrior” che vede il capobanda sgolarsi prima di soccombere sotto il nerissimo marasma sonico della sua elettrica e le onde d’urto del doppio reattore ritmico. Da parte sua, l’opener ricorda piuttosto i calibri pesanti dell’emulazione segalliana del verbo Hawkwind, con un sound anche più muscolare di una media già ragguardevole e un refrain che sembra cannibalizzare il Lenny Kravitz degli anni d’oro. Fin qui non si registrano anomalie espressive degne di nota, ma la sorpresa, evidentemente, aspetta dietro l’angolo.

 

theeohsees2Come il titolo suggerisce, il varco della strumentale “Jammed Entrance” equivale all’ingresso in una diversa dimensione, che non è inappropriato definire una ricodifica prog-psych-rock delle spirali elettroniche e delle trame kraute della più recente fatica, a nome Damaged Bug, del frontman: una odissea tascabile, serenamente allucinata, nei meandri bizzarri della mente dell’autore californiano, resa confortevole dai morbidi canaloni plasmati dal synth e accesa a intermittenza dalle sue tortuose vampe chitarristiche. Altro chiarissimo punto di contatto con Cold Hot Plumbs è rappresentato dall’artwork, a cura dal musicista e artista visuale Robert Beatty (già creatore di alcune copertine di Tame ImpalaNeon Indian e Real Estate), che con le sue suggestioni seventies amplifica il potenziale mesmerico di un disco sorprendentemente fluido ed elegante, che sa di libera dissertazione revivalista – elefantiaca, come in diverse delle ultime produzioni del Nostro – ma oltremodo godibile. In “Plastic Plant” questa estetica quasi motorik è spinta alle estreme conseguenze e i debiti nei confronti del kosmik-rock dei Can (di “Mother Sky” in particolare) si fanno pesantissimi, ancorché scoperti. Il Dwyer cantante, altrove assente per lunghi tratti, dà prova qui delle sue qualità con fare insinuante, placidamente maligno. E se “Unwrap The Fiend Pt. 2” è un altro brano non cantato e dall’andamento ritornante, solo con un groove più aggressivo e guizzante (in linea con un canone ormai consolidato), la rabbiosa centrifuga di “Gelatinous Cube” riporta piuttosto alla memoria l’incarnazione punk efferata dei Coachwhips, con certa visionaria retorica hard-rock in vece del sadismo rumorista dell’originale.

 

I due episodi più orientati alla psichedelia si ritagliano da soli l’ultimo quarto d’ora e rallentano vistosamente i giri, ospiti una rediviva Brigid Dawson e il violoncello degli amici The Mallard, Greer McGettrick. Lanciata verso la stratosfera space-rock per testimoniare in modo ipnotico la sublime alienazione di un autore che non sembra avere più molto da dimostrare, la navicella dei Thee Oh Sees orbita con perizia attorno al lato oscuro della luna (“The Axis”) prima di incendiarsi e tornare a precipitare rovinosamente sulla Terra.

Anche quando si pensa di averlo finalmente inquadrato, l’ineffabile John Dwyer riesce a sorprendere e a regalare qualche dettaglio di sé che non gli si sospettava. Che potesse essere un valido mecenate e talent scout è scoperta relativamente recente. Al timone della sempre più convincente Castle Face, ha opzionato e promosso almeno un paio di compagini di alto profilo, l’ottimo synth-punk dei concittadini Pow!, nello scorso biennio, e il garage slabbratissimo dei Mountains and Rainbows, da Detroit, appena qualche mese fa. Ci sono voluti però ben diciannove album accreditati alla sua più fortunata creatura perché potessimo scoprire anche le sue virtù di filantropo, visto che la metà dei profitti del nuovo An Odd Entrances è stata destinata per sua iniziativa a un’associazione che si occupa di homeless a Pasadena.

 

theeohsees1A soli tre mesi da A Weird Exits, ecco dunque l’ennesimo capitolo di una saga discografica che non sembra conoscere rallentamenti o incertezze di sorta nella sua implacabile marcia, anche quando è di una semplice uscita minore che si parla, per esplicita ammissione dei suoi autori, un’estensione bella e buona del diretto predecessore o, se preferite, un breve “esercizio cosmico en plein air” (un po’ più lungo solo nell’edizione limitata cui è accluso il sette pollici dell’inedita, e non meno sfarfallante, “Classic Bananas”). Che i due dischi vadano intesi come gemelli eterozigoti è cosa scontata. Le session sono le medesime, registrate da Chris Woodhouse nel suo Dock Studio di Sacramento, e così la squadra composta da Hellman, Rincon, Moutinho (che giusto qualche giorno fa ha annunciato la propria uscita per ragioni personali) e lo stesso Woodhouse, con Greer McGettrick dei Mallard che si presta al violoncello e una Brigid Dawson ridotta più che altro a fare la motivatrice (le note le accreditano cori, fornitura di the e sostegno spirituale). Se a una copertina ancora disegnata dal lanciatissimo Robert Beatty aggiungiamo gli evidenti rimandi tra gli strambi titoli delle due raccolte, e tra quelli di alcuni episodi sull’una e sull’altra, a delineare simmetrie pure prive di una direzione certa (“Jammed Exit” chiude il cerchio inaugurato da “Jammed Entrance”, “Unwrap The Fiend, Pt. 1” dovrebbe essere a rigor di logica il prequel di “Unwrap The Fiend, Pt. 2”), il gioco dovrebbe essere ormai scoperto.

 

Con i Thee Oh Sees il clima sonoro tende sempre almeno un poco al minaccioso e al ribollente. La chitarra di Dwyer resta un formidabile faro nell’ombra, anche e soprattutto nelle digressioni tra progspace e psych-rock di questo compendio-appendice. “You Will Find It Here” vede il capobanda recitare con evidente compiacimento nei panni dello stregone, i vocalismi sibillini ridotti a uno stringato cerimoniale di contorno, mentre il mantra elettrico si dipana inesorabilmente tra ritmiche ordinate ma incombenti e qualche amena comparsata dell’ormai irrinunciabile balocco dwyeriano, un organetto floreale che fa tanto primi seventies. “The Poem” da sfogo al lindore e alla vena più barocca del gruppo, inevitabilmente sacrificata nella precedente uscita. Armonia, compostezza e polverosi languori psichedelici mostrano di non avere nulla da invidiare a interpreti oggi anche celebrati in quegli stessi territori, da Jacco Gardner a Balduin passando per Doug Tuttle, a riprova che i californiani riescono a essere credibili anche quando non indulgono nel puro terrorismo sonico o in un primitivismo rock allo stato brado. Le finalità ludiche dell’operazione trovano riscontri anche nella deliziosa evasione di “At The End, On The Stairs”, una raffinata variazione sul tema weird-infantile dello scapestrato Castlemania, di cui appare sorella sempre stramba ma assai più compunta.

 

Le cavalcate a marchio registrato riescono ancora toniche e muscolari ma per una volta appaiono rasserenate, senza la bava alla bocca di tante esibizioni dal vivo, pur non negandosi comunque il piacere di andare poco per volta alla deriva. Lo scenario è in genere lussureggiante ma sinistro come da repertorio della band, che in “Jammed Exit” si diletta in una ricognizione quanto mai futile e rilassata, provando a dare corpo anche in una versione non elettronica alle ritornanti trame kraut già declinate con profitto nei due lavori a nome Damaged Bug. Un esercizio di stile curioso quanto marginale e, in fin dei conti, anche programmaticamente prescindibile. Per incontrare un po’ di sudiciume fuzz occorre arrivare all’ultima e più allucinata jam, “Nervous Tech (Nah John)” – liberamente ispirata a “Go Ahead John” di Miles Davis – in cui le bizze della chitarra di John restano peraltro poche vampe inoffensive, contenute entro binari insolitamente disciplinati per i suoi standard. Si mimano il respiro e il cuore pulsante di una bestia che, evidentemente, ha scelto il riposo dopo le innumerevoli scorribande belluine del passato.


fullsizerender1488915111640x865Ma intanto, all'inizio del 2017 l'avventura in solitaria batte il suo terzo colpo. Con un bilancio numerico di sostanziale pareggio nei confronti dei Thee Oh Sees dell’ultimo triennio, insistere nel considerare quello a nome Damaged Bug solo un estemporaneo trastullo sarebbe miopia, a questo punto. A conferma di ciò, vale anche la pena di segnalare le uscite minori che cominciano ad arricchire il catalogo, dal recente split condiviso con Brian Chippendale aka Black Pus su Famous Class al fantastico mantra in sette pollici di “Smoggy Terminus”, corredato da un mazzo di tarocchi dell’artista Kyle Ranson. Nondimeno preme rilevare come nella sua animazione individuale John Dwyer abbia finito per approssimarsi sempre più proprio all’estetica del suo progetto principe, quindi con deleghe crescenti ai brontolii di quella chitarra acida, malevola, cancerosa, e a una vocetta semplicemente inconfondibile (la title track, “Bog Dash”, la favolosa litania quasi garage di “Unmanned Scanner”), pur nel quadro di uno sperimentalismo al solito bizzarro, infantile, ricreativo.

 

Bunker Funk prosegue soprattutto sul confortevole sentiero tracciato dal predecessore, tra gustosi rumorismi, sottili perturbazioni atmosferiche, loop, borborigmi sintetici, basi ritmiche preconfezionate, pifferi, zufoli, mantici sbuffanti (“Liquid Desert”), ossessioni robotiche (che in “Slay The Priest” riportano in parte al radicalismo industriale degli Zeigenbock Kopf, salvo sbocciare poi in inattese fioriture sunshine) oltre ai vocalismi sciroccati di John nell’estasi del suo strambo laboratorio sonoro. Così si fa largo pian piano il Dwyer cantante, si recuperano ampi margini di ortodossia – la mesta ballata “Mood Slime”, con i suoi onirismi soft, suona quanto mai emblematica – e viene avvalorata l’impressione di un album più a tutto tondo. La selva di cinguettanti evocazioni electro di “Ugly Gamma” e relativa prova vocale angelicata non devono trarre in inganno. Quello musicato dal californiano è solo l’ultimo di un’infinita rassegna di incubi futuristi, in una prospettiva che l’organo chiesastico rende semplicemente più abbacinante e luminosa. Un risultato subito bissato da “Rick’s Jummy”, dalla sua psichedelia claustrofobica e ritornante che esalta le aspirazioni kraut-rock già ampiamente esplorate, soprattutto in “Hubba Bubba”. Rincara la dose la malatissima filastrocca di “Gimme Tamanthum”, culmine della deriva fanciullesca del Nostro, mentre il suo gusto ludico raggiunge l’apice con l’ameno divertissement “No One Notice The Fly”, progressive da cameretta che non avrebbe sfigurato nel circo bambinesco di “Castlemania”, nonché unico strumentale della raccolta assieme al frammento paradisiaco di “Heavy Cathedral”. Manca forse il formidabile effetto sorpresa di “Cold Hot Plumbs” ma le sue contraddizioni espressive sono preservate e l’album ha buon gioco nel confermarsi un piacevole gingillo alieno. E poi, per una volta, John ha scelto una copertina fotografica, cosa che non capitava dai tempi dei Coachwhips, una vita fa. Che questo significhi qualcosa, ad ogni modo, è tutto da dimostrare.

ohseesbythomasgirard31024x683Un solo passo di vantaggio evidentemente non basta più, così John Dwyer decide di giocare d’anticipo a velocità doppia. Nemmeno il tempo di presentare la nuovissima fatica del suo gruppo con relativo cambio di intestazione in Oh Sees (sacrificando quel Thee diventato troppo modaiolo nel mentre), ed ecco che ci piove tra capo e collo l’annuncio beffardo di una prossima uscita autunnale e di un ulteriore rettifica di ragione sociale, per giunta un ritorno a quando, in un passato remoto ma neanche troppo, questo progetto si celava dietro la sigla acronima OCS (Orinoka Crash Suite, Orange County Sound o quel che preferite). Anche con gli aggiornamenti della line-up si fa ormai fatica a tenere il conto, per cui ci limitiamo a registrare l’ingresso di Paul Quattrone dei !!! al posto di Ryan Moutinho come secondo batterista e l’ennesimo reintegro di Brigid Dawson come corista, mentre è confermato il resto di una sezione ritmica monstre (Dan Rincon e Tim Hellman) oltre al fido Robert Beatty per la parte grafica. Manca all’appello invece Chris Woodhouse in cabina di regia, rimpiazzato da un inedito quartetto composto dal frontman, dall’amico Ty Segall, da Enrique Tena e Eric Bauer (quest’anno già al lavoro con i Meatbodies per “Alice”).

 

Non potrà certo essere una sorpresa, allora, che tutto questo brulicante fervore operativo trovi più di un riscontro anche in chiave espressiva dentro Orc e nel singolo di lancio “The Static God”, soprattutto, perentorio ritorno alla festosa schizofrenia garage-rock degli Oh Sees più classici con quella rombante galoppata a base di lamiere roventi, grovigli di fuzz, canaloni, vocine infantili, coretti e ipotiposi ulcerate o celestiali, a seconda dei casi. Un’impressione di massima poi corroborata dalla guizzante, smaliziata “Nite Expo”, robusta trascrizione del verbo ludico della parentesi ricreativa Damaged Bug, solo attuata con elettriche assassine al posto delle tastiere e dell’elettronica casereccia di quel diversivo. In groppa alla sua creatura sfrigolante, Dwyer si mostra determinato come non appariva da un sacco di tempo, forte di un micidiale impatto sonico che pure non intende fare piazza pulita di quel gusto per le deviazioni e gli alleggerimenti sonori così caratterizzanti negli ultimi lavori dei californiani. Il tutto senza mai interrompere il flusso sonoro torrenziale e ribollente, ora sornione, ora feroce, sempre minaccioso. Se si fa sentire più di una reminescenza dall’insuperato Carrion Crawler, la più ragguardevole delle differenze è rappresentata dai rullanti, meno percussori diesel e più strumento di improvvisazione eclettica e virtuosista che non pesta mai alla cieca. Così anche la lunga e a tratti lancinante divagazione di “Jettisoned”, affidata alla voce di un Dwyer suadente, a un basso melodioso e a sei corde che somigliano a motoseghe, punta più sul decorativismo che non sulla furia nuda e cruda di un tempo.

 

johndwyerdamagedbug“Keys To The Castle”, dal canto suo, sembra quasi una filastrocca da sciroccati di quelle particolarmente care al capobanda, ma poi viene ingarbugliata dai soliti velenosi assalti frontali e dai bramiti di quella chitarra inconfondibile, oppure mandata ai pazzi in una secca di alienazione, tra jam rallentate fino al parossismo e animazioni etno-spacey che addormentano il gioco con maestria. La seconda facciata torna però a privilegiare l’elefantiaca inclinazione progressiva del quartetto, esaltata da una certa vena barocca in odor di necrofilia musicale che, ormai è chiaro, va considerata una prerogativa irrinunciabile del gruppo. Ancora una volta, pur con tutti i limiti di una simile missione espressiva, non si può negare che i risultati siano sontuosi e fascinosissimi. Sommerse e quasi traslucenti, riecco in “Paranoise” le tentazioni kraut di marca Can, per una dilatazione della trama che pare puntare ancora sulle attrattive di un’ipnosi vecchia maniera (si senta anche la rarefazione che fa da cornice al dialogo tra le batterie nel brano conclusivo). Pure in questi momenti di maggior quiete il disco è abilmente perturbato a un livello sotterraneo, tradisce irrequietezza, a meno che – è il caso di “Cooling Tower” non si opti per una stilizzazione prossima al sunshine-pop per il solo diletto di gingillarsi con un refrain easy-listening da scolpire sulla pietra. Quella di “Drowned Beast” è una bestia che affoga in una gentilezza estenuata che risale ai tardi sixties, in un ritmo narcotico e sotto una bagna di riverberi dietro cui non può che nascondersi lo zampino del buon Ty.

 

Quello che si configura insomma, ancor più che in passato, è un notevole compendio dell’arte dwyeriana, fumoso e dispersivo quanto si vuole ma anche impressionante collezione di informi affreschi psych-rock, tratteggiati come solo questa band incredibile sa fare oggi come oggi. Le solite canzoni piacevolmente inessenziali e mandate alla deriva, ma con quel pizzico di eccentrica personalità in più a renderle tutto sommato memorabili.

Il 2017 di John Dwyer si chiude all’insegna dell’autocelebrazione. I venti anni di attività della sua creatura prediletta, da sempre irrequieta e in costante evoluzione, coincidono con la ventesima uscita ufficiale su lunga distanza (detratte le innumerevoli raccolte di rarità) oltreché con il centesimo numero di catalogo per l’etichetta di famiglia, la Castle Face. Tutto lascerebbe insomma presagire qualcosa di speciale, anche se per i consuntivi sembra aver già detto tutto il recente Orc, egregiamente peraltro. Il vulcanico frontman opta allora per una diversa strategia, con l’ennesimo cambio di ragione sociale e insieme un inatteso ritorno ai tempi in cui la band si chiamava OCS e non era nulla più che un capriccio, ideato appositamente per rilassarsi dagli strapazzi con i Coachwhips. Per l’occasione ecco quindi rispolverata la line-up originale, con la fidata Brigid Dawson a cori e tastiere e il redivivo Patrick Mullins alle percussioni, oltre ai contributi decorativi di Heather Lockie (archi) e Mikal Cronin (fiati). Duetti melodiosi, suadenti, da scenario campestre attorno a un fuoco dettano la linea a un’operina elusiva che aggiorna la formula di quei primi lavori con tutt’altra padronanza tecnica ed espressiva. Capita nel carosello silvano che chiude i giochi, con l’immersione nel folk britannico dei tardi sixties di “The Chopping Block” o quando, tra i solchi di “Neighbor To None”, si riaffaccia la sega musicale di Mullins a tratteggiare l’elegiaco soft focus di quegli ormai remoti esperimenti, un rifugio tranquillo fatto di suggestioni arcadiche, cui fare ritorno per un attimo di licenza dal riverbero, dai compressori diesel e dalle esasperazioni soniche di un prog-rock riveduto e corretto.
Il brano che presta il titolo alla raccolta avvicina addirittura un levigato country-folk e questo dovrebbe dirla lunga sul tenore diversivo di questo lavoro.

 

Memory Of A Cut Off Head è un disco inessenziale ma adulto, sgravato quasi completamente dei barocchismi di rito e delle stravaganze freak (limitate a qualche stramba accelerazione o a minimi prestiti dai Beatles lisergici), ma anche una collezione di deliziosi esercizi di stile, orientati in qualche caso (“Cannibal Planet”) a trascrivere le texture ritornanti del diletto Damaged Bug in una veste più visionaria e sempre piuttosto aggraziata. La ricreazione sintetica di quel progetto collaterale fa capolino qua e là con sottili inserti gorgoglianti, pur senza spostare in alcun modo gli equilibri dell’album. Vi sono anche passaggi più movimentati e in linea con i quadretti floreali che, pur tra le opzioni minoritarie, negli ultimi anni i Thee Oh Sees non hanno mai mancato di dispensare (“On And On Corridor”, che arriva a rievocare i Primus meno spigolosi). Uno dei gioielli dell’album è l’efebica perla baroque-pop “The Remote Viewer”, che trascinata dal suo bravo harsichord si piazza con autorevolezza in zona Canterbury-revival, dalle parti degli Jacco Gardner, dei Balduin e dei Doug Tuttle. Dwyer tiene a dimostrare di essere cresciuto enormemente non solo come autore ma anche come artigiano/arrangiatore, ma a sorprendere è non di rado una Brigid che, specie nella seconda facciata, si ritaglia piccoli ruoli da protagonista all’insegna della trasparenza psych-folk, di una leggiadria tanto elegante quanto esangue: in un’atmosfera celestiale che fa piazza pulita del rumore di fondo pur non riuscendo a silenziare un tono di mestizia (“The Fool”) come in una sorta di sfrigolante autismo (“Time Tuner”).

 

Certo l’operazione, abile a dissimulare la propria estetizzante natura, lascia un po’ il tempo che trova. Avendo ben presente lo stile anche belluino della flottiglia capitanata da Dwyer, più che altro, un risultato a tal punto arioso non potrà che riuscire straniante, almeno per qualcuno. Ora non resta che capire se si tratta solo di un’estemporanea uscita dal seminato, come immaginiamo, oppure se prefiguri all’orizzonte qualcosa di effettivamente nuovo. Come sempre, quando è di John Dwyer che si parla, non occorrerà che passi troppo tempo perché arrivi un chiarimento.

220x270_i_21E infatti, eravamo stati profeti fin troppo facili. A dimostrarlo in modo inequivocabile provvede nell'estate 2018 l’annuale dispaccio della ghenga su Castle Face, Smote Reverser, ventunesimo capitolo di una discografia sin qui pressoché ineccepibile. Un modo per alzare la posta, ad album metabolizzato, sarebbe pronosticare come imminente la sempre vagheggiata collaborazione tra il leader indiscusso dei californiani e Ty Segall, visto che mai come ora gli sviluppi e la natura incontaminata della loro musica presentano analogie preziose. Confermato quasi per intero il manipolo di tecnici di Orc, con il solo golden boy di Laguna Beach rimpiazzato da Mario Ramirez (già con Swans e Brand New) accanto ai fidati Enrique Tena Padilla e Eric Bauer, la grande novità è rappresentata a questo giro dall’innesto del tastierista dei Froth, Tomas Dolas, praticamente il quinto membro del gruppo, oltre all’avvicendamento del copertinista Robert Beatty con un grafico più orientato al pulp sci-fi, Matthew Stawicki, così da arginare le spinte prog della parte musicale, assecondando nel contempo le pur occasionali animazioni proto-metal.
Il garage strafottente e sgangherato degli esordi è un ricordo remotissimo ma anche il rock psichedelico dwyeriano si è evoluto in maniera profonda, aprendosi alle contaminazioni e lasciando margini sempre più significativi all’improvvisazione. La band presenta ora le sembianze di una bestia che si muova massiccia a velocità diseguali e che alterni asprezze piuttosto essenziali, tortuose derive magmatiche e labirinti progressivi peraltro mai banalmente inclini all’elefantiasi o alla necrofilia di un revival fine a se stesso. John si diletta con le costruzioni metodiche e ritornanti per poi tradurle (e tradirle) nelle consuete scorribande brade di matrice semplicemente rock, traendo il massimo impulso possibile dalla contraddizione solo apparente. Ad arricchire un sound al solito granitico e acuminato è questa volta l’organo di Dolas, per lunghi tratti eletto a coprotagonista ma assai lontano da quello floreale e prossimo al caricaturismo lisergico che ai bei tempi portava in dote Brigid Dawson, confermata sì ma solo ai cori. Per quanto si sente in una “Enrique El Cobrador” sembra più corretto parlare di spina dorsale, dell’innervatura di un disco che suona assai meno chitarristicamente efferato dei suoi predecessori, mentre sul piano del massimalismo ritmico e percussivo non intende rinunciare a nulla. Non che la creatura di Dwyer abdichi per forza alla pesantezza, tutt’altro. Le esplorazioni appaiono svagate e giocose come non mai (“C”, l’arioso filler “Flies Bump Against the Glass”), e il frizzante groove seventies regalato dalle tastiere segna una riscossa rispetto al passato, tutta giocata nel segno della leggerezza (la stessa che muove il capobanda nelle sue ormai irrinunciabili uscite con il moniker Damaged Bug).
I moloch rumorosi fatti di assalti terroristi degni dei trascorsi punk con i Coachwhips non mancano – lo dimostrano il singolo battistrada “Overthrown” e la tonitruante eloquenza di “Abysmal Urn”, dove il frontman ritrova tutta la brillantezza del suo canone – ma la variante dura e pura resta opzione minoritaria come gustoso diversivo, magnificamente approntato dalla spietata coppia Rincon/Quattrone dietro i rullanti. Allo stesso modo sopravvivono dentro “Moon Bog” i barocchismi di ieri, in quell’irriducibile stravaganza, fumosa quanto si vuole eppure inesorabilmente stimolante nella sua vitalità, tra fragile calligrafia, tono muscolare robusto e l’immancabile, guizzante gigionismo di sempre. Un altro esempio è offerto dal (presunto) rallentamento psych-ipnotico di “Last Peace”, ostentatamente d’atmosfera e acidulo à la Bevis Frond, specie per come si lasci stravolgere da ridondanze kraute e iperboli space-rock. Inevitabilmente più sfilacciato e dispersivo è invece il nuovo mostro, “Anthemic Aggressor”, parente stretto degli incubi domestici del progetto solista ma non per questo privo di una sua coerenza rispetto al disegno d’insieme: solo un’altra faccia, magari anche la più appariscente, dell’incontenibile libertà espressiva che anima tutte le ultime produzioni di Dwyer, sbrindellate (e talvolta compiaciute) fino all’eccesso, ma in fondo sempre squisitamente personali.

Non si completa un giro di calendario che già arrivano quattrodici nuove tracce, racchiuse in un mastodontico doppio album, Face Stabber, pubblicato ad agosto del 2019. Psichedelia deviata, come al solito, contaminata attraverso trip acidi e svarioni prog. Musica per viaggiare con la mente e dimenarsi con il corpo, che parte quasi in sordina, sulle note di “The Daily Heavy”, per andare a sfociare nella lunga jam iper lisergica “Henchlock”, oltre ventuno minuti di onnipotenza psych-rock. Un’altra jam arriva a metà corsa, nei 14 minuti di “Scutum & Scorpius”, che puntano dritti verso un campionario di idee smaccatamente progressive, versante Emerson Lake & Palmer / King Crimson. Ma Face Stabber è anche arrembaggi al fulmicotone, in grado di infrangersi sull’ascoltatore in meno di due minuti netti, con le imperiose accelerazioni proto-metal di “Gholu” e “Heartworm”. L’attacco deragliante di “The Experimenter” è magia pura, un funk impazzito e malatissimo, a due passi dal poliziottesco, le chitarre incontenibili rendono la title track uno strumentale potente, una sana botta d’energia, e le influenze jazzy sono sempre dietro l’angolo, forti dell’insegnamento di geni quali Frank Zappa e Weather Report, grazie al quale “Fu Xi” assume le sembianze di un flusso musicale mai arginabile.
Fra riff granitici e ritmiche iper possenti (“S.S. Luker’s Mom”), gli Oh Sees si confermano band aliena a questo mondo quando riescono a sintetizzare il discorso (“Together Tomorrow” riesce a dire tutto in un minuto e mezzo: applausi), ma restano un paio di passaggi che avrebbero meritato una decisa sforbiciata, come nel caso di “Captain Loosley”, che oggettivamente aggiunge il nulla nell’economia degli ottanta minuti e passa di questo disco, a suo modo monumentale, strutturalmente complesso. Face Stabber rappresenta il nuovo capitolo di un percorso ragguardevole come pochi al mondo in termini di prolificità. Rispetto a Ty Segall e ai King Gizzard, John Dwier e compagnia condividono la visione stilistica e assicurano il valore aggiunto di un’iperattività che non va (quasi) mai a discapito dell’altissima qualità media, ma se ne discostano per una maggiore coerenza di fondo, che non sfocia mai nell’ossessiva ripetitività. Le creature di Dwyer raggiungono complessivamente quota 22 album in altrettanti anni di attività, qualcosa di mostruoso. Ogni disco sembra essere il definitivo, e Face Stabber si impone senza dubbio fra i migliori in assoluto.

John Dwier non sconfessa insomma la predilezione per la forma e per il gigantismo, prerogative estetiche che solo l’originalità della sua scrittura oltre all’indomita libertà del suo genio hanno modo di tradurre in motivi di interesse. Il suono è spettacolare senza riuscire artefatto, le centrifughe non risparmiano nulla, l’istrionismo si conferma visionario ma complice, e le tentazioni virtuose sono tenute alla briglia da una sporcizia sempre opportuna. Ondivaghi ed elusivi, ispidi e brutali, a tratti persino estetizzanti, gli Oh Sees regalano con Face Stabber l’ennesimo gioiello bastardo di una carriera straordinariamente prolifica e regolare, almeno in quanto a garanzie offerte, l’ennesimo grano in un rosario di album eclettici e godibilissimi.

Il progetto 2020 di Dwyer prende il nome di Bent Arcana, un ensemble di musicisti con un bagaglio tecnico non comune riunito per cinque giorni in lisergiche improvvisazioni aventi come temi portanti psichedelia cosmica e free jazz. Il riassunto dei momenti più esaltanti è contenuto in Bent Arcana, il primo capitolo della nuova saga, nel quale l’ideologo dei Thee Oh Sees ha ospitato i synth modulari di Kyp Malone dei TV On The Radio, batteria e percussioni del turnista di lusso Ryan Sawyer, il basso di Peter Kerlin dei Sunwatchers, i sassofoni di Brad Caulkins e Joce Soubiran, le tastiere di Tom Dolas, la chitarra di Marcos Rodriguez, il violino di Laena “Geronimo” Myers-Ionita e le percussioni di Andres Renteria.
Ne sgorga un trip psych-jazz molto anni Settanta, interamente strumentale, con elementi kosmische-kraut, prog e fusion. Sembrerebbe l’introduzione a un’opera pesante e indigesta, ma Dwier ha il merito di selezionare i momenti salienti, sintetizzando i virtuosismi immersi nell’elettricità, rimasticati attraverso interferenze noise (“Misanthrope Gets Lunch”) e slanci interstellari in qualche modo contenuti in un formato canzone (“Outré Sorcellerie”). Le lunghe jam session vengono riassunte nell’elegantissima “The Gate”, vera e propria porta d’ingresso verso il mondo Bent Arcana, e nel magnetico groove di “Oblivion Sigil”, le uniche due tracce che si spingono – senza mai annoiare - oltre i dieci minuti.
Per Dwyer trattasi di una terapia di (super-) gruppo grazie alla quale può affidarsi all’estro di straordinari compagni di viaggio senza dover necessariamente indossare le vesti del leader carismatico. Un progetto free-form che riunisce idealmente Miles Davis e Sun Ra a Faust e Can, ma con in testa le peripezie di Mahavishnu Orchestra e Weather Report, senza mai la pretesa di porsi in competizione con la smisurata e inarrivabile grandezza degli originali presi come riferimento. Il primo capitolo di stimolanti ipotesi astrali: restiamo in attesa di news su eventuali sviluppi futuri.

Il 2020 è anche l'anno di Protean Threat, che esce tra la fine dell'estate e l'inizio dell'autunno sotto la dicitura Osees. Nel sound di questo album tornano a scontrarsi l'impulso di lasciarsi andare e una malcelata raffinatezza di suoni e di melodie, di generi che trapassano il tessuto psicotico delle canzoni dando loro direzioni via via nuove e inesplorate. Una volta superata la furia schiacciasassi di “Scramble Suit II”, con una potenza di fuoco di doppia batteria che evoca i Melvins, la faccenda si fa infatti ancora più interessante. La gamma di soluzioni proposte è più ampia del solito, e va dall'incedere rutilante di una “Upbeat Ritual” che sembra voler accendere a lampi il buio della notte agli echi soul-lounge di “Said the Shovel”, una sorta di porta spazio-temporale aperta sugli anni Settanta che in qualche modo fa il paio con le atmosfere pulp di “Red Study”. Lo stesso si può dire del blues mascherato di “If I Had My Way”, per certi versi la cosa che meno ci saremmo aspettati di trovare in questo disco.
“Resistono” episodi più muscolari, come la scheggia punk di “Dreary Nonsense”, la cavalcata quasi-heavy di “Terminal Jape” e quella weird di “Canopnr '74”, e ancora le marcette psych-rock “Mizmuth” e “Toadstool” a conferire quella sensazione straniante di sentirsi “a casa” nel repertorio di Dwyer. Va da sé che sia vietato tirare fiato fino all'ultimo respiro, con una “Persuaders Up!” che anzi torna a incalzare a velocità smodate, ma se c'è una morale che possiamo desumere da “Protean Threat” è che Thee Oh Sees non hanno rinunciato alla natura eclettica del loro sound, anzi hanno deciso di accentuarla. Il risultato finale, però, non cambia – e non delude - mai.

Poche settimane più tardi è la volta di Metamorphosed, cinque canzoni dal minutaggio agli antipodi (meno di due minuti le prime in scaletta, lunghe suite le ultime). A essere sinceri, tuttavia, sono ancora le schegge impazzite a divertirci di più, come nel caso dell'apripista “Saignant” e della successiva “Electric War”, due pezzi schiacciasassi che rivelano il lato heavy di Dwyer e soci. Anche “Weird and Wasted Connection”, dai toni meno truculenti, non manca di intrappolare l'ascoltatore nel suo vortice strumentale. Un titolo come “The Virologist”, del resto, sembra persino collegarsi alla realtà dei nostri giorni: e noi che credevamo gli Osees – o Thee Oh Sees, nella versione più “ortodossa” - completamente distaccati dal mondo reale. Ai 23' di “I Got a Lot” il compito di mostrare il lato più visionario di Dwyer, qui impegnato in una sorta di rito tribale sotto l'effetto di allucinogeni.

Il terzo - e ultimo - disco distribuito dagli Osees (hanno deciso di chiamarsi così nell'anno della pandemia) nel 2020 è Panther Rotate. Presentato come un remix album dell’ottimo Protean Threat, di cui ne costituisce anche l'anagramma, è in realtà una sequenza di trastullamenti cervellotici che non portano alcun valore aggiunto, nessun miglioramento, a canzoni che restano ben più efficaci nella versione originale. Sette alternative takes, ottenute lavorando su alcune piste, eliminando i chitarroni fuzz e inserendo ingenti dosi di elettronica e rumori ambientali, compromettendo gran parte della forza visionaria che la band è in grado di esprimere.
Un’opera sperimentale (tutte le tracce revisionate hanno la parola “Experiment” inclusa nel titolo) e ardita, basata su ripetizioni di scuola krauta, droni ambientali, deliri psichedelici e derive zappiane. Un po’ come prendere le derive allucinate dei Radiohead zona “Kid A” e miscelarle con le paranoie lisergiche dei Pink Floyd epoca Barrett, ma nella sconfinata discografia degli Oh Sees resta inevitabilmente un capitolo superfluo, per completisti, con pochi frangenti degni di nota. Prendete “Toadstool Experiment”, non è neanche lontana parente della coinvolgente “Toadstool”, oppure verificate quanto la potenza di fuoco di “Scramble Suit II” non sia minimamente contemplata in “Scramble Experiment”. Nemmeno gli unici due inediti (le narcotizzanti “Synthesis” e “Poem 2”) si distinguono per incisività. Con tutto il bene che gli vogliamo, qualcuno faccia sapere a Dwyer che non è strettamente necessario pubblicare ogni cosa gli frulli per la testa in studio di registrazione!

Il 2021 si apre con quella che è a tutti gli effetti una novità assoluta: per la prima volta John Dwyer si presenta sulle scene con il nome di... John Dwyer, anche se ad accompagnarlo in questa - ennesima - avventura ci sono i musicisti Ted Byrne, Greg Coates, Tom Dolas e Brad Caulkins. Le otto tracce (per un totale di 26 minuti) di Endless Garbage non sono che caotici sketch di fusion free-jazz talmente frammentari da risultare destrutturati nonostante il peso specifico preminente della batteria. Se l'obiettivo è rappresentare il caos e il disorientamento, eventualmente declinati rispetto alla realtà e ai tempi che stiamo vivendo (ma conoscendolo saremmo propensi a dubitarne), allora potremmo anche ammettere che la missione sia stata compiuta. I brani si muovono senza direzione, come una jam session alla quale ciascuno dei musicisti coinvolti ha voluto aggiungere un elemento slegato rispetto agli altri. Anche quando pare esservi un barlume di senso compiuto, come in “No Flutter”, il tutto si discioglie in una melassa informe e scoordinata.
Intendiamoci, il tutto è assolutamente voluto, diremmo persino creato ad arte. Il punto però è proprio questo: l'ostentazione dell'eccesso, dell'illogico, dell'estremismo militante possono anche andare benissimo, purché anche l'ascoltatore ne possa ricavare qualcosa. Da questa “infinita spazzatura”, invece, appare difficile riuscire a ottenere qualcosa di buono come ad esempio un'emozione, un guizzo, un qualsiasi cosa – fosse anche disgusto – in grado di restare.

Non che a fine anno le cose cambino di molto. Con Gong Splat il buon Dwyer torna ad attorniarsi di musicisti, questa volta il batterista Ryan Sawyer, Greg Coates (contrabbasso), Wilder Zoby (synth) e Andres Renteria (percussioni).
Se Endless Garbage era un guazzabuglio di sketch di durata sostanzialmente breve, Gong Splat si manifesta tramite nove brani di lunghezza variabile ma di norma più consistente, e perciò anche più pesante. Non è da queste parti, ovviamente, che si debba andare in cerca di parvenze di forma-canzone. Tuttavia, la peculiarità di questi brani è di non avere forma alcuna, come ben testimoniano i nove minuti di “Yuggoth Travel Agency”, privi di schema, di crescendo, ma diremmo anche di idee che vadano a sostenerli. Va un po' meglio, va detto, con l'altro “macigno” del disco, intitolato “Toagut”, laddove quantomeno la sensazione di restare sospesi nel vuoto del cosmo infinito, proprio sul finale, sembra dare un senso e uno scopo a quanto appena ascoltato, coniugandosi all'immaginario evocato dalla successiva “Anther Dust”.
Fraseggi acidi, ritmiche sostanzialmente ritorte su se stesse, abbozzi spaziali vanno a dare quel poco di senso che serve per definire questo un lavoro psych-rock, ma non basta l'etichetta per ridestare da una noia che giunge al galoppo.

Dopo la pausa di un anno presa nel 2021 (non era mai accaduto nella storia della band), che comunque ha visto Dwyer impegnato con la serie di progetti impro (Bent Arcana, Witch Egg, Gong Splat, Moon Drenched e Endless Garbage), gli Osees tornano con il ventiseiesimo album in carriera, l'apocalittico A Foul Form (2022), il cui germe era già stato inoculato nel precedente Protean Threat: qui alcuni brani (“Dreary Nonsense”, “Terminal Jape”, “Scramble Suite”, “Persuaders Up!”) richiamavano influenze dirette dall'hardcore e dallo skate-punk anni 80. Influenze che Dwyer stesso cita per A Foul Form: Bad Brains e Black Flag in testa, senza dimenticare synth-punk (Screamers), il punk europeo (Abwärts) e l'anarco-punk inglese (Crass e Rudimentary Peni).
Gettato alle ortiche l'armamentario prog di Face Stabber e Metamorphosed (dove comunque i pezzi tirati non mancano), Dwyer e soci si tuffano a capofitto in un personale tributo a hardcore, punk e noise. Registrato nello studio casalingo di Dwyer, rigorosamente in bassa fedeltà, A Foul Form potrebbe essere definito un ritorno alle origini (il tono nostalgico delle liner-notes punta in quella direzione), se non fosse che negli anni 90, Dwyer faceva noise e non punk: nonostante questo, con metà della band cresciuta con un piede nella scena hardcore della Bay Area (Dan Rincon e Tim Hellman), Dwyer riesce a tirare fuori uno degli album più brutali e credibili della sua intera vita musicale, anche se l'idea che si tratti di un riuscitissimo esercizio di stile è dietro l'angolo.
Lontani dai deliri noise di Netmen e Pink&Brown e dal gunk-punk dei Coachwhips, gli Osees di “A Foul Form” hanno le radici negli anni 80, ma la testa rivolta al futuro: con una formazione così particolare (due batterie, chitarra, basso e tastiere, in ambito garage-punk gli unici ad avere una line-up così erano stati i Piranhas,) l'hardcore-punk si ibrida con ciarpame elettronico (“A Burden Snared”), scudisciate proto-metal (“Funeral Solution”), detriti noise (“A Foul Form”) e flussi darkwave (“Too Late For Suicide”), dettando lo stile per il punk del 3000.

A livello tematico, gli Osees sono lontani dalla critica sociale dell'anarcho-punk britannico: da buoni americani, vagheggiano un generico anti-autoritarismo e un insurrezionalismo che non fa altro che rinforzare il messaggio che il mondo sia un luogo brutale e violento a cui bisogna, in un modo o nell'altro, rispondere per le rime. Il tardo-capitalismo genera mostri e dagli Osees non aspettatevi soluzioni o teorizzazioni: vi dicono solo che, per il momento, si combatte e basta. E scusate se è poco.

Contributi di Michele Saran ("Carrion Crawler/The Dream"), Claudio Lancia ("Face Stabber", "Bent Arcana", "Panther Rotate"), Fabio Guastalla ("Metamorphosed", "Protean Threat", "Endless Garbage", "Gong Splat"), Ruben Gavilli ("A Foul Form")

Thee Oh Sees - John Dwyer

Discografia

OCS
1(Tumult, 2003) 4
2(Narnack, 2004)4,5
3 - Songs About Death & Dying(Narnack, 2005)5,5
4 - Get Stoved(Narnack, 2005)6,5
Memory Of A Cut Off Head(Castle Face, 2017)6,5
THEE OH SEES / OH SEES / OSEES
The Cool Death Of Island Raiders(Narnack, 2006)6,5
Sucks Blood(Castle Face, 2007)6
The Hounds Of Foggy Notion(Tomlab, 2008)8
The Master's Bedroom Is Worth Spending A Night In(Castle Face, 2008)8
Help(In The Red, 2009)7
Zork's Tape Bruise(Kill Shaman, 2009)6,5
Dog Poison(Captured Tracks, 2009)6
Warm Slime(In The Red, 2010)6
Singles Collection Volume 1 And 2(Castle Face, 2011)7
Castlemania(In The Red, 2011)7,5
Carrion Crawler / The Dream(In The Red, 2011)8
Putrifiers II(In The Red, 2012)7
Moon Sick EP(Castle Face, 2013)7
Floating Coffin(Castle Face, 2013)7,5
Singles Collection Volume 3(Castle Face, 2013)6
Drop(Castle Face, 2014)6,5
Mutilator Defeated At Last(Castle Face, 2015)7
A Weird Exits(Castle Face, 2016)7
An Odd Entrances(Castle Face, 2016)6
Orc(Castle Face, 2017)7,5
Smote Reverser(Castle Face, 2018)7,5
Face Stabber (Castle Face, 2019)8
Protean Threat(Castle Face, 2020)7,5
Metamorphosed(Castle Face, 2020)6,5
Panther Rotate (Castle Face, 2020)5
A Foul Form (Castle Face,2022)7
BENT ARCANA
Bent Arcana (Castle Face, 2020)7
Moon-Drenched (Castle Face, 2021)7
Live Zebulon (live, Castle Face, 2022)7
COACHWHIPS
Hands On The Controls(Show And Tell, 2002)7
Get Yer Body Next Ta Mine(Narnack, 2003)6,5
Bangers Vs. Fuckers(Narnack, 2003)7,5
Peanut Butter And Jelly Live At The Ginger Minge(Narnack, 2005)7
Double Death(Narnack, 2006)6,5
PINK & BROWN
Final Foods(Narnack, 2001)4,5
Shame Fantasy II(Load, 2003)7
YIKES
Secrets To Superflipping(Upset The Rhythm, 2006)7
DAMAGED BUG
Hubba Bubba(Castle Face, 2014)6
Cold Hot Plumbs(Castle Face, 2015)7
Bunker Funk(Castle Face, 2017)6,5
JOHN DWYER
Endless Garbage (Castle Face, 2021)5
Gong Splat (Castle Face, 2021)5
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Gilded Cunt
(live, da The Cool Death Of Island Raiders, 2006)

Golden Phones
(live, da Sucks Blood, 2007)

Curtains
(live, da The Hounds Of Foggy Notion, 2008)

Dreadful Heart
(live, da The Hounds Of Foggy Notion, 2008)

Meat Step Lively 
(video, da Help, 2009)

I Was Denied
(live, da Warm Slime, 2010)

I Need Seed
(video, da Castlemania, 2011)

Chem-Farmer
(videoda Carrion Crawler / The Dream, 2011)

The Dream
(liveda Carrion Crawler / The Dream, 2011)

Contraption/Soul Desert
(live, da Carrion Crawler / The Dream, 2011)

Lupine Dominus
(videoda Putrifiers II, 2012)

So Nice 
(videoda Putrifiers II, 2012)

Hang A Picture
(video, da Putrifiers II, 2012)

Minotaur
(video, da Floating Coffin, 2013)

Toe Cutter/ Thumb Buster
(video, da Floating Coffin, 2013)

The Lens
(video, da Drop, 2014)

Web
(video, da Mutilator Defeated At Last, 2015)

Jet In Jungle
(video, da Cold Hot Plumbs, 2015)

Dead Man's Gun
(video, da A Weird Exits, 2016)

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