Tripping Daisy - Polyphonic Spree

Tripping Daisy - Polyphonic Spree

Doppia fantasmagoria

Le due vite artistiche dell'eccentrico cantante texano Tim DeLaughter, dapprima leader di una delle più originali e sottostimate band alt-rock degli anni Novanta, quindi del colorato carrozzone chamber-pop da venti e più elementi, intuizione tra le più geniali partorite dall'elusivo sottobosco indie statunitense

di Stefano Ferreri

Ecco un altro di quei gruppi a proposito dei quali ogni ipotesi di trattazione quasi soccombe sotto lo schiacciante gravame di un “What if…?” grosso come una casa. Il giochino degli scenari fantasiosi può essere persino consolatorio, quando la biografia che ci si appresta a snocciolare racconti di improvvise battute d’arresto o cambi di direzione dettati da qualche beffardo capriccio del fato. La vicenda dei Tripping Daisy rientra per forza di cose nella casistica, ma nasconde un interrogativo di questo tipo anche a monte: se la band texana non avesse avuto un istrionico leader come Tim DeLaughter, che razza di traiettoria artistica avrebbe seguito? Non è poi così avventato ipotizzare che questa ormai dimenticata compagine alt-rock dei Nineties si sarebbe molto probabilmente ridotta a una blanda imitazione dei Phish o di altre oziose jam band nate sul finire del decennio precedente: quelli erano a grandi linee gli orizzonti espressivi del gruppo agli inizi. Alla sua testa, tuttavia, non stava semplicemente un musicista virtuoso o un frontman come tanti altri, bensì un autentico genio, appellativo certo ingombrante e azzardato che non si intende riferire, tuttavia, all’effettiva statura artistica del personaggio quanto alle sue doti di stratega, alla scaltrezza e al talento di chi avrebbe poi saputo ripartire da zero aggrappandosi con tutte le proprie forze a una sola idea, vincente. Questa è la storia delle sue creature musicali, folli congreghe dalle quali sono emersi artisti di prima grandezza come St. Vincent e gli School Of Seven Bells.

Mortaretti psych-pop

220x270_01_04I Tripping Daisy si formano a Dallas nel 1990. Con il cantante venticinquenne Tim De Laughter – quasi una caricatura di Ozzy Osbourne, stando alle prime impressioni – ci sono il bassista Mark Pirro, il batterista Jeff Bouck e un chitarrista di appena diciotto anni, Wes Berggren. I quattro si fanno notare nel circuito cittadino anche e soprattutto per la natura spettacolare delle loro esibizioni dal vivo, per le quali si servono di una serie di effetti visivi e luminosi (affidati all’improvvisazione di un amico artista) da molti paragonati al leggendario Joshua Light Show che alla fine degli anni Sessanta animava, al Fillmore East di New York, i live di Jefferson Airplane, Grateful Dead e tante altre stelle di quel mitologico firmamento rock. Molto più umilmente, i primi Tripping Daisy sono ragazzini ancora imprigionati da quegli stessi inarrivabili modelli ma dotati nel contempo dell’inventiva necessaria a emanciparsene. Dopo essersi presentati con una cassetta eponima di quattro demo, un primo singolo registrato e distribuito con mezzi propri, “Lost And Found”, è promosso con tale entusiasmo nelle radio locali che la piccola etichetta indipendente Dragon Street si offre di produrre loro un album intero. Quando la band lo registra assieme a Patrick S. Keel, già musicista in diverse band dell’area di Austin e titolare del progetto solista The Pool, dietro ai rullanti siede l’ex-Fever In The Funkhouse Bryan Wakeland.

Quello di Bill è un alt-rock rombante con cromature al caramello, riff erculei e la prima istrionica prova vocale di un frontman insieme energico e zuccherino. L’unico elemento effettivamente originale di una proposta per altri versi convenzionale è proprio questa miscela di tonicità muscolare ed effervescenza easy-listening (“My Umbrella”), in aperto contrasto tanto con il fenomeno grunge (di cui pure sembra voler sfruttare, a tratti, l’onda lunga) quanto con il roots e il college-rock che in quel momento negli Stati Uniti vanno per la maggiore, ma anche con le rinnovate istanze punk-pop che irromperanno con prepotenza sul mercato nel volgere di qualche stagione. Non che Seattle sia poi chissà quanto remoto come riferimento, visto che in “Triangle” vengono avvicinati i Soundgarden più meditativi (o meno inclini al metallo) e a tratti viene rievocato il fantasma di Andy Wood e dei suoi sfortunati Mother Love Bone (“On The Ground” o “Blown Away”, con qualche trucchetto glam sfoderato all’occorrenza per movimentare ulteriormente il tutto), dei quali è replicata certa genuina visionarietà. DeLaughter fa volare la sua creatura su fondali di pura fantasia, servendosi di opportune smargiassate hard-rock: il risultato è a tratti avvincente. La teatralità di marca Who si impone tra i richiami prediletti della band al debutto (“Brown-Eyed Pickle Boy”), un’affinità spesa se non altro con misura, attraverso la giusta distanza espressiva dal modello e senza sbracare nella mera imitazione a tinte sgargianti.

220x270_04bisMellifluo, insinuante, con armonizzazioni particolarmente curate a bilanciare un arsenale ritmico di tutto riguardo: sin da questa prima uscita il gruppo si dimostra divertente, vitalissimo, animato da una gioiosa isteria che trova nel capobanda la sua incarnazione, con un filotto di canzoni vivacizzate da un costante saliscendi emozionale e di andatura, tra strappi, discontinuità e impennate quasi mistiche (“Lost And Found”). Anche il sole della California, insomma, non pare lontano.
La proposta è smaliziata, spensierata e sufficientemente robusta, seppur presentata secondo un impianto ancora lineare, senza offrire una particolare ribalta (eccezion fatta per l’inutile stramberia freak-tribalista che chiude i giochi, “Pink Jelly”) ai vezzi artistoidi e alla weirdness che il quartetto rivelerà con ben altra convinzione qualche anno più tardi. I tormentoni restano peraltro abbastanza convincenti e il miagolare da gigione di Tim (“One Through Four”) fa il resto.

Affiorano qua e là una lussureggiante psichedelia e vaghi accenni spacey, a incrementare le credenziali naif di una compagine che non fa mistero di rimestare con profitto nel calderone dei tardi Sixties (emblematica nell’edizione originale la cover di “Green Tambourine” dei Lemon Pipers, poi scartata nella successiva riedizione) e dei primi Seventies, ma con un piglio del tutto nuovo. In certi frangenti si arriva persino ad avvertire – per quanto possa suonare un paradosso – il freno a mano tirato: la micidiale esplosività del gruppo si intuisce, anche se quasi mai è davvero sprigionata in tutto il suo potenziale, trattenuta magari per dar sfogo a qualche tentazione estetizzante (“Miles And Miles Of Pain”) pure convincente ma che alla lunga potrebbe finire col tediare l’ascoltatore.
I Tripping Daisy mostrano comunque di avere le idee chiare anche muovendosi in una terra incognita ancora poco battuta e, soprattutto, poco premiata dalle vendite. Giocano indifferentemente con sonorità elettriche (in prevalenza) o acustiche, cercando in entrambi i casi la sublimazione sunshine, tra falsetti alla saccarina, crescendo da virtuosi e brucianti accelerate, per una versione antesignana dell’indie-rock che presto avrà modo di spopolare. Il motore resta comunque l’interpretazione amabilmente sopra le righe di un cantante talentuoso ma anomalo come Tim, evidentemente prestato al rock alternativo da chissà quale anfratto artistico.

220x270_05_04Bill esce nel 1992 e sono ancora una volta le emittenti della zona a decretarne il discreto successo in tutto il Texas. Ammirati, sono gli uomini della Island a proporsi per mettere la band sotto contratto. La prima uscita per la major, esclusa la già citata riedizione dell’esordio (datata luglio 1993), è il mini Get It On, nei negozi all’inizio del 1994 ma registrato in occasione di un concerto a Dallas dell’estate precedente. Nella dimensione live i Daisies suonano più ruvidi e spigolosi, arrivando ad avvicinare la potenza di fuoco di un gruppo hardcore-punk (“It’s Safe, It’s Social”). Una sensazione, questa, ribadita dalle già note “On The Ground” e “Blown Away”, che confermano le credenziali di autorevolezza nei volteggi e certificano la maggior cattiveria e tonicità muscolare della prova dal vivo rispetto alle versioni di studio. Episodi rabbiosi ma dall’impianto rock piuttosto convenzionale, come la conclusiva “We’re Only Gonna Die” (una cover dei Bad Religion), testimoniano un’esplosività sufficientemente impressionante. Guidata dall’omonima jam eletta a cavallo di battaglia nei loro show, la raccolta si segnala come un Ep “di mantenimento”, speso più che altro in chiave fidelizzante e rivolto allo zoccolo duro degli aficionados che li hanno conosciuti (e hanno iniziato a seguirli) con i concerti.

Ma Get It On si rivela per giunta anche un valido antipasto per il sophomore che la band ha nel frattempo registrato assieme a Ted Nicely, produttore assai noto per l’ottimo lavoro svolto al servizio di Fugazi, Dead Milkmen e Girls Against Boys. I Am An Electric Firecracker, questo il titolo, viene pubblicato nel giugno del 1995.

220x270_10_04La proposta si è fatta nel frattempo ancora più energica e spregiudicata, ammiccando nel contempo con maggior convinzione agli appassionati dell’alt-pop. Ben più che in passato la musica dei Tripping Daisy sposa i riffoni vigorosi di Berggren e le cantilene da scoppiato del frontman, sostenuto nell’occasione da un apparato corale alquanto impressionante (“Rocketpop”). La band si destreggia in agilità anche con diversivi più rilassati e briosi tipo “Bang”, senza peraltro rinunciare mai alle proprie colorate deflagrazioni elettriche su refrain al solito spudoratamente catchy.
Quello che ne viene fuori è allora un disco che irrobustisce il sound ed enfatizza le peculiarità espressive già manifestate in precedenza, spingendo con opportunismo in direzione del pop e in apparenza limitando le aspirazioni alt-rock alla sola sfera visuale, al concept dietro quell’artwork enigmatico ma intrigante che fa abbastanza a pugni con l’incontenibile sfacciataggine easy-listening del singolo “I Got A Girl” (che, non a caso, si prenota qualche giro di giostra in heavy roatation su Mtv). Il motivetto, frivolo ma irresistibile, tradisce il prodigioso fiuto melodico di Tim e segna un ideale ponte di raccordo con le esplosioni di saccarina dei primi Polyphonic Spree. Le lusinghe delle chart, con un sesto posto nelle alternative song di Billboard, non troveranno tuttavia significativi riscontri futuri, in primo luogo per il repentino cambio di strategia di un gruppo sempre meno interessato alle ricadute commerciali del proprio lavoro.

L’altro singolo, “Piranha”, è ancora formalmente declinato secondo la formula di Bill, ma con un’esuberanza tutta nuova: tornano i dolci straniamenti psych (à-la Flaming Lips) del verbo grunge, con buona varietà cromatica assicurata dalla chitarra di un Wes davvero in forma. Sopita, ma neanche poi troppo, è pure l’inclinazione da jam band che i Daisies avevano palesato al tempo dei primissimi live e che riscopriranno proprio sul filo di lana della carriera, qui intuibile soprattutto nei brani più lenti, densi e rigonfi, come la splendida “Motivation” o l’apoteosi di “Trip Along” (che sfrutta ancora l’onda lunga e la verve visionaria dei Soundgarden del periodo, quelli di “Black Hole Sun”), a riprova che anche i rallentamenti aperti alla contemplazione sono da sempre nelle loro corde. E’ in simili frangenti che DeLaughter ha modo di dimostrarsi davvero in condizione, istrionico o evocativo a seconda delle esigenze di copione, ma mai inutilmente sopra le righe.

220x270_07_03Nella seconda facciata la spavalderia quasi mainstream viene accantonata e a prendere il sopravvento è l’indole weird, con il quartetto che, senza porsi limiti di sorta, si diletta a tratteggiare amenità sunshine, incubi grotteschi e spauracchi infantili (“Noose”), alleggerimenti in acustico con trip lisergici acclusi (“Step Behind”), oppure si concede qualche sinistra evocazione, arrangiamenti bizzarri e un tono fatalista gustoso (“Same Dress New Day”, ospite una sega musicale) così da alzare di quel tanto l’indice delle proprie eccentricità per andare amabilmente alla deriva.
In altri passaggi emerge con maggior nitore la natura anarchica, vitalistica e gioiosamente confusionaria dei texani, come nella perla punk-pop “Raindrop”. Il culmine di questo processo è però rappresentato dai quasi dieci minuti dell’intensa “Prick”, ancora granito in arrivo da Seattle lavorato con il loro scalpello, alternando momenti di lucidità e rigore a soliloqui bambineschi. La proverbiale bipolarità dei Tripping Daisy qui esce esaltata.

Pur non potendo vantare le vendite stellari di numerose altre rockband del periodo, I Am An Electric Firecracker è certificato disco di platino in Nord America e rimane il maggior successo commerciale nell’ormai quasi trentennale carriera di Tim DeLaughter. Nonostante la discreta esposizione sui network internazionali, il gruppo è peraltro destinato a rivelarsi una scommessa su cui la Island non ha più granché voglia di investire. Alla fine dell’anno Bryan Wakeland si sfila per cercare fortuna con la Meredith Miller Band e il suo posto è occupato per un biennio scarso dall’ex-Brave Combo Mitch Marine, in seguito membro degli Smash Mouth al tramonto. Il suo nome non comparirà nei credits di nessun lavoro dei Tripping Daisy, nemmeno sull’Ep che la Island rilascia all’inizio del 1997, Time Capsule, con materiale già in parte noto (una parziale ripubblicazione dell’Ep Hook Music 1, uscito solo in cassetta alla fine del 1995).

220x270_03_04Questa raccolta di euforiche e smaliziate outtake è una parentesi tendenzialmente irregolare che, in un certo senso, completa l’identikit del gruppo ai primi riscontri importanti e aiuta a comprendere gli estremi della sua traiettoria espressiva in una fase di profonda metamorfosi. Se la sana frivolezza punk-pop di “Cause Tomb Shop” mostra la band ancora perfettamente in linea con i canoni dei primi due album su lunga distanza e le felici stilizzazioni indie-rock di “Rise” sono proposte persino con più misura del consueto (salvo tradursi poi in vampe dalla ragguardevole portata pirica), sono gli episodi centrali a registrare lo strappo più evidente rispetto al passato. “Boobie The Clown” è un passaggio rumoroso, sinistro e molto anni Novanta, emblema tanto di un’indole gioiosamente riottosa quanto del disorientamento dei tempi; a destare maggiore impressione e aggiornare il repertorio di eccentricità dei Daisies in quel loro proiettarsi verso più ardite ambizioni art-rock è però l’arcigno, malevolo leviatano opportunamente intitolato “Creature”, che in quasi otto minuti ha modo di sprigionare tutta la velenosa impetuosità del gruppo assieme alla sua irrinunciabile verve sbalestrata. Ne esce un’istantanea mossa ma curiosa e colma di stimolanti asperità.
La morbidezza quasi adolescenziale di “Blue Train” e la veste acustica più convenzionale di “I Am A Fish”, ripulita delle solite amenità vocali, rientrano nel quadro di una più ordinaria amministrazione, ma se aggiungiamo all’affresco la chicca di “Margarita Tropendzando”, stravaganza latin (pubblicata come B-side di “I Got A Girl”) che riporta con prepotenza in zona jam-band, il bilancio non può che chiudersi in positivo.

Una bomba che non fa rumore

220x270_09_05L’anno che si chiude regala ai Tripping Daisy quel paio di innesti decisivi per azzardare il salto di qualità che DeLaughter sente evidentemente nelle proprie corde. La mattonella lasciata libera da Marine è rioccupata in un amen dal diciannovenne Benjamin Curtis, molto più che un promettente batterista, mentre Philip Karnats si candida a giocare da battitore libero grazie alle sue notevoli doti di chitarrista, banjoista e trombettista. Il gruppo è diventato a tutti gli effetti un quintetto e la differenza si sente, eccome, anche perché Wes Berggren (che per la prima volta si cimenta con mellotron, Ace Tone e violoncello) non è mai stato tanto versatile. Il nuovo album, Jesus Hits Like The Atom Bomb, esce nel luglio del 1997, ancora con la palmetta della Island stampigliata sul dorso.

L’assurdità eclatante di questo titolo e di questa copertina arriva a spiazzare i pochi che abbiano avuto cura di seguire il modesto tratturo percorso dalla strana combriccola texana. Condanna profetica di stampo millenaristico, patetica conversione al rock trash dei predicatori da palazzetto o, più semplicemente, presa per i fondelli con aperture all’innocua blasfemia da salotto televisivo? Niente di tutto questo, per fortuna. Mira piuttosto a proporsi come smarcamento di taglio surrealista, ingenuo come spesso capita in ambito musicale ma in fondo coerente con il tocco di una band finalmente padrona di un proprio stile, di una propria voce, di una vera identità. Padrona in quanto consapevole della possibilità di una purezza anarchica, folgorante, nascosta sotto l’ordinaria crosta punk-pop degli esordi. A tutti gli effetti questo album è un vero e proprio ritratto: la band al suo meglio, rimarcherà poi il suo leader. L’istantanea per nulla sbiadita di uno stato di grazia assoluta, che il gruppo di Dallas potrebbe conservare a lungo e invece si perderà in un attimo.

220x270_02_03Con I’m An Elastic Firecracker, che abbozzava proclami di autostoricizzazione sin dai rimandi alle follie della mail art di Guglielmo Achille Cavellini, in copertina, si intuivano spifferi di gustosa libertà creativa nel quadro di un impianto ancora molto convenzionale. Nessuno avrebbe però immaginato il micidiale trionfo easy-listening che le canzoni del nuovo disco avrebbero garantito senza offrire prima valide avvisaglie: prenotando un tour in rollercoaster per gli impavidi ascoltatori e impastando gli echi floreali e psichedelici, già evocati nella propria ragione sociale, con quella compattezza sonora cui i Tripping Daisy avevano abituato dal primo istante, frutto senza dubbio di un imprinting di natura ambientale. Valutato con opportuno distacco temporale il terzo album di Tim DeLaughter e soci suona diverso da qualunque altra cosa: un agglomerato di frattaglie circensi dal benefico effetto rigenerante, un concentrato ipervitaminico di parossismi, una collezione di refrain pazzeschi con assortita stampigliatura elettrica di chitarroni marchiani, ovvero sorpresa e stordimento.
Vertigini corali, citazioni wilsoniane senza pedanti derive twee, delicatezze melodiche degne di un’uscita romantica al luna park, strappi vertiginosi con gli Who intagliati nel cuore (“About The Movies”), impennate acide, deviazioni space-rock nascoste dietro ogni stramaledetta “prossima curva” (“Waited A Light Year” la migliore) e una semplicità miracolosa a illuminare il tutto, senza forzature intellettualistiche o snobismi. E, al centro, una celebrazione quasi ossessiva dell’infanzia, scritta adottando un registro favolistico che è sempre stato nelle corde di Tim ma non ha più saputo raggiungere simili livelli di sincerità e trasporto.
Se “Sonic Bloom”, in particolare, è una delizia sunshine-pop pilotata con mano sicura dal frontman, attento a schivare le trappole della melassa e con dalla sua un’intonazione fanciullescamente aperta alla meraviglia, “Geeareohdoubleyou”, suona tanto energica quanto toccante e non ha eguali nel sublimare i connotati quasi magici dei ricordi.

220x270_06_03Stilisticamente il quintetto si muove in territori occasionalmente già battuti dai Weezer e pochi altri, riuscendo nell’impresa di elevarne gli spunti espressivi attraverso un incanto ininterrotto e appassionante. Per alimentare questo inesausto stupore e non perdersi nella stucchevolezza, il gruppo conserva il proprio piglio giocoso e trottante, non disdegnando qualche incursione in universi musicali ancor più imprevedibili come avviene nel formidabile ottovolante impazzito di “Mechanical Breakdown”, una festa elettrica che sposa spigoli e candore bambinesco senza accusare la minima caduta di tono. Non occorre chissà quale esperienza per riconoscere che a questo giro i Tripping Daisy hanno davvero saputo dar forma a un incredibile caleidoscopio musicale, sarabanda euforizzante e scrigno stracolmo di sorprese. Dietro l’infilata di quadretti policromi e allegramente chiassosi (ma mai disturbanti), si decanta la fine dell’età dell’innocenza, con fare malinconico e strafottente a un tempo. Gli episodi piazzati apposta per tirare il fiato rispolverano l’eccellente propensione a una psichedelia luminosa, cristallina, come si evince dai due estatici movimenti di “Our Drive To The Sun/Can A Man Mark It?” o dalle suggestioni favolose di “Human Contact”, dove l’apparato funambolico alle spalle di Tim è rimpiazzato da un onirismo ben più sospeso o evocativo.

Ancora non è calato il sipario e qualche ulteriore, simpatica stramberia a doppia velocità, trova spazio, così da alzare i coefficienti di una weirdness esercitata al solito a briglia sciolta: dalle galvanizzanti trovate di un Ben Curtis davvero sugli scudi alla fiera isteria controllata della goliardica “8 Ladies”, passando per quel paio di altri momenti più orientati alla riflessione e alle tonalità da crepuscolo (“About The Movies” e, soprattutto, “Tiny Men”, ultima concessione alla memoria prima della fanfara finale). Dentro il più infimo dei dettagli come nell’apoteosi armonica dell’insieme, si glorifica la natura sconfinata e selvaggia dell’immaginazione al potere.
Prodotto magistralmente da Eric Drew Feldman, già soldatino nella Magic Band di Captain Beefheart (e poi con Pere Ubu, Pixies e PJ Harvey), Atom Bomb rappresenta ancora oggi la più fulgida manifestazione del talento di DeLaughter, uno degli innumerevoli geni minori che il rock statunitense non ha mai smesso di partorire: canzoni perfette, quella vocina da fratello minore di Wayne Coyne, comparsate alle chitarre, al dulcimer, al califone, oltre al nonsense senza quartiere nei collage di un book cui Robert Pollard non può non aver guardato con ammirazione.

220x270_15_04Nonostante il marchio Island, all’uscita l’album non fa alcun rumore e la cosa non accadrà neppure in seguito, a maggior ragione. Non è però da sottovalutare il suo ruolo cruciale come rampa di lancio per il frontman, che di lì a poco si reinventerà nei panni del gran maestro di cerimonia nei Polyphonic Spree, per la sua sezione ritmica (Pirro, oltre ai redivivi Bouck e Wakeland) cooptata in quella fortunata avventura, e per Ben Curtis, uno che nel nuovo secolo avrebbe impressionato sia alle prese con il rock di derivazione pinkfloydiana (The Secret Machines) che con il pop revivalista à-la Stereolab (School Of Seven Bells), prima di uno sfortunato epilogo ad appena trentacinque anni.
Una promessa di fortune che non sarebbe valsa, comunque, per il chitarrista Wes Berggren, portato sulla strada sbagliata dalla moglie Melissa, una femme fatale che pochi anni dopo avrebbe tentato un colpo simile ai danni di un acerbo folksinger di quelle parti, Micah P. Hinson, senza riuscirci ma regalandogli un bagaglio d’ispirazione con cui vivrà di rendita per altri cento anni. A guardar bene, pare forse inevitabile che in tutto questo tripudio la morte volesse metterci lo zampino. In filigrana se ne sente la presenza, dentro ogni piega di questo capolavoro dimenticato del power-pop anni 90: dai fantasmi di “Field Day Jitters” all’omaggio funebre conclusivo di “Indian Poker Parts 2&3”, alla memoria dell’amico Tim Taylor dei Brainiac. Anche la trottola colorata che sorride sotto al cd è un simbolo triste. Racconta di un’esperienza che non poteva che chiudersi presto: “I loved the days when we were younger then and rainbows caught us”.

Una stella si è spenta

220x270_14_04Nel 1999, ad ogni modo, il gruppo fa ancora in tempo a pubblicare uno split single condiviso con i Centro-Matic di Will Johnson, “Bedhead/ Love Has Found Me Somehow”, e soprattutto l’Ep (in edizione più che limitata) The Tops From Our Heads, entrambi fuori per la piccola etichetta che Tim ha nel frattempo fondato, la Good Records. Il secondo è una lunga improvvisazione intavolata dalla band ormai maturata in forma di quintetto, seppur nello spirito anarchico e refrattario agli schemi rigidi tipico dei suoi esordi: 22 minuti articolati in sette sezioni numerate – una delle quali costituita da una cover polverosa ma filologicamente corretta, quindi abbastanza sorprendente, della gemma sunshine-pop “Never My Love” dei californiani The Association, una cruciale fonte d’ispirazione stando alle note compilate da Curtis – più una seconda facciata intitolata scherzosamente “Name Your Own B-side”.
E’ inevitabile che a tenere banco, tra sottili astrazioni psych e spacey (il gioiellino malinconico “Section 6”, che dolcemente va alla deriva), sia l’istrionismo visionario del capobanda. A passaggi piuttosto turbolenti se ne alternano altri in ripiegamento, inquieti e allucinati nonostante il tono più trattenuto. Il risultato è felicemente spiazzante, febbrile e incoerente ma oltremodo vitale, il quarto movimento in particolare, più affine alle ultime produzioni, come l’apertura quasi gospel alla meraviglia in una “Section 7” che di fatto si pone come reale ponte di raccordo con le cantate alla saccarina del progetto che DeLaughter inaugurerà relativamente presto: era questa la vera direzione dei Tripping Daisy al tramonto.

Quando nell’aprile dell’anno seguente risuona con un album eponimo il canto del cigno, la band si è di fatto sciolta ufficialmente da cinque mesi. Le canzoni su cui il gruppo stava lavorando prima della morte di Berggren per overdose vengono presentate nella loro forma incompiuta, quasi senza intervenire in post-produzione per una forma di rispetto. Non c’è più, in fin dei conti, alcun vincolo contrattuale cui sottostare: la Island, già desaparecida in quanto a promozione quando uscì il precedente lavoro, ha da tempo scaricato i superstiti e così è la miserabile Sugar Fix a pubblicare questo disco postumo.

220x270_18_02L’euforia dionisiaca di Atom Bomb appare subito sbiadita, il proverbiale ghigno di Tim si è nel frattempo vestito di amarezza e, se la scrittura resta di fatto un sostanziale prodigio pop, gli arrangiamenti e il decorativismo alquanto limitati nei fronzoli riconducono la band a una dimensione più umile, terrena. Assai meno prodotto del consueto, almeno in avvio, questo Tripping Daisy presenta comunque le sue brave canzoni ruspanti, a testimonianza di una fase creativa straordinaria fiaccata esclusivamente dalle avversità e dalla cronaca. Qualche salutare semplificazione non inficia il potenziale tutt’altro che ordinario della formazione texana, soprattutto in quei frangenti che spendono tutti i propri gettoni in energia e sperticate attrazioni pop (“Kids Are Calling”, l’opener “Community Mantra”) con discreta efficacia e minor voglia di stupire a tutti i costi.

Se l’intonazione si conferma gaudente, è innegabile che in questi solchi si respiri anche un disincanto mai manifestatosi prima a simili livelli. Forse è la consapevolezza del senno di poi nel fruitore, ma la band non sembra comunque spingere mai fino in fondo sul pedale dell’acceleratore e si mostra grave, corrucciata, anche nelle sue abituali goliardate. Impossibile ascoltare il disco senza perdersi in oziose considerazioni sulle prospettive negate del gruppo e del suo chitarrista, per cui il rammarico è una variabile da mettere in conto anche e soprattutto per il carattere incompiuto della raccolta. Con “Soothing Jubilee”, ospite il padre di Wes al Fender Rhodes Piano, la malinconia torna a farsi struggente ma non ha modo di suggerire sfoghi evidenti. Si avverte semmai, a soffermarcisi, una disperazione di fondo che neppure l’apparente diletto di queste ballate è in grado di sconfessare fino in fondo.
“Drama Day Weekend” enfatizza l’atmosfera lugubre, specie per l’interpretazione da freno a mano tirato di un DeLaughter che eravamo abituati ad apprezzare su ben altre tonalità. Flemmatico, rarefatto e dimesso nella sua rinunciataria abulia, prima di sbocciare in una cantata psichedelica sovraesposta e quasi autistica dall’abbagliante fulgore, “Tragiverse” è il brano manifesto dell’album. I Tripping Daisy ai saluti sono per necessità una compagine con tante ombre quante luci. Il cuore si è fatto pesante, il respiro un po’ stanco e la prova del nove è offerta dalla riedizione un tantino smorzata della vecchia “One Through Four”, in linea con il tenore del disco.

220x270_16_03C’è ancora spazio per le digressioni scherzose che ora, tuttavia, appaiono cupe e alienate come non mai (“Jim’s Longtime Voice”) oppure sostenute dal virtuosismo dei singoli, di Ben in particolare, come avviene nella gorgogliante jam intitolata “Halo Comb”. Il sostanziale tuffo nell’introversione tende ad acuirsi nella seconda facciata, dove pure compaiono passaggi interessanti ancorché in questa forma, diciamo pure, di demo agghindate alla meno peggio. Così con “This Cradle Song” la meraviglia di ieri è presentata in brandelli per chiunque sia ancora intenzionato a raccoglierla, ma la voglia di crapule sonore o luminose fantasmagorie rimane nulla più che un ricordo destinato a non portar frutti.
Cosa avrebbe potuto essere Tripping Daisy con un’altra spinta e le giuste motivazioni si può immaginare, ma pretendere qualcosa di diverso dai ragazzi, a questo punto, non sembra granché sensato e il giochino delle ipotesi rimane una sterile attività. Si percepisce una sorta di distanza o di freddezza anche e soprattutto laddove le parole parrebbero suggerire ben altro tenore umorale (“I Am Good”), così questo eponimo non può che lasciarci con un velo di tristezza.
In “Foot Dance” persino i gigionismi di un tempo cedono il posto a una liturgia compassata ma evidentemente doverosa, la colonna sonora di un arrivederci sentito, fraterno eppure assai poco consolatorio, che nel decennio a venire troverà qualche sbocco solo nelle pagine più ombrose tra quelle scritte da Curtis.
Tim e soci si congedano comunque con la nota speranzosa di “The Sudden Shift Worried Him”, all’insegna del rumore ma anche colorata come da attese, prima di sfumare in dissolvenza nell’ennesima grottesca astrazione space-psych-rock che in un certo senso riporta dalle parti di Bill e chiude il cerchio.

L’unione fa la forza (del marketing)

220x270_08_04Non sono passati che pochi mesi dal rompete le righe e il vulcanico Tim ha già trovato un valido passatempo con cui tenersi occupato. I Polyphonic Spree nascono evidentemente come reazione alla brusca fine dei Tripping Daisy, ma la loro alba si compie per forza di cose all’insegna del disimpegno, dell’amatorialità, senza particolari ambizioni. Il cantante raduna attorno a sé una congrega di una dozzina di musicisti, di fatto il nucleo originario di quello che sarà il collettivo, essenzialmente per esplorare per puro diletto le potenzialità orchestrali di alcuni degli artisti con cui è cresciuto, dai Beatles alla Electric Light Orchestra, passando per Wings e Beach Boys. Con lui opera una sezione ritmica composta dai vecchi compagni Pirro, Wakeland e Bouck, ma nell’organico figurano anche suonatori di archi, fiati, tastiere e chitarristi. Nel giro di due settimane la band già porta sul palco un set di nove brani (o section) per una mezz'ora abbondante di durata, e si esibisce in tunica bianca d’ordinanza come supporto per Grandaddy e Bright Eyes, quasi si trattasse di una piccola comune evangelica o di una cricca hippie-gospel. Il numero dei componenti aumenta ben presto fino a raddoppiare, raggiungendo così la ragguardevole soglia di venticinque effettivi, e incide in proprio (con la supervisione tecnica di un produttore di Athens, Andy Paul Baker) le sue prime dieci tracce, ufficialmente per avere un demo grazie al quale procacciarsi serate e concerti. Secondo la vulgata, The Beginning Stages Of… nasce in questo modo del tutto fortuito ma come biglietto da visita per addetti ai lavori è più che sufficiente: Tim e soci giocano in casa quando si esibiscono al South By Southwest di Austin, show che non passa inosservato tra i critici e affolla di appuntamenti la loro agenda, i più importanti dei quali in apertura ai Divine Comedy (al Royal Festival Hall) e tra le attrazioni del Meltdown Festival di Londra del 2002, opzionati personalmente da David Bowie.

Il disco parte all’insegna della tetraggine con una mesta intro per pianoforte che fiati, archi e vibrafono trasformano in una sorta di preghiera, una compunta litania scandita dalla voce di Tim per omaggiare idealmente il compagno di tanta strada assieme. E’ un mantra che cresce d’intonazione, questa “Celebratory”, arrivando persino a commuovere se non si tralasciano le implicazioni a monte. Ma lo spirito non può (e non intende) essere così compassato. Straripante d’entusiasmo, l’ensemble si scioglie con una gioiosa invocazione al sole (“It’s The Sun”) che ricorda da vicino tanti musical anni Settanta, “Jesus Christ Superstar” in primis. L’afflato è caloroso, avvolgente, e a movimentare il tutto pensano i continui sobbalzi ritmici e i cambi di passo, perfetti per fotografare un’impronta amabilmente sopra le righe. Delaughter non si impone come un banale frontman tra i tanti, ma ha proprio l’aura del santone hippie, del gran maestro di cerimonie in un’opera tanto suonata quanto cantata.

220x270_20_02Con “Days Like This Keep Me Warm” il clima torna raccolto ma aperto a una meraviglia silvana, teporoso e quasi cameristico per quanto tutt’altro che scarno a livello di decorazioni. Parimenti, le cadenze blande e narcotiche di “Middle Of The Day” insinuano suggestioni dolci e stranianti a un tempo, come un oppiaceo sonoro che chiami a un sogno denso di inquietudini. Vi è un equilibrio ancora prodigioso nelle composizioni come nell’arrangiamento e questo si rivela sufficiente a preservare la prima uscita della truppa texana dalle esagerazioni pacchiane, dall’enfasi bandistica gigionesca, caricaturale o incline alla melassa in cui la band cadrà talvolta, in seguito. Persino brani più animati e dolcemente freak come “La La” si mantengono su un crinale di stramberia pop-tribalista che induce a una naturale simpatia senza mai degenerare in nausea.
I tre pezzi di maggior pregio – la paradigmatica “Hanging Around The Day, Part 2” e i due singoli, “Light And Day” e “Soldier Girl” – sono insolitamente relegati in posizione defilata. Se qua e là si eccede con le flautate insinuazioni, il tiro appare senza dubbio quello giusto, l’interpretazione è brillante e l’alchimia riesce sorprendente, nonostante l’inevitabile corollario di anomalie e l’ampollosità di fondo. Si conferma comunque una certa genuinità, non si scade nella spudoratezza mainstream e, anche quando si osa molto di più in termini di easy-listening, il gruppo resta auto-confinato per scelta in una dimensione comunitaria del tutto amicale, che non eccede mai i limiti di un sontuoso artigianato.
Tim ha insomma avuto una trovata geniale ma non si è svenduto l’anima per i famigerati trenta denari. Rimane, anzi, sostanzialmente fedele a se stesso e, con il trucco di una pseudofilosofia oltremodo azzeccata, trova finalmente un’ampia platea disposta a lasciarsi sedurre e a seguirlo, anche soltanto per un breve tragitto. Quello che si configura, tuttavia, al netto di questi frangenti più catchy, è un disco davvero strano, oscuro per lo più, come certe pagine folk di qualche decennio prima: una bizzarra raccolta chamber-pop à-la Van Dyke Parks che ai barocchismi di genere preferisce ancora qualche sottile allettamento psichedelico tenuto rigorosamente sotto traccia.
Piacevole, ma tutto sommato effimera e marginale come operazione, al di là di un impatto coreografico e strategico innegabilmente considerevole. Ad abbassare il giudizio anche i loop e i campionamenti della voce di Tim che affollano i trentasei minuti della conclusiva “A Long Day” tra sperimentalismo e minimalismo stile Philip Glass, per un profluvio forzato, fuori luogo e francamente inascoltabile.

220x270_40Il disco è presto promosso in patria dalla Good e in Europa dalla 679 Artists, sussidiaria Warner, che con imbarazzante mancanza di tempismo scarica per “scarse vendite” i Polyphonic Spree già all’inizio del 2003, proprio quando sui circuiti alternativi (in Italia li promuove soprattutto Massimo Coppola su “Mtv: Brand New”) si stanno affermando come una delle rivelazioni del variegato universo indie. “Light And Day”, in particolare, finisce per spopolare un po’ ovunque, dagli spot della Volkswagen alla colonna sonora dell’acclamato “Eternal Sunshine Of The Spotless Mind” di Gondry. Il culmine di questa sovraesposizione è il cameo del gruppo in un episodio della prima stagione della serie “Scrubs”, mentre alla fine dell’anno la truppa ottiene endorsement preziosi dai Grandaddy (lo split in formato sette pollici di “The March/The Rugged and Splintered Entertainment Center”, che esce per la Birdman) e dal Duca Bianco, che la invita ad aprire i concerti americani del tour di “Reality”.

Frattanto, assieme alle nuovissime tuniche multicolore, il sophomore è praticamente pronto, registrato ancora una volta da Andy Baker assieme a un redivivo Eric Drew Feldman (l’artefice del vertiginoso exploit di Atom Bomb). L’uscita con la Hollywood è in calendario per luglio 2004, ma l’album viene ristampato negli Stati Uniti anche due mesi dopo, in una nuova edizione con bonus (e una diversa copertina) curata dall’etichetta di famiglia, la Good.

220x270_30_01Together We’re Heavy si presenta nel segno della continuità con il predecessore (a livello di intestazione), pur mostrandosi ben più smaliziato sin dall’avvio. Tim e compagni attaccano infatti con una convincente tonalità di splendore, un registro delicato e melanconico che piega come mai prima d’ora verso il favolistico, una pomposità peraltro ancora non archiviabile alla voce stucchevolezza, non essendo trascolorata nella maniera e riuscendo anzi ben sorretta dall’impeto euforizzante di questo plotone di musicisti e coristi: una formula che almeno in questa fase si dimostra vincente, in grado di sorprendere senza eccedere nel concettuale, in virtù di una freschezza e una ricchezza sonora davvero abbacinanti. Certo il confine che separa la meraviglia policroma dalla pacchianata senza ritegno tende ad assottigliarsi pericolosamente, ma gli Speekers (come si ribattezzano nei credits) di Toghether We’re Heavy sanno il fatto loro, si muovono con grazia su un terreno scivolosissimo e seducono con la semplicità dei loro dolci incantesimi.
Nel singolone d’ordinanza, “Hold Me Now”, sale in cattedra il mattatore DeLaughter e tutta la combriccola gli viene dietro. Il tormentone iperglicemico è oggettivamente micidiale ma rappresenta anche la band al massimo del proprio potenziale d’espansività e calore, infiorettato da impasti vocali a sesto acuto e flauti alla saccarina. Quel che è certo è che le timidezze dell’esordio sono state cassate come da un colpo di cancellino, e con quelle anche le ombre o le nuance più orientate all’introspezione. Al loro posto, ecco un ininterrotto inno alla gioia della condivisione, un roboante trionfo dell’enfasi comunitaria che non fa nulla per celare la propria spudorata natura ma almeno gioca la propria partita a carte scoperte. Un po’ come avviene in quell’altro refrain dalla sfrenata indole easy-listening (del tipo che, inesorabilmente, chiama al sing-along) nell’ennesimo elogio dell’unione che fa la forza (“Two Thousand Places”), declinato come sempre all’insegna della fantasia, della frivolezza e dell’immaginazione al potere.

220x270_31_02Anche quando il Nostro recita per scelta un po’ in sordina (“Diamonds/Mild Devotion To Majesty”), la sua firma si imprime come a fuoco sul disco, dimostrando tutta la versatilità di una prova che non si preclude qualche preziosa alternativa umorale o espressiva ma tende sempre e comunque a celebrare la luce, in un irrefrenabile volteggio chamber-pop. Si intuisce giusto qualche ammiccamento al Wayne Coyne quasi coevo di “Yoshimi”, così come il soliloquio di “One Man Show” ammicca a tratti al Bowie giovane e in fissa per i misteri astrali, ma per il resto le emozioni candide di questo circo Barnum rimangono tutta farina del sacco di Tim.
Corno, pianoforte e infiorettature liriche si spingono in “Suitcase Calling” ad abbozzare una più ambiziosa pastorale che resta peraltro compiuta esclusivamente a livello di atmosfere e di perizia tecnica. Tutto lo squadrone si piega a dovere alle esigenze di sceneggiatura e ai capricci di stile del suo regista ma, quando non viene ricercata l’immediatezza stordente, il trucco rischia di mostrare la corda e rimane in bella mostra solo questo coloratissimo, stupefacente scafandro, una prova di bravura artigiana, scenograficamente o coreograficamente parlando, cui manca forse solo un’anima, un senso profondo al di là del virtuosismo.

Il carnevale sinfonico dei Polyphonic Spree trova il suo compimento simbolico nella lunga cantata, esageratamente catchy, “When The Fool Becomes A King”, di fatto apoteosi programmatica della filosofia e dell’estetica rigonfia del gruppone, anche magnifica nella sua esuberanza da musical arrembante, nonostante un DeLaughter ormai senza più guinzaglio e museruola. Prendere o lasciare, insomma, visto che qui pregi e difetti del carrozzone raggiungono il parossismo. A voler trovare una pecca a tutti i costi, non si può tacere della pesantezza evocata dal titolo stesso dell’album e che la ragguardevole durata dei singoli episodi, oltre alla ridotta varietà di soluzioni espressive, traduce in una realtà tangibile con l’andare dei minuti. Potrebbe rappresentare in effetti un problema serio per chiunque faccia fatica alla prese con sonorità di questa fatta, mentre gli appassionati del genere non rischiano particolari effetti collaterali, al di là di un trascurabile, quasi impercettibile sottofondo di noia.
I due brevi intermezzi – in testa la strumentale “Ensure Your Reservation”, in odor di camerismo à-la Rachel's (quelli di “Selenography”) – lavorano appunto per spezzare l’inerzia e depurare per quanto possibile dalle scorie di questa scorpacciata di zuccheri, ma il buon esito del loro impiego resta questione di gusti. Al brano che sul filo di lana presta il titolo alla raccolta spetta il compito di tirare le fila, con una lunga strumentale aperta alla contemplazione sulla falsariga degli epici echi morriconiani proposti dai Mercury Rev di “Endlessly”.

Una band armata (di tenerezza)

220x270_35_01Un anno trionfale, esaltato dalla vetta nella Top Heatseekers di Billboard, si chiude con l’esibizione del collettivo alla cerimonia per l’attribuzione del Nobel per la pace alla keniota Wangari Maathai. Il 2005, in confronto, è quasi una lunga pausa sabbatica. L’unica uscita discografica è rappresentata dalla colonna sonora del film Thumbsucker di Mike Mills (solo omonimo del bassista dei Rem), con nel cast Tilda Swinton, Keanu Reeves e Vincent D’Onofrio. Originariamente affidato a Elliott Smith, l’incarico passa ai texani dopo la scomparsa del cantautore, su esplicita richiesta del regista (spettatore ammirato di uno dei loro concerti).
La zampettante soundtrack fa leva sul candore della propria intonazione, tralasciando invece le consuete, chiassose esagerazioni. Uno scenario, quello delle “Skinny Dip” e delle “Scream And Shout”, volutamente ridotto all’essenzialità, ma acceso poco per volta dai singoli strumenti (giusto qualche corda pizzicata, un violino, un flauto o il pianoforte, in ordine sparso) e dal più dimesso dei cori, dove la voce di Tim si concede il piacere di un nascondino. Un lavoro alquanto timido rispetto ai canoni dell’ensemble, un’opera che gioca in sottrazione e si affida più a impressioni che non a vere e proprie canzoni, riuscendo a colpire nel segno a tratti (grazie alla gentilezza di “Move Away And Shine”, ad esempio) ma sfumando apertamente in noia con la rarefatta meraviglia di “Acceptance”, mezz'ora di suadente fingerpicking senza la minima variazione sul tema.
Oggettivamente meglio i tre brani interpretati da Smith e mantenuti comunque nel programma finale, dalle cover di “Trouble” (Cat Stevens) e “Thirteen” (Big Star) all’inedita “Let’s Get Lost”, finita nel frattempo nella prima raccolta postuma, “From A Basement On The Hill”.

220x270_19_04Pur ancora interlocutoria, la successiva uscita certifica il ritrovato estro del collettivo. Si tratta di un Ep di cinque tracce, prodotte dal gruppo in sinergia con le stelle John Congleton e Jon Brion, licenziato dalla Good nel settembre del 2006 come chiaro antipasto di un’ancor più succulenta pubblicazione su lunga distanza. Wait parte anticipando uno dei brani del disco imminente, “Mental Cabaret”, qui in una versione forse meno pindarica ma sufficientemente eclettica, che ben rappresenta la transizione dal camerismo sofisticato a un più robusto e ambizioso pop-rock (si senta anche la ballatona elegante e nostalgica “I’m Calling”, che anabolizza il Lennon morbido di “Milk And Honey”).
In “Love My Way”, una cover degli Psychedelic Furs, Tim tira simbolicamente fuori i Tripping Daisy dal loro sepolcro – la loro vena gioiosamente goliardica – prima di farlo in senso letterale con la rilettura estatica, commossa, flautata e sostanzialmente fedele all’originale (giusto con qualche ninnolo extra) di “Sonic Bloom”. A incuriosire davvero è però la reinterpretazione zuccherina ma grintosa della nirvaniana “Lithium”, un bel caso di appropriazione stilistica tra frivolezza varie, cori prorompenti e l’immancabile orgia di fiati: un valido biglietto da visita per una raccolta che, nella sua interezza (e nel suo piccolo), dimostra di avere un bel respiro e il tiro giusto.

L’atteso terzo album, The Fragile Army, arriva nei negozi nel luglio del 2007, in una fase in cui si moltiplicano i contributi del gruppo alle colonne sonore di film indipendenti, serie o programmi televisivi, spot pubblicitari e persino inni di società sportive (quello per la squadra di soccer di Dallas, ad esempio). E’ anche la sola occasione per ascoltare, nel variopinto guazzabuglio, la voce e le chitarre della venticinquenne Annie Clark, al suo esordio solista in quegli stessi giorni con un disco intitolato “Marry Me” e intestato a un moniker che avrà presto tutt’altro successo, St. Vincent. La sua permanenza in squadra è quindi breve ma rappresenta un’esperienza non certo inutile per la formidabile artista di Tulsa.

220x270_21_01Dopo aver acceso con un alito di vita lo “strano animale” di Together We’re Heavy, i nuovi Polyphonic Spree dismettono le tuniche colorate di quell’exploit per vestire l’inquietante divisa nera della loro armata, le cui evocazioni simil-Balilla sono fortunatamente sconfessate dalle toppe con cuori e croci rosse che rendono il senso di quella “fragilità” suggerita dal titolo. Parimenti la musica dell’ensemble inizia a ispirarsi smaccatamente a quella di altri artisti, e non si contano le astrazioni rubate al mentore David Bowie o ai Flaming Lips ludici, orchestrali e con minori implicazioni concettual-artistoidi. Almeno a livello di intestazioni, ancora una volta, si riparte da dove il discorso si era interrotto.
Il vero avvio, con il pompatissimo singolo “Running Away”, mostra tutt’altra prestanza ritmica e verve elettrica, riportando subito con prepotenza dalle parti dei Tripping Daisy. L’anomalia rappresentata dal gruppo pare essersi così riassorbita, in buona parte quantomeno, con il compimento di questo processo di normalizzazione che ha portato dallo stampo naif del debutto a un più ortodosso e disciplinato caleidoscopio. Lo si coglie limpidamente nei solchi di “Get Up And Go”, dove un Tim istrionico guida i compagni in un vespaio alternative che ha ormai riconvertito l’originaria euforia in una più canonica veemenza rock. Riecco i riffoni poderosi dell’era Berggren, stavolta sposati al consueto eclettismo circense del collettivo per un incontro celebrato rigorosamente sopra le righe (fiati e impalcature corali sono a tratti vertiginosi).
Nella ritornante “Mental Cabaret” la fantasmagoria di questo esercito di musicisti guarda ora a un pop-rock smaliziato e vagamente futurista, avvincente per una volta nel suo scorrere libero da lungaggini cerebrali o orpelli ornamentali. La title track, ballata malinconica appaltata al pianoforte, abbassa le cadenze e ricorda da vicino gli analoghi crepuscoli di Sam Coomes dei Quasi, oltre alla stramba giocoleria del più volte evocato Wayne Coyne. Il risultato suona forse un tantino disorganico o dispersivo, ma è anche sufficientemente divertente. Più che altro il collettivo, prigioniero delle proprie stilizzazioni fortemente caratterizzate, ha scelto di cambiare rotta con decisione giusto un attimo prima che il gioco potesse mostrare la corda, trovando così in extremis nuove, insperate motivazioni. Ancora in un’ottica di aperta emancipazione dall’elegante decorativismo del modello, riesce particolarmente agile e fresca una “Younger Yesterday” sfinata da archi leggeri e animata con meno gigionismo da un DeLaughter tonico, lucidissimo nelle sue esplorazioni da eterno sognatore. L’altro singolo (“We Crawl”), al contrario, punta in parte a recuperare l’originaria atmosfera fiabesca, pur anabolizzandone l’impianto sonoro e compattando con buon profitto, in termini di easy-listening, la scrittura.

220x270_28_01Il disco privilegia la spontaneità e la franchezza pur non rinunciando a volare alto a livello di intonazioni e arrangiamenti, senza perdersi per questo in pose tronfie. Velocità e fantasia esercitata a briglia sciolta contribuiscono a tenere desta l’attenzione di un ascoltatore che ora trova sponde preziose in un songwriting di rara efficacia, anche al netto delle occasionali digressioni auliche liofilizzate. Certo, l’eccentricità galoppante resta un potenziale ostacolo con cui fare i conti, ma il risultato si presenta, nei limiti del possibile, armonico e piuttosto gradevole, soprattutto non tradisce cali d’intensità e fin quasi alla fine conferma la propria natura curiosa, anche in quegli episodi che con maggiore ostinazione si rifanno al felice populismo delle prime cose (il refrain spudorato di “Watch Us Explode”, ad esempio). Prima di chiudere all’insegna della solita festante baldoria nell’ennesima orgia polifonica (nomen omen, quindi fedeli come non mai alla propria ragione sociale), gli statunitensi si concedono un passaggio appena più minimale (“Light To Follow”), preziosa deviazione acidognola agghindata in chiave electro-pop con il necessario equilibrio, oltre a una parentesi di solipsismo un tantino verboso per lo sbalestrato capobanda (“Overblow Your Next”), a riprova che i teatri angusti non sembrano fare al caso suo.

Le ultime pallottole

220x270_12_05A questo punto, dopo l'ennesimo tour a rimorchio di David Bowie, la band scompare letteralmente dai radar per un lustro, con il solo intermezzo di un singolo estemporaneo (“Bullseye”), lanciato in forma di app video nell’estate del 2011. In quello stesso periodo, Tim è pronto a promuovere la sua nuova creatura musicale. Già dal 2009, DeLaughter ha cominciato infatti a registrare tracce sul proprio computer, giusto per fissare qualche idea non destinata alla sarabanda degli Speekers. Appunti poi effettivamente tradotti in canzoni solo quando l’amico Phil Karnats gli propone quasi per scherzo di incidere qualcosa assieme nella sua casa di Chicago, invitandolo per una rimpatriata, e la cosa si fa più seria del previsto. Con il coinvolgimento di alcuni amici (la moglie di Tim – nonché corista – Julie Doyle, il chitarrista Dylan Silvers e un paio di batteristi) e il trasloco in un vero studio di registrazione, nasce il nuovo progetto Preteen Zenith. Rubble Guts And BB Eye, primo e (sin qui) unico Lp intestato al gruppo, vede la luce nel maggio del 2012 (edito, e non potrebbe essere altrimenti, dalla solita Good). Quella proposta dal neonato sestetto è una sorta di infezione psichedelica, un filtro sfarfallante o una lente deformante applicata su canzoncine che per il cantante sono poco più che ordinaria amministrazione ma che nel loro vestitino sporco e stropicciato (“Maker”, “Relief”) nemmeno dispiacciono. Si tratta del primo concreto tentativo di riesumare lo spirito, l’aura quasi magica, dei Tripping Daisy, reso forse vano dalla marginalità di fondo di questa operazione ma abbastanza onesto in sé.

220x270_26_01 Il singolo “Extraction”, poi escluso dalla scaletta, già anticipa l’inclinazione svagata e non troppo convinta con uno space-rock al cloroformio, acidognolo ma invertebrato, che di fatto caratterizza i passaggi più sbiellati del disco. Con “Overcome” e “Life” torna la fragile malia pop del DeLaughter più nostalgico, abile a incantare in qualche occasionale sortita decadente ma incapace di convincere fino in fondo della bontà dei suoi propositi espressivi. La grana è sovraesposta, bruciata da un sole che pure non sembra in grado si scaldare. Un frontman pallido e rinunciatario per scelta, anche nei frangenti più animati, offre i suoi esercizi easy-listening in una versione rallentata e flemmatica cui manca la contagiosa pirotecnia degli altri suoi gruppi. Le fascinazioni ci sono ma restano più che altro un blando diversivo e non saziano l’ascoltatore.
La carne al fuoco evocata da “Meat” è poca e sembra aver superato la data di scadenza: troppo compassato l’umore, anche un’eccessiva tetraggine fuori luogo qua e là, a inzavorrare canzoni altrimenti interessanti. Meglio la cantilena da sciroccati dell’opener e di una “Peddling” che, se non altro, suona ispirata e non fa una misura troppo magra al cospetto dei Beatles del “Magical Mystery Tour” o dell’album bianco. E molto meglio il tenore appena più in palla, ma fiduciosamente orientato allo psych-pop, dell’altro singolo “Damage Control”, ospite Erykah Badu, con la sua bassa fedeltà, le evocazioni lisergiche, i cristalli acustici e gli estemporanei sinfonismi à-la Spiritualized. Completa il quadro un’improvvisazione strumentale di Karnats e Wes Berggren da un Vhs risalente al 1997, proposta in coda anche come omaggio al vecchio compagno di avventura.

220x270_36_01L’autunno del 2012 segna il timido ritorno in pista dei Polyphonic Spree. Nella serata di Halloween, l’allegra brigata si esibisce per una data unica all’Hmv Forum di Londra in un concerto-tributo che omaggia, con la necessaria teatralità, i classici del “Rocky Horror Picture Show”. Dell’evento viene registrato un bootleg ufficiale poi pubblicato dalla solita Good Records in versione doppio cd. Nel mentre, una raccolta fondi lanciata sulla piattaforma Kickstarter centra l’obiettivo di centomila dollari in un mese scarso e consente alla truppa di registrare e pubblicare in tempo per le festività di fine anno la raccolta Holidaydream: Sounds Of The Holidays Vol. One, che è esattamente quel che il titolo lascia intendere.
Inutile girarci attorno: l’immaginario evocato dalle canzoni a tema natalizio sembra calzare davvero a pennello all’ensemble texano. Che del tutto a sorpresa, peraltro, mostra di voler giocare in sottrazione e si impone una dieta espressiva ferrea. Sin dall’avvio il clima è teporoso, tra cantate oltremodo rarefatte, quasi narcotiche, ma suggestive (“Winter Wonderland”) e marcette marziali che sconfinano volentieri nel fiabesco ma non sbracano mai in leziose caricature (“Carol Of The Drum”). L’intonazione è domestica e casereccia, tra fischiettii, scampanellii e un pianoforte coprotagonista, ma, a parte questo, non pare proprio di trovarsi di fronte dei classici di Natale (emblematica la rilettura elusiva e strumentale di “It’s The Most Wonderful Time Of The Year”), se si esclude qualche celeberrima eccezione (la diligente e calorosa cover di “Happy Xmas - War Is Over”).
Nell’intimità e nella tenerezza di un duetto con il figlio Felix (“White Christmas”) come nell’incontro denso di meraviglia e inquietudine con gli amici School Of Seven Bells in “Silver Bells”, Tim appare assai ispirato e, cosa più importante, si astiene dal gigioneggiare come si poteva facilmente immaginare, limitandosi piuttosto a fare da guida in un universo musicale parallelo che vive di regole tutte sue ma che suona anche molto più ombroso e meno smielato di quelle che erano le previsioni della vigilia.

I veri Polyphonic Spree li si incontra solo di rado, verso la fine, nella reprise di “Silver Bells” o in una “It’s Christmas” che potrebbe anche essere spacciata per una sdolcinata outtake di The Fragile Army. Il terreno era insomma di quelli scivolosi, ma il risultato, ancorché insolitamente trattenuto, riesce piuttosto brillante, non blandamente (auto)celebrativo e, in fin dei conti, nient’affatto scontato. Curiosamente la band crede e non poco in questa uscita, e per promuoverla realizza dei videoclip amatoriali di tutti i brani in scaletta, poi pubblicati tramite un profilo YouTube appositamente creato.
I tempi per un ritorno più in grande stile sono maturi, anche se l’opportunità di una rentrée in grande stile è di fatto bruciata dalle recenti uscite minori. Prodotto ancora una volta da Eric Drew Feldman oltreché dai coniugi DeLaughter, in uscita per la solita Good (in Nord America) e per la Cherry Red (in Europa), il nuovo Yes, It’s True si presenta nella calma piatta agostana del 2013 con una certa dose di effervescenza ma senza quel sussulto necessario a invertire un’inerzia non troppo favorevole.

220x270_34_01La partenza, al solito, è di quelle tonanti, rotonde, infarcite di flauti, trombe e corni per immancabili deflagrazioni al caramello. E nelle prime battute lo schema non pare subire variazioni degne di nota: prevalgono le melodie dolciastre, anabolizzate sul piano ritmico, con più di una reminescenza dalla vecchia compagine del cantante. Nonostante un’impronta quasi compassata, almeno per i suoi standard, il frontman è comunque l’indiscusso protagonista in scena, il solito gran maestro di cerimonie, mentre sullo sfondo si apprezza un clima ebbro ma disciplinato. La coralità a livello vocale appare ben più limitata che nelle precedenti puntate, segno che l’intento dei venti musicisti statunitensi era quello di realizzare un’opera più suonata e meno recitata rispetto al passato.
La forza propulsiva e l’effetto-sorpresa nei Polyphonic Spree sono da tempo esauriti, e questo nuovo lavoro rimane la testimonianza, più che altro, di un simulacro ancora bello e variopinto ma indubbiamente logorato nella stanca riproposizione di tanti dei suoi cliché. Accantonate le formule gospel furbette dei primi album, si punta a ovviare all’assenza di una altrettanto valida impalcatura formale con l’entusiasmo del collettivo, con l’effetto stordente dei suoi rutilanti colori e del suo dinamismo. Non male, in tal senso, un episodio lussureggiante come “Popular By Design”, arricchito da una sorta di posticcio tribalismo, tra echi esotici e gioiosi refrain, in cui il nutrito plotone di Dallas finisce tuttavia per somigliare un po’ troppo ai suoi ultimi emuli in ordine di tempo, i neozelandesi BARB, ma nella beffarda prospettiva di chi sia costretto a inseguire dopo aver a lungo fatto da battistrada. Gradevole, preciso, avvolgente, ma non esplosivo come era lecito attendersi: il disco vanta discreti spunti oltre a un DeLaughter in bello spolvero, per quanto l’amarezza di fondo e la ricerca di un’interpretazione più adulta sembrino bisticciare con la consueta bulimia favolistica a livello di produzione e arrangiamenti. Evita una simile penalizzazione la gigionesca “Heart Talk”, passaggio più anomalo, imprevedibile e sincero del lotto, il meno ingessato, con i suoi ottoni a elevato tasso etilico, il pianoforte sbalestrato e una performance particolarmente elettrica del capobanda, alla maniera del Robert Smith di fine anni ’80.

220x270_29_02In “Carefully Try”, Tim prova a lasciare ancora una volta il segno grazie al proprio cantato pieno di malinconica meraviglia. Per quanto sostenuto a dovere da un gruppo finalmente votato al ruolo di cornice e accompagnamento, permane tuttavia anche qui un’impressione di eccessiva zavorra, di ampollosità ubriacante. Altrove (“What Would You Do?”) tornano in mente i Tripping Daisy euforici del capolavoro Jesus Hits Like The Atom Bomb, ma con le belle chitarre cromate di allora affogate in una festosa quanto sterile guazza di tastiere e percussioni. Il ritorno all’enfasi soul comunitaria si fa sfacciato tra le pieghe di “Blurry Up The Lines”, senza stravizi iperglicemici e anzi con un retrogusto obliquamente psichedelico: non certo un passaggio da strapparsi le vesti, però, giusto un compitino approntato per compiacere i fan più accaniti. Sempre meglio della pasticciata “Let Them Be”, col suo incedere grossolano e macchiettistico che non decolla mai davvero, o dell’impalpabile ritornello cui si riduce “Raise Your Head”, il cui corredo di stramberie effetistiche resta tra le poche ragioni di interesse in una seconda facciata segnata da un evidente ripiegamento creativo.
Yes, It’s True ricicla, insomma, alcuni validi espedienti dal passato di DeLaughter e si fa forza nel lodevole proposito di superare la cifra “operistica” cui i Polyphonic Spree ci avevano abituato. Purtroppo, però, come già l’esordio dell’altra creatura di Tim un anno prima, l’album finisce per naufragare con le sue buone premesse, confuso sul dove andare a parare e su come dare concretezza alle tante idee in serbo (solo alcune delle quali realmente valide). Un po’ come far ballare un pachiderma agghindato con lustrini e paillettes, l’effetto tende forse troppo al grottesco. L’esatto contrario che nella conclusiva “Battlefield” dove, alla disperata ricerca di leggerezza, il capobanda incanta con la sua inconfondibile voce acidula, servita dal pianoforte e da poco altro. Come un crooner languido, notturno, il vecchio Tim fa centro proprio quando non intende stupire a tutti i costi.

220x270_24_01Come rivela quest’ultima paginetta (o l’inutile album di remix che esce per Kirtland un anno più tardi, Psychphonic), una radicale dieta espressiva avrebbe fatto decisamente al caso suo e dei suoi numerosi compagni di viaggio. Ventuno membri attualmente, un’ottantina abbondante, se la conta si estende a tutti coloro che in poco più di tre lustri si sono avvicendati anche solo per brevi periodi nelle fila dello smisurato ensemble, con l’Okkervil River Michael St.Clair, Jason Garner dei Paper Chase e Rick Nelson (Twilight Singers, Afghan Whigs) – oltre ovviamente a Annie Clark – tra i meno ignoti.
Questi sono i Polyphonic Spree, la cui ultima apparizione importante resta il concerto di capodanno del 2015 al Victory Park, nella loro Dallas – dei poncho invernali come divisa – davanti a quarantamila persone. Per un furbo collettivo che fa pop corale e sinfonico, forse l’ideale limone è già stato spremuto anche più del necessario, ma dal vulcanico Tim DeLaughter pare sempre lecito aspettarsi qualche colpo di teatro per cui mai dire mai. Non per nulla è notizia recente, l’inizio del 2017, che il Nostro abbia deciso di scongelare dopo diciotto anni i Tripping Daisy o, meglio, quel che ne rimane, al netto delle dipartite di Wes Berggren e Ben Curtis: alla conta risultano pur sempre il basso di Mark Pirro, la batteria di Bryan Wakeland e la chitarra di Phil Karnats, oltre a quella vocina stridula che quasi parodiava Ozzy Osbourne.
Un film già visto ma, chissà, potrebbe anche funzionare…

Tripping Daisy - Polyphonic Spree

Discografia

TRIPPING DAISY
Bill(Dragon Street, 1992)6,5
Get It On Ep(Island, 1994)6
I Am An Elastic Firecracker(Island, 1995)7
Time Capsule Ep(Island, 1997)7
Jesus Hits Like The Atom Bomb(Island, 1998)8
The Tops Off Our Heads Ep(Good Records, 1999)6,5
Tripping Daisy(Sugar Fix, 2000)6,5
THE POLYPHONIC SPREE
The Beginning Stages Of...(Good Records, 2002)6,5
Together We're Heavy(Good Records, 2004)6,5
Thumbsucker O.S.T.(Hollywood, 2005)5,5
Wait Ep(Good Records, 2006)7
The Fragile Army(TVT, 2007)7
Holidaydream(Kirtland, 2012)6,5
Songs From The Rocky Horror Picture Show(Concert Live, 2012)6
Yes, It's True(Good Records, 2013)6
PRETEEN ZENITH
Rubble Guts and BB Eye(Good Records, 2012)6
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Lost And Found
(video, da Bill, 1992)

My Umbrella
(video, da Bill, 1992)

Blown Away
(video, da Bill, 1992)

On The Ground
(live, da Bill, 1992)

Friends/Sigmund And The Seamonsters
(video, da Saturday Morning..., 1995)

I Got A Girl
(videoda I Am An Electric Firecracker, 1995)

Piranha
(videoda I Am An Electric Firecracker, 1995)

Prick
(videoda I Am An Electric Firecracker, 1995)

Rise
(videoda Basquiat O.S.T., 1996)

Sonic Bloom
(videoda Jesus Hits Like..., 1998)

The Kids Are Calling
(videoda Tripping Daisy, 2000)

Soldier Girl
(videoda The Beginning Stages Of…, 2002)

Light And Day
(videoda The Beginning Stages Of…, 2002)

Light And Day
(videoda Scrubs O.S.T., 2003)

Hold Me Now
(videoda Together We’re Heavy, 2004)

Slip Away (feat. David Bowie)
(liveda Heaten, 2002)

Scream & Shout
(videoda Thumbsucker O.S.T., 2005)

Lithium
(videoda Wait Ep, 2006)

We Crawl
(videoda The Fragile Army, 2007)

Running Away
(videoda The Fragile Army, 2007)

Running Away
(videoda The Fragile Army, 2007)

Silver Bells (feat. School Of Seven Bells)
(videoda Holidaydream, 2012)

Happy Xmas (War Is Over)
(videoda Holidaydream, 2012)

Chestnuts Roasting On An Open Fire
(videoda Holidaydream, 2012)

Breathe
(videoda Rubble Guts And BB Eye, 2012)

Popular By Design
(videoda Yes, It’s True, 2013)

Hold Yourself Up
(videoda Yes, It’s True, 2013)

You Don’t Know Me
(videoda Yes, It’s True, 2013)

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