TOY

TOY

Rock skips a beat

La nuova sensazione dell'indie-rock britannico, rivelatasi nel suo omonimo album d'esordio. Decenni di kraut-rock, shoegaze e post-punk rivisitati e aggiornati con un sound modernissimo

di Vassilios Karagiannis

Certe cose dovrebbero essere chiamate col loro nome, e far sì che solo in un secondo momento saltino fuori attinenze e somiglianze, di qualsiasi carattere esse siano. Il problema è trovarlo questo nome, talvolta: non ce ne vogliano i TOY, la nuova next big thing britannica dalle grandi, grandissime speranze, ma ci hanno messo in un bel pasticcio. E ciò, perché a un primo ascolto (ma anche a un secondo), risulta difficile inquadrare a pieno quale sia lo spessore della proposta musicale offerta da lorsignori. Certo, limitandosi ad un'indagine superficiale, appare chiaro, se non chiarissimo, da dove i cinque di Londra abbiano ripreso le proprie coordinate sonore: kraut-rock, post-punk, shoegaze sono definizioni che salterebbero in mente a chiunque, basta porgere orecchio anche di sfuggita al ricchissimo amalgama costruito dalla band. E' che con questi termini non si fa altro che lambire i margini di quella che è l'idea alla base del suono-TOY.

Un po' com'è successo con gli Horrors e gli S.C.U.M (soprattutto coi primi, per i quali il quintetto ha aperto un buon numero di concerti) in un passato non troppo remoto, il livello di sintesi e rielaborazione trascende la somma delle parti e destabilizza ogni punto di riferimento, alla volta di una nicchia da occupare che appartenga esclusivamente a loro. I beniamini di Faris Badwan e Rhys Webb non si limitano però a ricalcare i solchi tracciati da questi ultimi, ma guardano ben oltre, con gli occhi ben puntati all'orizzonte, e un pugno di idee che potrebbe far strada. La loro formula affina le intuizioni proprie dei colleghi e le scaraventa nell'iperuranio, facendosi più sottile, più acuta, possibilmente più sfaccettata che mai. No, non si tratta semplicemente dei Ride che incrociano il sound unico dei Neu!; la questione è decisamente più complessa e articolata, e l'intelligenza con cui i Nostri sfidano classici di simile statura viene premiata da una ricetta non soltanto personale, quanto foriera di scenari ancora non del tutto esplorati.

Con una voce efebica, dai tratti delicatissimi, il frontman e chitarrista Tom Dougall guida i suoi compagni di avventura alla costruzione di dodici brani che si stenta a non definire inappuntabili, sotto ogni aspetto. Frutto della perizia tecnica della compagine (da segnalare gli spigliati interventi della tastierista Alejandra Diez, nonché il precisissimo lavoro alla batteria di Charlie Salvidge, vero e proprio metronomo), ma non soltanto, l'omonimo disco d'esordio riesce a ridefinire l'immaginario che si avverte da anni a questa parte in terra d'Albione (quello di gruppi come White Lies, O. Children, e compagnia bella, tanto per intendersi), e a renderlo non soltanto più epico, ma al contempo più dolce e brillante. Si prenda ad esempio "Motoring", primo singolo estratto, ed eloquente caso di nomen omen. Al di là però dell'innesto su una matrice che più 70's di così si muore, è sorprendente l'uso che di essa ne viene fatto, essendo trasposta in un'intelaiatura che pesca tanto dalla lunga tradizione indie-rock inglese quanto dal tenue romanticismo di certo dream-pop.
Chiariamolo sin da subito, il disco non ha niente a che spartire con la corrente estetica dreamy oramai diventata di dominio pubblico, ne usa però gli stilemi per riadattarli ed inserirli in contesti diversissimi dall'origine. I muri di suono di "Lose My Way" vengono mitigati dalla dolcezza infinita della linea melodica, che s'insinua lieve nelle incalzanti stratificazioni ordite dalle chitarre e dalla tastiera. Così, la stupenda parte strumentale con cui si apre "Colours Running Out", poderosa cavalcata sonica (cui fanno da contraltare i sette minuti in chiusura a "Kopter", coda lisergica capace di mischiare shoegaze, psichedelia e finanche del drone in un corpus organico e fluidissimo, roba da procurare invidia agli Stereolab di "Jenny Ondioline") lascia adito ad un tema lirico appassionato, ma morbido come seta.

S'impegnano a sviluppare con la stessa caparbietà canzoni fatte e finite, e lunghissimi (quanto ramificati) viaggi sonori, senza mai prediligere una strada rispetto a quell'altra: in un caso o nell'altro, non abbassano mai la guardia, mantenendo sempre altissimo lo standard qualitativo. E pur mancando il loro vero cavallo di battaglia, quell'entusiasmante "Left Myself Behind" che li ha lanciati l'anno scorso, non sono di certo rimasti a corto di cartucce. La languida malinconia di "Heart Skips A Beat", munita di un ampio apparato simil-orchestrale, riesce in questo modo a convivere in assoluta armonia con il drumming energico della più cupa "Dead & Gone". Quando poi un breve interludio strumentale come "Omni" riesce a trovare la sua giusta collocazione nell'economia dell'album, sconfinando coi suoi sinistri accenti nel lento ribollire di "Walk Up To Me", smetti di opporre anche quel minimo di resistenza che poteva essere rimasta.

Senza perdere tempo, i TOY, a seguito di una lunga tournée in giro per il mondo (talvolta ad apertura di act di grosso calibro), pubblicano ad un solo anno di distanza Join The Dots, anticipato da un singolo omonimo che ha letteralmente messo l'acquolina in bocca.
Unire i punti, insomma. E noi li uniamo questi punti, curiosi di conoscere quale immagine ne verrà fuori. Quanto ne risulta mostra una formazione che, al netto di ogni altro impegno, ha trovato il tempo e l'ispirazione necessari a ribadire le qualità di un simile debutto: nell'ora abbondante di durata del disco, ciò che ha reso grande la musica del quintetto si ripresenta con slancio e intensità rinnovati, quando non rafforzati dall'esperienza accumulata. Una conferma che vale più di mille sorprese.
Chiunque abbia amato il peculiare sound della band, quella (per dirla in soldoni) ribollente combinazione di umori shoegaze, ritmiche kraute e attitudine melodica fieramente brit, non faticherà a ritrovarne gli elementi pure in questo nuovo lavoro. Il piglio scazzato della voce di Tom Dougall, il drumming al metronomo di Charlie Salvidge, i muri di chitarra di Dominic O'Dair, il basso ardente di Maxim Barron, la tastiera fantasiosa di Alejandra Diez: non manca davvero nulla alla collaudata formula espressiva del quintetto, già alla prima forte di una maturità invidiabile.
Piuttosto che il cosa, è semmai il come qui a essere di rilievo: con il mood volto a una più marcata rilassatezza generale, e un'inclinazione pop a trapelare con maggiore decisione, sono decisamente minori le concessioni a poderose fughe in salsa motorik. Poco male comunque, anche a costo di non ricevere i sussulti di una “Kopter”, ci pensano brani di analogo spessore a rinfrescare il culto: già l'avvio, consegnato nelle mani della lunga “Conductor”, parla di un gruppo ancora capace di stupire, pur nell'ambito di territori già battuti. Così la batteria si innesta in un tracciato spacey dalla forte impronta Hawkwind, nuovo capitolo nella saga più epica del quintetto; di rimando, i dieci minuti scarsi della conclusiva “Fall Out Of Love” portano le ambizioni della band a sfociare con successo nei lidi della psichedelia (con il contributo della Diez, sempre più consapevole dei propri mezzi, a diventare ancora più decisivo, nell'economia del disco intero), senza nulla togliere alle sfumature e alle caratteristiche proprie della band.
Tralasciando i tre brani più lunghi del disco (la title track, sorretta dal tiro di basso di Barron, a completare il terzetto), queste stesse caratteristiche, vengono esaltate specialmente nei brani più brevi e diretti del lotto, maggiormente propensi ad una sontuosa dimensione pop. Già s'era fatto accenno al concetto in precedenza, ma occorre dire che a questo giro di melodie a presa rapida ve n'è in buona quantità. Dalla chitarra jangly a tutto spiano di “You Won't Be The Same”, alla “sontuosità” espressiva di una “As We Turn”, approdando infine a quella “Endlessly”, che con quel refrain varrebbe da sola l'intero prezzo del biglietto, i TOY piazzano una sequenza di canzoni a cui non manca davvero niente per diventare le nuove “My Heart Skips A Beat” e “Motoring”.
Senza grandi proclami, senza enormi e inutili stravolgimenti, i cinque si riconfermano band protagonista dell'attuale scena indipendente britannica. Con buona pace dei tanti detrattori e di chi continua a ritenerli cloni degli Horrors...

L’uscita dalla band di Alejandra Diez però ha senz’altro sbiadito la formula in Clear Shot (2016): la novità cocente che aveva impressionato una buona parte di critica ha lasciato spazio a una fetta di stereotipi che non aggiungono molto alla carriera dei TOY, sia perché buona parte delle nuove canzoni ritrae elementi consoni a tante altre formazioni contemporanee, sia perché la costruzione armonica risente un po’ del passare degli anni. 
In fondo ci sono anche episodi discreti, ma un po’ passatisti: la feltiana “I’m Still Believing” è un po’ il simbolo del nuovo lavoro. La melodia ricorda oltremodo l’avventura jangle-pop di Lawrence Hayward, benché fluisca come un buon singolo.
“Fast Silver” è una delle poche ventate fresche del disco, la sua atmosfera noir viene ammorbidita dall’arioso ritornello. Anche in questo caso notiamo il cambio di passo radicale della band, che non disegna più la propria dimensione in burrascose messe sintetiche, ma in un approccio più meditativo, forse influenzato dal recente progetto in collaborazione con Bat For Lashes. “Another Dimension” si pone a metà strada tra le passate “Endlessly” e “My Heart Skips a Beat”, non riuscendo però a sintetizzare la formula giusta. “Clouds That Cover The Sun” ricorda ambientazioni alla Tim Burton, “Jungle Games” incatena linee di basso e chitarre al canto stralunato di Tom Dougall, la tastiera di Max Oscarnold simula invece una specie di organo spaziale. E proprio quest’ultimo era uno degli elementi più impressionanti della band, che invece ha ridimensionato proprio l’impianto. A chiudere il disco ci pensa “Cinema”, un decadente affresco a metà tra un sentimento western e un climax post-pocalittico, desertico, una sorta di “I Only Think of You” degli Horrors, ma tormentata da motivi sintetici che muovono l’intera carcassa.
Ma chi ricorda i suoni di “Colors Running Out”, il motorik esplosivo di “Kopter”, o i ritmi sincopati di Join The Dots rimarrà probabilmente deluso.

Approfondendo ulteriormente il discorso intrapreso con Clear Shot, con l'aprirsi del 2019 i TOY si ripresentano sulle scene con Happy In The Hollow, quarto album che indugia con maggiore sicurezza in un sound dai netti contorni psichedelici, impreziosito da venature folk e opportune elaborazioni di elementi del loro splendido passato: una ricalibrazione che parla chiaro sulle volontà del gruppo e sulla loro ampiezza di riferimenti, su una sfida con se stessi portata a termine con assoluto successo. Se è vero che il chiacchiericcio attorno al loro nome si è letteralmente prosciugato, ciò non toglie che la firma TOY è ancora capace di incuriosire e appassionare, di essere ancora un nome spendibile in una scena rock made in Britain giunta pressoché al collasso.

Se il parco stilistico fornisce già più che degne motivazioni per l'ascolto, non sono da meno scrittura e interpretazioni, tasselli imprescindibili nella costruzione del disco. Non che Dougall si esponga con la voce più di quanto abbia fatto in passato, lo scazzo catatonico del suo timbro rimane un marchio di fabbrica del gruppo; eppure, sarà anche per opportune scelte di mixing e per un assetto compositivo che meglio la valorizza, diventa un tassello centrale nel puzzle che è il nuovo album, uno snodo essenziale nell'espressività complessiva. Addirittura colta in un raro frangente di romanticismo (la melodia impeccabile di “You Make Me Forget Myself”), sostanziale nella sua impercettibilità (l'onirismo offuscato di “Jolt Awake”), trova un contesto nel quale esaltarsi, con cui aggiungere qualche ulteriore sfumatura al proprio carniere.
È un supporto funzionale ad una penna flessuosa, ancora capace di ottimi giri pop (l'atto conclusivo “Move Through The Dark”), ma soprattutto perfetta complice per interessanti deviazioni autoriali, attraverso cui esaltare la grande ampiezza sonora del disco. Con “Last Warmth Of The Day” a innervare trame gotiche e chitarrismi folk con opportuni cambi di tonalità e interessanti strategie compositive (il ritornello che spunta all'improvviso, quasi si trattasse di una strofa ulteriore) la band aggiunge un nuovo tassello al suo migliore canzoniere, in una straordinaria dimostrazione di classe.
Primo album sotto l'egida della Tough Love, e primo lavoro interamente prodotto dalla stessa band, Happy In The Hollow schiude ai TOY le porte di una fascinosa e conturbante maturità, prospettando loro un futuro di livello. Anche a non ripetere i fasti degli inizi, la loro consistenza saprà ripagarli adeguatamente.

Il 2019 si chiude con la pubblicazione di Songs Of Consumption, un album di cover che integra tre tracce bonus già incluse nel disco precedente. Nella veste di meri esecutori, i TOY puntano su arrangiamenti che restano quasi sempre allo stato minimale, ricorrendo massicciamente a beat electro e drum machine, andandosi a posizionare in quella terra di confine fra kraut, psichedelia e post-punk che da sempre ha caratterizzato le loro produzioni. I TOY travasano tutta la propria estetica in queste otto tracce, reggendosi però fondamentalmente sulla narcotizzazione di “Down On The Street” degli Stooges (traccia che apriva il leggendario “Funhouse”, 1970) e sulla rielaborazione di “Fun City” dei Soft Cell (originariamente apparsa su “Non-Stop Erotic Cabaret”, 1981). Per il resto c’è il divertissement di revisionare la Amanda Lear di “Follow Me” e di mandare in un loop infinito l’algida Nico di “Sixty Forty”. Le chitarre danno forza a “Lemon Incest”, dal repertorio di Serge e Charlotte Gainsbourg, mentre poco o niente altro aggiungono l’inutile rilettura di “Always On My Mind”, che si rifà alla versione edita anni fa già dai Pet Shop Boys, e il cosmico omaggio ai Troggs di “Cousin Jane”. Chiude il lavoro la strumentale “A Doll’s House”, colonna sonora scritta da John Barry nel 1973. In Songs Of Consumption non c’è lo sforzo compositivo e, pur emergendo la non comune capacità di rivestire del proprio suono le canzoni altrui, dubito possa essere questo il disco dei TOY che ci ritroveremo ad ascoltare fra qualche anno ripensando ai loro tempi migliori…

Contributi di Matteo Trapasso ("Clear Shot"), Claudio Lancia ("Songs Of Consumption")

TOY

Discografia

TOY(Heavenly/COOP Music, 2012)

8

Join The Dots (Heavenly/COOP Music, 2013)

7,5

Clear Shot (Heavenly, 2016)

6,5

Happy In The Hollow (Tough Love, 2019)

7

Songs Of Consumption (Tough Love, 2019)

6

Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Left Myself Behind
(singolo, 2011)

Motoring
(da "TOY", 2012)

Lose My Way
(da "TOY", 2012)

Join The Dots
(da "Join The Dots", 2013)

I'm Still Believing
(da "Clear Shot, 2016)

Another Dimension
(da "Clear Shot", 2016)

Sequence One
(da "Happy In The Hollow", 2018)

You Make Me Forget Myself
(da "Happy In The Hollow", 2018)

Mechanism
(da "Happy In The Hollow", 2019)

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