Jessica Bailiff

Jessica Bailiff

Nuovo folk in dissolvenza

Dopo gli esordi al fianco dei Low, la statunitense Jessica Bailiff ha perfezionato il suo stile, etereo e spettrale, in bilico tra folk e avanguardia. Una formula che l'ha consacrata antesignana del drone-folk al femminile

di Claudio Fabretti

Aggraziata damigella di Toledo (Ohio), Jessica Bailiff è una chanteuse fuori dal tempo, che ammalia con le sue impalpabili carezze acustiche, figlie d’un improbabile incrocio tra Nick Drake e la slo-core generation (Alan Sparhawk dei Low è anche il suo padrino artistico). Musica di chiaroscuri e dissolvenze, dunque, in cui baluginano gli spettri di un animo romanticamente inquieto.

Il repertorio sfoggiato nell'album di debutto Even in Silence (1998) è un ibrido tra il dream-pop più etereo e il folk cantautorale più intimista. La presenza di Sparhawk si manifesta soprattutto nel contributo alle voci e alla chitarra, che impreziosisce il timbro tipicamente acustico dell'opera. Bailiff sussurra ninnananne impalpabili, con esili cartilagini melodiche ("Overcast") e dolci arpeggi di chitarra ("For You"), ma anche con una tensione drammatica degna di Neil Young ("Failing Yesterday"). Gli echi psichedelici di "One Red Year", filtrati da sinistri rintocchi d'organo, si mescolano alle atmosfere "disturbate" di "The Sordid Light Of Morning", mentre "Sunshower" e la lunga "Beautiful Soul" chiudono il disco nel segno del folk più esangue e rarefatto.

"Alan è l'80 per cento dei motivi per cui sto facendo musica tuttora - spiegherà in seguito la Bailiff -. Ho avuto la fortuna che qualcuno che stimavo davvero come musicista si interessasse al mio lavoro. E così ho vinto la riluttanza a condividere con gli altri la mia musica, che è sempre stata molto personale e intima". Ed è ancora Sparhawk l'eminenza grigia del successivo Hour Of The Trace (1999), segnato da atmosfere ancor più sepolcrali, che avanzano nel buio tra sussurri, pulsazioni d'organo e apocalittiche progressioni chitarristiche. Le litanie di Bailiff sono ora realmente sinistre, affollate di visioni notturne, vuoti spettrali e cadenze funeree. La "minimalista" "Crush" (con echi di Laurie Anderson) introduce alla nenia sussurrata di "Toska", che lascia spazio ad atmosfere sempre più "collassate", in cui l'ascoltatore sembra perdersi come in un gioco di specchi. La filastrocca di "After Hours", appena sporcata da qualche dissonanza di chitarra, e la visione onirica di "Amnesia", dalle tinte nere e desolate, fanno affievolire ulteriormente il ritmo. E quando la musica sembra quasi spegnersi, arriva la cadenza solenne d'organo di "Warren", subito seguita da "Across The Miles", nel segno della Nico più tenera. La lunga partitura per tastiere e chitarra di "Perception" mette in luce tutte le ambizioni della Bailiff compositrice, capace di muoversi dalle radici folk-rock verso temi d'avanguardia quasi classicheggianti.

La cantautrice di Toledo conquista a poco a poco un suo spazio nella nuova scena indie al femminile d'oltre Oceano (Edith Frost, Tara Jane O'Neil, Shannon Wright, Nina Nastasia) e partecipa anche al progetto Ghostcar The Radio Entro For Bionic Ears. La sua maturazione viene portata a compimento nel 2002 con l'omonimo Jessica Bailiff (2002), nato da sei mesi di registrazioni casalinghe e da un lavoro certosino su suoni e testi, in compagnia di Jesse Edwards e Noel Keesee. Il risultato è un disco struggente, nel solco di un cantautorato intimista, epico e romantico. La strumentazione si arricchisce: oltre a chitarra e batteria, spuntano l'Optigan (sorta di violoncello), una vecchia drum machine, un mini Korg degli anni 70, un organo Hammond, uno "speaker cabinet" e ogni varietà di microfoni. Più limpido e tenebroso al contempo, l'album accentua la componente acustica e le ambizioni più sperimentali di Jessica Bailiff, che lo descrive così: "E' un disco che ha a che fare con la paura, il sogno, la perdita della creatività, dell'energia, del desiderio, dell'amore e del tempo, con la solitudine e la distanza, con i fantasmi e con le esperienze vicine alla morte che a volte ci capita di vivere". Testi tumultuosi, dunque, che vengono però quasi stemperati nel suo canto, soffice e romantico, e nella sobrietà della musica: "Spero che, alla fine, testi e strumentazione riescano ad amalgamarsi bene - racconta - Penso che siano una cosa sola. In genere, scrivo tutto in una volta, quindi tendo ad 'affinare' il risultato per gradi".

Come ha scritto Chris Nosal sul "Philadelphia City Paper", Bailiff "sa fondere il meglio del rock, folk e pure esplorazioni sonore in un profondo e possente respiro". Lo dimostrano brani come l'iniziale "Swallowed", sospeso tra delicati tintinnii e arpeggi di chitarra, o come "Disappear", immerso nei riverberi di chitarra con la voce cristallina di Jessica a sussurrare dolcemente. "The Hiding Place" sfoggia un magico sitar, con sospiri in lontananza e chitarre gentilmente carezzate. "Time is an Echo" riporta al folk delicato di Nina Nastasia ma anche alle atmosfere più eteree dei Sigur Rós, con il suo contorno di piano, basso e cimbali a indurre un senso di trance. I bisbigli di "You Were So Close" riescono davvero a togliere il fiato, creando un contatto profondo, quasi intimo, con l'ascoltatore. "Mary" è un salmo celestiale di rara delicatezza. "Disappear" riporta alla mente le litanie perse nel fuoco dai Low ma anche reminiscenze degli shoegazing e dei Velvet Underground di "Venus In Furs". Sono canzoni narcotiche, ballate "dark" tese e asciutte, con punte di liricità quasi mistica al subentrare del violino ("Hour Of The Traces", "Big Hill") o del piano ("The Thief"), ma soprattutto silenziosamente sofferte, dalla prima all'ultima. Un disco malinconico e invernale, per sognare, ma soprattutto meditare.

Bailiff ha anche realizzato insieme a Jesse Edwards il progetto "Northern Song Dynasty" e una canzone per il disco-tributo pubblicato dall'etichetta Elsie in memoria di uno dei suoi maestri: Nick Drake.

Feels Like Home, uscito nel 2006, funge da perfetta sintesi della parabola artistica di Bailiff. Solita impalcatura consolidata: vocalizzi diafani, supportati da droni e ricami di chitarra acustica, ai quali si sovrappongono di tanto in tanto synth, piano, archi e percussioni. L’approccio folk, però, ha preso il sopravvento, riducendo al minimo orpelli ed effetti digitali dei precedenti lavori (anche quelli a nome Clear Horizon, in compagnia di David Pearce dei Flying Saucer Attack). Bailiff ha inoltre acquistato una notevole sicurezza come cantante, al punto che la sua voce è divenuta ormai elemento centrale dei brani: sa cavalcare i tumulti della passione ("Evidence") ma anche assottigliarsi, fino a ridursi a puro bisbiglio angelico ("What's Inside Your Mind?"), pur senza raggiungere l'afflato celestiale di una Enya o di una Elizabeth Fraser.
Sono i rintocchi di un piano polveroso a introdurre la prima "visione", quella "What's Inside Your Mind?" che induce subito un effetto di trasognamento e oblio, con i suoi cori stranianti e i ghirigori febbrili della chitarra. La successiva ninnananna di "We Were Once", poggiata su un tappeto di arpeggi, mostra i due volti di Bailiff: quello lineare, nel ritornello quasi "pop", e quello eccentrico, negli arrangiamenti e nell’inaspettata coda strumentale.
Il senso di magia arcaica à-la Vashti Bunyan che aleggia in tutto il disco pervade episodi di felice melodismo, come "Lakeside Blues", una stupenda litania medievale, impregnata tuttavia di aromi hippie-folk, nei suoni e nei versi ("Body of water/ You and me/ We sing/ We swim"); e ancora "Pressing", salmodia dal respiro solenne cadenzata sulle corde della chitarra, la radiosa "Brother La", tutta giocata sugli incastri vocali, e "Spiral Dream", piece onirica cantilenata in puro stile dream-pop, su nuvole d’effetti ambientali, field recording (tra cui un recitato in russo) e grappoli di voci. In madrigali scheletrici come "Persuasion" o "With You", il sound si fa a tratti così esangue da rasentare la stasi. Lo strumentale di "Cinq", invece, si ricollega alla rarefazioni elettroniche degli esordi, lasciando galleggiare una bella sonata di piano su un vortice di droni e distorsioni; ma è "If We Could" a spingersi ulteriormente in territori post-shoegazer , innalzando un muro di distorsioni e rumori da capogiro.
Mezz’ora di songwriting limpido e inafferrabile, rinchiuso in un bozzolo d'imperscrutabile femminilità. A differenza di tante sue colleghe, Jessica Bailiff non è mossa da frenesie narrative, non ha fretta di dire tutto e subito. Il suo è un mondo in penombra, da scoprire nel tempo, con pazienza e dedizione. Ma forse è proprio questo il segreto del suo fascino.

Il quasi assoluto silenzio seguito a Feels Like Home - se si eccettua l'Ep diviso con Annelies Monseré e la collaborazione a "Dark Enough For Stars" degli Au Revoir Borealis - è interrotto da un breve Ep licenziato in sole cento copie per la serie di uscite mensili del 2008 della Distant Noise Records.
Nel volgere degli appena tredici minuti e dei cinque brani di Since Always viene offerta ampia quanto concisa rassegna dello spettro musicale di pertinenza della Bailiff, attraverso torsioni lo-fi di psichedelia casalinga degna dei Charalambides, istantanee ambientali e aggraziate derive acustiche. Tratto comune ai cinque brani è senza dubbio la lenta stratificazione dei suoni, il loro incedere incrementale, avviluppato in sinistre iterazioni elettriche oppure solo parzialmente esplicitato in accenni acustici dal vago sapore folk e in ipotesi di canzoni non del tutto sviluppate ma già dense di fascino etereo (in particolare l'affascinante "Dear One").
Pur avendo tutti i crismi dell’opera minore, Since Always rappresenta un’ulteriore testimonianza della classe e versatilità di un’artista perfettamente a proprio agio nell’applicare la sua ovattata psichedelia tanto a sperimentalismi in bassa fedeltà quanto a più articolati frammenti melodici.

Per il ritorno sulla lunga distanza bisogna attendere il 2012, quando Jessica Bailiff si concentra nel suo studio casalingo per dar forma alle idee maturate nel corso del tour europeo accanto al compagno Mat Sweet. Come di consueto, l’approccio di At The Down-Turned Jagged Rim Of The Sky è disadorno e diretto, ancorché dalla ricchezza e varietà del suono – da ultimo curato in sede di missaggio da Odd Nosdam – si desume che le sue nove tracce siano il frutto di una produzione estremamente attenta e rigorosa, questa volta tuttavia funzionale a conferire corporeità a spesse atmosfere elettriche.
Elemento saliente del lavoro appare senz’altro da subito l’immediatezza di brani quali “Take Me To The Sun”, i cui pesanti riverberi e l’insistenza della drum machine rinviano addirittura ai Jesus & Mary Chain, e il fulminante binomio finale “Slowly”-“Firefly”, nel quale una briosa circolarità analogica stereolabiana succede quasi senza soluzione di continuità a un’incalzante serie di ipnotici rilanci chitarristici. Tracce delle fascinazioni folk sono ancora rinvenibili nelle nove tracce del lavoro, immerse nelle torsioni elettriche in progressivo ispessimento dell’iniziale “Your Ghost Is Not Enough” o tradotte nell’immateriale incipit pianistico di “Goodnight”.

La parte centrale del disco si dimostra, invece, più riflessiva e avvolgente, rivelando una certa contaminazione con le inquietudini di Mat Sweet, sotto forma di atmosfere spettrali e acuminati spigoli elettrici.  Se il primo impatto di At The Down-Turned Jagged Rim Of The Sky colpisce per le cascate di feebdack e il pronunciato impianto melodico, è la ricchezza del contenuto sonoro espresso in una molteplicità di sfaccettature a indurre a salutare il ritorno di Jessica Bailiff come una prova di una classe e un’intensità espressiva, che il tempo non ha disperso ma distillato in una variopinta galleria di canzoni compiute.

Contributi di Raffaello Russo ("Since Always" e "At The Down-Turned Jagged Rim Of The Sky")

Jessica Bailiff

Discografia

Even In Silence (Kranky, 1998)

6

Hour Of The Trace (Kranky, 1999)

6,5

Jessica Bailiff(Kranky, 2002)

7,5

Feels Like Home (Kranky, 2006)

6,5

Old Things(antologia, Morc, 2007)
Since Always(Ep, Distant Noise, 2008)

6,5

At The Down-Turned Jagged Rim Of The Sky(Kranky, 2012)7
Pietra miliare
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