John Mayer

John Mayer

In lotta contro la gravità

Poco conosciuto in Italia, una star dall’altra parte dell’oceano. Con una musica in continua metamorfosi, John Mayer si è costruito un pubblico vastissimo. Dotato di un’ottima tecnica, il chitarrista di Bridgeport è riuscito a fondere il blues – la sua vera anima - al pop, al rock, al soul e all’R&B, fino alle ultime derive country nelle remote terre del Montana

di Federico Piccioni

A Bridgeport, in Connecticut, in un luogo così vicino a New York eppure per certi aspetti così distante, nasce John Mayer, nell’anno 1977. La sua carriera è un incoercibile sfogo blues a tinte multiformi e se si vuol trovare un periodo in cui questo impeto sia stato maggiormente celato, probabilmente, quel momento va ricercato nella prima parte del suo viaggio musicale, un itinerario che è partito da Fairfield – cittadina vicina a quella natia – ed è giunto sino agli scenari selvaggi del lontano Montana.
Figlio di due insegnanti e della medio-alta borghesia statunitense, John è il cuore della famiglia; non per preferenze o per motivi gerarchici, bensì perché si trova in mezzo, leggermente più spostato da un lato, che è il lato del fratello Ben. Maggiore di quest’ultimo e minore di Carl, cresce ammirando l’assolo di Michael J. Fox al “Ballo incanto sotto il mare”, sognando di emularne le gesta. Quando prende la chitarra in mano, intorno ai tredici anni, inizia ad ascoltare Stevie Ray Vaughan, BB King, Otis Rush e Albert King. Se non è a scuola, John è in camera sua, dove risuonano assoli, alcuni impareggiabili, altri raffazzonati; i primi provenienti dallo stereo, i secondi dal suo modesto amplificatore. A diciassette anni, durante un forzato ricovero dovuto a un problema cardiaco, sente che qualcosa sta prendendo forma dentro di lui, innervandosi pian piano. Mayer stesso definirà quel periodo come il momento in cui un cantautore stava nascendo all’interno del suo corpo. Qualche tempo più tardi, seguendo un filo immaginario che parte dall’istinto e va a finire tra le corde di una chitarra, Mayer decide di trasferirsi a Boston, per intraprendere gli studi musicali.

Why Georgia, Why?

A diciannove anni, però, poco dopo l’inizio dell’esperienza al Berklee College Of Music, Mayer si accorge che l'ambiente accademico non fa per lui e che si tratta di un vestito troppo stretto per il suo nerbo artistico. È in quel periodo che conosce Clay Cook, con il quale, poco tempo dopo, si trasferirà ad Atlanta, suonando di locale in locale e sfruttando il fertile humus che il panorama musicale della città sa offrire. Il progetto si chiama Lo-fi Masters e i luoghi in cui si estrinseca sono pub e club; uno su tutti l'Eddie's Attic, dove si tiene un’esibizione che viene immortalata e messa in rete, così da far circolare, per la prima volta ad ampio flusso, il nome del ragazzo venuto da Bridgeport.

Mayer si muove, semina sperando di raccogliere qualcosa, come qualsiasi altro artista all'inizio di un percorso, quando viene tirato in due direzioni opposte dalle suggestioni di un sogno e dal disincanto della realtà. Durante una sua performance al SXSW Music Conference, sono presenti alcuni emissari della Aware Records, che, rimasti piacevolmente colpiti, gli danno la possibilità di incidere Room For Squares, quello che sarà il primo album di John Mayer. A voler essere precisi, il primo album “non autoprodotto”, visto che la casa discografica stava tenendo d'occhio quel ragazzo già da un po' di tempo; esattamente dall'uscita di Inside Wants Out, un Ep di nove canzoni, che la Columbia ridarà alla stampe tre anni più tardi.

Inside Wants Out (autoprodotto, 1999) si coagula tra la chitarra acustica e la voce calda - a tratti cisposa - di un ragazzo che, precipuamente, canta di amori, storie finite, incontri e occasioni perse nel fondo di un bicchiere di vino vuoto. La produzione è tutt'altro che azzimata, con errori di esecuzione annessi (come in “Comfortable”) e il risultato è un corpus di bozzetti che ricordano il primo Dave Matthews e certi Radiohead (con citazione palese di “Karma Police” in “Victoria”).
Se Mayer avesse continuato questo percorso minimalista e acustico, sarebbe diventato un artista à-la Jack Johnson, prima che Jack Johnson fosse venuto fuori. La storia, però, con gli occhi di oggi, racconta tutt’altro.
In una sorta di corrispondente maschile della giovane Alanis Morissette (quella successiva al primordiale periodo dance-pop), Mayer raccoglie le idee maturate in qualche occasionale camera degli Stati Uniti dell'Est, durante pomeriggi laschi e notti insonni. A coadiuvarlo c'è un altro John, John Alagia, già produttore di Dave Matthews, Vertical Horizon e Ben Folds Five. "Un'antologia di tre anni di lavoro", dirà poi Mayer. Ebbene Room For Squares, inizialmente con marchio Aware, sviluppa ciò che viene reputato virtuoso - ma solo embrionalmente espresso - in Inside Wants Out, scartando il superfluo e apportando delle aggiunte.
La prima della lista, nonché primo singolo, “No Such Thing” - già contenuta nell'Ep - è tutto ciò che la gioventù della medio-alta borghesia americana può esprimere con il concetto di "ribellione": “I wanna run through the halls of my high school/ I wanna scream at the top of my lungs/ I just found out there's no such thing as the real world/ Just a lie you got to rise above”. Eppure a Mayer, figlio di questa borghesia americana, va dato atto di aver compiuto qualcosa di ardimentoso; un passo oltre gli schemi ordinari: abbandonare gli studi a Boston e gettarsi nel mondo musicale extra-accademico, immergendosi in un futuro brumoso, all'interno del quale le luci del successo e della ribalta sono puntini appena visibili. Sarà con “Your Body Is A Wonderland” (secondo e più fortunato singolo) che il ragazzo darà una sterzata alla propria carriera; ossia, come spesso accade, con la canzone che verrà rinnegata più volte dall'autore stesso. Mielosa e appiccicosa, “Your Body Is A Wonderland” è un tormentone di plastica ad alta rotazione radiofonica, che fa da contraltare al brano più riuscito dell'album, “Why Georgia”; quest'ultima e “Your Body Is A Wonderland”, infatti, sono due facce di una stessa medaglia ed è soltanto nella prima traccia che si manifesta in modo cristallino il vero talento di Mayer nella scrittura. Essere assaliti dalla tentazione di lasciarsi tutto alle spalle, saltare l'uscita di Atlanta che porterebbe all’appartamento e, alla fine, desistere. Questo è “Why Georgia”, in tutta la sua freschezza e varietà melodica.

Room For Squares (Aware, Columbia; 2001) è un pot-pourri di citazioni e influenze pop-rock. In questo senso Sting, Dave Matthews e Michael Franks sono solo alcuni degli echi più udibili. “My Stupid Mouth”, “Neon” e “Back To You”, rispetto alle versioni di Inside Wants Out, vengono rimpolpate nell'arrangiamento, mentre la nuova “City Love” è un blues lento, uno Stevie Ray Vaughan riverniciato con una tintura fresca, fabbricata nel nuovo millennio, che si scioglie in un ritornello stile Frank Sinatra. È precisamente allo scoccare del secondo minuto che il chitarrista, con il primo vero assolo dell'album, anticipa quello che accadrà dopo Heavier Things, quando il Mayer chitarrista riuscirà ad affrancarsi dalla "gabbia" artistica del Mayer cantautore. L'acustica “3x5” è una missiva spedita a qualcuno che, probabilmente, non è voluto partire con il mittente; le piccole foto allegate un pretesto per accompagnare un processo emotivo che vede Mayer sempre in movimento. La meta è incerta, ma quel che sembra importagli di più è il percorso e, per sua fortuna, questo percorso convince critica e pubblico.

Heavier Things (Aware, Columbia; 2003) è l’ideale propaggine di Room For Squares, sebbene con una produzione differente e, stavolta, con una maggiore premura per i dettagli e una dovizia negli arrangiamenti (complice qualche orpello elettronico e la presenza, a più riprese, dei fiati). Il tema della lenta “Come Back To Bed” è emblematico. La ragazza si alza dallo stesso letto in cui, in “Your Body Is A Wonderland”, l'amore fra lui e lei si esprimeva nella forma più completa, offesa da qualche parola uscita, ancora una volta, da una "stupida bocca". L'ispirazione sembra essersi nascosta da qualche parte e sono troppi i passaggi a vuoto che puntellano Heavier Things, ad eccezione di qualche isolato episodio, come il brano di apertura “Clarity” e l’acustica “Daughters”.
A differenza del debutto, Mayer imbraccia più sovente la chitarra elettrica, manifestando già i prodromi di un cambio stilistico che pochi anni dopo lo porterà allo slancio artistico più importante della sua carriera.
In questo periodo, paradossalmente, il guizzo di Mayer è inversamente proporzionale al suo successo. Vince un Grammy con “Daughters” (“Song Of The Year”), riceve svariate nomination, si porta a casa dischi di platino, è sulla bocca di tutti e si esibisce nei talk-show più famosi d’America.

Nel 2003 esce anche il suo primo live: Any Given Thursday (Columbia; Aware; SMV Enterpries), disponibile in versione cd+Dvd.
Dinanzi al successo, che si presenta solido e tangibile sotto forma di statuette e di denaro, John Mayer vacilla e rimane obnubilato: è il prezzo da pagare per aver osato ed essere riuscito a convertire il proprio sogno in realtà.

Suonare in cameretta e tornare ragazzino

Di solito, quando ero in camera mia a suonare, facevo finta di essere su un palco, di fronte a migliaia di persone. Adesso che sono sul palco faccio finta di essere nella mia camera da letto.
(John Mayer)

In un paio di canzoni di Heavier Things si siede alla batteria Steve Jordan, turnista affermato, già alle spalle - per citarne alcuni - di Keith Richards, Neil Young, Robert Cray, Cat Stevens e Bill Evans. Mayer lo richiama all'appello per plasmare un microcosmo dentro cui ritrovare il divertimento puro e sano di suonare. Una serie di eventi porta alla sostituzione del bassista originariamente pensato - Willie Weeks - con Pino Palladino. La sinergia è totale e totalizzante, perché, sì, importa quello che si suona, ma ancora di più come lo si suona. Il progetto, riconoscibile con l’etichetta “John Mayer Trio”, è il padrone che sguinzaglia il cane, lasciandolo correre libero per il parco; è John Mayer che libera se stesso e torna ragazzino. Non è dal blues che si parte, stavolta al blues ci si arriva. Jimi Hendrix, Ray Charles, qualche vecchio pezzo e qualche brano inedito è ciò che viene incluso in Try!, registrato dal vivo con Mayer che pencola, con la sua ormai fida Fender Stratocaster, tra il tocco di Eric Clapton e quello di Stevie Ray Vaughan.

Try! (Aware, Columbia; 2005) ripercorre, con successo, varie fasi della musica nordamericana attraverso la diretta “Who Did You Think I Was”, le acide atmosfere rievocate dall'assolo in wah wah di “Good Love Is On The Way” e in “Wait Until Tomorrow”, con la chiosa catartica in terze; la voce di Mayer si rivela, finalmente, in tutta la sua interezza e per quello che è: un'ulteriore freccia all'arco del ragazzo del Connecticut. Calda, avvolgente, ma nel contempo corposa e, all'uopo, graffiante. Tutto suona così perfettamente vintage, caldo e compatto, che è impossibile non avvertire la passione e il gusto che i tre provano e irradiano nel suonare. Per osmosi, questa passione si propaga tra gli spettatori, in un processo che abbatte qualsiasi interposizione tra chi suona e chi ascolta.
Dopo aver stappato e sorseggiato vini invecchiati, ma tutt'altro che vapidi, la band suona le inedite “Vultures” e “Gravity”. Quest'ultima, come un fulmine a ciel sereno, si presenta a una folla interdetta; le grida, dopo le prime note, sono isolate: il pubblico non conosce “Gravity”, ma imparerà a farlo.
“I Got A Woman” si apre come un foglio con su scritti gli ingredienti di una pietanza che ha il sapore della Georgia, ma non quella in cui Mayer, appena ventenne, cercava scampoli di successo, bensì quella degli anni Cinquanta e del rhythm and blues di Ray Charles.
Nell’encore, “Daughters” e “Something's Missing” (da Heavier Things) sono il manifesto dell'eterogeneità che caratterizza il pubblico di Mayer; dopo aver strizzato l'occhio a quella fetta incline al blues e alle sei corde, l’artista flirta con quella che gli è stata fedele sin dagli esordi pop. “Daughters”, con la coda imbevuta di soul, irraggia il club che prende fuoco; una versione che è l'anello di congiunzione tra quello che Mayer voleva essere (ed è stato) e ciò che vuole diventare (e diverrà). Manca poco, sta arrivando Continuum.

Ballando un lento in una stanza infuocata

In America direbbero "he's in the zone". Mayer è nella sua dimensione ideale e se Heavier Things rappresentava la continuazione di Room For Squares, Continuum (Aware, Columbia; 2006) è la prosecuzione fisiologica di Try!.

Ora, appurata la chimica vincente, Mayer trascina Palladino e Jordan in studio, stavolta non per provare, ma per registrare. Ne esce fuori una gemma blues, con intarsi funk, folk, R&B e, naturalmente, pop. Steve Jordan dirige l'opera al fianco di John Mayer, che ormai è totalmente padrone di se stesso e di ciò che verrà inciso sul disco. Chad Franscoviak, dietro il vetro, lavora affinché tutto converga in un'unica direzione, per sua fortuna, senza incontrare problemi di sorta, visto che il materiale esce unito, coeso e tutt'altro che rapsodico. Continuum è un'emorragia blues che Mayer non vuole (e sa che non deve) tamponare. Il riferimento è Marvin Gaye che incontra Steve Winwood, Eric Clapton, SRV e Sade.
Incastonata nel bel mezzo dell'album c'è “Gravity”, per Mayer "la canzone che ho sempre tentato di scrivere". Verrebbe da considerare “Come Back To Bed” una fase strutturale nella gestazione di “Gravity”, il tentativo fallito di scrivere ciò che germoglierà tre anni dopo. In un segmento che rappresenta il passaggio dalla morbidezza all’asperità, “Gravity” è un punto che si trova all’estremo opposto di quest’ultima. Sopra a un velo sottile di tastiera, aleggiano la voce e la Fender di Mayer, ammantate dalla batteria di Jordan e dal basso di Palladino, che esonda corposo dalle dita per inocularsi e rimbombare nello stomaco, passando per forza dalla gola, che altro non può fare se non deglutire, come a buttar giù un miracoloso nepente per l’anima. “Gravity” è una dolce resa, il gesto dell’abbandonarsi per scivolare lungo il declivio di un piacevole deliquio, che termina con i cori in fade out, quasi a dire che, nella pesantezza dell’esistere, c’è solo un modo per sconfiggere la gravità: arrendendosi ad essa.
“Waiting On The World To Change” procede su un groove funky di Jordan in controtempo, fino ai fiati irradianti di Roy Hargrove. La presenza del trombettista americano impreziosisce anche la liquefatta “I Don't Trust Myself (With Loving You)”. Ben Harper presta le dita in “Belief”, con un testo che rimanda non poco alla poetica del californiano, con un incedere incalzante e un ritornello à-la Police; ma di tempo per rifiatare ce n'è poco e dopo gli episodi più intimistici e introspettivi di “Heart Of Life” e “Stop This Train” (entrambe segnate da una mano destra "strappa e batti", che diventerà un vero e proprio marchio di fabbrica del chitarrista di Bridgeport), la rivisitazione di “Bold As Love” rinverdisce il suono crudo del Trio ed è una bomba ad orologeria, programmata per esplodere al momento dell'assolo di chitarra, il più bello dell'intera discografia di John Mayer.
La sensuale “Slow Dancing In A Burning Room” piega lo spazio-tempo e raccoglie i cocci di un rapporto che si sfibra pian piano, come un tessuto consumato dal tempo. Mayer, in questa ballata soul-blues, raggiunge la catarsi poetica che fa di questo spicchio di Continuum il punto più alto della sua carriera. Non riuscirà mai a confermarsi su questi livelli.
Continuum mantiene una qualità minima sorprendente, epitome di una maturità ormai raggiunta. Il talento - nella composizione e sullo strumento - non è mai mancato, semmai, prima del 2006, l’ispirazione lo ha accompagnato soltanto ad intermittenza. Ora Mayer è maturo, talentuoso e ispirato; i primi due elementi, com'è inevitabile che sia, rimarranno una costante fino ad oggi.

L’Ep The Village Sessions (Aware, Columbia; 2006), pur essendo un passaggio prescindibile nella discografia di Mayer, è un esperimento tutto sommato riuscito; cinque canzoni di Continuum, più una di Try!, vengono rivisitate in chiave acustica, con la partecipazione di Ben Harper. Su tutte, merita una menzione la reinterpretazione di “Slow Dancing In A Burning Room” e di “Belief”, nominata, proprio in questa versione, nella categoria Best Male Pop Vocal Performance per i Grammy del 2008.

Where The Light Is: John Mayer Live In Los Angeles (fortemente consigliata la versione Dvd!) è la rappresentazione più fedele della carriera del musicista americano, dagli esordi fino al 2008. La registrazione raccoglie, come in una esaustiva istantanea, il John Mayer acustico, quello elettro-blues e quello pop, con tanto di formazione cangiante in corso di esibizione. Due ore di musica che partono dal principio, ossia Room For Squares (per la precisione “Neon”) e terminano con l’ultimo brano di Continuum, “I'm Gonna Find Another You”.

Just a great figure eight… or tiny infinity?

L'idea per il nome del nuovo album è figlia della lettura di un’opera letteraria: “On Killing” di Dave Grossman; all'interno del libro c'è un riferimento diretto a un'altra opera: “Battle Studies”, di Ardant Du Picq. L'interessamento di Mayer alla guerra e a tutto ciò che orbita intorno al concetto di “homo homini lupus” ha un forte impatto sulla gestazione del nuovo disco. Il luogo delle registrazioni, invece, contribuisce all'avvicinamento verso sonorità tipiche del rock californiano. Nettamente più melodico di Continuum, Battle Studies (Columbia, 2009) si rivela un disco studiato in ogni dettaglio ed è il prodotto di tutte le forze del Trio, stavolta, però, supportato da un numero maggiore di musicisti. Il risultato è più complesso e, a tratti, quasi magniloquente. Battle Studies risulta così più macchinoso e denso rispetto al predecessore, perdendo di naturalezza e vestendosi di artificialità. “Heartbreak Warfare”, eterea, gira su un gioco di delay e leva che ricorda lontanamente gli U2 di “Zooropa” (“Lemon”). Le successive “All We Ever Do Is Say Goodbye” e “Half Of My Heart” (quest'ultima con la partecipazione dell’allora partner di Mayer, Taylor Swift) non stonerebbero nella tracklist di “Hard Candy”dei Counting Crows. “Who Says”, col fingerstyle di “Stop This Train” e “Heart Of Life”, è la canzone più intima e autobiografica mai scritta da John Mayer fino ad ora. Con la chitarra acustica in braccio e Jordan alle spazzole, Mayer dondola la sua stanca malinconia su un filo di domanda: chi lo dice che non posso mollare tutto? Nel contenuto si tratta di una “Why Georgia” otto anni dopo: “Who Says” è la consapevolezza che perdere tutto sarebbe una follia, ma, allo stesso istante, è la culla per una melliflua consolazione: sapere di poterlo fare.
“Assassin”, il centro esatto dell'album, è una canzone d'amore con il testo ruffiano, che riesce a incastrare alla perfezione parole e musica. Il mood è da pellicola thriller, ma il film, in questo caso, ha un finale scontato. La credibilità di Mayer in episodi come questi, in cui parla di bicchieri di vino e di tende bianche che ammantano l'appartamento moderno ove giace la prossima "preda" sessuale, è ridotta all'osso e il processo è talmente parossistico da risultare perfino ridicolo. “Edge Of Desire” profuma di riscatto; Mayer, quando si toglie il giacchetto di pelle e smette di mettersi in posa, mostrandosi per quello che in fin dei conti è - un ragazzo sensibile di una normale famiglia del Connecticut - sfrutta al meglio tutte le sue capacità (“Young and full of running/ tell me where has that taken me?/ Just a great figure eight/ or a tiny infinity?”).
Nei passaggi in cui la produzione è più ampollosa, Battle Studies perde colpi: “Edge Of Desire” è l'unica, brillante, eccezione. “Crossroads” è il tributo dell'album; stavolta non Jimi Hendrix, ma Robert Johnson e l'interpretazione è divertente quanto convincente, senza che si desti gran stupore, dal momento che il ragazzo nuota in acque proprie. La conclusiva “Friends, Lovers Or Nothing”, con outro che si trascina fino alle sei corde solitarie e zuzzurellone, è il collage di due canzoni scritte in momenti diversi. La ballata, per come suona, potrebbe trovare perfetta cittadinanza in Continuum ed è il modo più adatto per calare il sipario su uno show che ha convinto poco e a singhiozzo.
Durante le registrazioni del nuovo album, viene diagnosticato a Mayer un granuloma in prossimità delle corde vocali. Attraverso il blog personale, l’artista comunica ai fan l’obbligata sospensione a tempo indeterminato dell’attività musicale. Il periodo lontano da riflettori e stampa (un’intervista poco “carina”, rilasciata a Playboy, gli costò anche qualche grana in termini di immagine), nonché l’impossibilità di cantare o addirittura semplicemente di parlare, lo segnano in maniera decisiva. Si ritira in Montana: ora Battle Studies e le calde sessioni di registrazione fra Calabasas e Hollywood sono soltanto un ricordo remoto.

In repair: Born and Raised e Paradise Valley

Nel 2012 John Mayer cambia abito. Un pesante cappotto copre una camicia larga e un cappello texano è appoggiato sulla sommità della sua persona, sopra ai capelli che scendono fino alle spalle. Gli scarponi battono un ritmo pieno, come di un piede sul pavimento di una cascina del Montana, dove Mayer ha finalmente trovato rifugio, conforto e serenità, dopo la separazione dei genitori e lo straziante problema alle corde vocali, alfine risolto. Soltanto lontano dalla vita mondana può esserci "nascita e crescita" di un nuovo cantautore, ora vicino al folk dylaniano e al Neil Young di “After The Gold Rush”. La chitarra acustica torna ridondante, ma lontanissima dal pop di inizio carriera, perché attinente ad atmosfere rustiche e country. Ovvio che la formazione sia del tutto rimaneggiata; con la supervisione di Don Was, accanto al protagonista, ci sono Sean Hurley (basso), Aaron Sterling (batteria e percussioni) e Chuck Leavell (tastiere), più diversi ospiti del salotto musicale: Chris Botti, non nuovo a collaborazioni con Mayer (si veda l'incantevole “In The Wee Small Hours Of The Morning” di Sinatra, al David Letterman Show) introduce il brano migliore dell'album, “Walt Grace's Submarine Test, January 1967”, tratta da una storia realmente accaduta; Jim Keltner contribuisce nel divertente blues di “Something Like Olivia”, in cui sopravvive, legittimo, un dubbio: è forse una chitarra, la Olivia di cui parla Mayer?; Greg Leisz si palesa in svariati episodi e Sara Watkins, nella quasi-conclusiva “A Face To Call Home”.

Non mancano neppure quelli che possono essere definiti alcuni degli artisti a cui l'autore di Born And Raised (Columbia, Sony, 2012) si è ispirato durante la scrittura, ossia David Crosby e Graham Nash, entrambi presenti (rispettivamente con pedal steel e voce) nella title track. Born And Raised è la testimonianza concreta del fatto che John Mayer si è completamente privato della corazza che lo proteggeva e nascondeva; ora la sua vita è raccontata senza filtri, anche nelle vicende più intime (“I got a mom/ I got a dad/ but they do not have each other”). “Age Of Worry”, dal sapore celtico, è la più maestosa, se confrontata alle sommesse “If I Ever Get Around To Living” e “Speak For Me”, mentre “Queen Of California”, la canzone d’apertura, tra le trame dei propri versi trattiene anche Joni Mitchell: “Joni wrote Blue in her house by the sea/ I gotta believe there's another colour waiting on me/ To set me free”. Il colore di Mayer è quello marrone della terra del Montana; scuro sì, ma anche puro e pulito, non più nero, come il recente passato che si è lasciato alle spalle.

A un anno di distanza da Born And Raised, John Mayer non ha alcuna intenzione di abbandonare la strada intrapresa, polverosa d’estate, liliale d’inverno, quando è coperta dalla neve. A fare da Cicerone c’è ancora Don Was. Paradise Valley (Columbia, Sony, 2013) si accoda a Born And Raised, seppur con lievi differenze strutturali, come il ritorno, in più riprese, della chitarra elettrica su quella acustica. La vallata paradisiaca è sempre quella del Montana, dove Mayer perpetra la personale estraniazione dal mondo urbano e caotico, in cui Battle Studies trovava ragione d'esistere; ora, tra foreste e legna da ardere, non c’è alcuna guerra da combattere e le battaglie di prima non trovano cittadinanza, perché è all’armistizio con la propria persona che punta John Mayer. “Dear Marie”, da questo punto di vista, è una tenera e immaginaria lettera che il cantautore scrive alla ragazza che aveva amato in età adolescenziale, ormai donna. Se la maturazione artistica era già stata raggiunta, ora è di maturazione umana che si parla. Mayer si chiede cosa pensi Marie oggi, nascosta in chissà quale parte del pianeta, quando vede il suo viso sulle copertine dei magazine. Quel che collega la prima parte di canzone alla strofa finale è un'ipotetica madida di speranza: "Dear Marie/ Do you still believe in me?". "Non sono quello che leggi in giro, sono sempre rimasto lo stesso", sembra voler dire Mayer a Marie. Poco importa se la coda del brano strizza l'occhio alle arene, mettendo la carta carbone sotto i sing-along à-la Mumford & Sons, il risultato è sincero e nel complesso apprezzabile. “Who You Love” (in duetto con la nuova compagna Katy Perry) si pone sulla medesima lunghezza d'onda: “ami chi ami” e l'intento sembra essere quello di rivendicare l'autenticità di un rapporto come tanti, una storia d'amore come altre milioni nel mondo. “Wildfire” è divisa in due; una parte in cima all'album e una nel mezzo, con Frank Ocean alla voce.

Born And Raised e Paradise Valley costituiscono, senza dubbio, il binomio più autobiografico e diretto di John Mayer; resta comunque un songwriting mai propenso a chiudersi su se stesso, ma alla ricerca del contatto umano. “Wildfire” (parte uno), la già citata “Dear Marie” e “On The Way Home” funzionano con la risposta del pubblico, in un processo bilaterale sul quale si fonda il "dare e ricevere" che John Mayer, nell'arco della sua carriera, non ha mai scalzato, semmai sempre perseguito.

Nel 2017, esce The Search For Everything, il settimo disco in studio. Il fascino dell'attesa e il gusto dell'abbuffata, per chi aveva già in cuffia i due Ep anticipatori - "Wave One" e "Wave Two" - si sono liquefatti lungo la strada. Per questi sarà stato difficile considerare l'album come un continuum e non come un mero insieme di tanti frammenti messi insieme uno con l'altro.
Marketing a parte, The Search For Everything, alla fine, è uscito come un album normale, come un ordinario disco da tre quarti d'ora di musica. Dodici tracce e due anime saldate in una, un po' come quelle che hanno abitato Mayer in tutta la sua carriera. Più di un collegamento con il bellissimo Continuum esiste, perché c'è il ritorno del Trio (Palladino, Mayer e Jordan) e perché c'è il blues - quello che nei due album precedenti aveva lasciato il palcoscenico al roots e al folk di neilyoung-iana memoria.
Ecco allora che in mezzo a "You're Gonna Live Forever In Me" e "I'm Gonna Find Another You" non sembrano essere passati dieci anni di esistenza, casomai soltanto una manciata d'istanti. "I'm never gonna find another you
/ Still like to leave the party early/ and go home, babe", canta all'inizio dell'album, in quel frullato alla fragola che è "Still Feel Like Your Man".
Eppure da quel lontano 2006 Mayer è cresciuto. Bene, perché ha acquisito qualche trucco del mestiere: il dosaggio degli interventi da chitarrista e la capacità di ottenere il massimo con il minimo sforzo ("Helpless", ad esempio, è di una semplicità imbarazzante, eppure è così diretta e pungente da non poter non sconquassare lo stomaco); male, perché la produzione, in più di un episodio, sembra una creatura creata in laboratorio, tanto è precisa, pulita e asettica. "Love On The Weekend" - o "Split Screen Sadness" un decennio e mezzo dopo - per esempio, è un impasto di beat appiccicosi come la manina colorata nelle confezioni delle patatine ed è puntellata dal riverbero di un'elettrica che viene chiamata in causa con ragionate cadenze.
Artisticamente più aperto, Mayer sputa influenze musicali che nel corso degli anni ha deglutito per passione, per professione o per tutte e due le cose messe insieme. Il sound di "Moving On And Getting Over" spruzza un po' di Heat nell'aria e fa tornare in mente una frase che l'artista twittò nel 2013, poco dopo l'uscita dell'album di Beyoncé: "Ognuno può avere la propria opinione su 'Rocket', ma che abbia un suono incredibile è fuori discussione". Un po' di hip-hop gelatinoso costella dunque "The Search For Everything", ma anche un po' di Grateful Dead - questo era più che prevedibile - e di cool jazz - l'intro e la parentesi in slow motion di "Still Feel Like Your Man" sono come post-it gialli con su scritto "Mayer ha suonato con Chick Corea, John Scofield, Manolo Badrena, Wallace Roney, Chris Botti e Herbie Hancock". Un titolo obbrobrioso e ammiccante come "Emoticon di un'onda" cela una splendida apertura melodica che racconta di una dissonanza che sta uccidendo l'animo di un uomo. Il cuore di lei è nel posto in cui dovrebbe essere la testa di lui, ma è soltanto un'onda, destinata a passare.


L’orologio della DeLorean di John Mayer con Sob Rock sembra invece segnare 1985. Dunque l’annus mirabilis di Robert Zemeckis, Michael J. Fox e Christopher Lloyd. La copertina d’altronde parla chiaro. Il cantautore e chitarrista di Bridgeport è accanto a una finestra. La posa con l’immancabile chitarra è fiera, mentre i colori pastello ne ammorbidiscono la visione. A chiudere lettere sfumate con i triangoli(ni) rosa tipiche degli anni 80. Sob Rock poi è un titolo che dice tutto. Ma più che singhiozzare, Mayer illumina con dieci canzoni che riprendono canoni yatch, altrove blue-eyed soul, alternati ad una serie di laccature in scia pop e aor.


Mettere insieme di conseguenza i nomi che tornano in mente nei vari momenti di questo disco - l’ottavo in carriera per lo statunitense - potrebbe essere un esercizio di stile quasi fine a sé stesso.
Michael McDonald? Ned Doheny? Christopher Cross? Toto? Ebbene, sarebbe interessante raccogliere campioni di ascoltatori e scoprire i tanti paralleli possibili. Ma è paradossalmente proprio possibile svolazzo tra un rimando e l’altro il punto di forza di un album che mostra un ventaglio di soluzioni tanto semplici quanto estremamente avvincenti.

Non mancano ovviamente le sviolinate blues con assoli al solito perfetti, come ad esempio nell’introduttiva “Last Train Home”, checché se ne dica una di quelle canzoni che non mollano più la presa.
Mayer non si nasconde. E’ consapevole di vivere un tempo andato, anche quando canta un amore ai titoli di coda: “I'm not a fallen angel, i just fell behind. I'm out of luck and i'm out of time. If you don't wanna love me, let me go”.
Appiccicoso è anche il refrain di “New light”, il singolo di maggior successo del lotto (100 milioni su YouTube dovrebbero bastare), con la sua andatura sorniona e smargiassa. Così come l’altra “hit”, “Wild Blue”, con tanto di ennesima sbandata blues a mezza via.

"Questa è la mia sceneggiatura, questo è il mio film", afferma Mayer in sede di presentazione. Magari qualcuno sulle bobine noterà troppa polvere. Ma Sob Rock resta un’onesta “pellicola”. Un album sospeso nel tempo e dal potenziale “analgesico”.

Contributi di Giuliano Delli Paoli ("Sob Rock") 

John Mayer

Discografia


Inside Wants Out(Ep, autoprodotto, 1999)5,5
Room For Squares (Columbia, 2001)6,5
Heavier Things (Columbia, 2003)4,5
Try! (Live, Columbia, 2006) 7
The Village Sessions (Ep, Columbia, 2006)6
Continuum (Columbia, 2006) 7,5
Where The Light Is: Live in LA (live, Columbia, 2008) 7,5
Battle Studies (Columbia, 2009) 5
Born And Raised (Columbia, 2012) 6,5
Paradise Valley (Columbia, 2013)
6
The Search For Everything (Columbia, 2017)6,5
Sob Rock (Columbia, 2021)7
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