Laura Gibson

Laura Gibson

Invito al viaggio

Arpeggi su corde di nylon. Voce spigolosa e un po' bambina, come una Joanna Newsom a un'ottava sotto. Un songwriting elegante, influenzato dai grandi del folk americano. Canzoni che sono un invito al viaggio. È l'identikit di Laura Gibson, giovane cantautrice dell'Oregon

di Rossella De Falco

"I dreamed I had a gift/ for holding up the sky"
Laura Gibson (da "Where Have All You're Good Words Gone?")

C'è una piccola città, nell'Oregon, che prende il suo nome da una tribù indiana: si chiama Coquille, che significa "conchiglia". È qui che inizia la curiosa storia di Laura Gibson.
Nata e cresciuta in quella cittadina immersa nel verde, figlia di una maestra d'asilo e di una guardia forestale, al college la futura cantautrice studia matematica e diventa campionessa nazionale di salto in alto.
In seguito a un grave disturbo alla caviglia,  impara a suonare la chitarra classica  e compone brani. Bisognosa di cure, si trasferisce a Portland, dove si esibisce per i malati terminali di Aids, come volontaria. Il fertile panorama musicale del luogo la porta, intanto, a partecipare ad umili spettacoli e a sempre più serate nei locali.
Si dice che se una canzone suona bene pure con una semplice chitarra, solo allora si  starà parlando di una buona canzone. Ed è proprio questa la forza della folksinger americana.

"Questa ragazza ci ricorda che l'essere umani... è un dono"
Donald Miller su Laura Gibson

Arpeggi su corde di nylon; look acqua e sapone; allergia ai riflettori; voce spigolosa e un po' bambina, come una Joanna Newsom a un'ottava sotto; l'influenza dei grandi del folk americano, quali la bionda Joni Mitchell: ecco come si presenta la ventiquattrenne Laura Gibson nel suo primo Ep, Amends. È il 2004, e quella ragazza timida viene già annoverata tra le promesse della West Coast, tra Laura Veirs e Nick Jaina. Non a caso, questo disco di sei brani attira ben presto le attenzioni della label Hush Record.

Infatti, If You Come To Greet Me vede la luce proprio ad opera di questa casa discografica indipendente, nel 2006. L'artista dell'Oregon dà vita ai brani di quest'album durante un mese di ritiro nei luoghi dell'infanzia: "Ho lasciato tutta la mia musica a Portland", racconta lei stessa, "facendo affidamento solo sulla discografia di famiglia". Così, immersa nelle note dei grandi del delta-blues, da Skip James a Elizabeth Cotton, e nel jazz di Ella Fitzgerald e Billie Holiday, la Gibson scrive una preziosa ricetta che l'accompagnerà per lungo tempo. La genuinità delle sue ballate s'immerge in un indie-folk spettrale, sempre in bilico tra poesia e gotico. Ci si avvicina ai Decemberist, dunque, (i quali, tra l'altro, vengono anche loro da Portland e hanno anche loro debuttato con la Hush Records) e si rievocano le saghe oniriche dei Fleet Foxes.
"This Is Not The End", un soffice, delicatissimo crescendo per pianoforte, viola, chitarra e tromba, è la prima tappa di questo viaggio minimalista nelle lande della memoria. La seconda voce è quella di Adam Selzer, dei Norfolk & Western, che supervisiona la produzione di tutti i brani, e si fa sentire anche nel valzer notturno di "NightWatch".
Tra i molti pezzi meditativi, spuntano "Hands In Pocket", un orecchiabile raggio di sole, quasi da radio, con un ritmo da filastrocca, e l'accattivante "Small Town Parade", sgangherata e dal sapore country, con continui cambi di tempo figli del jazz. Il fiore all'occhiello è però "Broken Bottle", che si schiude con un giro melodico enigmatico e ironico, e si risolve in tiepidi intrecci di seta, tessuti da archi nostalgici.
In pratica, si parla di una musica acustica, essenziale, delicata come un castello di carte, curata in ogni dettaglio: una musica che, forse, può invogliare a spegnere luce, televisione e computer, magari per scappare da qualche parte, per ricordarsi l'odore della terra, o il rumore benefico di una sorgente.

"Once I was a broken bottle, lying in a crowded bar"
Laura Gibson (da "Broken Bottle")

Altro progetto del 2006 è l'Ep Six White Horses, una rivisitazione di sei grandi classici folk-blues, in collaborazione con il poli-strumentista Jason Leonard. Registrati durante un week-end in un'antica casa vittoriana a Selwood, nell'Oregon, questi omaggi, tra cui la tradizionale "Black Is The Color Of My True Love's Hair" e "Dryland Blues" di Furry Lewis, hanno un gusto divertente. Vi intervengono anche strumenti non proprio convenzionali, quali secchi, porte e carte di giornali.

Dopo due anni di silenzio, la ragazza della sponda nord-ovest del Pacifico ritorna con The Bests Of Season, scritto in un appartamento che affaccia proprio su un delizioso e antico cimitero di Portland.
"Ho vissuto esattamente per ventinove anni" racconta, in un'intervista, alla fine del lungo lavoro sul nuovo album: "Non quanto gli alberi, ma sicuramente di più degli uccelli. A volte mi sento come una vecchia donna, e trovo che la morte sia una presenza calma e familiare. A volte, invece, mi sento come una bambina, a cui la morte appare estranea e scioccante".
Un mondo stregato, dunque, accoglie un'oscura meditazione sulla fine della vita. Una riflessione a cui la riservata ragazza statunitense non si avvicina, però, da sola, ma con il produttore Tucker Martine e un numero incredibile di ospiti: Shelly Short dei Decemberists, la M. Ward's Band, i Menomena e ancora i Norfolk & Western.
Il disco è diviso in due parti, "Communion Songs" e "Funeral Songs", nella probabile intenzione di riflettere sull'antitesi vita-morte. L'atmosfera generale, fumosa e dark, varca i confini della dimensione acustica. Apre il disco il valzer elettronico, per chitarra e viola, della trasognata "Parade Of Shadows", che ricorda i neri paesaggi onirici dei Sigur Ròs di "()". Con "Come By The Storm", arricchita dalla fisarmonica, l'hawaiiana "Sweet Deception" e la dolce "Funeral Song" si ritorna alla ballata scarna ed essenziale. "Spirited", invece, da sola vale l'intero lavoro, con il suo movimentato coretto silvestre, e la fisarmonica, il pianoforte, la batteria e le percussioni a muoversi sul sentiero fiabesco tracciato dalla chitarra classica.
Bests of Season, sebbene rimanga un disco ben congegnato e ispirato a livello concettuale, non ha la potenza evocativa di Come To Greet Mee non rappresenta alcuna evoluzione per la cantante di Portland.

"Morning tends to...turn our words to smoke"
Laura Gibson (da "Spirited")

Seduta per terra, in una piccola stanza, in un caos di libri e fogli sparsi, c'è una donna vestita di violetto. Apre un testo, apparentemente a caso, e ne strappa una pagina. Fuori, in città, un uomo rastrella quelli che sembrano i resti di un falò di volumi scritti. Siamo nel video di "Younger", un brano firmato dalla voce di Laura Gibson e dagli arrangiamenti del minimalista Ethan Rose. I due raccontano che l'idea di una collaborazione, realizzatasi in Bridge Carols del 2010, nasce da semplici conversazioni e da reciproco apprezzamento. Il risultato è un amalgama di elettronica e minimalismo, fatto di fruscii, campanelli, colpi di glockenspiel, sintetizzatori, e delicati mixaggi. In questo micro-universo, la vocina della Gibson si muove spaesata, con effetti alienanti.
"Introduction", il cui coretto sintetizzato di base ricorda profondamente l'inizio di un brano dei Sigur Ròs,  la movimentata "Leaving, Believing", dove due voci sovra-incise danzano teneramente, a là Cocorosie, "Sun" e "Glocken", con dei trilli e delle vibrazioni elettroniche degne di Colleen, rappresentano i momenti più espressivi.
Come si sarà capito, nulla di nuovo, certo, ma c'è classe, e c'è gusto.

"And I dreamed I had a way with/ Words of consolation"
Laura Gibson (da "Where Have All You're Good Words Gone?")

La rivoluzione informatica, Facebook, Twitter, i siti di condivisione: nel 2012, ormai, l'industria discografica e le logica della pubblicità sono completamente stravolte da internet, dallo shopping online e dai social network. Per cantanti di nicchia come la Gibson, questo terremoto rappresenta un'opportunità imperdibile. Ne è consapevole lei stessa, quando, sulla home del suo blog, scrive: "Ho appena iniziato ad usare Facebook e Twitter, e, sebbene non ne abbia ancora un'opinione precisa, sono sconvolta dal potere delle persone che condividono link con i propri amici. Quindi, a tutti quelli che sono arrivati alla mia musica attraverso i social media (...) sono profondamente grata per il vostro entusiasmo. È davvero fantastico".
Ed è sicuramente grazie a internet che il terzo Lp di questa anti-diva, così amichevole e alla mano nei rapporti con i fan e nelle interviste, può conquistare una fetta più ampia di pubblico. Anche perché La Grande recupera l'ispirazione di Come To Greet Me, ma con una significativa maturazione artistica: si conquista una forma-canzone immediata, consapevole e rotonda.
Intanto, la bionda eroina è in lizza per il premio "insospettabile poli-strumentista dell'anno": nei suoi dieci brani è capace di suonare da sola la chitarra, il basso, il vibrafono, la marimba e la marching drum. Le sue evoluzioni si circondano di collaboratori d'eccezione, quali Nate Query e Jenny Conlee dei Decemberists e Joey Burns dei Calexico, Questi elementi si combinano in modo lineare, e creano un flusso ideale per staccare la spina alla routine. Infatti, le tracce scivolano via leggere, brevi al punto giusto, variando, contrapponendosi, senza mai stancare l'ascoltatore.
Per esempio, "La Grande", fra cupi archi, suoni da vecchio film western e bislacche voci distorte,  introduce il disco sul il ritmo deciso della marching drum. Così, "Milk-Heavy, Pollen Eyed", una calma ballata folk-pop, coccolata da basso e vibrafono, arriva inattesa. "Lion/Lamb" apre di nuovo le danze: un ritmo jazzato e un coro da folletti dei boschi, fra trilli di violini, fiati, sole e brillanti note di piano, in un'atmosfera incantata da foresta prog-rock. "Skin, Warming Sink" sembra la solita meditazione acustica per chitarra e fiume: eppure, si vedrà nell'ascolto, stupisce, rivelandosi la perla dell'album.
"The Rushing Dark" apre la seconda metà del disco, dove il caldo dinamismo di "Red Moon" e "The Fire" (unica canzone davvero orecchiabile del disco, con un organetto vintage a farla da padrone) si alterna alle sibilline "Time Is Not" e "Feather Lungs".
"La Grande è una città dell'Oregon di cui le persone si servono unicamente per passare da un posto all'altro, ma che contiene un certo magnetismo, una curiosa energia." Così, Laura Gibson descrive il luogo da cui ha tratto ispirazione per il suo disco. Sulla copertina, in alto c'è il ritratto di Capo Giuseppe, il condottiero della tribù indiana dei Nasi Forati, che venne cacciata, dalle truppe americane, dalla Wallowa Valley, che è la valle a est di La Grande.
Paradossalmente, questa musica che si diffonde su binari informatici, è, invece, un invito al gettarsi nella natura, con i suoi odori pungenti: e nell'intimità, con la sua carnalità, e il suo sapore.

Empire Builder, il ritorno di Laura Gibson nel 2016, viene presentato come l’album della rinascita, della consacrazione – registrato e ricomposto dopo che il fuoco che aveva raso al suolo l’edificio in cui abitava, appunto, Laura, insieme a tutto il suo materiale, nella sua nuova casa di New York.
E in un certo senso si avverte che un grande peso, nell’esistenza di Laura come artista e musicista, grava su questo Empire Builder, forse il suo disco più ambizioso e focalizzato, dopo gli inizi da cantautrice tutto sommato “normale” nel panorama folk contemporaneo (al netto della qualità).

Il secco arrangiamento percussivo di “The Cause” suona così quasi come una rivendicazione di personalità artistica, sembra quasi la nuova hit di Adele, come spirito e resa – e anche il ritornello sembra un po’ appiattirsi sul refrain un po’ facile. Il singolo e title track ricorda un po’ la Laura Marling degli esordi, con gli stessi cliché di fragilità e forza, maggiore e minore – forse un brano un po’ acerbo per essere il cardine di un “disco della maturità”.
Un po’ tutto il disco, comunque, conferma l’ispirazione un po’ troppo “normale” della Gibson, come la nenia “Louis”, un giro e una linea vocale già sentiti troppe volte. Oppure il sad-folk minimalista di “Five-Thirty”, che riprende idee di arrangiamento anche queste vecchiotte e riproposte senza originalità e senza una scrittura che spicchi.

In generale, un forte sforzo calligrafico (il suggestivo e arioso folk di “The Search For Dark Lake”), che si accompagna ad arrangiamenti ambiziosi e anche coraggiosi (il tiro di “Not Harmless”), ma non a una scrittura di spessore. Un disco che può rappresentare una grande conferma ma non un’evoluzione nell’ispirazione della Gibson.

Contributi di Lorenzo Righetto ("Empire Builder")

Laura Gibson

Discografia

Amends (Ep, self-released, 2004)

Six White Horses: Blues & Traditionals Vol. 1 (Ep, Hush, 2006)

If You Come To Greet Me (Hush, 2006)

Beasts Of Seasons (Hush, 2009)

La Grande (Barsuk/City Slang, 2012)

7

Empire Builder (Barsuk, 2016)

6

Pietra miliare
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