Liz Phair

Liz Phair

Un'eroina sexy in lo-fi

Con le sue oscene profferte sessuali e con le sue odi malinconiche in bassa fedeltà, l'avvenente Liz Phair si è ritagliata un ruolo di punta nella scena indie. E il suo modello di "riot girl" post-femminista è stato tra i più imitati del decennio Novanta

di Claudio Fabretti

L'affascinante Liz Phair è una delle più forti icone femminili dell'indie rock degli ultimi anni. Le sue invettive rabbiose e sessuomani rappresentano la faccia più trasgressiva di quel modello di cantautrice "metà riot girl, metà ragazza triste" portato al successo internazionale da Alanis Morissette e da PJ Harvey.

Nata nel 1967 a New Haven, Connecticut, orfana di madre da quand'era praticamente in fasce, Elizabeth Clark Phair cresce con i genitori adottivi: un noto scienziato (John Phair) e una insegnante d'arte (Nancy Phair). Con loro, si trasferisce a Chicago dove, terminate le scuole secondarie, studia Arte all'Oberlin College. E' qui che emerge fin dall'inizio il suo talento musicale che, unito alla sua indubbia avvenenza, la catapulta subito nella locale scena underground.

Cantante e chitarrista folk-rock, la giovane Liz comincia a suonare con il compagno, il chitarrista Chris Brokaw. Insieme si spostano a San Francisco, dove iniziano una serie di esibizioni e vivono per due anni in puro stile bohemien: un periodo che Phair ricorderà come "i suoi anni perduti". Le strade dei due, però, si separano, e Liz ritorna a Chicago dove entra in contatto con Urge Overkill, Brad Wood e John Henderson; con loro suona in vari locali e incide i primi demo (i "Girlysound Tapes"), che saranno poi raccolti nel 1995 sul mini-album Juvenilia.

Nel 1992 ottiene una scrittura per la casa discografica Matador e l'anno successivo, a soli 26 anni, pubblica il suo primo album, il doppio Exile in Guyville (dal titolo di una canzone degli Urge Overkill, "Goodbye to Guyville"): 18 brani che mettono subito in luce il suo talento compositivo, il suo contralto poderoso e i suoi testi oltraggiosi. Sorta di risposta post-femminista all'"Exile On Main Street" dei Rolling Stones, il disco vede Liz Phair nei panni dell'anti-Jagger, pronta a replicare, canzone per canzone, verso per verso, alle libidinose "avance" del leader stoniano.Phair si erge a mangiatrice di uomini, definendosi "your blow-job queen" e promettendo "everything you ever wanted... I'll fuck you 'til your dick is blue" ("Flower"). Tuona e minaccia perfino l'omicidio "Girls! Girls! Girls!". Ma arriva anche a torturarsi nei suoi soliloqui ossessivi: "I can feel it in my bones/ I'm gonna spend another year alone/ It's fuck and run" ("Fuck And Run").Co-prodotto da Brad Wood (noto per i suoi lavori con Smashing Pumpkins e Tortoise), l'album è scarno negli arrangiamenti e scabroso nei temi: è una guerra dei sessi senza quartiere, che si consuma tra laceranti invettive, profferte oscene e autopsie sentimentali.

Phair si accompagna alla chitarra, cesellando accordi che potrebbero piacere a Keith Richards ("6'1"", "Mesmerizing") e canta con tonalità bassa e sensuale, mentre Wood e l'ingegnere del suono Casey Rice si dedicano a batteria, chitarre, basso e organo, creando un universo di suoni vari ed eccentrici. In bilico tra ballate alla Bob Dylan e folkpop alla Juliana Hatfield, il disco offre un pugno di melodie toccanti (la tenera "Help Me Mary", la pianistica "Divorce Song"), ma anche spunti di rock vibrante, da "Never Said" a "Johnny Sunshine", da "Fuck and Run" a "6'1", piece folk ("Dance of the Seven Veils") e incursioni psichedeliche ("Gunshy", "Canary"). Completano il quadro gli inebrianti tremolii di "Explain It to Me", il sussurro acustico di "Glory", il blues rumoroso di "Soap Star Joe".

Passando dal ruolo di dominatrice ("Flower") a quello di vittima ("Divorce Song"), dalla scettica romantica ("6'1"") alla fustigatrice di sé stessa ("Fuck and Run"), dall'ostaggio di casa ("Help Me Mary") alla punk aggressiva ("Never Said"), Phair rispecchia l'incertezza della vita reale, scavando nel suo subconscio, nelle sue tormentate esperienze sentimentali e nelle sue insicurezze. L'album presenta anche una interessante raffigurazione di Wicker Park, il quartiere bohemien di Chicago.

Il secondo album, Whip-Smart (1994), propone 14 tracce che seguono la falsariga del disco d'esordio, grazie anche al rinnovato sodalizio con i produttori-ingegneri Brad Wood e Casey Rice. Il singolo "Supernova", fusione di chitarre glam-rock e liriche sexy, viene accolto con grande favore dalle radio del circuito indipendente e anche da Mtv. Ma non ci sono molti altri brani d'impatto e forse anche per questo l'accoglienza della critica, stavolta, è tiepida. Si fanno apprezzare, comunque, la sarcastica narrazione di "Soap Star Joe", l'accorata ode di "Support System" ("What I need is a man of action/I need my attraction to you/Driving me down all those dangerous avenues"), le vibrazioni stile Pretenders di "Nashville", la trasognata e beatlesiana "Shane" (che si chiude con un mantra che ordina "You gotta have fear in your heart"...), la malinconica "Easy" e soprattutto "Go West", viaggio nella mente di una ragazza che sta lasciando casa: "Take off/The parking brake/Go coasting/Into a different state", canta Liz Phair, passando da un delicato falsetto al suo tipico contralto su uno sfondo di chitarre, basso e batteria. Deludono, invece, l'iniziale "Chopsticks", che suona come una ballata pianistica di Tori Amos senza possederne la carica drammatica, e la title track pervasa da una insignificante vena calypso.

Passano quattro anni prima del successivo Whitechocolatespaceegg (1998). Nel frattempo, la vita privata di Liz Phair è completamente cambiata: nel 1995 ha sposato il produttore cinematografico Jim Staskausas, dal quale ha avuto un bambino, Nick, un anno dopo. Il disco risente inevitabilmente di questa metamorfosi, presentando l'ex riot girl di Exile in Guyville nei panni di una songwriter matura. A migliorare è soprattutto l'impostazione vocale di Phair, che ha affinato il suo contralto e riesce ora a effettuare con disinvoltura improvvisi cambi di registro. Le sedici tracce sono tutte di buon livello, anche se manca la potenza di una "Girls! Girls! Girls!" o il fascino contagioso di una "Supernova." L'autobiografica "Pottymouthed Girl" ha attenuato i toni, che ora sono raramente "scandalosi". I temi sessuali sono diluiti e restano tra le righe ("Sticks and stones can break my bones/ and boys can make me kick and moan", nella psichedelica "Ride"). La title track abbina al tradizionale accompagnamento chitarristico alcune interessanti soluzioni elettroniche, mentre il rock da camera di "Perfect World" e il country teso di "Johnny Feelgood" sfoggiano melodie ariose e frizzanti. Se "Polyester Bride" punta su cadenze accattivanti da pop-song, la tenera litania di "Headache" segna invece un ritorno alle sonorità low-fi degli esordi. Il singolo "Polyester Bride" è una squisita canzone pop, con un coro intrigante e una storia curiosa, in cui il protagonista chiede alla sua amica se mai potrebbe "bother dating unfamous men". "Love Is Nothing" sfoggia un refrain pop trascinante. "Uncle Alvarez" è una confessione in terza persona sull'onore familiare e sulle delusioni sentimentali, mentre "Go On Ahead" è un altro soliloquio, dedicato alle difficoltà del matrimonio e della maternità. Ma forse il vero capolavoro del disco è il valzer malinconico di "Shitloads Of Money", summa melodica dell'intera opera, di fronte al quale impallidiscono sia la grinta grunge della title track sia il garage-rock di "Baby Got Going".

Nel 1994 Liz Phair aveva dichiarato: "Voglio essere una delle rock-girl, voglio rappresentare parte di tutto questo". Whitechocolatespaceegg la consacra proprio nel ruolo di icona femminile della musica rock, ma al tempo stesso ne altera i connotati. Se l'inno al "girl-power" di Exile In Guyville era la risposta femminista agli Stones di "Main Street", se Whip Smart era un incitamento all'emancipazione dai dogmi maschilisti, Whitechocolatespaceegg segna una via personale alla riflessione che travalica stereotipi e aspettative, collocandosi sulla falsariga del folk-rock di Carole King e Joni Mitchell, seppur aggiornato al tempo del low-fi.

Liz Phair celebra il successo del disco partecipando al festival tutto al femminile di Lilith Fair, insieme a Suzanne Vega, Sarah McLachlan, Sheryl Crow & C.: "Per me è stata una benedizione - ha raccontato - Questo lavoro è di solito detestabile, perché significa essere circondata sempre da uomini e non avere mai proprie simili accanto: un uomo riesce a immaginare di lavorare in un posto di sole donne, dal capo in giù? Perciò mi entusiasma il fatto di andare in giro con tutte loro, a fare quello che faccio".

Cinque anni dopo, esce l'omonimo Liz Phair. A 36 anni, ormai madre e con un divorzio alle spalle, la Nostra non perde il gusto per la provocazione sessuale ("Rock Me"), ma dimostra se non altro la volontà di emenciparsi da certi clichè che le stanno ormai stretti, virando verso una canzone pop più classica e raffinata, di cui sono saggi eloquenti brani come "Extraordinary" e "Friend of Mine".
Nel complesso, tuttavia, il disco è un buco nell'acqua e svela lo smarrimento profondo di colei che padroneggiava il verbo rock con sfacciata disinvoltura.

Una crisi che si aggrava ulteriormente nel successivo Somebody's Miracle (2005), dove Liz Phair è ormai la parodia di sé stessa. Testi banali e scontati, uniti a canzoncine degne di Avril Lavigne completano il pasticcio di un disco che suona tanto come il canto del cigno di una delle più irriverenti rock-girl dell'ultimo ventennio. Il brio del singolo "Everything To Me" non basta a evitare un flop tanto clamoroso quanto, tutto sommato, annunciato.

Anche se non sempre le sue canzoni sono state all'altezza delle sue ambizioni, Liz Phair ha forgiato una potente figura di rockstar femminile, portando a compimento l'opera pionieristica di altre eroine anticonformiste del rock, da Chrissie Hynde a Holly Vincent, da Joan Jett a Nina Hagen, da Madonna a Kim Gordon. Ed è difficile immaginare, ad esempio, "Jagged Little Pill" di Alanis Morissette senza un precedente come Exile in Guyville.

Liz Phair torna a distanza di undici anni da Funstyle (Rocket Science, 2010). Soberish parte (fin) troppo leggero con “Spanish Door” e “The Game”, dettando la linea di un morbido indie pop-rock acustico e melodico che veste testi tutt’altro che quieti (“What's inside that heavy head? / Are you on the junk again?”), con qualche guizzo rock (“Hey Lou” e “Soberish”):

L’album presenta comunque alcune tracce preziose che valgono per il tutto, come il pop-tune “In There”, scandito dal battito delle mani, e le ballad “Sheridan Road” e “Lonely Street”. Non sfuggono comunque una serie di dettagli che rendono interessanti brani apparentemente più semplici, come il chamber-pop di “Ba Ba Ba” e l’andamento grunge Laneganiano di “Soul Sucker”.

La nuova sfida di Liz Phair, colei che già al debutto era “esule in un mondo di ragazzi”, è quella di invecchiare. L’ageging è uno dei temi attuali dell’indie pop-rock americano, del quale si prendono cura, soprattutto sul versante femminile, anche le Sleater-Kinney.

Liz Phair

Discografia

Exile in Guyville (Matador, 1993)
Whip-Smart (Matador, 1994)
Juvenalia (Ep, Matador, 1995)
Whitechocolatespaceegg (Matador/Capitol, 1998)
Liz Phair (Capitol, 2003)
Somebody's Miracle (Capitol, 2005)
Funstyle (Rocket Science Ventures, 2010)
Soberish (Chrysalis, 2021)
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