Tracy Chapman

Tracy Chapman

La rivoluzione sottovoce

Delicata e timida songwriter di Cleveland (Ohio), Tracy Chapman ha saputo rivitalizzare la scena folk-rock degli anni Ottanta, dando via a una originale commistione con blues e gospel, e affrontando duri temi sociali, armata solo di voce e chitarra

di Francesco Serini, Stefano Fiori

Tracy Chapman è probabilmente la cantautrice nera folk più importante dagli anni Ottanta in avanti, anche se, smarrita la vena del folgorante esordio, molte sue opere si sono rivelate un po’ confuse e frammentarie. Di certo, il suo omonimo album di debutto del 1988, Tracy Chapman, ha rivitalizzato il cantautorato folk americano, influenzando molte colleghe delle generazioni a venire.

Ma di Tracy Chapman colpisce anche quel suo atteggiamento sempre umile e schivo, quasi misantropo, che l’accompagna. Basti pensare che nonostante il grande successo di cui gode non abbia mai avuto intenzione di lasciare la sua Cleveland in Ohio (Usa) dove è nata e continua ancora a vivere. Proprio qui, fin da piccola, da autodidatta imparò a suonare vari strumenti musicali, tra cui la chitarra acustica suonata in maniera diretta e semplice, senza virtuosismi inutili. Strumenti che accompagneranno in seguito la sua tipica voce, ruvida e profonda.

Dopo gli studi superiori vinse una borsa di studio per la Tufts University di Boston, dove si specializzò in Antropologia e Cultura Afroamericana. Fu proprio qui che si appassionò alla cultura folk, tanto da decidere di riunire questo nuovo interesse a quello musicale, che fin da piccola coltivava. Ogni sera dopo gli studi universitari si esibiva da sola nei vari coffee house di Boston riscuotendo un buon successo, tanto che in una di queste esibizioni venne notata da Brian Koppelman che la raccomandò al padre Charles della casa discografica indipendente Sbk e al produttore di Joni Mitchell, Elliot Roberts. Grazie a questi contatti Tracy Chapman riuscì a firmare un contratto per l’Elektra e a pubblicare quel classico, che è l’omonimo album di debutto.

Quello che impressiona, in Tracy Chapman (1988), è come un’artista poco più che ventenne risulti dotata dell’autorità morale del miglior Bob Dylan e della limpida e mai retorica lezione di Joni Mitchell, con quella capacità di dar vita a un folk “confessionale” che li accomuna. Ma non solo questo. Il suo divenne un vero e proprio caso. La Chapman era lontanissima mille anni luce sia da tutte quelle donne del periodo, anche di colore, che strumentalizzavano il canale Mtv per rendersi visibili, sia da quelle altre che sceglievano invece atteggiamenti snob-intellettuali proprio come risposte alle prime. La Chapman scelse una strada del tutto personale. Si pensi al classico inserito in questo lavoro “Fast Car”, che affrontava lucidamente i problemi tipici dell’America nera di periferia: disoccupazione e difficoltà ad avere i sussidi per vivere. Un tema del genere da un'altra artista di colore dell’epoca poteva essere interpretato in maniera aggressiva e rabbiosa, mentre la Chapman incantava proprio per la gentilezza e la delicatezza dell’esecuzione. Lo stesso accade per “Talkin’ About The Revolution” o per quel racconto di violenza familiare di “Behind The Wall”, cantato a cappella e con calma intensità: un desolato affresco di sobborghi malfamati e di polizia che arriva sempre troppo tardi, se arriva. Interamente cantato a cappella da una voce profonda, malinconica e androgina, è anche l'unico momento del debutto di Tracy Chapman a non essere accompagnato dal calore acustico della sua chitarra e delle percussioni, quello in cui le radici gospel vengono prepotentemente a galla.
Se i cangianti colori di "Across The Lines", forte di un fraseggio quasi etno-pop, appaiono meno cupi di quanto sarebbe lecito aspettarsi, l'interpretazione quasi ferisce per il piglio tagliente e delatorio. Il suo approccio è talmente schietto che in pochi mesi la neolaureata in antropologia verrà eletta come voce autorevole sui diritti umani e sulla lotta all'apartheid, complici la partecipazione al tour benefico Human Rights Now organizzato da Amnesty International e quella, ancora più celebre, al concerto evento per celebrare il settantesimo compleanno di Nelson Mandela.
L'ingiustizia descritta nelle sue canzoni appare talmente priva di risoluzioni che persino l'amore cui aggrapparsi disperatamente per tirare avanti è tutt'altro che consolatorio. Scevro di tenerezza e rispetto nell'agrodolce "Baby Can I Hold You", il cui smaccato romanticismo e quindi la fama raggiunta l'hanno via via spogliata dagli intenti originari, ma che nonostante tutto vale la pena proteggere a costo di finire in galera e pagare salate cauzioni, come raccontato nella sostenuta ballata country "For My Lover". È un amore che fa perdere il controllo, da bruciare immediatamente per la mancanza di prospettive future eppure irrinunciabile, quello che conclude l'album sulle note del delicato walzer di "If Not Now..." e con la spoglia, quasi sconsolata "For You", brani in cui la Chapman dimostra di conoscere alla perfezione la lezione intimista impartita da Joni Mitchell.
La fuga da una realtà così aspra sembra essere l'unico modo per lasciarsi alle spalle tanta disperazione, ma soltanto se sognata a occhi aperti si traduce in un lieto fine e nei momenti più lievi dell'album. Se le reminiscenze sudamericane di "Mountains O' Things" (sulla cui falsariga Ed Sheeran costruirà almeno tre dei suoi assillanti hit) tracciano l'ideale cornice a un'utopica vita ricca di agi, le cadenze caraibiche dell'ancora più scanzonata "She's Got Her Ticket" rappresentano l'unico sprazzo di fioca speranza dell'intera narrazione. Perché quando la fuga diviene reale nella disillusa "Fast Car", scelta per lanciare l'album, tutti gli sforzi per ricostruirsi una vita più dignitosa, immortalata in un luminoso refrain che si apre memorabile sulla cantilenante melodia, vengono distrutti da una miseria che come un segugio riacciuffa chi nasce con quello stigma sociale.
Con ben in mente le quotidiane contraddizioni politiche elencate nell'asciutto rock-blues di "Why?" (fin troppo ingenuo invero) non resta quindi che attendere una rivoluzione che prima o poi dovrà pur scatenarsi, anche se la consapevolezza per metterla in atto si trova ancora in uno stato embrionale, messa a dura prova da fame e disoccupazione. Ed è proprio il vibrante balbettio della trascinante "Talkin' Bout A Revolution" a inaugurare un lavoro i cui contenuti, dopo più di trent'anni e in pieno movimento Black Lives Matter, appaiono incredibilmente ancora attuali.

L’album di debutto otterrà recensioni entusiastiche ovunque nel mondo. La pacatezza dell'esecuzione e l'innegabile attitudine pop di cui i suoi brani sono pregni l'hanno reso non soltanto un disco di culto ma anche un successo in grado di vendere col tempo venti milioni di copie. Inaspettatamente, considerate le tematiche trattate e il vestito sonoro così scarno, non esattamente la tipologia di r'n'b che si era abituati a vedere in cima alle classifiche mondiali di quegli anni.
Tracy Chapman diventerà portabandiera di tutti gli artisti socialmente impegnati, tanto da cantare al Tour Human Rights di Amnesty International e al Nelson Mandela Freedomfest, tra il 1988 e il 1989.

Tutti comunque aspettavano il secondo album, una vera e propria prova del fuoco per la Chapman. E il secondo lavoro era Crossroads. L’album era l’ideale prosecuzione del debutto. Stavolta era minore l’influenza del folk confessionale alla Mitchell ma più forte lo spirito di Dylan e anche del suo discepolo Springsteen per l’inequivocabile “Born To Fight”. Più tematiche universali e più politica sicuramente.
Sebbene non ebbe l’accoglienza trionfale-isterica dell’album di debutto, ebbe comunque alcune ottime recensioni. Alcuni critici, però, sottolinearono che il suo carattere troppo schivo e riservato fino all’eccesso poteva diventare un pericoloso limite per chi, come lei, voleva essere artista politicamente impegnata. Rimanendo volutamente sola e appartata, rischiava di essere poco incisiva ed efficace quando affrontava temi sociali.

Quei critici non avevano torto e questa contraddizione venne fuori nel terzo album Matters of Hearts. Già la title track, con il tema della storia d’amore che prosegue senza più la passione di un tempo, ha effetti meno diretti ed immediati, se si confronta con la splendida “Baby Can I Hold You” dell’album d’esordio. Il suo talento è ineccepibile e la sua voce continua sempre ad emozionare. La canzone di protesta “Bang Bang Bang” poi, è un vero colpo sparato che colpisce duro. Ma effettivamente è difficile che tutto questo regga per 10 canzoni, se non si ha voglia di attualizzare i temi.
Se Crossroads era l’ideale prosecuzione dell’esordio, Matters of Hearts è la sua copia sbiadita. Anche il pubblico avvertì l’inadeguatezza della Chapman e gli otto milioni di copie vendute del debutto erano diventati ormai solo un lontanissimo ricordo. Chapman si prese quindi una pausa di riflessione di tre anni.

Quando tornò sulle scene, nel 1995, scelse come titolo del nuovo album New Beginning. Il “nuovo inizio” nasceva dalla consapevolezza di non voler riproporre a tutti i costi lo status di folk-songwriter politicamente impegnata che l’aveva caratterizzata nei tre precedenti album. Musicalmente, poi, grazie al nuovo produttore Don Gehman, la Chapman propose il solito folk contaminato ora con il blues per la splendida “Give Me One Reason” ora con il rock acustico, ora ancora con il country-rock acustico. Il risultato fu una gradevole ventata di freschezza. E i risultati commerciali non si fecero attendere. “Give Me One Reason” entrò nella Top 10 di Billboard e stazionò altissima in classifica per mesi, trainando l’intero album che arrivò a tre milioni di copie vendute.

Dopo la nuova prova intitolata Telling Stories, uscita nel 2000, che ha segnato un ritorno alle sonorità dei primi due album (il produttore infatti è lo stesso, David Kershenbaum), si è ripresentata nel 2002 con un nuovo lavoro in studio Let It Rain che risente inevitabilmente dell’11 settembre. Folk-rock acustico ma anche influenze inconsuete come il gospel caratterizzano i brani, con liriche quasi sempre dure e drammatiche. E’ un disco scarno ed essenziale, che poggia su arrangiamenti ridotti al minimo. Una storia lo attraversa, fino a “Over in Love”, tra la malinconia di pezzi “scuri” come “In the Dark” e “Broken” e la leggerezza di una canzone come “You’re the One”. E non mancano i consueti riferimenti sociali, come in “Hard Wired”, con esplicite allusioni al Grande Fratello televisivo, o in “Say Hallelujah”, invito alla speranza, ma sempre in chiaroscuro.

Co-prodotto dalla Chapman e dal noto sound engineer e mixer Tchad Blake (Los Lobos, Peter Gabriel, Pearl Jam, Tom Waits, Bonnie Raitt, Elvis Costello, Richard Thompson), Where You Live (2005) propone 11 nuovi brani che spaziano dalle ballate ("3,000 Miles","Going Back"), alla musica americana di grana grossa ("Before Easter", "Taken", "America"), a sprazzi di ardente rock (il singolo "Change").
I testi alternano, al solito, intimismo e riflessioni sociali: in "America", Chapman medita sul prezzo della scalata imperialistica occidentale, con "Going Back" e "3,000 Miles" esamina la lotta per l'identità in un mondo sempre più disumano, mentre brani come "Talk To You" e "Love's Proof" continuano la tradizione romantica di canzoni d'amore come "Baby Can I Hold You" (1988) e "I Am Yours" (2002).
Tra gli ospiti, anche il bassista Flea (Red Hot Chili Peppers) ha collaborato a tre brani, mentre la stessa Chapman, oltre ai testi, ha curato parti di chitarre, tastiere e clarinetto.
Tanto spiegamento di forze produce però un onesto album di mestiere e nulla più, lontano dall'eco vibrante degli esordi.

Tracy Chapman

Discografia

Tracy Chapman (Elektra 1988)
Crossroads (Elektra 1989)
Matters Of Heart (Elektra 1992)
New Beginning (Elektra1995)
Telling Stories (Elektra 2000)
Let It Rain (Wea 2002)
Where You Live (Wea 2005)
Pietra miliare
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