Vandaveer

Vandaveer

Storie dai rami che si spingono lontano

Un cantastorie in chiaroscuro, che sa bene dove poggiare le radici: Vandaveer non teme di rifarsi ai classici, ma secondo una sensibilità folk-pop tutta contemporanea. Con un nome d’arte pescato tra le memorie dell'albero genealogico, il songwriter americano ha saputo dare vita a un repertorio dai toni sognanti e dalle suggestioni noir

di Gabriele Benzing

“Just the nature of our kind”

Un vecchio orologio da tasca. Un cimelio di famiglia passato di mano in mano da una generazione all’altra: un uomo politico, un giocatore d’azzardo, un predicatore… e, alla fine, un cantautore. Un’unica parola incisa sulla cassa dorata: Vandaveer.

Mark Charles Heidinger ha deciso di usare l’egida di quel nome antico per raccontare le proprie storie. “Volevo offrirgli un’ancora di salvezza”, spiega. E così, Vandaveer è diventato il sinonimo di un songwriting dalle radici profonde, ma capace di spingere i propri rami al cuore del presente.

 

“Sono un ragazzo del Kentucky, ma con un pedigree dell’Ohio”, dice di sé Heidinger. Se l’Ohio gli ha dato i natali, è nella terra densa di tradizione del Kentucky che si è formato. “Ero alle superiori quando i Nirvana e i Pearl Jam hanno pubblicato i loro primi dischi. E quando hai 13 o 14 anni ed escono dischi del genere, è un po’ come un pugno nello stomaco. Ho subito pensato che volevo imparare a suonare la chitarra”.

Armato della vecchia Gibson del padre, Heidinger comincia ad avventurarsi nella musica americana, risalendo dal grunge fino alle canzoni di Bob Dylan, Neil Young, Tom Waits e Tom Petty. “Quella chitarra aveva un suono così naturale, legnoso e segnato dal tempo che era impossibile non usarla per scrivere canzoni folk”.

Ben presto, Heidinger comincia a esibirsi alla guida di un gruppo dalle ascendenze power-pop, gli Apparitions, con Robbie Roberts al basso, Robby Cosenza alla batteria, Eric Smith e Justin Craig alle chitarre. “Fratelli, compagni di stanza, ragazzi che cercavano di fare rock ’n’ roll”, ricorda con una punta di nostalgia. “Sono stati bei tempi. Bei rumorosissimi tempi”. Gli Apparitions pubblicano due album, “Oxygen Think Tank” nel 2003 e “As This Is Futuristic” nel 2006. Ma, quando Heidinger si trasferisce a Washington, la band si disperde, con Craig e Cosenza che vanno a unirsi ai These United States. Il legame, però, resterà sempre solido, con numerose collaborazioni nel corso degli anni. “Siamo ancora decisamente una famiglia”, afferma con risolutezza.

Per Mark, però, è giunto il momento di aprire un nuovo capitolo.

 

“However many takes it takes”

 

Grace & SpeedÈ alla fine del 2006 che Heidinger comincia a presentarsi in veste solista sotto il nome di Vandaveer. “Cercavo semplicemente uno spazio per del materiale più scarno, appunti di canzoni in realtà. Non pensavo che sarebbe diventato il mio progetto musicale principale, eppure è proprio quello che è successo”.

Un nuovo approccio, tutto teso ad imparare “che cosa rende una chitarra acustica la miglior macchina cantastorie del mondo”. Una nuova identità, fatta di un cantautorato romantico ed intimista che non teme di rifarsi alla lezione dei classici, ispirandosi dichiaratamente “ai soliti sospetti, quelli senza paura”. Nasce così il disco d’esordio di Vandaveer, Grace & Speed, pubblicato nel 2007 dall’etichetta di Washington Gypsy Eyes.

Vandaveer si presenta con l’umiltà del trovatore, intonando gli accenti folk di “However Many Takes It Takes” come se si trattasse di un apocrifo dylaniano dagli angoli smussati. “Per questo brano penso di aver rubato qualche accordo, di avere preso in prestito una boccata di parole e di averci spruzzato sopra una melodia non proprio sconosciuta”, confessa con un sorriso.

Ma, quando il ritmo di una drum machine scandisce la danza macabra di “Marianne, You’ve Done It Now...”, ci si ritrova trasportati immediatamente al tempo dei Tunng, con il clarinetto di Chris Sullivan ad evocare un’intera iconografia fatta di speranze bruciate in fumosi locali notturni.
Marianne ha inseguito le luci di un miraggio scintillante ed ha trovato solo una lama pronta ad affondare nella sua gola. Harold si è arreso alla rabbia e alla disillusione ed è sceso in strada imbracciando una pistola. Vandaveer racconta le loro storie con il tono asciutto di un narratore noir, assumendo in “The Street Is Full Of Creeps” le sembianze di un nudo Ed Harcourt alle prese con il repertorio del primo Tom Waits, per poi lasciarsi andare sulle note di “2nd Best” alla leggerezza di un cabaret per cuori sognanti.


Tra i bozzetti acustici di “Out Past The Moat” e “Different Cities” e ballate pop di zucchero filato come la title track e “Parasites & Ghosts”, a conquistare è il tocco lieve con cui Vandaveer riesce a riproporre il tradizionale copione del mestiere di songwriter. E la freschezza spumeggiante di chitarra, batteria e controcanti con cui “Roman Candle” suggella il disco si tinge addirittura del verde dei Belle & Sebastian di “The Boy With The Arab Strap”.

Le canzoni di Grace & Speed sembrano voler penetrare oltre la superficie, cercare l’essenza della fragilità delle cose. “Despite the possessions that we boast, we’re all parasites and ghosts/ And our planet’s just a temporary host”, riflette Vandaveer in “Parasites & Ghost”.

Non serve cercare di costruire un guscio di false sicurezze dentro cui nascondersi: “Demons, they don’t live outside, they burrow deep where they can hide/ Inside a safe, you will still feel vulnerable”. L’approccio alla vita di Vandaveer, affidato alla dichiarazione d’intenti di “However Many Takes It Takes”, ha la stessa semplicità della sua musica: “You’ve got to walk a million miles/ Honey, go walk them with a smile/ However many takes it takes”.

 

Dopo la pubblicazione di Grace & Speed (cui fa seguito, alla fine del 2007, il breve Ep di classici natalizi VNDVR XMSEP), per Heidinger arriva un incontro decisivo: quello con la cantante Rose Guerin, la cui comune passione per la musica folk fa subito scattare una scintilla tra i due. Da quel momento, Rose diventa l’imprescindibile controparte femminile di Vandaveer, un tassello imprescindibile della sua musica.

Heidinger approfondisce le sue radici con una serie di cover disseminate in varie compilation: “The Man In Me” di Bob Dylan, “Hey, That’s No Way To Say Goodbye” di Leonard Cohen e la “Long Black Veil” resa celebre da Lefty Frizzell. Ma bisogna attendere il 2009 per l’uscita del suo secondo album, Divide & Conquer.

Le morbide sfaccettature del disco precedente lasciano il posto ad una maggiore uniformità di tinte, sempre all’insegna di un songwriting dalle venature romantiche. Il passo amaro e solenne di “Fistul Of Swoon” introduce con grazia ombrosa le visioni di Vandaveer: “Though your towers are tall and your powers were grand, you could not understand how you fell from great heights”.

I delicati tratteggi acustici di “Woolgathering” e “Long Lost Cause” fanno pensare all’intimismo di Tom McRae, i cori spettrali di “The Sound & The Fury” evocano un Matt Elliott votato al pop. E quando la trama si irrobustisce, come nei toni marcati di “A Mighty Leviathan Of Old”, è la tempra del primo David Gray a fare capolino.

 

Registrato tra Washington e Lexington insieme al produttore Duane Lundy, Divide & Conquer è un disco dalla mistica arcana, in cui sirene e leviatani si materializzano accanto alle immagini di angeli e serpenti raffigurate nel booklet. L’amore, nei versi di Vandaveer, assume le sembianze di una machiavellica partita a scacchi, un diabolico divide et impera: e il prezzo da pagare, naturalmente, è la propria anima. “When you dance with the devil you don’t walk scot-free”, ammoniscono i chiaroscuri sfiorati dal piano di “Turpentine”.

Il grido che si leva tra i flutti dell’esistenza sembra rimanere senza risposta, soffocato da strategie e divisioni. Finché il silenzio, in “A Mighty Leviathan Of Old”, viene spezzato dall’oceano in tempesta del destino, travolgendo ogni menzogna al suo passaggio: “God spoke clearly for the very first time in my life/ The sounds he made were glorious and grave/ It was a tidal wave of rhythm”.

Nonostante qualche eccesso di linearità, Divide & Conquer riesce a confermare il talento per le tessiture pop di Vandaveer. Con la sua lieve carezza pianistica, il commiato di “Beverly Cleary’s 115th Dream” suggella l’album con un omaggio rivolto tanto a Mr. Zimmerman (“Bob Dylan’s 115th Dream”, A.D. 1965), quanto alla scrittrice di racconti per ragazzi Beverly Cleary. È proprio alla protagonista dei suoi libri, la piccola peste Ramona Quimby, che si rivolge la voce di Vandaveer: “Forever seems such a very long time”, canta dolcemente. “That’s a very good sign for peace and love and harmony, and all the things that lovers need like hope and health and clarity and time”.

 

“Listen to my story, I'll tell you no lies”

 

Dig Down DeepL’essenza di una canzone si coglie nella sua veste più spoglia. Dopo Divide & Conquer, Vandaveer decide di presentare un pugno di brani senza orpelli, lasciati alla loro semplice nudità acustica. Cinque tracce che vanno a comporre l’Ep A Minor Spell, ulteriore conferma di un songwriting sognante e denso di fascino. Insieme al secondo tributo di Heidinger alla tradizione natalizia, VNDVR XMSEP2, è l’antipasto che introduce il terzo album firmato Vandaveer, Dig Down Deep. Un disco che scava fino all'essenza, proseguendo lungo la medesima strada del diretto predecessore.

Si annuncia con il tono vibrante dell'inno, Dig Down Deep. Un inno per chi non si rassegna a combattere senza scopo la battaglia di ogni giorno. Il lieve tappeto ritmico di "Concerning Past & Future Conquests" rimanda alle atmosfere di Grace & Speed, caricandole di archi avvolgenti e sottolineature enfatiche. Il cantautorato schietto di Josh Ritter ("AOK") convive con la drammaturgia cameristica dei Decemberists ("Spite"). Ad alleggerire i toni, poi, ci pensano le movenze pop alla Marc Bolan (ma declinate in chiave indie-folk) di "The Nature Of Our Kind": "un piccolo numero", per usare le parole di Heidinger, "sul fatto di continuare a girare intorno a velocità bruciante, che ne siamo consapevoli o meno".

Nonostante qualche semplificazione di troppo, è ancora una volta nei chiaroscuri che si nasconde l'anima di Vandaveer: i fraseggi sognanti del pianoforte ammantano "As A Matter Of Fact" di un velluto teatrale, mentre "The Great Gray" tratteggia una marcia lugubre screziata di interferenze. "Amo la musica che scende nel lato oscuro delle cose: Nick Cave, quel genere di roba".

 

L'approccio diretto dei brani si ricollega a quello di A Minor Spell, ma in Dig Down Deep la mano del produttore Duane Lundy arricchisce di dettagli i contorni: "abbiamo trasformato casa mia in uno studio per qualche settimana, usando ogni stanza per ottenere suoni differenti. Bagno, cucina, soggiorno, ripostigli, sottoscala, abbiamo usato tutto quanto...". Così, la conclusiva "The Waking Hour" lascia da parte la vivacità acustica della versione presente in A Minor Spell per dilatarsi fino a rimanere sospesa soltanto alle voci di Mark e Rose: "We stood stone still at the base of a mighty case of stairs/ Stared straight up, searched for signs, such a steep affair".

Tra le punteggiature di "Beat, Beat, My Heart", il grigiore di un'esistenza addomesticata si contrappone alla tavolozza di colori della speranza: "I'll wager my fate for a glimpse of Technicolor love/ Oh, enough with all these grays". Che cos'è, in fondo, la speranza, se non la possibilità di trasformare le tinte di ieri in qualcosa di nuovo, la possibilità di ricominciare da capo ogni giorno? E il coro diventa un sussurro, nei versi che chiudono "Dig Down Deep": "By the grace of God, we can start again".

 

Nel 2011, Vandaveer partecipa a un progetto molto particolare, “The 78 Project”, in cui a ogni artista viene offerta la possibilità di registrare un brano della tradizione folk direttamente su disco, utilizzando un microfono originale degli anni Trenta. Mark e Rose decidono di interpretare “The Banks Of The Ohio”. Da lì a buttarsi nella realizzazione di un intero album di murder ballad, il passo è breve. Così, i due vanno nel cuore del Kentucky, in una fattoria carica di storia: “Volevamo uno spazio che fosse tanto antico quanto le canzoni che stavamo registrando. Ci siamo scambiati storie con quelle mura, facendo rimbalzare il suono da una stanza all’altra”. Con J. Tom Hnatow dei These United States e Phillips Saylor degli Stripmall Ballads a completare la formazione del gruppo, basta una settimana per dare vita al quarto album a nome Vandaveer, Oh, Willie, Please…, che vede la luce nel 2012, sempre con il fido Duane Lundy alla consolle.

Sin dai profumi agresti di “The Banks Of The Ohio”, la leggerezza solo apparente delle canzoni di Oh, Willie, Please… fa da contraltare all’oscurità dei racconti, inseguendo le suggestioni southern gothic degli Handsome Family. Il banjo appalachiano di “Pretty Polly” si insinua senza lasciare scampo, ma è l’incalzare del ritmo a scandire la tragedia, mentre le voci di Mark e Rose si intrecciano nel continuo alternarsi di prospettiva tra vittima e carnefice.

 

Il pensiero, parlando di murder ballad, corre inevitabilmente a Nick Cave, moderno cantastorie di assassinii per eccellenza. Ma Heidinger non teme il paragone e paga anzi un esplicito tributo al songwriter australiano sulle note di “Henry Lee”. Cave, del resto, non è l’unico nume tutelare del disco: tra le cronache che riemergono dalle nebbie del tempo, il Tom Waits di “Alice” presta a Vandaveer la sua “Poor Edward”, dedicata alla storia di Edward Mordake, l’uomo con due facce che scelse il suicidio pur di liberarsi del suo gemello diabolico. Come in un inquietante circo vittoriano, il tono si fa più spettrale che mai, su uno sfondo di fremiti di violino.

Vandaveer risale lungo l’albero delle genealogico che congiunge le murder ballad al folklore irlandese: storie dalle radici comuni che si declinano con accenti diversi, tra il lirismo di “Down In The Willow Garden” e la pedal steel che accarezza il duetto con Phillips Saylor in “The Knoxville Girl”. Il timbro caldo e vibrante di Rose Guerin conquista il centro della scena in “The Railroad Boy” e “The Drunkard’s Doom”, mentre i volteggi di valzer di “The Murder Of The Lawson Family” sembrano voler evocare il Titanic dylaniano per raccontare di come Charlie Lawson, nel giorno di Natale del 1929, uccise ad uno ad uno la moglie e sei figli, dopo aver fatto indossare loro gli abiti della festa.

Direttamente dalle pagine dell’“Anthology Of American Folk Music”, una scheletrica “Omie Wise” rivela come l’essenza di Oh, Willie, Please… vada oltre la semplice rievocazione di crimini passionali del passato. La gelida lucidità dello sguardo che John Lewis rivolge alla sua vittima porta con sé un male più profondo: “Little Omie, I'll tell you my mind/ My mind is to drown you and leave you behind”. “Dalle storie di fantasmi ai miti delle creazione, da “C.S.I.” a Shakespeare, dal voyeurismo dei notiziari a Edgar Allan Poe, la morte, l’omicidio e tutte le cose più orribili hanno affascinato e spaventato per secoli”, riflette Heidinger. “Nonostante il nostro desiderio collettivo di essere buoni e virtuosi, la gente fa cose molto brutte. E poi le racconta in una canzone”. Le murder ballad, in fondo, servono a questo: abbiamo bisogno che le storie sopravvivano, per permetterci di guardare allo specchio il nostro lato oscuro e imparare ad affrontarlo.

Vandaveer

Discografia

Grace & Speed (Gypsy Eyes, 2007)7
VNDVR XMSEP (Ep, Gypsy Eyes, 2007)6,5
Divide & Conquer (Alter K, 2009)
7
A Minor Spell (Ep, Death By Polka, 2010)6,5
VNDVR XMSEP2 (Ep, Death By Polka, 2010)6,5
Dig Down Deep (Alter K / Supply & Demand, 2011)7
Oh, Willie, Please... (Alter K / Quackmedia, 2013)7
Pietra miliare
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Streaming

However Many Takes It Takes
(live, da "Grace & Speed", 2007)
Roman Candle
(live, da "Grace & Speed", 2007)
Marianne, You've Done It Now...
(live, da "Grace & Speed", 2007)
Fistful Of Swoon
(da "Divide & Conquer", 2009)
A Mighty Leviathan Of Old
(live, da "Divide & Conquer", 2009)
Woolgathering
(da "Divide & Conquer", 2009)
The Nature Of Our Kind
(da "Dig Down Deep", 2011)
Dig Down Deep
(da "Dig Down Deep", 2011)
Spite
(da "Dig Down Deep", 2011)
The Great Gray
(da "Dig Down Deep", 2011)
Pretty Polly
(da "Oh, Willie, Please...", 2013)

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