Vashti Bunyan

Vashti Bunyan

La donna che visse due volte

Una piccola grande storia personale che è anche un esempio di come passato e presente si uniscano attraverso indefinibili gradi di separazione nella musica del terzo millennio. Dalla Swinging London a quella degli attentati nel metrò. Dallo spirito libero delle comuni a quello delle telecomunicazioni mobili. Da “Just Another Diamond Day” al disgelo primaverile dei tanti inverni passati in “Lookaftering”. Nel riflesso di Nick Drake e di una seconda possibilità di vivere in musica: Vashti Bunyan, vestale e musa riconosciuta del folk femminino degli anni 2000

di Simone Coacci

Solo recentemente ho scoperto che il nonno di mia madre era uno zingaro Rom. M’è capitato più volte d’incontrare dei veri nomadi, durante il mio viaggio, c’era questa donna in particolare che mi disse “Tu sei una di noi”. E io ne ero così felice anche se allora non sapevo nulla di questo mio bisnonno. Lui era la ragione per cui mia madre aveva gli occhi e i capelli così incredibilmente neri. E io che non riuscivo a capire da chi li avesse presi.
(Vashti Bunyan)

Il destino nel nome o, come un questo caso, nel cognome. Per certi versi la parabola artistica ed esistenziale di Vashti sembra una laica rilettura di quella del pellegrino cristiano in marcia, fra ostacoli, dubbi, ripensamenti e tentazioni, verso la Città Celestiale, raccontata da un suo lontano antenato, John Bunyan, in “The Pilgrim Progress”. Anche se, a dire il vero, più che una parabola, ricorda un'ellisse. Un viaggio nei cicli spazio-temporali e nelle circolari stagioni della musica folk anglo-americana che conduce, apparentemente, al punto di partenza. Per scoprirsi uguale a se stessa, diverso, intorno, tutto il resto. Un destino scritto sulle rughe della mano e la forza di allungarla, quella mano, per riprendersi un sogno sfuggito nell’incostanza erratica della gioventù. Una piccola grande storia personale che è anche un esempio di come, fra corsi, ricorsi e contaminazioni acroniche, passato e presente si uniscano attraverso indefinibili gradi di separazione nell’universo “glocale” della musica del terzo millennio. Dalla Swinging London a quella degli attentati nella metropolitana. Dallo spirito libero delle comuni a quello delle telecomunicazioni mobili. Da un nastro a bobina con il master di Just Another Diamond Day, al culto di internet e alla ristampa su cd che prelude al disgelo primaverile dei tanti inverni passati in Lookaftering. Da Donovan e la Incredible String Band a Devendra Banhart e Joanna Newsom. Il tutto nel riflesso di Nick Drake e di una seconda possibilità di rivivere in musica, oltre che di musica, toccata a entrambi sebbene sotto spoglie tragicamente diverse.
Può partire da qui la nostra macchina del tempo, a ritroso lungo i sentieri musicali di Vashti Bunyan - la donna che visse due volte - vestale e musa riconosciuta del folk femminino odierno.

La ragazza con la chitarra: fra Mary Quant e Joan Baez

Vashti Bunyan nasce nel 1945, a Londra. I suoi abitano proprio dietro i grandi magazzini Selfridges. L’infanzia e l’adolescenza trascorrono tranquille fra l’amore per gli animali, una precoce inclinazione per il disegno e una più confusa e sfumata passione per la musica, mutuata dall’ascolto della collezione di dischi del padre. “Gli Everly Brothers, Buddy Holly (…). Mio padre possedeva anche parecchi dischi di musica classica. Non ho idea di quali fossero gli autori, uno potrebbe chiedermi di citare un pezzo di Haendel e io non saprei proprio cosa rispondere, ma è tutto nella mia testa, sono cresciuta ascoltando quelle melodie e mi hanno influenzato tantissimo. Insieme con le canzoni che ti insegnavano a scuola, le canzoni di Natale (…). E la musica americana, il primo rock, il rock suonato dai bianchi che era l’unico che si poteva ascoltare a quei tempi”. Ma ecco gli anni Sessanta che, com’è noto, in fatto di musica pop, da quelle parti arrivavano sempre un po’ prima di altri, mentre lei era ancora una timida studentessa che frequentava la scuola d’arte dell’Università di Oxford: l’esplosione del Merseybeat, del rock inglese, e poi Dylan, naturalmente, e la rinascita della musica folk nell’immaginario giovanile. “La prima volta che sentii “Blowin’ In The Wind” ero alla scuola d’arte. Il tipo che la suonava non me la insegnò perché non riteneva giusto che una ragazza cantasse Dylan! Mi sembrò la cosa più bella che avessi mai sentito: dentro c’era tutto quello che io avrei voluto dire”.
È così che la giovane Vashti impara a suonare la chitarra e s’immerge nella conoscenza della nuova musica folk con le idee già abbastanza chiare su come non voleva che suonasse la sua: “Ho ascoltato anche Joan Baez, nel periodo in cui prendevo lezioni di chitarra. Non mi piaceva la sua voce. Quella specie di folk manierato che, specialmente qui da noi, era considerato tradizionale. Non ho mai particolarmente amato quel suo modo un po’ altezzoso di cantare, mi sembrava che quelle canzoni meritassero un altro trattamento. Volevo cantarle in modo più gentile”.
Compiuti i diciott’anni, fa il suo primo viaggio negli States e a New York entra in contatto con l’ambiente cosmopolita e stimolante del Greenwich Village. Un soggiorno esaltante che, unito al fermento estetico e creativo che stava rimescolando da capo a piedi lo stendardo della Union Jack ormai al tramonto del suo impero coloniale, la convinse che quelle sue mani agili e affusolate erano fatte per scrivere canzoni e suonare la chitarra piuttosto che per disegnare ritratti o nature morte. Così molla la scuola d’arte ed entra nel giro di Andrew Loog Oldham, il manager dei Rolling Stones. Lei lo rievoca così, quell’incontro: “Vuole la leggenda che io fossi questa piccola folksinger che Oldham ha scoperto e cercato di trasformare in una cantante pop: in realtà io desideravo con tutta me stessa essere una cantante pop!”. Poi tornando sull’argomento spiega: “Volevo andare contro ciò che era mainstream, nel senso di quelle cantanti allora alla moda, che sembravano appartenere più alla generazione delle loro madri. Indossavo jeans e t-shirt, mi vestivo come un ragazzo. E volevo portare questa mia attitudine nel pop mainstream”.

D’altro canto non è difficile intuire cos’abbia adocchiato in lei il quasi coetaneo ma già scafatissimo Oldham, vedendola suonare le sue prime soffici canzoni d’amore nei club semioscuri di Soho: una morettina dai grandi occhi chiari, le labbra sensuali, la figura magra e flessuosa, l’innocenza ch’allude al suo opposto, insomma una bella ragazza, un po’ Françoise Hardy e un po’ Marianne Faithfull, ideale per la scuderia di teen idol della Decca. È il 1965, annata clou della British invasion. Lei vorrebbe cantare le sue canzoni, ma Oldham, memore del successo ottenuto l’anno prima con l’accoppiata Rolling Stones/Faithfull di “As Tears Go By”, le propone un altro pezzo atipico (e melodico) uscito fresco fresco dal songbook di Jagger & Richards: “Some Things Just Stick In Your Mind”. Il brano è un ballabile tenero e swingante, arrangiato con un certo gusto dalla Oldham Orchestra (archi, fiati, piano), adatto all’immagine sognante e acqua e sapone della giovane beat. Il suo timbro lieve e sospirato è già riconoscibile, ma il singolo non riscuote il successo sperato (una versione antecedente degli stessi Stones comparirà solo dieci anni dopo su “Metamorphosis”). Sul lato B compare, un po’ defilato, il primo pezzo interamente composto dalla Bunyan, “I Want To Be Alone”, acerbo folk-beat, soffuso e orientaleggiante, che ci mostra il lato più ombroso e inquieto della sua personalità (“I dont know why it is but I sometimes feel/ That I have to get away yet/  I know I love you/ But sometimes I want to be alone/ Somewhere on my own”, un tema, questo, che ricorrerà più volte e con ben altra consapevolezza poetica nella sua produzione successiva).
Ci riprova l’anno dopo, sempre sotto l’egida di Oldham ma stavolta per la Columbia, con l’accoppiata autografa “Train Song”/ “Love Song”, due bozzetti folk intimisti e tradizionali (voce, chitarra acustica e qualche ricamo d’archi) nella fattura, che preavvisano lo stile di “Just Another Diamond Day” e, sebbene all’epoca nessuno se ne accorse, risaltano al meglio le sue qualità più originali: il tenue soprano, il picking leggero ed essenziale, il clima onirico e denso di romanticismo d’altri tempi, che oggi definiremmo dream-folk, o giù di lì.
Poi più nulla, a parte la partecipazione a “The Coldest Night Of The Year”, zuccheroso duetto pop orchestrale con Twice As Much (una coppia abbastanza nota a quei tempi: palese trascrizione albionica delle armonie vocali di Simon & Garfunkel), incisa nel 1967 ma pubblicata soltanto nel 70, e l’inserimento dell’ottima “Winter Is Blue” (una miniatura folk ispirata e malinconica, un po’ appesantita dall’uso smodato del moog, della seconda chitarra elettrica e del sottofondo orchestrale) nella colonna sonora di “Tonite Let’s All Make Love In London” (1967), una specie di documentario celebrativo della Swinging London. Ma le false promesse di quel mondo apparentemente dorato non s’avverano, l’insuccesso la ferisce, decide di cambiare vita, di tagliare i ponti con la musica commerciale.
Per fortuna è il 1968 e un mondo nuovo è già alle porte.

Happy Together: un mondo a parte

Vashti BunyanQuando si tratta di musica, in un biennio possono cambiare un sacco di cose, specie se parliamo del '67-'69. L’art-rock (e pop), in tutte le sue forme, sta riscrivendo la storia. Il concept e l’album a 33 giri hanno incrinato la dittatura delle classifiche e del mercato dei singoli e sono ormai strumenti espressivi a cui la maggior parte dei grandi gruppi, più o meno famosi, guardano con favore e familiarità. Una musica “alternativa” è possibile anche in seno a quella tradizionale. Solo per rimanere in Inghilterra e limitandoci ai più famosi: i Beatles si spremono fino all’ultima goccia di creatività realizzando le loro opere più riuscite, gli Stones prima si sborniano di psichedelia e poi salgono sulle barricate del maggio francese, i Pink Floyd ci portano in giro per galassie sconosciute sulla loro astronave psicotropa, gli Who preparano la loro opera rock definitiva e i Kinks celebrano la fine di un’epoca. Sul versante folk: il movimento diventa articolato e progressivo grazie ai dischi e alle sperimentazioni di Fairport Convention, Incredible String Band e Pentangle; Donovan, stanco di essere per tutti il Dylan britannico, si scioglie in sonorità acide e jazzate; l’istrione dei Them Van Morrison salda blues, folk celtico e jazz in un'architettura sonica d’inaudita potenza, mentre un giovanottino schivo e geniale di nome Nick Drake fa capolino dalla sua cameretta con dischi incompresi e inimitabili. C’è una grande apertura mentale e un’incredibile ricettività da parte del pubblico. È un momento straordinario per vivere e suonare insieme la nuova musica, una musica che allarga a dismisura e in molteplici direzioni i circuiti alienanti e proditorii del pop seriale.

Ai margini di tutto questo, un po’ frustrata, anche la Bunyan coglie l’attimo: Robert, il suo ragazzo, è amico di Donovan, il quale lo ha invitato a venire a trovarlo in una comune artistica che sta mettendo in piedi su nelle Ebridi, sull’Isola di Skye, precisamente; sembra un'ottima occasione per lasciarsi alle spalle il suo vecchio e modaiolo background londinese e Vashti, inebriata da nuove speranze e da tanta libertà, decide di seguirlo. Ed è qui che la favola comincia a mescolarsi alla realtà: non hanno una macchina, non hanno soldi, così Donovan invia loro 100 sterline con le quali comprano, dagli zingari, pare, una carrozza e un cavallo. Nel maggio del 1968 Vashti, Robert, la cavalla Bess e il cane Blue partono da Londra seguendo il solco tracciato dalla A6, all’epoca una delle strade più grandi e agevoli, attraversando quella che credono sia la via veloce per raggiungere l’estremo nord della Scozia. Non è proprio così: quando finalmente giungono a destinazione, dopo un allegro e sconclusionato vagabondaggio per le campagne inglesi, è passato più di un anno e siamo nell’estate del 1969, Donovan ha già abbandonato il progetto e ad aspettarli non trovano nessuno.

Tragicomico. Però si tratta di un esperienza forse irripetibile e ne è valsa comunque la pena: “Quel viaggio ci cambiò radicalmente. C’insegnò tante cose sulla natura e sulle persone. Durante il cammino vivemmo esperienze fantastiche, scampammo diversi pericoli e scoprimmo cose meravigliose. (…) Eravamo determinati a prendere le distanze dal mondo moderno in tutte le sue forme e i suoi condizionamenti. Volevamo essere completamente indipendenti e fare come se non esistessero. Creare un modo tutto nostro. Volevamo creare un mondo a parte e per un po’ ci riuscimmo. Ed è da lì che vengono le canzoni”. Già, le canzoni. Perché durante il viaggio Vashti, incoraggiata da Robert (“mi disse di lasciar perdere le mie solite canzoni d’amore e di trarre ispirazione da quello che c’era intorno a noi”), ha ripreso in mano la sua chitarra classica e appuntato in parole e musica una sorta di diario orale che tratteggia e mitizza lo scenario bucolico che li circonda. Tutte le cose che vedono, le emozioni che provano, le persone incontrano, quelle che hanno avuto modo di conoscere e quelle di cui possono solo immaginare o intravedere l’esistenza. Vashti si diverte un mondo, finalmente ha trovato la sua dimensione, il contesto ideale per esprimere tutta la coraggiosa semplicità del suo stile: quello sguardo puro e infantile, quelle armonie rarefatte e circolari accompagnate col minimo indispensabile che già trasparivano in filigrana dalla sua produzione precedente. Anche se, viste le cocenti delusioni del passato, non ha molta fiducia che ciò che sta facendo - principalmente per sé e per il suo ragazzo, per avere un ricordo indelebile della loro avventura - possa interessare a qualcuno, tantomeno diventare una specie di concept-album. E invece…

Diamond Days: il folk delle favole

E invece ecco spuntare il lieto fine (che va bene, appunto, per le favole, ma che, come vedremo, non reggerà al duro impatto con la realtà). Mentre sono ancora impegnati nel viaggio di ritorno, a metà strada per la precisione, nella zona del Lake District, Vashti e Robert incontrano Joe Boyd, produttore americano molto in auge all’epoca per il suo lavoro con i più bei nomi del nuovo folk britannico (Fairport Convention, Incredible String Band), che aveva già avuto modo di apprezzare le doti della Bunyan ai tempi della sua breve e sfortunata carriera londinese. Siamo nell’inverno del 1969 e a Boyd, che ha appena finito di produrre “Five Leaves Left”, l’esordio discografico di Nick Drake, e che di lì a poco si fregerà di apporre la sua firma su un altro capolavoro immortale come “Desertshore”, basta una sbirciatina nella valigia musicale della nostra cantautrice girovaga per capire che c’è talento e materiale sufficiente per cavarne fuori un disco di qualità. Per guarnire la pudica nudità del repertorio da viaggio della Bunyan, Boyd, analogamente a quanto fatto con Drake, allestisce una squadra di eccellenti strumentisti tradizionali per lo più provenienti dall’area delle due più grandi formazioni folk inglesi del tempo: Nicol Williamson, polistrumentista e leader degli Incredible String Band, Dave Swarbrick, archi e mandolino, e Simon Nicol, banjo, dai Fairport Convention. A occuparsi degli arrangiamenti sarà Robert Kirby, reduce dall’ottimo ma controverso (l’autore non ne fu mai troppo soddisfatto) lavoro sul disco di Drake.

Il risultato finale è, nel suo candore ricercato e fiabesco, uno stupefacente affresco bucolico, un paesaggio intimo e personale che racchiude ed epitomizza, al tempo stesso, tutta la purezza e l’ingenuità escatologica di un’utopia generazionale legata all’amore, alla natura e alla libertà. Non un recupero filologico del folklore celtico e anglosassone, dunque, né un manifesto ideologico e contro-culturale, ma la prefigurazione arcadica e francescana di un eden in cui la buona volontà dell’uomo, il suo desiderio di pace e riconciliazione ha finalmente ricucito la ferita eterna del peccato originale. Un altrove la cui forza visionaria germoglia non tanto dalla linfa narcotica della psichedelia o dal fervente concime delle rivendicazioni sociali, ma dalla contemplazione ammaliante e trasognata della bellezza della natura e di chi con lei vive in armonia, dall’umiltà nei confronti dell’immensità del creato e dalla liberazione dai bisogni e dai desideri indotti dal vivere moderno. “Dreamers should we asleep in bed” canta a un certo punto la Bunyan, come a sottolineare la fragilità di questo miracoloso equilibrio, basato sulla spiritualità e sulla fantasia, che non ha necessariamente un correlativo oggettivo e assoluto nella realtà del suo tempo. Come se avvertisse il presagio che l’incanto potesse rompersi da un momento all’altro. Anche per questo il disco, oggetto di tardiva ed entusiasta riscoperta, suona oggi, rispetto a molti suoi coevi e contemporanei, così atemporale, così poco datato.
Né le serpentine volute dei fiati, né le arcate a cielo aperto dei violini riescono a turbare l’essenza diafana ed evanescente di questi piccoli idilli, che si susseguono con esiziale variatio catturando i sensi dell’ascoltatore, lasciandolo rapito, a bocca aperta, in attesa della continuazione, come una fola già raccontata mille volte attorno al fuoco e di cui pure si attende l’esito con trepidazione.
Ma è lo stile di canto della Bunyan, raggiante e cristallino, appena offuscato da una vena di malinconia, quel suo modo inimitabile di sagomare sottovoce, in punta di lingua, le note acute, a imprimere un marchio originalissimo a un genere tanto annoso, quanto già allora inflazionato.
A tratti sembra persino poter fare a meno dell’accompagnamento, come nell’apertura a cappella di “Window Over The Bay”, a cui poi subentra una chitarra sparuta e sommessa, o semplicemente contornarsi di un picking crepitante e frugale che sembra lo-fi ante litteram (“Glow Worms”, “Hebridean Sun”, “Trawler’s Man Song”) e del cui impianto si ricorderanno, alla fine degli anni Novanta, tanti cantautori e cantautrici neo-acustici. A volte poi allunga le briglie e aumenta impercettibilmente l’andatura per lanciarsi, a passo di giga, in accattivanti nursery rhyme come “Lily Pond”, la danza delle stagioni in “Come Wind, Come Rain” e la deliziosa “Job Along Bess”, in cui, con la mano aggraziata di una scrittrice di libri per bambini, schizza il ritratto degli animali che furono suoi compagni di viaggio. Una scrittura che non perde la sua toccante semplicità nemmeno quando viene arricchita da orchestrazioni lillipuziane come in “Rainbow River” o “Swallow Song”, da fini tocchi jazzati, “Timothy Grub”, o assume, grazie agli splendidi contrappunti d’organo, flauto e arpa irlandese, i connotati di una fantasia celtico-disneyana, come nella perla “Rose Hip November”.

Opera controcorrente rispetto alla voga psichedelica e progressiva del suo tempo, Just Another Diamond Day fu pubblicata dalla Philips nel 1970 e, similmente all’esordio di Drake l’anno precedente, andò incontro a un esito commerciale praticamente nullo (si parla di qualche centinaio di copie) e fu liquidata dai critici come una raccolta di canzoni per bambini o una ridicola celebrazione di ottimismo hippie. Sui rispettivi fallimenti e sul parallelo con il cantautore di Tanworth-in-Arden, la Bunyan ha recentemente dichiarato: “Penso che in qualche modo mi aspettassi che le persone rimanessero indifferenti a quello che facevo, quello che non mi aspettavo è che rimanessero indifferenti a lui. La differenza fra noi due è che lui sapeva di essere un genio. Sapeva quanto fossero belle le sue canzoni, mentre io, all’epoca, avevo davvero poca fiducia nelle mie. (…) e questo gli ha spezzato il cuore. Lo ha spezzato anche a me, ma ho trovato sostegno nei miei figli e nella pace della mia vita domestica, mentre lui, probabilmente, non ha avuto questa fortuna”.

Addio alle favole: tre decenni senza musica

È un taglio netto, senza ripensamenti né mezze misure, quello che Vashti impone alla sua vita verso la fine del 70. Tra l’amore per la musica e quello per la natura è il secondo a prevalere. Piuttosto che continuare a bussare dietro le porte chiuse di un mondo per cui non si sente più pronta (o che non è ancora pronto per lei), alla tenera età di 25 anni decide di piantarla con i viaggi, con le grandi illusioni d’artista, di chiudere in una pesante madia i suoi sogni di ragazzina e di diventare donna, mettendo su casa e famiglia con Robert nei meravigliosi luoghi che li aveva visti così nomadi, felici e speranzosi solo un anno prima (un passato che a lei, ora, doveva sembrare lontanissimo, quasi fosse capitato a qualcun’altra). La coppia si stabilisce a Berneray, un'altra isola delle Ebridi, dove Vashti condurrà una serena e ritirata vita di campagna, allevando animali, badando alla casa e ai tre bambini che nasceranno nel frattempo (senza che i due siano mai stati sposati), abituandosi a contare il tempo sul ricambio delle stagioni meteorologiche piuttosto che di quelle musicali. La chitarra riposta chissà dove, a prendere polvere, non canterà più nemmeno per i tre figli, eccetto forse qualche ninna nanna: “Non avevo nemmeno una copia originale dell’album, solo un vecchio nastro ben occultato nelle profondità di qualche cassetto. Mia figlia qualche giorno fa mi ha detto che loro sapevano che non volevo che lo ascoltassero (…). Così a quanto pare lo prendevano e senza dirmi nulla lo portavano fuori, in macchina, dove c’era lettore di cassette e lo ascoltavano di nascosto. Ora mi sento in colpa per averli in qualche modo costretti a vivere senza musica, sicuramente senza la mia”.

Nel frattempo i mesi, gli anni e persino i decenni trascorsero inesorabili: andati i Settanta delle “domeniche, maledette domeniche” e della crisi del labour, in arrivo gli Ottanta degli scioperi e delle due Lady, Diana e quella “di ferro”, e poi i Novanta della rinascita del labour e di quella del britpop. Tutte cose che a Vashti, nell’ovattato distacco del suo nido isolano, dovevano sembrare attuali quanto le vecchie favole a cui un tempo s’era sforzata di credere: “Quando i ragazzi cominciarono a farsi grandi e ad andarsene di casa, comincio a sentirmi veramente separata dal resto del mondo. D’accordo c’erano sempre le cose che amavo come i cavalli (…) e quel senso di assoluta libertà. Ma l’isolamento per me era diventato sempre più opprimente, forse anche perché sono nata e cresciuta in una grande città. (…) Non è questione di andare sempre a teatro o di stare tutto il tempo in mezzo alla gente. È piacevole anche solo sapere che in ogni momento puoi uscire e incontrare delle persone. Quando vivi nel mezzo del nulla, rischi di diventare pazzo se ci pensi”. Fino al graduale ritorno alla normalità, verso la fine degli anni 90, quando la coppia decide di separarsi e Vashti si trasferisce a Edimburgo per cominciare, a più di cinquant’anni, una nuova vita. Ma stavolta sarà la favola a prendersi la rivincita sulla realtà. E, al risveglio dal lungo sopore, la bella addormentata avrà più d’una sorpresa.

Seconde occasioni e sogni che si avverano: il folk ai tempi di internet

Vashti BunyanPer puro caso o per uno strano disegno del destino. Non lo sapremo mai. Certe cose finiscono, altre invece nascono, proprio così. Cercando un sistema pratico ed economico per avere notizie dal mondo e rimettersi gradualmente al passo coi tempi, Vashti si compra un computer dotato di connessione internet. Un giorno prova a digitare il suo nome sul motore di ricerca. Lo abbiamo fatto tutti almeno una volta - credo - un po’ per gioco, un po’ per curiosità, anche se dubito che qualcuno abbia mai ottenuto risultati altrettanto sorprendenti. Scopre che, in trent’anni di semi-clandestinità, quello che considerava il suo più grande fallimento, s’è trasformato, nel culto degli appassionati, nel giro dei grandi musicisti folk nati o cresciuti alla fine degli anni 70, nei tardivi mea culpa di quella critica allora così sprezzante o fra le eccitanti scoperte della sua più avveduta progenie, in una sorta di capolavoro perduto. Le superstiti copie originali vengono battute a prezzi folli su e-bay e le versioni pirata generano un ingente traffico di scambi peer-to-peer. Circolano addirittura leggende metropolitane secondo le quali dietro al nome Vashti Bunyan si celerebbe chissà chi. O che l’autrice sarebbe morta giovane in circostanze più o meno fantasiose e avvolte nel mistero.

A lei sarà venuto da sorridere e magari anche qualcosa di più: “Era una sorpresa indescrivibile leggere tutte queste recensioni che dicevano esattamente quelle cose che io avrei voluto sentire ai miei tempi. Ne fui letteralmente sconvolta”. Un’occasione del genere, dicevamo, non capita a caso. O forse sì. Ma sarebbe comunque un delitto lasciarsela scappare. Una volta riavutasi dall’incredulità della notizia, Vashti si getta a capofitto alla ricerca dei master originali di cui riacquista i diritti e nel giro di un paio d’anni (2000) la ristampa su cd di Just Another Diamond Day viene distribuita per i tipi della Spinney Records.
All’inizio Vashti non è molto ottimista, teme che il passato possa ripetersi, che la dura legge del mercato abbia ancora la meglio sulla sua ritrovata autostima di musicista, per cui si prepara psicologicamente: “Ci aspettavamo che il cd vendesse due o trecento copie, magari fra le persone veramente interessate o grazie al fatto che ci suonava la Incredible String Band”. Invece sono più di 50.000. E un coro ininterrotto di ovazioni che si leva da una parte all’altra dell’Oceano Atlantico. Il tempo e la mutata percezione di questo tipo di musica - non più solo veicolo di critica sociale o studio musicologico della tradizione, ma linguaggio espressivo universale, svincolato dalle dinamiche storiche e dai contenuti originari, che trova corrispondenza, a livello formale, nell’urgenza dei nuovi autori di dire qualcosa di sè nel presente - hanno reso giustizia al suo piccolo grande gioiello e una nuova carriera può ora cominciare esattamente dal punto in cui l’altra s’era interrotta.

Turning back and lookafter the future

“All’inizio ero veramente terrorizzata perché non cantavo da tanto di quel tempo e non sapevo se sarei stata in grado di farlo ancora. Non ero nemmeno sicura di ricordarmi come si faceva. Ma quando mi sono trovata di fronte a un microfono mi sentii come se non avessi fatto altro per tutti quegli anni. (…) Era come se la mia vita fosse ricominciata da capo, la mia vita musicale stava per diventare quello che avevo sempre desiderato”.
Sì, perché le proposte non mancano e sono prestigiose. È il tributo riservatole da artisti indie, diversi per età e provenienza, che si muovono al confine fra l’alt-folk e l’elettronica di ultima generazione. Mentre alcuni brani del periodo pre-"Diamond Days" (come “Winter Is Blue” e “17 Pink Sugar Elephants” che è una ripresa in chiave psichedelica di “Train Song”) rivedono la luce in compilation di rarità d’epoca, Vashti scioglie la brina dalle sue corde vocali cantando per la prima volta dopo trenta e passa anni su del materiale nuovo di zecca. L’esordio data 2002 con “Crown Of The Lost” (contenuta nell’album “Writers Without Home”), un pezzo composto per lei dai Piano Magic: impianto minimalista tendente al dream-pop, coi battiti della drum machine che pulsano sotto un'elegante texture di piano e picking acustico, a cui la voce di Vashti, soffice e discreta come un’amica fedele che ha vegliato su di noi in silenzio per tanti anni, dona un fascino antico e pagano, la formula d’un sortilegio silvestre. Roba di prima qualità, come “Dark Ages”, sempre curata dal collettivo londinese (dall’ Ep “Saint Marie” nel 2004), un madrigale oscuro e sintetico che parla di rimpianti e occasioni perdute, e “Rejoicing In The Hands” , grazioso uncinetto lo-fi di Devendra Banhart (fan di lunga data della Bunyan, che a inizio carriera pare si scrivesse il nome di lei sulle braccia prima di salire sul palco) a cui presta un allietante controcanto.

Ma il vero banco di prova per misurare pienamente il talento innato e rinato (anche se in realtà non era mai morto) della Bunyan è l’Ep Prospect Hummer che condivide con gli Animal Collective nel 2005, pochi mesi prima dell’uscita del suo secondo album ufficiale. Quattro brani di avant-folk astratto, polifonico e (parzialmente) decostruito: in tre di queste composizioni elettroacustiche sgorga perfettamente armonizzata la voce guida della Bunyan - si ha la netta sensazione che, nonostante i suoi trascorsi atipici e la lontananza musicale dagli artisti che l’accompagnano, non abbia praticamente mai cantato altro -  permettendole così di continuare a coltivare il suo personale “giardino d’Armida”, trasfigurandolo, per l’occasione, in fattezze meccaniche e futuribili. Apre “It’s You”, melodia operistica cantata praticamente a cappella, corredata da cascate di scroscianti arpeggi che entrano in dissonanza e da occasionali contrappunti pianistici e corali; fa ancora meglio la title track, sorta di marcetta caricata a manovella sugli schioccanti accordi della chitarra, con intermezzi esotici e corali, e il gorgheggiare a fior di labbra della Bunyan, più assorto e trasognato che mai, come un magico pifferaio che conduce chissà dove il suo esercito d’inseguitori metallici; poi dopo un pezzo strumentale, “Baleen Sample”, vortici marini di chitarra e richiami di balene al posto delle voci, chiude “I Remember Learning How To Dive”, apparentemente più tradizionale, scandita dall’incessante ticchettio di una sveglia/metronomo e ingarbugliata da bizzarri raddoppi vocali.

La Vashti si trova così bene a queste latitudini un po’ scentrate e metafisiche che firma con la Fat Cat, etichetta per la quale, sul finire dello stesso anno pubblicherà il suo capolavoro: Lookaftering.
Il sospirato come-back sulla lunga distanza è, e non potrebbe non essere diversamente, un lungo ponte sospeso fra passato e presente. E non solo perché, sotto l’egida del compositore neo-classico Max Richter, si riuniscono intorno a lei figure care e rassicuranti della musica d’autore del passato (Robert Kirby) e del presente (Devendra Banhart alla chitarra acustica, Joanna Newsom all’arpa, Adam Pierce al dulcimer e Adem all’harmonium e all’autoharp). Ma perché attraverso quest’opera “autogena” Vashti ha modo di riprendere e tirare definitivamente le fila del suo percorso di donna e musicista, di colmare quei trent’anni di vuoto trascorsi dall’uscita del predecessore, di riflettere sui temi della maternità, dell’isolamento, della disillusione e infine del distacco dai figli e dal compagno di una vita. Nella medaglia artistica ed esistenziale della Bunyan: la faccia umbratile, domestica e crepuscolare opposta a quella luminosa e idilliaca dei “Diamond Days”. L’acquiescenza della clausura familiare, il letargo dell’abitudine di una donna adulta, che a poco a poco subentra all’irrequietezza peripatetica della ragazza che sognava di essere una zingara. Nessun rimpianto per la svolta imboccata al crocevia del destino, nessun rancore nei confronti di chi l’ha delusa, compresa se stessa, ma un senso d’infinita nostalgia non per qualcosa in particolare, ma per il sogno e la trepidante attesa di quell’ipotetico qualcosa che forse resta la parte migliore del vissuto, una dolcezza arresa e malinconica, che accetta con rassegnazione lo scorrere del tempo e l’inevitabilità della solitudine, ma tiene viva, in un angolo del focolare, la speranza di risvegliarsi un giorno sotto il cielo aperto di quell’immagine ideale e realizzata di sé che sembrava perduta per sempre. Il ritratto poetico di un’ascosa e impalpabile nevrosi femminile, che fa un po’ Sylvia Plath e un po’ Emily Dickinson, mitigata dalla quiete e dal sollievo del senno del poi.

Nonostante il taglio moderno e minimalista della produzione, Lookaftering è un disco atavico e fuori dal tempo (da ogni tempo) tanto nei suoni quanto nella strumentazione, distante il più possibile dalle recenti escursioni elettroniche della cantautrice. Rispetto al lontano esordio, Richter e la Bunyan stemperano la matrice folk in un orchestrazione neo-classica più complessa, avvolgente e curata, ma senza correre il rischio di soffocare la “nuce” intimista e confessionale delle sue tipiche melodie; le linee delle chitarre e il lavorio del picking vengono efficacemente assimilati nel delicatissimo intarsio armonico del piano, dell’arpa e di strumenti a corde d'altri tempi (dulcimer, harmonium, mellotron, rhodes) e sublimati nell’arrangiamento degli archi e dei fiati (anch’essi atipici: oboe, corno inglese e francese, qualche accenno di tromba). Uno scrigno nitido, regolare ed elegante che racchiude canzoni tenere e rugose come antiche, inestimabili pergamene.
Sia che s’arrenda all’evidenza d’un addio (“Lately”) o si abbandoni ai ricordi che la invasano come fantasmi d’un'altra vita (“Here Before”), sia che scelga un abito essenziale per piano e voce (con un giocoso controcanto di fiati) come in “Hidden” o per voce e chitarra (doppiata nel finale) come in “Wayward”, sia che si rifaccia alla tradizione rinascimentale (“If I Were”, con l’arpa di Joanna Newsom in grande spicco) o a quella Vittoriana (“Feet Of Clay”), la Bunyan rimane sostanzialmente fedele a se stessa e si lascia guidare dal suo infallibile sussurro, un richiamo di sirena, la bussola inaffondabile della sua tortuosa traversata musicale. Un soliloquio che tocca l’apice della commozione in brani come “Turning Back”, dedicata a Nick Drake e forse un po’ anche a se stessa (“Indifference is the coldest hand/ It is the wave that clears the sand/ of castles built by baby hands/ before the gulls come in to land”) e “Same But Different” con gli archi in crescendo, nel finale, e quella splendida apertura di oboe che lascia letteralmente senza fiato. Chiude degnamente “Wayward Hum”, ripresa della canzone omonima con un sommesso mormorio al posto delle parole, che è forse l’epitome più lampante del suo stile unico.

Certe cose ti rimangono in mente: un cerchio che si chiude

Il resto è cronaca spicciola degli ultimi anni. Tournée centellinate ma assidue in tutti i principali paesi anglofoni, quasi sempre accompagnata da signori musicisti alt-folk, come gli Espers o i Vetiver, partecipazioni a Festival prestigiosi, omaggi da parte di colleghi importanti. Il resto, com’era già successo per Drake, lo fanno gli spot: nel 2006 “Diamond Days” diventa un tormentone televisivo grazie alla T-Mobile, nel 2008 “Train Song” è il leit-motiv prescelto dalla Reebok per una campagna pubblicitaria. Ironia della sorte. Eterni ritorni che si amalgamano nel tentacolare panta rei dell’industria culturale, e che lei commenta ironicamente con grande fatalismo e saggezza: “Per me è stata una specie di rivincita. La dimostrazione che ciò che ho sempre pensato delle mie canzoni era vero: che si potevano vendere bene, che avrebbero catturato l’attenzione della gente. E non mi sento colpevole per questo. Con il ricavato ho potuto pagare il college ai miei figli”.

Potenzialità commerciali a parte, il ciclo di questa sua seconda giovinezza si chiude idealmente nel 2007: esce la doppia raccolta Some Things Just Stick In Your Mind. Un doppio album che nel lato A compendia efficacemente i suoi esordi yè-yè contemperandoli di rarità e alternative take e nel lato B, riporta alla luce la registrazione spoglia e in presa diretta di una prova per sola voce e chitarra (che oggi sarebbe un signor disco in bassa fedeltà) datata 1964. È sufficiente auscultare il crepitio della lingua contro il palato, il caldo fruscio del respiro, il molle velo della saliva che umette le cesure dell’arco melodico, mentre balenano sulle poche ruvide piste dell’annosa registrazione e danno forma a piccoli sonetti amorosi per voce e chitarra come “How Do I Know”, “Leave Me”, “Find My Heart Again”, “Go Before The Dawn” e “I Know”, per avere un’idea del suo dietrologico potere di suggestione nei confronti della scena attuale.

Allontanati tutti i preziosi collaboratori del suo secondo album, Vashti Bunyan chiama Robert Kirby per gestire le partiture orchestrali del suo nuovo progetto discografico, subentrando a Max Richter. Registrato e arrangiato con piano, tastiere e chitarra, Heartleap (2014) non soffre il formalismo tecnico dello studio di registrazione, mostrandosi come un album privo di panico o tensione, un progetto più meditativo e personale, un puro distillato di armonie cristalline dal canto gentile.
La Bunyan raccoglie i frutti di quell’intimismo mai oscuro e sempre ricco di comunicatività che la contraddistingue: la sua musica accarezza e non conosce l’esuberanza e la superbia dei tempi moderni, è fragile come una ninna nanna e ricca di misticismo come una preghiera, un luogo dove il fragore del silenzio è più forte della parola.
Come sempre l'artista non brama attenzioni particolari, né usa l’arma del beautiful loser dell’industria discografica per accattivare il suo pubblico: lei è solo felice di poter parlare attraverso la sua musica senza dover usare altre maschere. In Heartleap attraversa le intemperie della vita (“Across The Water”) sorpresa di poter re-incontrare gli amici (“ho aperto gli occhi e tu eri lì”, canta nella incantevole “Here”) e affrontare il ricordo dolce e struggente delle cose perdute: ( “Mother”) mettendo in fila alcune delle note più memorabili del disco.
Il terzo album di Vashti Bunyan è come un neonato che hai paura di lasciare incustodito, un album la cui bellezza diventa quasi difficile da raccontare, anche se basta l’ascolto della sola ”Jellyfish” per capire che siamo di fronte a un nuovo capolavoro privo di coordinate temporali: anche il suono dei synth non ha avuto bisogno di essere sostituito dal suono più naturale di un piano per non perdere il  fascino bucolico e poetico. La creatività ha vinto sulla paura, l’onestà ha distrutto l’ambizione regalandoci un gioiello da custodire con cura evitando che la luce dei riflettori ne oscuri la bellezza.

Contributi di Gianfranco Marmoro ("Heartleap")

Vashti Bunyan

Discografia

VASHTI BUNYAN
Just Another Diamond Day (Phillips, 1970)

7,5

Lookaftering (Fat Cat, 2005)

8

Some Things Just Stick In Your Mind (Fat Cat/Spinney, 2007)

6,5

Heartleap(Fat Cat, 2014)8
VASHTI BUNYAN & ANIMAL COLLECTIVE
Prospect Hummer (Ep, Fat Cat, 2005)

7

Pietra miliare
Consigliato da OR

Vashti Bunyan su OndaRock

Vashti Bunyan sul web

Official website
Lyrics
  
 VIDEO
Some Things Just Stick In Your Mind (registazione televisiva, 1965)
I Want To Be Alone (registrazione televisiva, 1965)
Wayward (live, da "Lookaftering", 2006)
Swallow Song (live, da "Just Another Diamond Day")
Diamond Day (live, da "Just Another Diamond Day")
Intervista per la BBC