David Bowie

Addio all'uomo delle stelle

L'uomo che cadde sulla terra è tornato, infine, da dov'era venuto: "Look up here, I'm in heaven, I've got scars that can't be seen, I've got drama, can't be stolen, everybody knows me now". Un incipit, quello del nuovo singolo "Lazarus", che diventa l'epitaffio di una vita vissuta come un'opera d’arte, l'uscita di scena di un musicista preveggente, che ha saputo come nessun altro giocare con i cliché del rock, abbattendone le barriere, creando un'estetica.
Lo ha fatto forgiando personaggi memorabili, che si sono instillati nell'immaginario in modo se possibile ancora più prepotente delle sue canzoni (e che canzoni!). "There's old wave, there's new wave, and there's David Bowie", recitava la locandina dell'etichetta RCA nell'anno del lancio di "Heroes", e mai slogan pubblicitario fu più azzeccato, giacché Bowie era un'antenna capace di captare segnali, di riprogrammarli restituendoli al mondo in nuove, abbaglianti fattezze. Bowie era, ed è, la sempiterna terza via con cui, volenti o nolenti, si doveva e si dovrà fare i conti.
Con lui il folk diventa teatro, il glam bisessuale e cosmico, il soul androgino e plastico, il crooning gelido ed emaciato, l'ambient e il kraut-rock improvvisamente fruibili, il new-pop romantico e truccato, il funky cotonato e bianco, il drum 'n' bass non più materia per danze impasticcate, ma per copertine di riviste patinate, e si potrebbe continuare.

In cinquant'anni di carriera abbiamo fatto i conti col menestrello psych-folk, con Ziggy (non ci sono personaggi equiparabili... Ziggy è Ziggy, e nessun altro...), poi è stata la volta del sottile e drogatissimo Duca Bianco, dell'esistenzialista teutonico, del pierrot new romantic, del frontman che più stiloso non si può, del rocker ben vestito, dell'eroe post-industriale e infine, nell'ultimo decennio e forse più, con l'artista che si leva la maschera mostrandosi uomo con un pudore sempre più impercettibile, sempre meno trasfigurato.
E infatti, piano piano, progressivamente negli ultimi vent'anni, nella sua musica ha iniziato a prendere piede un'inquietudine diversa, l'ossessione per il tempo che passa, la crescente consapevolezza che il mondo non fosse più il palco per cui imbastire delle geniali e sgargianti messinscene.
Ma anche se lo specchio non restituiva più personaggi da inventare, né tendenze da veicolare, David Bowie è persino riuscito a farci credere che anche il grave malore che lo ha colto nel 2004 facesse parte del suo spettacolo: quel rimanere dietro le quinte per quasi dieci anni, e ritornare dopo essersi nascosto dietro a un silenzio assoluto, prima dimesso con "Where Are We Now?" e poi brioso con l'album che ne è seguito, aveva per certi versi stemperato la tensione.

"Hai visto? Bowie è tornato, anche questa volta...!". Ecco, ce lo siamo ripetuti anche all'annuncio dell'uscita di "Blackstar", e ormai rinfrancati siamo tornati ad attribuire tutte le ombre che contiene all'ennesimo dei suoi travestimenti. E invece no, questa volta ci stava dicendo che era finita per davvero, che questo era un addio ma che, anche questa volta, sarebbe stato lui a decidere il come e il quando.
David Robert Jones lo ha davvero deciso alla sua maniera, due giorni dopo il suo compleanno, due giorni dopo l'uscita del suo testamento artistico: l'eroe per un giorno è anche riuscito a scegliere il modo con cui consegnarsi all'eternità.
Maggiore Tom, comincia il conto alla rovescia, accendi i motori, controlla l'accensione, e che Dio ti assista.