Afterglow

25 grandi pezzi prog dei Genesis dopo Gabriel

Per quasi vent’anni ci ho creduto. Alla storia dei Genesis che, dopo l’abbandono di Peter Gabriel, voltano le spalle al progressive e ai loro fan storici per dedicarsi esclusivamente al più bieco pop da classifica. Ok, magari gli anni non sono stati proprio venti: diciotto, dai, forse, sedici. E comunque sia le versioni più estreme della diceria non mi hanno mai sedotto: quelle secondo cui Phil Collins è sinonimo di tradimento, e i dischi interessanti della band finiscono con “The Lamb Lies Down On Broadway”. Che i primi due album con alla voce lo storico batterista siano riusciti e pienamente progressivi, d’altra parte, è cosa difficile da negare. Tendevo a prender per buona, invece, la lettura più “soft” della vicenda: non è stato l’addio di Gabriel a innescare il patatrac, ma quello di Steve Hackett. La narrazione funzionava: i tempi combaciavano col declino del prog a favore di altri generi, col successo mondiale della band grazie a pezzi indubitabilmente non-prog, col dileguarsi dei funambolici assoli di Tony Banks e, giocoforza, del chitarrista (che avrebbe invece, lui sì, continuato con una carriera sempre orientata in senso progressivo).
Ma sbagliavo. Perché non c’è alcunché di vero in entrambe le ricostruzioni. Sono balle complete, e per un motivo banale. I Genesis non hanno mai smesso di suonare progressive.

webp.netresizeimage_52Ma come - qualcuno obietterà - vorrai mica sostenere che “Invisible Touch” (138 milioni di streaming su Spotify), “I Can’t Dance” (94 milioni), “That’s All” (87 milioni) siano pezzi prog? No, affatto. Sono pezzi pop (bei pezzi pop oserei affermare, ma questo è un altro discorso) senza evidenti elementi progressivi, ma riconoscerlo non inficia la tesi. Il punto non è ammettere che i Genesis degli anni Ottanta abbiano inciso molti brani puramente pop e fatto il botto grazie a quelli: non c’è bisogno di ammetterlo, i numeri parlano da soli. È invece testimoniare che quegli stessi album con cui Banks, Collins e Rutherford scalavano le classifiche, i vari “Abacab”, “Genesis”, “Invisible Touch”, “We Can’t Dance”, contengono oltre a singolazzi e altre efficaci canzoni strofa-ritornello anche un apporto stabile di brani prog fatti e finiti - e fra i più entusiasmanti della loro epoca, peraltro.

Non è tutto qui. È l’intera vulgata attorno alle sorti del gruppo a fare acqua. L’idea che la band abbia improvvisamente deciso di vendere anziché di badare all’arte, ad esempio. Fin dagli esordi gli album hanno incluso accanto alle suite anche brani più diretti e commerciali, alcuni dei quali rilasciati come singoli nella speranza di “fare il botto”. “Seven Stones” su “Nursery Cryme” (e in 45 giri con “Happy The Man”, mai edita su album), “Time Table” su “Foxtrot”, e perfino due su “Selling England By The Pound”: “More Fool Me” e “I Know What You Like (In Your Wardrobe)”. Perché, nel ricostruire le vicende della presunta “svendita” della band, ci si dimentica di questi pezzi? Beh, perché è facile dimenticarsene: sono stati dei fallimenti, e musicalmente si tratta di brani così inoffensivi che non vale la pena rodercisi il fegato. Si finisce, anzi, per affenzionaricisi pure un po’. Ma sono lì, e testimoniano che il sogno di sfondare, e di farlo con canzoni di formato adatto alla radio, c’è sempre stato ed è sempre stato perseguito. Solo che per molto tempo, spiace constatarlo, il gruppo non è stato bravo a costruire pezzi di facile acchiappo. Dalle parti di “...And Then There Were Three...”, con l’inatteso successo di “Follow You Follow Me”, ha però iniziato a ingranare, e molto comprensibilmente ha deciso di scommetterci anche in seguito. Ma, esattamente come i Genesis non hanno mai smesso di fare prog, non hanno nemmeno mai incominciato a suonare pop radiofonico: ci hanno sempre provato.

Poi c’è l’altra baggianata ricorrente, quella di Phil Collins despota che si impossessa della band e la sfrutta per i propri loschi fini di egemonia commerciale. Niente di più distante da ciò che emerge in racconti e ricostruzioni storiche: il mastermind della band, prima durante e dopo la residency di Collins alla voce, è stato costantemente Tony Banks! Sua, stabilmente, la gran parte delle composizioni; sue le scelte timbriche che hanno maggiormente orientato il sound del gruppo; suo il principale contributo alla tortuosità delle trame strumentali negli anni Settanta e alla loro semplificazione nel decennio successivo. Il periodo ottantiano, peraltro, è stato il più democratico della storia della band: mentre prima di allora i brani erano composti da singoli o coppie (prevalentemente Banks/Rutherford, con l’occasionale apporto di Hackett e Gabriel prima, e di Collins poi), con “Abacab” prende il via una nuova modalità compositiva e decisionale, che vede la band impegnata in lunghe session improvvisative basate sull’equo apporto di ciascun componente, dalle quali poi di comune accordo si sarebbero estrapolate le idee chiave per i pezzi.

webp.netresizeimage_51Ma almeno qualcosa di fondato, nella narrazione dominante, ci sarà? Beh, che i Genesis anni Ottanta siano altra cosa rispetto ai precedenti è innegabile. E il loro successo discografico certamente è stato spinto dai brani più sfacciatamente pop, presenti negli album da “Duke” in poi in proporzioni assai maggiori rispetto al passato. Con la loro immediatezza e universalità, hanno fatto efficacemente da “vetrina” al nuovo Genesis-sound e lo hanno lanciato verso trionfi discografici semplicemente impensabili qualche anno prima.
Non c’è dubbio poi che il nuovo corso della band si sia fondato, anche nei brani più estesi, sempre meno sui funambolismi strumentali e gli stacchi a sorpresa, e in modo crescente invece sulle stratificazioni atmosferiche, la ripetizione ritmica, le transizioni graduali, la ricerca timbrica. Aspetti che nel progressive settantiano raramente erano messi al centro, in parte anche perché mancavano i mezzi. Fino al 1975 lo strumento timbricamente più versatile che Tony Banks avesse a disposizione è stato l’Arp Pro Soloist, un sintetizzatore monofonico (una sola nota alla volta!) senza possibilità di personalizzazione sonora al di fuori dei suoi trenta preset (suoni precostruiti, e assai meno variegati rispetto a quelli di un’odierna tastiera digitale). Con l’avvento dei sintetizzatori polifonici, tutto cambia: la possibilità di suonare accordi fa perdere di centralità Hammond, Mellotron e pianoforti elettrici; l’avvento quasi contemporaneo degli strumenti dotati di memoria digitale consente di registrare le patch e rievocare un timbro con un singolo tasto, anziché riconfigurando tutti i cursori. È comprensibile che gli entusiasmi tastieristici si focalizzino sull’esplorazione delle nuove possibilità, mettendo fra parentesi i modelli virtuosistici mutuati dall’ambito pianistico; lo stesso avviene, d’altra parte, pressoché in ogni altro filone della pop music.
È vero anche che il ruolo della chitarra solista si fa meno prominente, e che lo stile batteristico di Phil Collins cambia in modo profondo. Nonostante sia spesso sottovalutato per gusto e virtù tecniche, Mike Rutherford non è Steve Hackett e si vede molto di più nel ruolo di co-compositore e solido comprimario esecutivo che sul palco al centro dei riflettori.

E Collins, tacciato di aver adeguato il suo sound a quello degli anni Ottanta più molesti? Beh, in questo caso la visione comune pecca di un certo involontario understatement: Collins non si è adeguato al sound batteristico degli anni Ottanta: lo ha letteralmente inventato! La colpa (o merito, fate vobis) è peraltro di una vecchia conoscenza: Peter Gabriel. L'ex frontman vuole Collins con sé nel terzo album solistico del 1980 e lo fa incidere senza piatti, convinto che il sound di cui aveva bisogno richiedesse scelte radicali. Inizialmente un po’ spiazzato, il versatile batterista si chiude in studio e assieme al tecnico del suono Hugh Padgham tira fuori l’idea del decennio, il gated drum: combinando un noise gate e un microfono in grado di catturare il riverbero di un ambiente (o un'unità reverb elettronica), è possibile creare un effetto che rende il suono delle pelli straordinariamente poderoso. Il trucco, rivelatosi decisamente espressivo, è sfruttato nel disco di Gabriel per “Intruder”, da Collins per “In The Air Tonight”, dai Genesis per “Mama” e… da grosso modo chiunque altro in ambito pop e rock per dieci anni buoni. Sì, è un peccato che le prodezze jazz-rock con cui Phil Collins aveva iniziato ad abituare il pubblico di Genesis e Brand X siano rimaste concentrate nel quinquennio 1976-1980. Ma era nell'ordine naturale delle cose. Estrarre dal cilindro il sound che definisce un’epoca solo per poi ricacciarcelo dentro e tornare allo stile precedente: quella sì sarebbe stata una scelta scellerata!

webp.netresizeimage_54La playlist che fa da ossatura a questo articolo contiene venticinque brani, disseminati su due decenni di carriera. Si sarebbero potuti includere più pezzi, o fare scelte più scontate: facile buttar dentro le tracklist complete dei primi due album senza Peter Gabriel, riconosciuti come eccellenti da qualunque amante del prog (eccezion fatta per un esiguo numero di hater di Phil Collins). La scommessa, invece, è stata di coprire quanti più stili e dischi possibili, mostrando come la vena progressiva della band, pur rimodulata, non si sia mai spenta - nemmeno ai tempi del tanto bistrattato “Calling All Stations”, coi soli Banks e Rutherford a tenere alto il vessillo dei fondatori del gruppo.
La scaletta punta non solo sugli album in studio, ma anche su materiali live e non-album track, cercando di valorizzare i pezzi più platealmente riconducibili all’estetica progressive. Mancano, dunque, alcuni degli apici artistici dei Genesis anni Ottanta (niente “Turn It On Again” e niente “Mama”, per dire), mentre trovano spazio B-side, tracce edite solo su Ep, medley proposti dal vivo. Episodi capaci di testimoniare quanto la band sia sempre stata attaccata a un’idea ambiziosa della musica pop, che mettesse al centro l’evocazione di scenari inconsueti, la costruzione di storie che non guardano solo al quotidiano, il cambio di atmosfera, l’espansione della forma-canzone oltre allo schema strofa-ritornello (o alle sue varianti più elaborate, arricchite da prechorus, bridge e coda).
L’ordine è cronologico per data di prima pubblicazione, con due sole eccezioni facilmente individuabili dagli anni riportati accanto ai titoli. Che al termine dell’ascolto condividiate o meno il giudizio di “progressività” dei brani proposti, l’augurio è che l’attenzione selettiva sugli episodi più elaborati possa spingere a riconsiderare questa fase lunga, ma spesso trascurata, della carriera del gruppo. Lasciando da parte il dileggio e riconoscenderla invece come un periodo di grande creatività, che contribuisce a pieno titolo a fare dei Genesis una delle massime prog band di sempre.

Per tutta la loro esistenza, nonostante i cambi di formazione e di sound, i Genesis sono stati unici e inconfondibili. Sono forse la band progressive più “clonata” in assoluto, ma confrontando un pezzo neoprog che cerca di essere più vero del vero e uno dei Genesis anni Ottanta è immediato riconoscere nel secondo, magari lontanissimo dal sound anni Settanta, un quid, una personalità specifica, che il primo non potrà mai avere. Come spiegò in un’intervista Daryl Stuermer, chitarrista del gruppo in tutti i tour dal 1978 al 1992 (e ora, con la tournée “The Last Domino”, di nuovo in formazione): “Dissi a Mike [Rutherford]: ‘Che cos’è che avevo di speciale e gli altri [turnisti ascoltati in audizione] non avevano?’ Rispose: ‘Beh, conoscevi le canzoni!’. Uno degli altri chitarristi aveva chiesto ‘In che stile vuoi che suoni?’ Per me i Genesis sono uno stile a sé. Non è country, non è rock, non è jazz. Sono i Genesis”.

webp.netresizeimage_53Robbery, Assault And Battery, da “A Trick Of The Tail” (1976)
Qual è l’assolo più memorabile di Tony Banks? Quale il più trascinante, quale il più sorprendente? La scelta è ardua, si potrebbe dibattere in eterno. Ma un solo brano si presenta alla competizione con due candidati degni del podio: è “Robbery, Assault And Battery”. Il primo, attorno alla metà del minutaggio, vede il tastierista inseguire coll’Arp Pro Soloist e poi con l’Hammond il passo scivoloso della batteria jazz-rock di Phil Collins; il secondo, fulmineo e ipermelodico, si svolge tutto fra Mellotron e Arp un attimo prima della fine del pezzo. Il tema del brano è banditesco e richiama quello di “The Battle Of Epping Forest”, del quale peraltro c’è un’esplicita citazione (la melodia del verso “He’s leaving by the roof” è identica alla linea di Gabriel “Amidst the battle roar…”). Un brano in chiara continuità coi “vecchi” Genesis insomma, ma anche antesignano di alcune trovate ritmiche a venire (su tutte la scansione in 13/4 di “Turn It On Again”, successo del 1980 estratto da “Duke”).

One For The Vine, da "Wind & Wuthering" (1976)
Un altro numero strepitoso di Tony Banks, probabilmente il più articolato e ambizioso della sua carriera. Concepita e affinata in solitaria nell'arco di un anno, è una narrazione circolare che unisce accenti messianici, leggerezza e disillusione in una visione critica della guerra e delle figure carismatiche. È la storia di un soldato che abbandona la sua armata, guidata da un condottiero che si presenta come "l'eletto", solo per ritrovarsi controvoglia alla guida di una nuova orda di combattenti adoranti. Le traversie materiali e spirituali del protagonista sono accompagnate da sezioni strumentali fra le più caleidoscopiche del catalogo Genesis, comprensive di capovolgimenti di tonalità, incursioni disco-prog e passaggi armonici tanto tortuosi quanto evocativi. Commovente il finale, per la brillante descrizione dell'istante in cui il fuggiasco, ormai assurto a comandante, osserva un suo milite allontanarsi dal campo di battaglia e avviarsi al suo medesimo destino.

Inside And Out, da "Spot The Pigeon" (Ep, 1977)
Una ballata zuccherina basata su arpeggi di chitarra acustica, come Tony Banks ne ha da sempre sparse tante per la discografia della band (non sempre facendo la gioia dei fan storici). Questo, quantomeno, per i primi quattro minuti (“Inside”): la lunga coda strumentale, “Out”, è infatti tutto un altro paio di maniche. Con uno stacco netto, il pezzo muta in una cavalcata tastieristica delle più energiche, che a sua volta cede il passo a una conclusione para-minimalista che, sia per gli ostinati di sintetizzatore Arp che per le randellate chitarristiche, ricorda non poco gli Who di “Who’s Next”. L’esclusione del pezzo dalla tracklist di “Wind And Wuthering” è talvolta indicata come la goccia che fece traboccare il vaso della sopportazione di Steve Hackett, spingendolo ad abbandonare la band sentendosi ormai messo all’angolo dalla tentacolarità compositiva di Banks.

Dance On A Volcano/Los Endos, da "Seconds Out" (live, 1977)
La doppietta formata dall'apertura e dalla chiusura di "A Trick Of The Tail" diventa un simbolo dei galvanizzanti live della band, che vedono il batterista delle Mothers Of Invention Chester Thompson affiancare stabilmente Phil Collins, tendenzialmente impegnato nel ruolo di frontman. In questa tiratissima coppia di brani che scorrono l'uno nell'altro e si riprendono nei temi, i due batteristi hanno invece occasione di fronteggiarsi, dando prova di tutta la potenza che il motore fusion della formazione ha a disposizione. Collins mette a frutto l'esperienza acquisita nei Brand X, combinando carica ritmica e variazione continua con la fantasia melodica che è sempre un po' mancata al supergruppo jazz-rock.

webp.netresizeimage_55Down And Out, da "...And Then There Were Three..." (1978)
Se degli album successivi sono state dette e scritte cattiverie in abbondanza, al primo disco senza Hackett si è riservato un trattamento ancora peggiore: lo si è ignorato. Presentato quasi ovunque come un album di transizione e imbarbarimento pop, "...And Then There Were Three..." è invece uno scrigno di gioielli prog, in cui la brevità dei brani non cozza con la loro capacità di sorprendere e rapire.
L'apertura con "Down And Out" segna una vetta nel percorso jazz-rock di Phil Collins, e spiazza con cambi di umore particolarmente marcati - dall'incipit luminoso in cui regna la chitarra assai hackettiana di Mike Rutherford alla tensione delle strofe costruite su bordate di Hammond secche e plumbee. In cinque minuti e poco più, uno dei pezzi più camaleontici della carriera della band.

Deep In The Motherlode, da "...And Then There Were Three..." (1978)
Una mini-suite incentrata sulla corsa all'oro, che fra continui cambi d'atmosfera segue le vicende di un immaginario cercatore diciassettenne, spedito in Nevada dalla famiglia nella speranza di vederlo inviare a Est le sue future fortune. L'evolversi dell'accompagnamento da robusto a trasognato marca lo svanire dell'illusione, progressivamente sostituita dal rimpianto degli anni sprecati. Vivamente consigliata la visione del bootleg live al Lyceum Theater, che testimonia la centralità nelle performance dal vivo che anche negli anni immediatamente successivi rivestirono i brani del periodo. D’altra parte, grazie al singolo “Follow You Follow Me”, “...And Then Were Three...” era stato l’album di maggior successo della band fino ad allora!

The Day The Light Went Out, da "Many Too Many" (singolo, 1978)
Rilasciata come una delle B-side di “Many Too Many” (l’altra era “Vancouver”), “The Day The Light Went Out” è uno dei brani più densi dei Genesis sia in termini di numero di parole (1,4 al secondo: peggio di “The Battle Of Epping Forest”!) che di capovolgimenti ritmici. È anche fra gli episodi più cupi in termini tematici: un’ombra di oscurità e disperazione cala sull’umanità; ogni tentativo di scacciare il parassita fallisce, finché questo sceglie di andarsene… Solo per essere seguito da un’altra ombra di terrore! Tre zigzaganti minuti che riflettono al meglio la ricerca di brevità - senza perdere in carica progressiva - che la band perseguiva all’epoca, e in cui il basso di Mike Rutherford svetta come raramente ha mai fatto.

webp.netresizeimage_56Behind The Lines, da "Duke" (1980)
L'opener di quello che per molti fan è "l'ultimo album dignitoso dei Genesis" è uno dei loro brani più potenti in fatto di grandeur: è proprio lo sfarzo associato al tema tastieristico ad aver suggerito il tema nobiliare al disco. L'aura luminosa e magniloquente è costruita mettendo a frutto il nuovo giocattolo di Tony Banks, l'elefantiaco Arp Quadra dotato di memoria e potenzialità polifoniche.
La transizione dall'ouverture alla parte cantata (quest'ultima poi reincisa dal solo Collins per il successo mondiale "Face Value") è emblematica della maestria della band nei cambi di atmosfera, al tempo stesso fluidi e spiazzanti.

Evidence Of Autumn, da "Misunderstanding" (singolo, 1980)
Una outtake delle sessioni di “Duke”, di stampo tipicamente banksiano: ballata soft e piovigginosa, con progressioni armoniche per nulla banali ben supportate dal timbro diafano del piano elettrico Yamaha CP-70. Poco dopo la metà brano, il mood chiaroscurale fa largo a una vena più spigliata, che per un breve tratto porta in territori assai prossimi a “One For The Vine”. Molto amata dai fan, c’è chi arriva a sostenere che avrebbe dovuto essere scelta per l’ellepì in luogo della più trita “Misunderstanding” a cui fa da B-side.

Me And Sarah Jane, da "Abacab" (1981)
Nel caso qualcuno si sia mai domandato come potrebbe suonare un brano di ska progressivo, “Me And Sarah Jane” ha già pronta la risposta. È un’altra mini-suite dal taglio insieme tragico e scherzoso: riguarda un uomo, forse un vagabondo, che per sentirsi meno solo inventa una donna immaginaria (la Sarah Jane del titolo) ma, insoddisfatto della relazione, giunge alla decisione di abbandonarsi con lei all’avanzare della marea. La costruzione ritmica sghemba, l’uso dell’eco sulla voce e perfino lo stacco paradisiaco che rende la sensazione del volo (“First I’m flying…”) possono ricordare alcune soluzioni dei 10CC, rimando non raro nei primi anni Ottanta della band.

webp.netresizeimage_57Dodo/Lurker, da "Abacab" (1981)
La traccia più lunga di “Abacab” è anche una di quelle dal sound più tagliente, e rappresenta il migliore sposalizio tra l’anima tecnologica e sperimentale del disco e il versante più abituale dello stile Genesis. Anche qui l’influsso caraibico è percepibile, così come la venatura 10CC della strofa; l’articolazione del brano, ricca di cambi di clima e invenzioni melodiche, è tuttavia tipicamente genesisiana. Così come lo è l’opulenza tastieristica, qui tutta votata all’esplorazione delle sonorità più minacciose del nuovissimo Prophet 10 a due manuali.
La chitarra di Rutherford ci dà dentro con l'aggressività, mentre il testo è fra i più criptici scritti da Banks: nella prima parte (“Dodo”) sembra fare riferimento allo sfruttamento degli animali da parte dell’uomo; “Lurker” invece si presenta come un indovinello:

Clothes of brass and hair of brown
Seldom need to breathe
Don't need no wings to fly
And a heart of stone
A fear of fire and water
Who am I?

Sulla soluzione i fan si sono dibattuti per decenni; la risposta potrebbe però essere...

Submarine, da "Man On The Corner" (singolo, 1982)
Dodo/Lurker era inizialmente concepita come suite in quattro parti. Trovando lo schema troppo vicino a quanto gli appassionati si sarebbero attesi dalla band, il terzetto Banks/Collins/Rutherford decise di spezzarla, tenendo le prime due per “Abacab” e utilizzando le rimanenti come B-side. Mai eseguita live, la suite completa è un po’ il sacro Graal dei fan più incalliti, che ancora dibattono sull’ordine corretto da assegnare alle diverse sezioni. Pare tuttavia acclarato che la strumentale “Submarine” debba seguire “Lurker”, visto che il titolo è una credibile soluzione per l’enigma posto dalla traccia di “Abacab”. Sul piano stilistico, si tratta di un brano di carattere atmosferico, con una costruzione un po’ floydiana, fatta di strati di synth e note tenute lunghe, che dà vita a un incedere assieme maestoso e trasognato, slavato e avvolgente.

Naminanu, da "Keep It Dark" (singolo, 1981)
Quarta parte della suite che mai fu, “Naminanu” è un altro episodio in prevalenza strumentale, caratterizzato da un succedersi di atmosfere brillanti legate fra loro dalla ripetizione corale del titolo nonsense. Nelle diverse sezioni che compongono i quattro minuti del brano, Collins ha modo di alternare il suo tocco più jazzato allo stile aggressivo che stava mettendo a punto proprio in quegli anni. Banks, invece, sfrutta appieno il suo arsenale tastieristico, impiegando lo Yamaha CP-80 per le parti di piano, il sintetizzatore Yamaha CS-80 per gli ottoni e il Prophet per i pad dal timbro più scintillante.

webp.netresizeimage_58You Might Recall, da "3×3" (Ep, 1982)
Pezzo risalente alle sessioni di “Abacab” (1981) e pubblicato l’anno successivo nell’Ep “3×3”, “You Might Recall” è un ottimo esempio del nuovo tipo di sottigliezze compositive che a inizio anni Ottanta catturano l’interesse della band. All’apparenza, si tratta di un’ordinaria canzone pop, ben costruita e dotata di sorprendenti inflessioni soul, ma priva di grandi spunti progressivi, al di là di qualche fraseggio di Banks in odore di pop barocco. A un ascolto più attento, la struttura si rivela anomala: prima la strofa, poi un pre-chorus, seguito da un ritornello… Che però è decisamente troppo lungo per essere un ritornello, e forse in realtà è un’altra strofa melodicamente indipendente dalla precedente, che evolve ulteriormente in un nuovo pre-chorus (o forse ritornello, o forse bridge, o chissà). Un crescendo di quattro sezioni distinte, sciorinato senza dare nell’occhio e concluso dalla ripresa del primo tema, che dà il via a un nuovo giro di giostra. Un pezzo che sembra volerla fare sotto il naso all’ascoltatore, comprimendo un meccanismo da suite progressiva dentro a quella che sembra presentarsi come una canzonetta soul-pop come tante altre.

It/Watcher Of The Skies, da "Three Sides Live" (live, 1982)
È il 1976, e dopo l'uscita di "A Trick Of The Tail" i Genesis sono in cerca di un batterista che possa nel tour dal vivo prendere il posto che era sempre stato di Phil Collins, ora impegnato alla voce. La prima scelta della band è l'ex Yes ed ex King Crimson Bill Bruford, con cui Collins ha già suonato in concerto nei Brand X. La joint venture non dura a lungo - a Bruford l'approccio preteso dalla band, molto preciso e senza alcuno spazio per l'improvvisazione, sta decisamente stretto - ma delle performance di quelle date restano testimonianze assai incisive (fra cui l'intero bootleg "Live At The Cleveland Music Hall"). La versione qui proposta di due classici dell'era Gabriel non solo non fa rimpiangere gli originali, ma infonde nei pezzi un'elasticità fusion del tutto assente nelle precedenti versioni. (Nota bene: nella playlist Spotify associata all'articolo, la traccia è fusa con una versione successiva di "The Fountain Of Salmacis" per un errore di segmentazione dei file audio. Il brano selezionato inizia al minuto 8:40).

webp.netresizeimage_60Home By The Sea/Second Home By The Sea, da "Genesis" (1983)
L’album omonimo del 1983 è forse il “meno prog” nella discografia della band, ma non per questo è il meno sperimentale: prova ne sia l’inquietante “Mama”, in genere apprezzata perfino dai più acerrimi hater dei Genesis anni Ottanta. È comunque il disco della doppietta “Home By The Sea/Second Home By The Sea”, che totalizza undici minuti e rappresenta l’approdo più progressivo del nuovo approccio sperimentato dalla band in studio: evitando le prove collettive, ogni musicista incide una versione “di prova” della propria traccia, con lo scopo di dar forma al mood del pezzo e fare da guida agli altri musicisti nella registrazione delle tracce definitive. Il beat di Collins, in particolare, è inizialmente programmato su una drum machine LinnDrum, e le parti di batteria sono le ultime a essere incise: la freddezza ritmica risultante dipende anche da questa deliberata scelta espressiva. Al netto delle novità costruttive, il (doppio) brano presenta uno schema articolato, con due ampi episodi strumentali a fare da intermezzo tra la prima e la seconda sezione cantata, e diventerà uno dei cavalli di battaglia più spesso riproposti dal vivo.

Tonight, Tonight, Tonight, da “Invisible Touch” (1986)
Quarto singolo estratto dall’album più venduto dei Genesis. Si tratta di un pezzo dallo sviluppo graduale, che lungo quasi nove minuti vede il sound teso e tagliente della sezione iniziale mutare in una direzione sempre più epica. Fortemente ridimensionato nella versione 7’’, che dura solo 4 minuti e 32, su album presenta a metà traccia una digressione strumentale che mostra al meglio le qualità atmosferiche raggiunte dal terzetto, e permette il rientro del cantato in un clima notevolmente più carico e maestoso. Il testo, scritto da Collins a partire dal singolo spunto fornito dalle parole improvvisate in studio (“I’m coming down like a monkey”), riguarda la dipendenza da stupefacenti - un tema che cozza senz’altro con l’occasione che diede celebrità al brano, ovverosia l’impiego in uno spot pubblicitario della birra Michelob.

webp.netresizeimage_59The Brazilian, da "Invisible Touch" (1986)
La strumentale che chiude “Invisible Touch” è il brano più anomalo del disco, e uno dei più bizzarri della carriera dei Genesis. Il titolo fa riferimento al feel di un sample caricato da Banks nell’E-mu Emulator, su cui si innesta fin dalle prime battute una giungla di percussioni elettroniche portate da Collins, che era in fissa coi Simmons Drum Synthesizer. È una traccia fortemente innovativa nel sound e nelle atmosfere, ma anche assai vicina al classico stile Genesis grazie ai continui cambi di tema e alle melodie di Banks in risalto. Il clima è frenetico ma sospeso, sgargiante ma misterioso; le linee di synth, vere protagoniste dell’attenzione, rappresentano forse il vertice raggiunto da Tony Banks nella sua ricerca sonora. I fan più legati agli aspetti tecnici ancora si interrogano su come possa avere ottenuto il sound disorientante e “sbagliato” che domina il pezzo: la teoria più accreditata è che abbia sfruttato l’impegnativo Yamaha TX816, unità a controllo MIDI che può contenere al suo interno l’equivalente di otto sintetizzatori Yamaha DX7 a modulazione di frequenza. Lavorando intensamente su pitch bending e detuning degli oscillatori digitali, ci si può in effetti avvicinare al carattere proteiforme e avvolgente che rende l’effetto così peculiare.

Do The Neurotic, da "In Too Deep" (singolo, 1986)
Seconda strumentale emersa dalle session di “Invisible Touch”, nonostante il ritmo più spigliato, non fu inclusa nell’album perché la band le preferì con coraggio “The Brazilian”. Anche qui i rimandi ai Genesis settantiani sono evidenti, visto l’interplay serrato e la sequela di cambiamenti tematici dispiegati nei suoi sette minuti. È tra gli episodi in cui il gusto chitarristico del sottovalutato Mike Rutherford emerge con maggiore chiarezza: mentre altrove il suo ruolo tende a essere di secondo piano o votato all’emulazione (peraltro assai convincente) di Hackett, qui il suo melodismo robusto gioca un ruolo da protagonista e dà alla seconda metà del brano buona parte della sua memorabilità.

webp.netresizeimage_61Driving The Last Spike, da "We Can't Dance" (1991)
L’ultima vera suite della carriera della band è anche uno dei pezzi di “We Can’t Dance” in cui l’apporto di Collins si fa maggiormente sentire. Suo il testo, sue (ovviamente) le parti di batteria, suo anche il grosso delle linee melodiche, particolarmente incisive e trascinanti. Come normale per la band in quel periodo, il processo compositivo dietro al brano prende il via da un pattern di drum machine, sul quale i tre improvvisano provando molte diverse idee. Ordinariamente il processo richiede meno di una giornata, terminata la quale inizia la stesura definitiva; in questo caso, però, nuovi spunti validi continuano a emergere per tre giorni, e tutti sembrano funzionare l’uno con l’altro. Da qui la decisione di farne una suite, anche se costruita su premesse assai distanti rispetto a quelle dei primi Settanta (le transizioni tra sezioni, per dire, sono estremamente fluide, talvolta quasi impercettibili). Per l’ambientazione, Collins si fa ispirare dal saggio “The Railway Navvies”, che illustra le difficili condizioni dei lavoratori che, nella seconda metà dell’Ottocento, lasciarono le loro famiglie per costruire la rete ferroviaria britannica. L’interpretazione molto sentita del cantante e la rassegna di brillanti soluzioni ritmiche, che coprono gran parte degli stili affinati dal batterista negli anni, ne fanno virtualmente il suo testamento artistico rispetto alla band, con cui non registrerà più altri album in studio.

Domino Medley, da “Live - The Way We Walk Volume Two: The Longs” (live, 1993)
Con “Home By The Sea/Second Home By The Sea”, “Domino” è la suite più amata dalla band fra quelle realizzate negli anni Ottanta, riproposta in tutti i tour dalla sua uscita su “Invisible Touch” e perfino trasformata in un marchio immediatamente associabile al nome Genesis (non per nulla il tour della reunion 2021 è stato chiamato proprio “The Last Domino”). Il ricordo della guerra in Libano del 1982 permette a Tony Banks di unire tematicamente due canzoni nate in modo indipendente, “In The Glow Of The Night” e “The Last Domino”. La prima parte, riflessiva e sognante, è dominata dal Synclavier e può ricordare lo stile del coevo Peter Gabriel. La seconda, molto più tesa e cupa, si apre con una sequenza martellante di batteria e basso elettronico (ancora Banks, con lo Yamaha DX7/TX7) ed esplode in un’epica cavalcata che, nelle esibizioni live, riesce a combinare con successo Springsteen e Who. Curiosità: il nome di lavoro che la band aveva assegnato a questa seconda sezione era “Hawkwind”, per via della somiglianza tra l’incedere ossessivo dell’incipit e la musica della band di Dave Brock e Lemmy.

Fading Lights, da “Live - The Way We Walk Volume Two: The Longs” (live, 1993)
Un’altra struttura parentetica, con le due parti cantate separate da una lunga sezione strumentale. In qualche modo, il brano tratto da “We Can’t Dance” rappresenta per Tony Banks ciò che "Driving The Last Spike” è per Phil Collins: una sintesi del proprio percorso stilistico, e al tempo stesso il segno della necessità di iniziare una nuova fase. Il testo, opera di Banks, ha per tema la memoria e la nostalgia per ciò che era e non può più essere; l’assolo di tastiera centrale, condotto prevalentemente sul nuovissimo Korg Wavestation, parte lento e atmosferico e si fa via via più virtuosistico, fino a giungere al simbolico passaggio a mani incrociate, qualcosa che nella musica dei Genesis mancava da un decennio. Per queste ragioni, il brano sarà retrospettivamente letto dai fan come il definitivo commiato della band, e ricordato come apice emotivo dei concerti del periodo.

webp.netresizeimage_62Calling All Stations, da “Calling All Stations” (1997)
Osteggiato sia dai fan dell’era Gabriel che da quelli dell’era Collins, l’unico album con Ray Wilson alla voce nemmeno è disponibile su Spotify. C’è di buono che l’unico brano presente, la title track, è effettivamente fra i più progressivi di questo disco votato a un art-pop dalle tinte chiaroscurali. Si tratta di un progressive molto moderno e di atmosfera, alla Marillion anni Novanta o Archive o Anathema (perfino). Desolazione e grandeur si mescolano nell’evocare le sensazioni di un disperso nel cuore dell’Antartide, alla disperata ricerca di un contatto radio. Concepita da Banks e Rutherford come canzone senza temi ripetuti (ogni strofa è melodicamente diversa dalla precedente), è anche un’eccellente prova vocale per il nuovo cantante, e un buon risultato del batterista israeliano Nir Zidkyahu, che si mostra convincente nel suo tentativo di channeling dell’anima più pestona di Phil Collins.

Duke’s Travels/Duke’s End, da “Archive #2 (1976-1992)” (raccolta, 2000)
L’ultima ventata di prog “classico” è la coppia di brani che conclude l’album “Duke”, inizialmente concepita come chiusura della “Duke’s Suite” composta anche da “Duke”, “Duchess”, “Guide Vocal” e “Turn It On Again”. Spezzata sull’album per evitare di ricadere in schemi già esplorati, la sua riproposizione completa è in realtà un punto fermo del tour del 1980. Fra i vertici dello stile tardo-settantiano della band, la prima parte vede Banks e Collins inseguirsi in una girandola sempre più concitata di spunti jazz-rock e cambi di tema, con un breve episodio cantato (che richiama “Guide Vocal”) a fare da ponte con la sezione successiva. Questa sfrutta un’altra trovata di efficacia consolidata, la ripresa dei motivi dei brani precedenti già sperimentata in “Los Endos”: ripescando soprattutto da “Duke” e “Turn It On Again”, il finalissimo coniuga funambolismo tecnico e carica evocativa, chiudendo in gloria non solo il flusso della suite ma anche una fase stilistica del gruppo.

webp.netresizeimage_63Afterglow, da “Three Sides Live” (live, 1982)
Non un brano progressive, ma una canzone strofa-ritornello senza intermezzi strumentali. Eppure, la conclusione perfetta per questa playlist, a cui dà il titolo e funge da metaforico “bis” finale. E' il capolavoro armonico di Tony Banks, autore di musica e testo di questo lento basato sulla chitarra acustica, perfetto per la voce di Phil Collins. È un brano in cui luce e ombra convivono, ispirato all’immagine di un mondo post-apocalittico abitato da un unico sopravvissuto, consumato dalla memoria di quanto ha perduto.
Ma lo spunto alla base della composizione emerge solo fra le righe, e le sensazioni evocate sono assai più universali: la desolazione lasciata dalla perdita di qualcuno o qualcosa di caro, il disorientamento, i barlumi di speranza riaccesi dai ricordi. Quest’ultima emozione, la più sottile ma anche la più magica del pezzo, è pressoché assente nel testo, ed è tutta concentrata in due aspetti: il titolo e le scelte armoniche. “Afterglow” è il nome, intraducibile, di un fenomeno atmosferico che consiste nel permanere dopo il tramonto di una luminosità al di sopra dell’orizzonte, dovuta alla presenza di pulviscolo nell’aria. Come i ricordi dei legami che furono, il rossore scalda e rasserena, ma è in definitiva destinato a spegnersi, cedendo il passo al buio della notte. Il dialogo tra fiducia e dolore è reso dalla successione di accordi della strofa, che ondeggia fra maggiore e minore giocando su passaggi inattesi esterni alla tonalità, mostrando la grande maestria di Banks nell’associare virtuosismo compositivo ed efficacia espressiva (in grassetto le “intrusioni”, in minore nei versi dispari e in maggiore in quelli pari):

I           Imaj7      IV             iv6
Like the dust that settles all around me
I         Imaj7       IV        VII♭       V
I must find a new home
I                   Imaj7       IV                       iv6
The ways and holes that used to make me shelter
VI            II            III      vi    viidim
Are all as one to me now

Presenza costante nelle esibizioni dal vivo, “Afterglow” è dal 1978 in poi posta a conclusione dell’"Old Medley" formato dai brani del periodo più canonicamente progressivo della band (nella versione più spesso proposta, gli altri brani collegati sono "In The Cage", "The Cinema Show", "Riding The Scree", "The Colony Of Slippermen"). Altra aggiunta dei live, riscontrabile anche nella traccia qui inserita, è l’inclusione nella breve coda finale di un fill di batteria proveniente da “More Trouble Every Day” di Frank Zappa and The Mothers: un omaggio di Collins al suo co-batterista Chester Thompson, che suonava lo stacco nell’originale su “Roxy & Elsewhere” (1974) (il passaggio si trova a 3:54 di “Afterglow” e ripetutamente in “More Trouble Every Day”, per la prima volta a 0:15).