Carlo Massarini

Carlo Massarini - Un Duca Bianco fra i media

La prendo larga. Ho incontrato per la prima volta Carlo Massarini nella primavera 2008 alla Fiera del Libro di Torino, in occasione di una tavola rotonda a tema "Musica e internet (la "coda lunga di internet"). Quando, in redazione, Claudio Fabretti chiese chi fosse disponibile a intervenire, alzai subito la mia manina virtuale, benché storicamente poco propenso a sollevare le chiappe oltre i miei quattro isolati metropolitani persino per presenziare a un concerto sfizioso. Figuratevi se mi sarei lasciato sfuggire una simile occasione. L'argomento era parecchio interessante, ma ancora più pruriginoso (non me ne voglia Claudio, e neppure DeaStore, brillante organizzatore dell'evento)  era per me tentare di catturare uno dei personaggi storici del nostro giornalismo musicale, uno di quelli che, letteralmente, ha scritto la storia.
Ebbene, una volta ottenuto il contatto (lui molto gentile, debbo dire), pensavo fosse un gioco da ragazzi organizzare l'intervista. E invece. Da lì ai due mesi successivi, vi furono una serie di tentativi andati a vuoto, appuntamenti mancati per un soffio, telefonate che per i motivi i più disparati si interrompevano sul più bello. Al punto che, pur di non passare per il seccatore di turno, decisi di accantonare momentaneamente l'idea. Arriviamo allo scorso dicembre, Carlo pubblica il libro "Dear Mister Fantasy - fotoracconto di un'epoca musicale in cui tutto era possibile (1969-1982)". Un dì gironzolavo per gli scaffali di Feltrinelli qui a Milano e, toh, lo incontro. Cordialissimo come sempre, e come sempre io ben risoluto a minacciarlo con la mia intervista. Fra quel momento e quanto leggerete qui sotto sono intercorse altre telefonate, una linea telefonica (la sua) finita ko per qualche giorno e, dulcis in fundo, il mio registratore dell'Ipod che, novello John Cage, mi ha restituito cinquantotto sconcertanti minuti di silenzio in luogo del file .wav che avrebbe dovuto contenere l'anelata intervista. Il segreto professionale sta nel fatto che siamo comunque riusciti a pubblicarla: il come non lo dirò, limitandomi a ringraziare l'intervistato.


Carlo, per chi come me si ritiene una "vittima" del fatidico "non si esce vivi dagli anni 80", "Mr. Fantasy" è stata una tappa cruciale. Un programma capace di catturare nei pochi minuti di ogni puntata l'essenza di quel periodo (direi non solo musicale) e di restare indelebilmente inciso nella mente di quella generazione. Ripensandoci oggi, a quegli anni (1981-1984), qual è stata a tuo parere la loro autentica peculiarità, il motivo per il quale tutt'oggi vengono così "mitizzati", a differenza ad esempio di altre fasi successive?

Non penso tutto sommato che vengano particolarmente mitizzati, sai? O meglio, non di più di altri periodi che li hanno preceduti, penso ad esempio agli anni 70, o ai 60. Di certo furono anni di grande cambiamento, l'immagine divenne l'elemento focale per veicolare la musica, e con esso il videoclip che aprì nuovi spazi diventando un importante strumento di espressione artistica. Però alla fine ognuno ha la sua era, anche quelli venuti nei decenni successivi ti potranno raccontare gli elementi caratterizzanti della loro, e anzi ci sono sempre molte persone che gli anni 80 li legano all'edonismo e alla superficialità. Ovviamente ce n'era un bel po', ma non finiva tutto lì, anzi. L'evoluzione del punk in new wave ci portò gruppi come Talking Heads o Police. La musica "del mondo", fosse Africa o Medio Oriente o Caraibi, entrò nel rock come era avvenuto col jazz nei decenni precedenti. Alcuni ribelli diventarono di fatto cantautori della nuova era: per me il prototipo del cantautore degli anni 80 è l'Elvis Costello di "Imperial Bedroom", che è qualcosa di molto diverso rispetto al Jackson Browne della decade precedente. Poi la rivoluzione tecnologica digitale consegnò le prime tastiere elettroniche, i primi campionatori e sound box che furono alla base del rap e dell'hip-hop. Si cominciò a usare il computer anche per fare i provini, incidere e fare post-produzione. L'elettronica un po' basic dei Tangerine Dream e Kraftwerk si fece più sofisticata, e lì si è aperto un mondo nuovo e la musica del futuro.
Gli 80 furono anni di grossi cambiamenti, in realtà. Forse l'ultima grande svolta.

Carlo Massarini a Mister FantasyTu sei stato un pioniere della videomusica in Italia, se si pensa che "Mr. Fantasy" è nata alcuni mesi prima dell'Mtv americana. Cosa ha cambiato, a tuo avviso, il linguaggio del video musicale nel rapporto tra ascoltatori e musica?

Ha cambiato moltissime cose. Da un punto di vista artistico ha messo al lavoro registi e artisti video che, facendo palestra per il loro futuro, realizzavano lavori interessanti, magari acerbi ma molto creativi. Alcuni dei registi top di allora, per esempio il John Landis di "Thriller" di Michael Jackson, ebbero a disposizione budget che erano quasi cinematografici. C'erano tutta una serie di tendenze: l'onirico, la parodia, lo short movie, il fantastico. Poi, rappresentavano il primo strumento di globalizzazione del prodotto musicale: per la prima volta un gruppo poteva farsi vedere e conoscere in terre lontane, in maniera diversa e più completa di uno spezzone dal vivo. E dato che i video erano carini, brevi storie godibili, piacevano anche a gente che la musica non la ascoltava affatto. Ai tempi, "Mister Fantasy" era seguita dai giovani, ma anche dai 50enni e più su. Le varie Mtv o Videomusic che nacquero dovunque crearono le basi di un fil rouge giovanile che in 30 anni ha reso le rockstar - insieme a calciatori e in misura minore gli attori - i veri eroi planetari, le icone del contemporaneo. 
Il videoclip nasceva come figlio del cinema e della pubblicità, ma avrebbe a sua volta cambiato i suoi genitori, come in una saga familiare: il rock entrò in maniera massiccia in entrambi, il montaggio divenne più serrato, rigorosamente sulla battuta, e in generale i tempi cominciarono ad accorciarsi. Oggi la pubblicità sembra un clip, e il cinema d'azione un clip lungo. La cosa che mi piace ed emoziona di più in tv sono i clip di montaggio del calcio su base musicale.
A conti fatti sono contento che la musica abbia sviluppato dei nuovi mezzi per crescere. Ora la ascolti davvero ovunque, in ogni situazione. E' diventata un prodotto declinabile in mille maniere: da quella venduta on line alle suonerie. E' molto più pervasiva, e paradossalmente ha forse tolto qualcosa in termini di attenzione all'ascolto, l'ha resa sicuramente più superficiale, epidermica, accessibile. Mancano certamente luoghi, virtuali come la radio o la tv, o fisici, come i negozi di dischi, dove potersi acculturare. Mi colpisce molto il fatto che oggi alla radio, oltre a non parlare più di musica (ma questo è un dato di fatto da molto tempo), ormai non si presentino più nemmeno i titoli delle canzoni, segno che queste sono diventate un sottofondo, un intermezzo alle chiacchiere, al cazzeggio, alla pubblicità.  Dato che mettono tutti le stesse 40 canzoni, se non hai capito cos'è se aspetti una mezz'ora o cambi canale lo scopri ugualmente.

E, oggi, con l'avvento di YouTube, ci troviamo di fronte a una rivoluzione di quella stessa portata?
Sì e no. YouTube è un immenso contenitore che non ha come focus solo la diffusione della musica. Certo, è anche quello, ma lo vedo di più come un potente veicolo che come una rivoluzione musicale in senso stretto. La vera rivoluzione che riguarda YouTube va ricollocata all'interno di quella dei social network, e quindi della nuova stagione di internet cominciata pochi anni fa: maggiore partecipazione, immissione di contenuti propri, vedi anche MySpace, platea e mercato planetario. Ma in fin dei conti è uno sterminato database, che però non possiede un ruolo squisitamente attivo, non propone contenuti ma li mette a disposizione. 

La Rai degli anni di "Mister Fantasy" sembrava davvero cercare di rivoluzionare il modo di fare intrattenimento televisivo e musical-televisivo. Che ricordi hai della Rai di allora? Che margini di autonomia avevi nel decidere i contenuti e che rapporto c'era con i collaboratori e con i capistruttura? Come hai vissuto la sostanziale restaurazione successiva?
La Rai a quel tempo era in mano alla Dc e si viaggiava ancora con il manuale Cencelli, quindi in virtù di una suddivisone rigorosa, quasi scientifica, degli spazi: a ognuno per meccanismo rappresentativo proporzionale, come in Parlamento. Ma la grande differenza rispetto ad oggi è che allora vigeva un'altra regola aurea, quella meritocratica: insomma, se eri bravo, indipendentemente dalle tue simpatie politiche, avevi più possibilità di farti strada. Il livello qualitativo, fatte le debite proporzioni, era più alto. Pensa soltanto ai varietà degli anni 70, con una qualità che tutto il mondo ci invidiava in quanto a contenuti e a protagonisti. Oggi la Rai è un'importatrice di format stranieri. La verità è che i direttori Rai di quel periodo erano fior di professionisti, gente del settore che conosceva bene il mestiere, non certo i funzionari che sono venuti dopo, quelli che fino al giorno prima facevano tutt'altro e che venivano (vengono) cooptati solo per occupare posizioni di potere. E tutto questo non può che riflettersi sulla programmazione.
Per questo motivo, quando Paolo Giaccio portò in Rai l'idea di quel laboratorio multi-artistico che fu "Mister Fantasy", dall'altra parte c'erano dei professionisti in grado di capire e di valutare la portata di quella proposta, che divenne così realtà.
Nel libro racconto dei canoni e paletti di allora, come la Commissione d'ascolto, attiva quando ancora facevo la radio. Certo, era qualcosa di paradossale, da MinCulPop, però noi da bravi rocker ci giravamo attorno ogni volta che era possibile. Perché in quel meccanismo rappresentativo, una trasmissione importante per i giovani ci doveva essere e c'era, in mano a ragazzi che la facevano bene, e un po'... empiricamente si chiamava "Per Voi Giovani".

C'erano differenze di tipo culturale...

Sì, anche se la nostra è da sempre una realtà un po' particolare, dato che storicamente  il nostro livello di cultura musicale non è lontanamente paragonabile a quello americano: questo ha sempre pesato molto, ancor oggi. Negli Stati Uniti l'entertainment è anche business, ha un grosso peso sulla bilancia dei pagamenti internazionale, e come tale è curato con grande attenzione. Business non vuol dire solo affari, ma un sistema organizzato per veicolare un contenuto. Gli Usa esportano da sempre sogni, modelli culturali e di lifestyle. Hanno sempre avuto una tendenza verso i valori immateriali, ben prima della new economy. Mi piace la visione della musica che ha una rivista come "Rolling Stone", dove è considerata al pari delle altre arti: la scultura, la pittura, il teatro, il cinema, la letteratura. Non solo quindi una colonna sonora generazionale - che sarebbe di per sé già importante - ma proprio un fenomeno artistico, culturale, sociale. Certo, loro hanno avuto e donato al mondo il blues, il jazz, il rock'n'roll, mica robetta. Però considerarla arte contemporanea è un gradino più su. Gli americani amano e rispettano i loro miti. La considerazione di cui godono artisti come Bob Dylan, o Bruce Springsteen, che hanno mosso le coscienze di decine di milioni  di persone, è enorme, vengono considerati - e sono assolutamente d'accordo - personaggi storici a tutti gli effetti, a volte persino più importanti di alcuni presidenti che hanno avuto da quelle parti...

Carlo MassariniInternet ovviamente ha cambiato tutto... Senza addentrarci nell'annosa questione del file-sharing, che cosa ti colpisce di più dell'approccio internettiano alla musica? E credi anche tu che il cd, il disco tradizionale, sia ormai da considerare poco più di un fossile?
In parte ti ho risposto prima. Internet è un immenso contenitore, questo significa che è senza dubbio utilissimo, a patto che tu sappia cosa cercare: ci trovi davvero di tutto, però non credo che andrà a sostituire in toto il supporto fisico, anche se magari verrò smentito. Certo, ha rivoluzionato il rapporto dell'appassionato con la musica, ha creato un nuovo e incredibile canale: ora vai su Amazon, ordini venti o trenta cd e aspetti che ti arrivino a casa. Questo ha un po' compromesso la sacralità legata alla spasmodica ricerca del disco nei negozi, o l'attesa dell'uscita - spesso in ritardo di mesi - che era parte integrante della fidelizzazione dell'ascoltatore. Più grande lo sforzo, più dolce il ritrovamento, no? Faceva parte del rito dell'ascolto insomma, e oggi non è più lo stesso, come del resto accade per ogni cosa che diventa facile e accessibile. Mi rendo conto comunque che esiste un modo diverso di fruizione da parte delle nuove generazioni: di recente, ad esempio, ho comprato il nuovo disco degli Arctic Monkeys a mio figlio, solo che lui si è fatto gli mp3 da mettere sul computer e nell'Ipod, mentre a me è rimasto il cd. Insieme ad alcuni amici sto mettendo in piedi un database digitale con tutti i titoli che ho su disco e cd, però non c'è nulla da fare, se voglio ascoltarmi qualcosa faccio come quando bazzicavo i negozi di dischi: mi alzo, scorro gli scaffali fino a quando trovo ciò che ho voglia di sentire e lo metto nel lettore, o sul piatto. Mi leggo le note di copertina. Io non riesco a ragionare in termini di file 1, 7 etc. Per questo motivo ti dico che alla fine il supporto fisico sopravviverà, nonostante tutto. Al di là dell'aspetto qualitativo del suono, che non è poco per un appassionato di alta fedeltà.

Che opinione hai delle riviste musicali di ieri e di quelle di oggi?
Un tempo erano davvero molto importanti per un ascoltatore, erano divulgative, oltre che l'unico strumento utile per accedere a un certo tipo di informazione. Era lo stesso meccanismo dei dischi: la ricerca di un trafiletto sui Traffic era da rabdomante. Oggi, e torniamo inevitabilmente al discorso di prima, c'è internet: se ti servono delle notizie vai e prendi lì quello che ti serve. E' dunque fatale che il ruolo delle riviste sia mutato e che sia fortemente orientato al costume, o al gossip. Quando cominciai l'avventura di "Popster", nel 76, volevo realizzare una rivista bella e ricca da sfogliare, ma anche ben scritta. Ero cresciuto col modello di "Rolling Stone" e "Crawdaddy", dove era richiesta una scrittura "alta". Molti dei più illustri romanzieri, giornalisti, premi Pulitzer americani pubblicavano lì. Certo, c'era molto narcisismo, soprattutto nelle recensioni, che spesso dicevano più di coloro che le scrivevano piuttosto che del disco stesso. Comunque meglio di una scrittura povera e sgrammaticata che si leggeva altrove. Per me fare il giornalista musicale era prepararsi a un futuro da scrittore o giornalista, e non (solo) per farsi dare i dischi gratis. In quest'epoca un po' superficiale si è giocoforza smarrito l'interesse per l'approfondimento, per le interviste di venti cartelle, realizzate trascorrendo un'intera giornata e più con l'artista, cogliendone sfumature non altrimenti rilevabili. Ecco, la mia successiva esperienza editoriale a "Rolling Stone Edizione Italiana" nel 1980 è un bell'esempio di come intendevo io il giornalismo musicale - non elitario ma ricco di contenuti, che riuscisse a contemplare, perché no, anche una buona scrittura, di taglio letterario. In Italia ebbe purtroppo vita cortissima per motivi di tutt'altro tipo, la nuova edizione di adesso ha ripreso quella linea. Negli anni 70 e 80 da noi c'era "Ciao 2001" che, se pure ha avuto grandi meriti per la diffusione della musica rock in Italia, non poteva certo dirsi ben scritto. Dall'altra parte c'era il gruppo milanese di "Muzak" e di "Gong", nel quale però non sono mai riconosciuto. Troppo elitario e dogmatico nella trattazione dei generi musicali, per lo più limitati all'avant-rock e al jazz, e comunque con un approccio molto freddo e intellettuale alla materia musicale. Per quanto anch'essi abbiano avuto un ruolo molto importante, intendiamoci.
Naturalmente anche oggi ci sono dei validi esempi di giornalismo musicale, ma in Italia li trovo più che altro come dei fenomeni isolati, mentre sono un lettore fedele dell'inglese "Mojo", un misto di novità di qualità - dall'underground alla world - e di artisti storici, che vengono raccontati un po' come fa un programma tv, "Sfide": perché il rock è pieno di grandi storie, drammatiche o esaltanti, e questo diventa, se ben scritto, materia appassionante, come delle mini-biografie letterarie. Poi, quanto ad approfondimenti, se sai cercare bene, nemmeno internet scherza. Ecco, il web può essere una ottima palestra per imparare a scrivere, anche di musica.
Il vostro sito, ad esempio, lo consulto spesso perché mi pare scritto piuttosto bene, prova ne sia che ho pure citato Onda Rock nel mio libro, quando racconto di Rino Gaetano.

Ah! (accidenti, qui avrei potuto tranquillamente annuire, invece ricordavo sì un virgolettato, ma mi era completamente sfuggita la citazione della fonte. Possibile? Sì. ndr).