Carlo Massarini

Suoni e visioni tra l'onda rock e la tecnologia

Intervistiamo Carlo Massarini in occasione della sua mostra fotografica che si tiene presso l’Auditorium Parco della Musica e che si chiuderà il prossimo 30 luglio. L’evento è inserito all’interno della rassegna romana “Per voi giovani”, curata da Claudio Rocchi (da poco scomparso) e Francesco Coniglio, e prodotta dalla Fondazione Musica per Roma. La rassegna è incentrata sulla storica trasmissione radiofonica di Radio2 Rai che avvicinò, nei primi anni 70, milioni di ascoltatori alla grande musica rock internazionale e ai nuovi fermenti nostrani, e diventa per noi una ghiotta opportunità per disquisire di radio e di fotografia con una delle voci storiche di quegli anni, ma anche di oggi. Dalla nostra lunga chiacchierata, vengono fuori spunti e analisi interessanti delle due ere a confronto: quella pionieristica di inizio anni 70, con l’onda rock (come la chiama Carlo) che arriva dalla radio per cambiare la cultura giovanile, e quella iper-tecnologica dei giorni nostri. Il tutto, visto con lo sguardo attento di uno dei grandi protagonisti, nei media, di entrambi i periodi. Sentite un po’ qua.

Traffic
Inizierei col tuo ricordo di Claudio Rocchi, che è scomparso il giorno prima dell’inizio di questa rassegna che ha contribuito a ideare… l’aveva fortemente voluta e ne scriveva con grande entusiasmo sulla sua pagina di Facebook, nonostante il suo grave stato di salute…
Abbiamo cominciato in radio insieme. Dato che lui era convintissimo di quello che faceva, già allora era amante dell’oriente e citava Tagore pur essendo inserito, ancorché non in modo organico, nel movimento politico di quel tempo. Ognuno aveva le sue fisse, e lui metteva i suoi dischi e dava, per certi versi, delle istruzioni di vita, alcune di buon senso, altre più esoteriche. Però ha lasciato una grande traccia, c’è molta gente che ricorda ancora con affetto lui e il suo “Volo magico”. In realtà noi non ci siamo mai frequentati troppo ma, se ricorderai, nel mio libro “Dear Mister Fantasy” cito l’aneddoto di quando, a inizio anni 70, dovevo partire per l’Egitto: peccato che la fidanzata dell’amico con cui dovevo viaggiare, che ci aveva accompagnati in auto all’aeroporto, si era portata via i nostri biglietti. Ovviamente, senza i cellulari era impossibile recuperarli e così – disperati – siamo usciti dall’aeroporto dove abbiamo incontrato proprio Claudio, vestito molto cool, che stava scendendo da un macchinone preso a noleggio che si accingeva a riconsegnare. Non ci abbiamo pensato due volte, e gli abbiamo chiesto l’auto in prestito per metterci all’inseguimento dei nostri biglietti, ma lui non ha battuto ciglio e ci ha messo le chiavi dell’auto in mano: capisci che non era una cosa che avrebbero fatto in molti, però lui era fatto così, rilassato, tranquillo, piuttosto gioioso.
Come dicevi,  se n’è andato proprio il giorno prima di quando è partita questa rassegna “Per voi giovani”. Devo dire che è stato di una forza morale straordinaria, perché era gravemente malato alle ossa ormai da qualche anno, però cercava sempre di minimizzare con frasi del tipo “Sono caduto, mi sono rotto il bacino, mi riprenderò”. Invece la malattia lo stava consumando e ha finito, di recente, con fargli perdere l’uso degli arti inferiori, solo che lui ti raccontava la cosa con leggerezza e ironia con frasi del tipo “Ma tu guarda che karma mi ritrovo: che mai dovrà succedermi ancora, dopo questa cosa?”. La cosa sorprendente è che lui aveva questo rapporto distaccato con il corpo, arrivando a paragonarlo a un’automobile che lo stava lasciando a piedi…
Evidentemente è riuscito a mettere in pratica quanto appreso in tanti anni di meditazione, visto che aveva anche fatto parte del movimento Hare Krishna…
Certo, ma poi certe cose che studi e che apprendi, devi anche essere bravo a metterle in pratica. E lui continuava a vivere come se niente fosse, aveva prodotto il suo disco autofinanziandosi, è venuto anche ospite a “Cool Tour Classic Rock” a raccontarlo: fino all’ultimo minuto, fino alla sera prima di quando è morto, ha continuato a lavorare, dando le direttive per questa rassegna. Aveva cominciato a scrivere anche la sua biografia, ma poi c’è stata la crisi respiratoria che gli è stata fatale. Però, ripensando a com’era Claudio, alla sua visione della vita e alla sua contagiosa serenità, non viene proprio da piangere e disperarsi, semmai lo stimolo per imparare la sua grande lezione di accettazione di tutto ciò che la vita ti passa.

Franco Battiato
Nella nostra precedente chiacchierata, in occasione dell’uscita del tuo libro “Dear Mister Fantasy”, abbiamo principalmente trattato i temi della musica in televisione e in internet.  Ora, in coincidenza di questa mostra, gli argomenti non potranno che essere la radio e, ovviamente, le immagini e la fotografia nella musica rock… Intanto dimmi come è nata la mostra...
Come ti accennavo, ho risentito Claudio in occasione dell’uscita del suo ultimo disco “In Alto” nel 2011, intervistandolo per “Cool Tour”, dopodiché lui mi ha contattato proprio per questa rassegna, chiedendomi se mi avrebbe fatto piacere fare qualcosa con lui. Io ovviamente ho accettato proponendogli questa mostra fotografica che si affianca a una serie di dibattiti e di concerti di artisti del periodo a cui risale il programma radiofonico “Per voi giovani”, quindi della prima metà degli anni 70. Inizialmente doveva svolgersi in una struttura esterna dell’Auditorium, poi però, un po’ per il fatto che là io sono di casa, un po’ perché l’idea è piaciuta molto, mi hanno dato questa bellissima sala, molto ampia, tutta bianca e con le luci giuste, ed è venuta fuori una cosa davvero molto bella. Devo dire che sta andando piuttosto bene, c’è molto interesse anche da parte dei media. È tutto materiale del libro che hai citato, sono trentatré scatti presentati in una veste differente.

Lucio DallaRaccontami qualche aneddoto che sta dietro a quelle immagini…
Lucio Dalla era un mago, una persona di una creatività assoluta, non solo nello scrivere canzoni o nello stare su un palco, ma anche nelle piccole cose. Così, anche quando lo fotografavi, lui aveva sempre dei guizzi, delle trovate piene di humor, e allora è venuta fuori la celebre foto della mela. Ricordo che eravamo a casa di un suo amico nel centro di Roma, su uno splendido terrazzino che dà sulla bellissima Piazza Campitelli. Mentre scattavo, lui si è alzato, è andato dentro e ha preso questa mela: non credo nemmeno di averglielo detto io, fatto sta che se l’è piazzata in testa; su cento foto, gliene ho fatta una sola con quella mela, però è quella che è rimasta, fissando per sempre una della sue molteplici, bizzarre intuizioni.
Un’altra volta è venuta a me un’idea pensando a lui, così lo chiamai, proponendogli un servizio sul basket, dato che conoscevo questa sua grande passione per la Virtus Bologna. Non fu possibile farlo con la sua squadra del cuore, ma riuscii a organizzare con la Stella Azzurra Roma, allora allenata da Valerio Bianchini: anche in questo servizio esce fuori la sua grande autoironia, lui piccoletto in mezzo a quei giganti, mentre si accinge a entrare in campo per giocare, pur arrivando a malapena alla vita dei giocatori. Fu tutto molto buffo: Lucio era un fantastico attore, un personaggio che sapeva sempre esattamente quello che doveva fare.

Jackson BrowneLa foto a Jackson Browne fu scattata a Venezia nel corso di quel bel documentario di due ore che abbiamo girato con lui per la Rai nel 1982, per cui avevo davvero un sacco di materiale da cui scegliere. Ho scelto questa foto perché fissa la sua classica faccia di quando era giovane, con quello sguardo incorniciato dal suo tipico mezzo sorriso un po’ “Mona Lisa”, su uno scafo, fra le calle veneziane.
Finardi lo immortalai in Piazza Navona, durante una manifestazione dei radicali ripresa anche dal programma televisivo di Arbore “L’Altra Domenica”. In quell’occasione suonava il basso, che era poi il suo strumento d’origine, ma è piuttosto rara, visto che nei concerti era solito imbracciare la chitarra.
Guccini lo andai a trovare ai tempi in cui scrivevo per Popster, e questo era il ritratto centrale del numero in cui andai a Bologna per intervistarlo. Lui mi portò a Pàvana, sugli Appennini, ovviamente in un’osteria in cui l’ho fotografato anche mentre mangiava, e c’era anche sua madre. Questa credo che fosse la cosa divertente di allora: con certi personaggi ci andavi anche in giro, in modo conviviale. Pensa ad esempio alla foto in bianco e nero con Venditti, che ho scattato sugli spalti dell’Olimpico prima di un derby che siamo andati a vedere insieme. C’era questa sensazione di amicizia che poi , in parte, è svanita nel tempo, anche se abbiamo mantenuto tutti dei buoni rapporti: in fin dei conti, erano le vicende di alcuni ventenni che si ritrovavano ed erano tutti in cerca di gloria, chi in radio, chi nelle classifiche. Era una storia molto generazionale, capitava anche di accompagnare dei musicisti stranieri in giro per la città…

Leonard Cohen
Come quella volta con Leonard Cohen
Sì, qualcuno all’Università Statale aveva saputo che Leonard era a Roma, e lui ha accettato di improvvisare un concerto nell’Aula Magna di Giurisprudenza, il tutto organizzato nel giro di ventiquattr’ore. Non aveva con sé un manager, non credo nemmeno che la chitarra fosse la sua, anche se aveva suonato anche qualcosa solo per noi in albergo, fatto sta che si è presentato con quella all’Università, e si è messo a cantare con il microfono che c’era sul bancone dell’aula in maniera molto spontanea: c’era insomma una grande disponibilità a fare delle cose fuori dagli schemi e dalle convenzioni, quella che oggi si è un po’ perduta.

Alcuni personaggi che hai immortalato sono anche diventati tuoi amici, come sei riuscito a conciliare la tua attività di critico e giornalista col rapporto di amicizia? Non sempre i due ruoli vanno d’accordo…
Non l’ho mai avvertito come un problema, perché io diventavo amico di quelli che mi piacevano, per cui la questione non si poneva nemmeno…

Rino Gaetano
Già, ma se a un certo momento l’amico musicista toppava il nuovo disco, che succedeva?
Fondamentalmente in quegli anni non lo toppava praticamente nessuno, erano tutti dischi belli. Pensa a Venditti, che pure allora veniva criticato da alcuni: negli anni 70 ha inciso un disco più bello dell’altro. “Lilly”, che era poi il suo lavoro centrale, quello che lo portò al grande successo, se lo risenti adesso – al di là delle considerazioni sul tema della tossicodipendenza – era molto crudo. La classica accusa da anni 70 era che lui voleva speculare su quell’argomento, invece era una canzone uscita in modo istintivo all’interno di un ellepì molto bello. “Ullalà”, in cui venni coinvolto in veste di autore della copertina, forse non sarà stato il suo disco migliore, ma comunque anche lì c’erano tre o quattro pezzi davvero notevoli, come ad esempio “Per sempre giovane”, con quella coda di “Born To Run” di Springsteen.
Per pensare che qualcuno avesse sbagliato disco, avresti dovuto porti come fece Bertoncelli che, al terzo lavoro di Guccini, comunque frutto di un suo percorso artistico, lo attaccò accusandolo di ripetersi e invitandolo a cambiare mestiere (da qui nacque il brano di Guccini “L’avvelenata”, in cui il cantautore emiliano tira in ballo in modo poco lusinghiero Bertoncelli ricambiandolo, alla sua maniera, dell’attenzione ricevuta, ndr.). Quella fu comunque un’esagerazione di Bertoncelli, non si trattava certo di un brutto album di Guccini. Il problema semmai era che la critica nei primi anni 70 si era ben abituata, tanto che se facevi un album simile al precedente, o anche senza troppi elementi di novità, passavi per quello che non aveva più niente da dire.
Esattamente il contrario di quanto accade ora: oggi, se fai un disco diverso dal precedente che ha avuto successo, vieni preso per pazzo perché rischi il flop. Oltre che ovviamente pensare a vendere, c’era anche una gran voglia di fare un prodotto alto, un’aspirazione che oggi si è un po’ persa.
Per tornare alla tua domanda, io ero molto amico di Bennato, Venditti, e Finardi, e frequentavo abbastanza Dalla. Tutta gente che in quegli anni non ha sbagliato nulla, anche se ad esempio Finardi l’ho anche criticato, e me ne sono reso conto rileggendomi di recente, quando ho recuperato il materiale che è servito per il mio libro. Gli ho rivolto delle recensioni abbastanza dure, in cui gli dicevo di smetterla con le rime baciate e con quella tendenza a dare le istruzioni al prossimo su come si deve vivere: insomma, quando pensavo che ci fossero delle cose da dire, lo facevo tranquillamente.

Demetrio Stratos - Area
Nel titolo della tua mostra si parla di un’onda del rock, siccome ci sentiamo indirettamente citati, ti chiedo che cosa sia stata per te l’onda rock…
Mi pareva che onda rock potesse funzionare per la mia mostra, mi serviva qualcosa per far capire che era nato tutto dalla radio, e poi ricorderai che era anche il titolo di un capitolo del mio libro. Fu davvero una grande ondata, uno tsunami, perché davvero prima di quei programmi non c’era quasi nulla, e invece dopo c’era un tutto un mondo che ruotava intorno alla musica: concerti, dischi, libri, riviste, apparizioni, dibattiti, tutto è nato in quel momento. Nacquero il movimento cantautorale e quello del prog italiano, ma soprattutto sorse l’infrastruttura che prima mancava, e si mise davvero la musica al centro della cultura giovanile. Ciò anche coi limiti del caso, tipicamente italiani, e mi riferisco ad Autonomia Operaia e alla sua dottrina per cui i concerti dovevano essere gratis, che creò una situazione assai anomala e pericolosa. “Per voi giovani” e “Popoff” erano le uniche due trasmissioni musicali che andavano in radio, quindi tutto ruotava attorno ad esse, e noi ci trovavamo al posto di guida di questa piccola grande rivoluzione culturale. Si diventava per forza amici, visto che molti artisti venivano in radio a promuovere i loro primi lavori, e questo procurava a loro la notorietà: c’era un insieme di riconoscenza, di affettuosità, di amicizia e di condivisione.

Genesis“Per voi giovani” è stato un programma radiofonico rivoluzionario e trasversale. Rivoluzionario perché è stato il primo a diffondere contenuti rock in radio, trasversale perché c’era una grande varietà di proposte che finivano anche alle orecchie di un pubblico non necessariamente giovane, visto che allora non c’erano altre emittenti oltre alla Rai…
In fin dei conti non ci curavamo molto di chi fosse il destinatario dei nostri messaggi, anche perché sapevamo che l’ascoltatore medio aveva dai trent’anni in giù. Non credo che di fosse molta gente di mezza età che lo seguisse, era un po’ un’oasi all’interno di un palinsesto che arrivava a tutti.  Di sicuro c’era qualche quarantenne che ci ascoltava, ma credo più che altro per farsi un’opinione di quale fosse la tendenza del movimento giovanile studentesco, visto che “Per voi giovani”, specie nei primi due anni, era molto politicizzato.
Un programma di quel tipo sarebbe ancora pensabile, oggi?
Come format musicale, sarebbe un programma senza dubbio rivoluzionario, mentre dal punto di vista socio politico l’analisi sarebbe ovviamente più complessa, dal momento che sono cambiate troppe cose nella fruizione dei media. Dal punto di vista musicale, dicevo, lo sarebbe perché noi mischiavamo Keith Jarrett e Venditti, Bob Marley coi Genesis, Joni Mitchell coi Weather Report, Frank Zappa e il Canterbury. Se riguardo quelle scalette ora, c’erano senza dubbio delle cose organiche, ad esempio Neil Young con gli Eagles e Jackson Browne, però poi c’erano dei salti, come quando mettevo Jarrett dopo Venditti solo perché entrambi usavano il pianoforte.

Bob Marley
Lou ReedChe differenze trovi fra la radio di ieri e quella dei giorni nostri? Com’è cambiato il linguaggio radiofonico?
Oggi i tempi radiofonici sono strettissimi: quando ci vado come ospite, si può parlare al massimo tre minuti e poi devi per forza mandare un disco. La nostra fu davvero un’esperienza di radio libera, perché si seguivano i nostri ritmi: sì, c’era la commissione di censura Rai che ogni tanto ti eliminava qualche pezzo dalla programmazione però, a parte questo che ha a che vedere con il momento storico e politico, nessuno ti faceva problemi di format, era a tuo buon gusto far sì che lo cosa funzionasse, e funzionava. Oggi le radio sono diventate dei contenitori di un genere, quel tipo di viaggio trasversale non è proprio contemplato, mentre il nostro punto di forza fu proprio quello di creare un gusto trasversale alla musica: si partiva dal rock, però si svariava e si portava dentro elementi di jazz, folk, blues e cantautorali. Noi facevamo passare il messaggio che la musica era storia, cultura, aveva un passato e delle radici, un percorso, delle similitudini. Se David Bowie amava la pittura, quella per noi era un’occasione per spaziare nel campo pittorico, magari c’erano dei riferimenti letterari e così si leggevano e si segnalavano certi autori: Springsteen citava Walt Whitman e in radio allora capitava di leggere una sua poesia. Però non avevi problemi di tempo, non è come oggi che, dopo trenta secondi, il conduttore ti inizia a tagliare; nessuno ti dava delle regole e allora te le dovevi fare da solo: ora siamo pieni di regole e diventa trasgressivo romperle, mentre allora era trasgressivo crearle.
È per questi motivi che oggi non fai più radio?
Ho avuto un sacco di abboccamenti con varie radio italiane, solo che alla fine c’è sempre qualcosa che non fa decollare il progetto. A volte il formato non è quello giusto, oppure non ti fanno scegliere i dischi e quindi dovresti fare solo conduzione, e io non sono certo lì per quello, altre volte ti lascerebbero fare quello che ti piace ma con delle limitazioni, con delle tempistiche di un certo tipo e di cui ti ho già detto. Fondamentalmente esiste un problema di format: quando ti dico che una trasmissione come “Popoff” (più che “Per voi giovani”) sarebbe rivoluzionaria è proprio perché sarebbe fuori da qualsiasi format contemporaneo: per un network di oggi si creerebbe una sospensione di identità che non può essere ammessa. Diciamoci la verità, sono idee di quarant’anni fa ma, visto e considerato come è andato il mondo, rappresenterebbero ancora qualcosa di innovativo.

Neil YoungOggi però prosegui la tua attività di conduttore televisivo, ma anche quella di fotografo, così mi viene da chiederti: quanto è cambiata quest’ultima con il passaggio alla foto digitale?
È cambiata moltissimo, per me il digitale nella fotografia paradossalmente ha inciso quanto e più che nella musica. Un volta c’erano le pellicole in tungsteno che servivano per scattare le foto con la luce artificiale ai concerti, ed erano a 160 asa. Già se la tiravi a 320 asa si cominciava a vedere la grana un po’ grossa, tirarla sopra ai 640 asa era assolutamente impossibile. La maggior parte delle fotografie presenti nella mostra sono scattate con un’esposizione a 2,8-1/30 2,8-1/15, adesso io scatto con iso a 6400, senza grana, con fuoco automatico e, se vuoi - dato che non costa nulla - puoi scattare duemila fotografie a concerto. Una volta l’inconveniente era quello di portarle e ritirarle dal laboratorio, oggi lo è selezionarle, perché una cosa è quando ne hai cinquanta, un’altra quando ne hai duemila. È cambiato anche il modo di fare le fotografie ai live, visto che allora si poteva stare davanti al palco dall’inizio alla fine dello spettacolo, eri lì a due metri, potevi appoggiare le lenti e gli obbiettivi sullo stage e nessuno ti diceva niente. C’erano anche delle luci peggiori, così magari scattavi a una velocità molto bassa e le foto venivano spesso e volentieri mosse, in compenso però avevi un accesso totale.
Oggi hai una macchina pazzesca, però ti fanno fare solo tre pezzi, per cui durante quei tre pezzi fai novecento fotografie e non hai nemmeno il tempo di ragionare su quello che stai facendo, è un rush, una scarica di adrenalina. Tu stai lì, e in pochi minuti devi fare tutto, ma non ha senso, perché un concerto non dura qualche minuto: si sa, infatti, che le foto vengono meglio alla fine, quando il cantante è un po’ stravolto e riesci a catturare meglio le sue espressioni più naturali, e poi in coda le luci sono più alte, e i musicisti non sono ancora alle prese con le prove volume, mantenendo così sul palco delle pose ancora molto contenute. Non parliamo poi del backstage che, se l’artista non è un tuo amico, ti è completamente precluso. La situazione ambientale è drasticamente peggiorata e la situazione tecnologica è migliorata di molto: le due cose un po’ si compensano, però lo fanno in una maniera strana. Io dei Green Day ho novecento fotografie e magari, di queste, cento sono anche buone, ma lo scatto sensazionale non lo puoi più fare perché non ne hai il tempo. Finisce che le fotografie sono tutte di ottima qualità, ma anche tutte uguali: se vedi i reportage dei dieci fotografi che lavorano a Roma, se li guardassi senza sapere il nome dell’autore e se li scambiassi, difficilmente sapresti dire chi ha fatto cosa.

Noto delle curiose analogie fra quello che mi raccontavi prima a proposito della radio, e quello che mi stai raccontando ora a proposito della fotografia…
Vero. È un po’ il mondo contemporaneo che spinge all’omologazione. Tecnologicamente è perfetto, avanzatissimo, fighissimo, con mezzi di comunicazione straordinari, però alla fine è anche un po’ banale, perché è un mondo in cui tutti hanno accesso con gli stessi mezzi, alla stessa cosa, nello stesso momento e questo rende il risultato molto simile. Non puoi inventarti quasi più nulla, mentre prima era più bravo chi aveva la mano più ferma, chi aveva un taglio particolare e magari sapeva crearsi la situazione: questi aspetti sono stati omogeneizzati dalla fotografia digitale, il che potrebbe anche essere un bene e avere un vago sentore di democrazia dell’immagine, però alla fine permette di distinguere meno i fotografi l’uno dall’altro.

Le foto sono state gentilmente concesse da Carlo Massarini