Dieci Piccoli Italiani

Dieci Piccoli Italiani - N. 73

di AA.VV.

clustersunCLUSTERSUN – Surfacing To Breathe (2017, Seahorse Recordings)
shoegaze, psych-rock, wave

Arrivano da Catania, cresciuti fra shoegaze, psichedelia e new-wave, trovando grazie alla loro opera seconda (a due anni dall’esordio “Out Of Your Ego”) la giusta collocazione internazionale, conquistata recentemente anche grazie alla partecipazione ai dischi tributo realizzati per Echo & The Bunnymen e Slowdive. Sembrano arrivare dal tramonto degli anni 80, con quella presenza glaciale mista all’epicità della proposta, e le chitarre pronte a creare muri di suono (in tal senso basti seguire le evoluzioni della strumentale “Don’t Let The Weight Of Your Soul Drag You Down”) tanto cari a My Bloody Valentine e Ride. In un momento storico che vede registrare i ritorni di tanti vecchi eroi della scena shoegaze, la presenza dei Clustersun (assieme a quella dei romani Klimt 1918) proietta il nostro paese nella situazione di non sentirsi secondi a nessuno. Fra una “Raw Nerve” che ben introduce l’intero lavoro (è anche il primo singolo estratto) e una “Lonely Moon” che ti entra nelle vene e ti devasta dall’interno, “Surfacing To Breathe” mette in fila otto tracce più energiche che trasognate. I Clustersun funzionano meglio quando riescono a mantenere basso il minutaggio (gli oltre 8 minuti di “The Whirling Dervish” appaiono in effetti un tantino dispersivi) ma il risultato finale è assolutamente apprezzabile (Claudio Lancia 7/10)


orelle_01ORELLE - Argo (2017, Black Candy)
songwriter

Pugliese (base a Bisceglie), Elisabetta “Orelle” Pasquale propone un’estrema propaggine, italianizzata, di dream-pop e Kate Bush in “Argo”. Tenui acrobazie canore e sicura eleganza jazzy si sublimano nelle varie “Linea d’aria”, “Fili d’oro”, “Argo”, “Fossile”, “Roma bianca”, da cui si staglia una “Keep Quiet” basata su un pianoforte Satie-esco. Completano il tutto liriche armate d’una pungente ironia, che fruttano un breve j’accuse distaccato con nonchalance come “Alibi”, e i suoni, un corredo di produzione fantasmagorica e illusionistica che frutta un pasticcino semistrumentale d’avanguardia come “Itaca”. Concept omerico, è l’autentico, preciso starting point della sua carriera, dopo il mediocre Ep “Primulae Radix” (2015) (Michele Saran 6,5/10)


ioelatigre_01IO E LA TIGRE - Per Sempre EP (Garrincha, 2017)
alt-pop

Già messe in luce con l’esordio “10 e 9” (2015), il duo emiliano delle Io E La Tigre (Aurora Ricci, voce, chitarra e tastiere, e Barbara Suzzi, batteria, basso, percussioni) si conferma premiata ditta di deliziosi hook melodici (basate però su liriche altamente confessionali) grazie all’Ep “Per sempre”. La ballata vintage di “Non finirà” ha una magia sacrale e una solennità di vocalismi a cappella. “Tu per me” e l’ancor più gaudiosa e sprintante “Bianconiglio” evocano il periodo Phil Spector dei Ramones, o, a scelta, una versione punk delle Ronettes. Sono canzoncine che si fregiano di un indovinato contrasto tra musica pimpante e una vocina altera, annoiata, quasi robotica. La serenata finale inverte gli equilibri: l’accompagnamento si fa scheletrico (solo strimpellii di chitarra a basso volume e un ticchettio metronomico), e dunque il canto può sciogliersi lirico e passionale. Scritte da Ricci per i testi e suonate al meglio da ambedue, toccano dolcezza barocca e rabbia da riot-grrrl, nonostante le fattezze dell’opera siano quelle dell’assaggino mordi e fuggi, più che della compiutezza. Qualche ospite: tra questi, il rapper cesenate Daniele “Slat” Ottaviani quasi rovina “Non finirà” (Michele Saran 6,5/10)


malclangoMALCLANGO – MalClango (2017, Subsound)
instrumental noise-rock

Sono in tre, romani, due bassi e una batteria, eppure non si presentano privi di qualche squarcio melodico; duri come una quercia, a tratti tribali, non troppo distanti dai Fuzz Orchestra (anche per via degli inserti spoken prelevati da servizi televisivi d’antan): questo in sintesi il documento di riconoscimento dell’omonimo esordio firmato MalClango. Furente, ma con ordine, il trio si muove costantemente nell’alveo del noise-rock strumentale, attingendo a piene mani anche all’esperienza degli Zeus!, candidandosi a un ruolo di primo piano nella difficile nicchia di appartenenza, in parallelo con la recente opera prima dei cremonesi Zenden San. Optano a tratti per il rallentamento dei giri, come accade in “Anatomia di un battibecco”, ma il sound si presenta quasi sempre plumbeo e al contempo devastante, ricco di poliritmi selvaggi. Senza la minima intenzione di voler mai apparire furbetti o rassicuranti, i MalClango destrutturano e ricompongono a loro piacimento, secondo il gusto personale, ottenendo quel singolare suono figlio di una formazione originalissima nell’assortimento. Tanto per dire che da qualche parte, di questi tempi, nell’underground di casa nostra non ci si stanca certo di sperimentare (Claudio Lancia 6/10)


monMÒN - Zama (2017, Urtovox)
alt-pop

Romani, i giovani Mòn debuttano a tre anni dalla formazione con “Zama”. Dal loro primo incontro all’uscita dell’album, i cinque hanno fatto tesoro e incetta d'una quantità esorbitante di ascolti. Non per niente, il risultato è un’opera che sa spesso di assemblato. Il pop onirico di “Lungs” è di certo ambizioso, fitto e complesso (intro sinfonica, solfeggio dream-pop, break strumentale, lancio dance-rock), ma sconfinante nell’irrazionale immaturo. Più ordinata è “That Melts Into Spring”, quasi un mini-musical, forse l’unico esempio del disco ad avvicinarsi a una dichiarazione metodologica, una serenata a due che sprinta in accelerazione disco-punk con sceneggiata vocale, a ricordare certe evoluzioni dei Modest Mouse. Poi tutto diviene un po’ una fiera del campionamento stilistico, da “Fluorescence” (Bloc Party) a “Forest Of Cigarettes” (Yeah Yeah Yeahs) a “The Flock” (Architecture In Helsinki). Le parti più pacate, basate sulla vocalità dei due cantanti, Rocco Zilli e Carlotta Deiana, fortunatamente riescono a dare un’anima: “Indigo”, estatica, poi “invecchiata” grazie all’effetto puntina su giradischi, “Fragments”, “Mutter Nacht”, praticamente un mottetto. Album che appartiene al decennio passato, sia per influenze che per quel modus di concepire ogni canzone come un’operetta che nel bene è una profusione di dettagli e snodi, e nel male è una piccola accozzaglia. Post-post-modernismo all’italiana? Esterofilia sofisticata? Pop di retroguardia che gronda di rimandi e citazioni? C’è comunque la potenzialità: il quintetto, anche se sovente soffocato dai barocchismi, sa condurre jam di buona fibra, senza sfilacciarsi. La cosa più bella è quando, due o tre momenti veraci, riescono a dare nuovi orizzonti all’aggettivo “caleidoscopico” (Michele Saran 6/10)


mistakesMISTAKES – Our Own Way (2017, Ammonia Records)
power-punk, indie-pop

Tre ragazzi milanesi, un punketto dagli evidenti tratti indie-pop, un po’ alla Blink 182, ma soprattutto “a modo loro”, come profeticamente recita il titolo. Giunti al secondo Ep, i Mistakes iniziano a riflettere su come oltrepassare gli angusti confini della provincia. Lo fanno con cinque nuove composizioni brillanti ed energetiche, nelle quali narrano i piccoli grandi accadimenti della loro quotidianità, quella di una band emergente che cerca di sbarcare il lunario, coltivando grandi speranze per il futuro. Fra brani più veloci (“Blame It On The Morning”, “Put Into Gear") e qualche spunto tendente al riflessivo (“No Name” e “Sons Of The Sky”, che appaiono anche un tantino più personali) tutto scorre alla grande. Nulla di nuovo sotto il sole, ci mancherebbe, ma tanta voglia di fare, il giusto livello di spensieratezza, e qualche gancio davvero niente male. Per ora va benissimo così. E intanto sognare di diventare i Green Day non è certo un reato (Claudio Lancia 6/10)


vostokVOSTOK - La Geometria Delle Abitudini (2017, Nonomori)
alt-pop

Ensemble fondato tra Brindisi e Firenze e capeggiato da Giuseppe Argentiero, chitarrista classico dalla solida preparazione, e Mina Carlucci, un’ugola in perfetto stile Elisa, Vostok debuttano con “Lo spazio dell’assenza” (2013), un disco di canzoni a basso volume, nude, prive di elettrificazione. Il seguito “La geometria delle abitudini” segue pedissequamente il percorso già tracciato, maturando e ampliando le concezioni. Esempio felice è anzitutto il ritornello immacolato de “L’ultima notte”, preghiera di monaca, autoflagellazione fatta di carezze anziché di frustate, chiusa da un ameno concertino di sax. E poi la chiusa, tematicamente collegata all’inizio, “Un nuovo giorno”, cantilena spiegata introdotta da un’immaginifica sarabanda d’archi, che rischiara la mestizia. Il problema è che quasi tutta l’opera si può riassumere in questi due brani. Il resto fatica a ritrovare la medesima tensione, e il complesso si ripete, si crogiola in recitativi d’amore (“Avia”) e in filastrocche (“Ali di carta”), sbarella in numeri fuori misura (“The Downfall”, persino rockeggiante, in inglese), s’invola in momenti strumentali (“Mondrian”, la cui seconda parte però è una suite progressiva anche avventurosa), e la noia finisce per prevalere. Di certo, comunque, non mancano tatto, sensibilità, filigrane meticolosamente costruite, un po’ di blues e un po’ di flamenco. Ben nove esecutori in tutto. Tiratura limitata a 300 copie (Michele Saran 6/10)


thocTWO HICKS ONE CITYMAN - Lonely Nights (2017, autoprodotto)
alt-rock

Mantovani, già conosciuti a cavallo dei due decenni come Quarter Past One, Two Hicks One Cityman danno alle stampe dapprima un Ep omonimo (2015) e a seguire un album breve, “Lonely Nights”. La successione tra un’identità e l’altra è significativa: alle baldanze Beatles-iane della prima incarnazione succedono istanze esistenzialiste, insufflando velatamente certune dosi di melanconia. Ancora imparentata coi Quarter più britpop è “Farewell To The Lone”. Il resto si divide tra ballate imperniate su ritornelli corali quasi Aor, “Almost Had It All”, in formule ripetute ad nauseam alla Smashing Pumpkins, “Easily”, e una trilogia di soul lenti e adulti, “So Lonely”, “Low Man”, “Lonely Times”, che ne fanno quasi un piccolo concept. Sei canzoni, un “Interlude” d’un minuto e mezzo per solo piano che - da solo - riassume per sottrazione lo spirito del progetto, 22 minuti in tutto. Cantabile, ispirato, ben suonato. Cosa non da poco, vanta una dizione inglese nel canto praticamente senza pecche. Singolo e video: “Lonely Times”. Veicolato tramite piattaforma Sounday (Michele Saran 6/10)


giorgiodursiGIORGIO DURSI - Poetry Reading With Sound Footnotes (2017, ArteTetra)
avantgarde

Il vocalist e poeta visivo Giorgio Dursi si mette definitivamente in mostra con la cassetta “Poetry Reading With Sound Footnotes”. Il primo lato attacca come un impetuoso, sferragliante rituale sciamanico (un inizio che rimane a mani basse la parte migliore dell’opera), via via screziato, sgasato, e reso sempre più irregolare dagli interventi del canto, vocali espanse e armoniche che occasionalmente imitano anche i volatili. Si arriva al soliloquio gestuale, più che altro silenzioso, accompagnato da un brulicante sottofondo di rumori trovati, e diventa il modello per l’intera seconda facciata, modulando via via la densità e l’isteria. Da un paesino balneare del teramano (Villa Rosa) alla terra teutonica (base in quella Berlino fertile per i giovani della musica di ricerca), un performer col giusto fuoco ma ancor scarico d’inventiva, e senza grande quadro d’insieme. Farà comunque la gioia di appassionati vecchi e nuovi d’arte zen-aleatoria. Seguito del debutto, meno impegnativo, “Polimorphonia” (2016) (Michele Saran 6/10)


albertogesu_01ALBERTO GESÙ - Santi e sirene (2017, autoproduzione)
songwriter

Nuova infornata di serenate, ballate e stornelli folk per Alberto “Gesù” Cozzi nel terzo “Santi e sirene”. Emancipato dai rumorismi bambineschi dei Franzoni, che irroravano disordinatamente i precedenti “Svegliarsi gente” (2013) e “Ma che miracolo e miracolo” (2015), oltre a donare una venatura di sfogo politico anti-recessione, Cozzi si dedica quasi a tempo pieno alla sua personalità di menestrello esistenziale, a parte “Pronti (non saremo mai)” e una title track in ritardo, “Ma che miracolo e miracolo”. Piccolo concept che si serve di mare, acqua e navigazione per evocare i corsi di vita del loser. Gli arrangiamenti frugali, chitarra, mandolino, violino e poco altro, e la produzione, un Fabio De Min che spinge sui volumi e impepa i timbri (azzeccate le parti corali), non fanno male, o meglio, sono proprio un motivo per ascoltare l’album. Mancano originalità e musicalità. “Imparare a nuotare”, “Sopra una nuvola”, “La fine della storia”, “E meno male”, e altre, oltre a non indovinare un refrain e a sorvolare su grossolane approssimazioni di scrittura, poggiano sempre sulla stessa cadenza da valzer malandrino e sullo stesso tono poetante. Regge una decina di minuti, poi stucca (Michele Saran 4,5/10)

Discografia

CLUSTERSUN – Surfacing To Breathe (2017, Seahorse Recordings)
ORELLE - Argo (2017, Black Candy)
IO E LA TIGRE - Per Sempre EP (Garrincha, 2017)
MALCLANGO – MalClango (2017, Subsound)
MÒN - Zama (2017, Urtovox)
MISTAKES – Our Own Way (2017, Ammonia Records)
VOSTOK - La Geometria Delle Abitudini (2017, Nonomori)
TWO HICKS ONE CITYMAN - Lonely Nights (2017, autoprodotto)
GIORGIO DURSI - Poetry Reading With Sound Footnotes (2017, ArteTetra)
ALBERTO GESÙ - Santi e sirene (2017, autoproduzione)
Pietra miliare
Consigliato da OR