Rivoluzione francese

Il french touch in 50 album

Anni Novanta. Che il paese autarchico per eccellenza, la Francia, dovesse prima o poi tornare alla ribalta dopo aver sonnecchiato a lungo all'ombra degli chansonnier e di qualche fulgida meteora anni Ottanta, era in qualche modo inevitabile. Ma nessuno, forse, avrebbe immaginato che tale riscossa sarebbe arrivata nei termini di un lessico dance che faceva eco alla house importata dall'America - nello specifico il sound tipicamente chicagoiano, incursioni sporadiche nella techno di Detroit e rimandi alla disco primordiale formato Studio 54 e, ovviamente, Baia degli Angeli - arricchendolo di accenti tipicamente francofoni. E si potrebbe anche citare l'esperienza di quel gigante nascosto di Jean-Pierre Massiera, giusto per accontentare i più pignoli.
Ma il french touch della prima ora, quello “originale” se ci si passa il termine, ha assunto in buona parte questi connotati: suono da club, cassa dritta, testi declinati in lingua inglese. Ben presto la nuova ondata diventa un fiume in piena accompagnato dal mitologico slogan "we give a french touch to house music". Col passare del tempo la definizione, come spesso accade, si estende a un ambito più ampio: quello di una caratterizzazione autoctona e fiera del suono nazionale che va man mano ad abbracciare più generi, dall'elettronica nelle sue più svariate accezioni all'electro-rock, dall'hip-hop alla synthwave, dal jazz al pop, raccogliendo un successo tanto globale quanto insperato. Minimo comune denominatore del termine "french touch", anche per differenziarsi da una scena cantautorale a sua volta ritornata in auge con molti nomi di spicco, è allora l'impiego più o meno massiccio di sintetizzatori. Lungi da manifestare intenti completisti, questo approfondimento - scritto a vent'anni dall'estate che in qualche modo sanciva il momento di massima esposizione mediatica del french touch - si prefigge di ripercorrere la storia e l'evoluzione del movimento dagli albori ai giorni nostri attraverso 50 titoli in qualche modo, per motivi diversi, fondamentali.

respectAA. VV. - "Respect For France" (1992)
Più che il manifesto di un movimento ancora tutt'altro che giunto a maturazione, “Respect For France” è l'autoaffermazione di una scena che inizia a prendere coscienza di sé e che cerca di trovare nuovi spazi e maggiore considerazione: il sottotitolo “a french rhythm selection” è a dir poco programmatico. Il deus ex machina dell'iniziativa è il parigino Laurent Garnier, ai tempi a capo della divisione dance della Fnac, che improvvisamente si trasforma nell'avamposto della techno/house francese. Lo stesso Garnier, tornato in patria dopo essersi fatto le ossa in Gran Bretagna, partecipa alla compilation con la settima traccia in scaletta, “Storm”, che a sua volta diventerà uno dei cavalli di battaglia nel repertorio del dj transalpino. I prodromi del french touch però si ravvisano soprattutto altrove, ad esempio nei due pezzi a firma di Shazz, e in particolare in una “Moonflower” che testimonia l'esistenza di una certa idea di sound con le tastiere a lanciare i beat in un miscuglio già peculiare di house e lounge. Una pubblicazione mitologica, come i rave che ne accompagnano l'uscita.

teknonostrumAA. VV. - "Tekno Nostrum" (1992)
L'ingresso ufficiale (o quasi) della house e della techno nella scena francese avviene con una seconda compilation dai contorni altrettanto mitologici: “Tekno Nostrum”. La Rave Age Records viene fondata proprio sul finire degli anni Ottanta con l'obiettivo di creare musica elettronica al 100% transalpina sulla scorta dei rave che un gruppo di ragazzi ormai consolidato porta in giro per il paese. La raccolta mette insieme i brani dei djs che si alternano alle feste, come a portare quell'esperienza al di fuori degli happening. Basta ascoltare l'omonimo brano di Artificial Beat (forse il migliore della raccolta) o la house selvaggia di “Jesus Cri” di Archimede per avere un assaggio delle atmosfere stordenti di quelle serate. Con il senno di poi, la più “francese” tra le canzoni contenute in “Tekno Nostrum” è forse “Diskonected” dei Time Bandits, perlomeno a livello di intro. Se “Respect For France” suona in un certo senso come qualcosa di confezionato e studiato a tavolino, “Tekno Nostrum” è soltanto sudore e passione, una fotografia unica e irripetibile di quel periodo. Semplicemente strepitosa.

lafunkmobLa Funk Mob - "Tribulations Extra Sensorielles" (1994)
Nel bel mezzo dei 90, il french touch è ancora in fasce. Pochissimi i dischi con le sembianze di una creatura sonora che di lì a poco imperverserà nel mondo, riconvertendo house e pop in un amplesso esclusivo. La Funk Mob è il progetto di due mastini di un’epopea irripetibile: da un lato Hubert Blanc-Francard, noto ai più come Boom Bass, e dall’altro un certo Philippe Zdar Cerboneschi, ossia i Cassius in embrione, nella loro versione asciutta e fascinosa. I battiti di “Tribulations Extra Sensorielles” rimandano, infatti, all’exotica di fine 70, con la variante ritmica in scia chicagoiana (l’introduttiva “La doctresse”, “357 Magnum Force”). Tracce che strizzano l’occhio alle fusioni screamadeliche dei coetanei Primal Scream, con un insolito passo catchy adatto più ai club che ai palchi. Domina, come da moniker prescelto, una chiara vocazione funky, e la sinapsi ritmica dalla melodia di “Motor Bass Get Phunked Up” la dice lunga sull’ammirazione del duo per il genere statunitense. “Tribulations Extra Sensorielles” è un punto fermo del french touch. Un disco apripista destinato a rimanere nella storia tra i fari cult di maggior peso. E il campione techno-trance del grandissimo Lucas Cornelis van Scheppingen, in arte di Jahmirrahman, è soltanto l’ultima ciliegina sulla torta di una prova sontuosa.

thomasbangalterThomas Bangalter - "Trax On Da Rocks" (1995)
Uno dei rarissimi Ep della lista è targato Thomas Bangalter, ossia metà esatta dei Daft Punk. L’anima più pulsante del duo è ancora ragazzino quando mette sul piatto “Trax On The Rocks”. Cinque tracce che sono l’ossatura ritmica del sound targato Daft Punk, quantomeno del beat con il basso sintetizzato in appoggio e l’immancabile tastiera con il motivetto di turno a gasare gli spiriti. “On Da Rocks” è la futura “Da Funk” in chiave deep house, privata del celebre refrain in loop.  Così come “Roulé Boulé” esalta il lato nerd di Bangalter, quasi un videogame in 4/4 con stop&go e trombetta filtrata a emulare colpi o missili (fate un po’ voi). La propensione a certa musica garage, con la classica batteria campionata e stravolta a seconda del momento, è palese in “What To Do”. Un’inclinazione che dura poco, visto che in “Outrun” torna in auge la passione per i videogame. L’omaggio all’omonimo gioco della Sega lo conferma, non solo nel titolo, ma anche nell’andatura imprevedibile. E’ la prima piccola grande prova di uno dei pesi massimi del genere.

emmanueltopEmmanuel Top - "Release" (1995)
Le metamorfosi del french touch sono infinite, direbbero i fan. E come dar loro torto. Del resto, basti pensare a lavori come “Release” di Emmanuel Top per quantificare una delle tante direzioni intraprese dai francesini a metà dei 90. Nello specifico, il dj producer di Lille guarda alla techno dura e pura, quella che ha attraversato l’Atlantico, provenienza ovviamente Detroit, con destinazione vecchio continente. L’esordio discografico di colui che nel corso degli anni crea una dietro l’altra etichette monstre per il genere techno e non solo, quali Attack Records, Triangle, Electret, Ô Records e FoKalm, ha i Bpm chiari. L’album è una sassaiola di fughe cibernetiche verso lidi futuristici, quasi a voler fondere la cultura rave berlinese e londinese del periodo con le più docili progressioni transalpine, “Acid Phase” su tutte. Si prende per giunta gioco della blasonata chill out, intitolando così l’open track, traccia dall’andazzo spedito e tutt’altro che conciliante. Disco cardine per il movimento techno francese, “Release” incarna l’accelerazionismo french touch per i suoi tratti tanto concisi quanto eleganti, al netto delle bordate sparse qui e là che ne formano l’ossatura principale.

boulevardSt Germain – "Boulevard" (1995)
Ludovic Navarre aka la quintessenza dello stile e della classe della nuova scena francese. Con “Boulevard”, primo album in studio pubblicato sempre dalla divisione discografica della Fnac (già rinominata F Communications), il compositore nativo dell'Ile de France (St Germain-en-Laye, da cui il nome d'arte) dà forma a un sound che fino a quel momento non esiste – quantomeno per un pubblico più ampio ed eterogeneo. Appassionato fin da giovane di musica elettronica e da anni dj acclamato nei club parigini, Navarre unisce nu jazz e deep house in una fusion che ottiene una eco internazionale clamorosa e attira sulla scena francese attenzioni fino a quel momento insperate. “Boulevard” si trasforma così, quasi a sorpresa, nel debutto “ufficiale” del french touch al di fuori di una ristretta cerchia di appassionati. Pezzi come “Thank You Mum” o “Sentimental Mood” contengono al loro interno tutta l'idea di eleganza e di esclusività che la nuova scena francese si prefigge di irradiare al mondo intero. Il successivo “From Detroit to St. Germain”, del 1999, approfondirà il lato puramente house/techno.

motorbassMotorbass - "Pansoul" (1996)
Nei primi 90, Philippe Zdar è un giovane dj-producer giunto qualche tempo prima nella capitale francese da uno sperduto paesino delle Alpi per arricchire il proprio bagaglio sonoro. Il ragazzo ha da poco conosciuto Hubert Blanc-Francard, aka Boom Bass, e insieme decidono di produrre il musicista hip-hop MC Soolar, dando in seguito vita al duo La Funk Mob, che si evolverà qualche anno dopo negli acclamati Cassius. Étienne Bernard Marie de Crécy è invece un ingegnere del suono di Lione, approdato alle sponde della Senna dopo aver bazzicato i circuiti elettronici di Marsiglia e Versailles. L’incontro tra i due ha un nome: Motorbass. “Pansoul”, primo e unico Lp con tale moniker, è lo scrigno di un suono destinato a invadere il pianeta con l’avvento dei vari Daft Punk (presenti nei ringraziamenti), Air, Dimitri From Paris, St Germain, Bob Sinclar e via discorrendo. Glitches beffardi, blips and clicks versati con guanti di velluto. Luci basse e incedere propriamente lounge contraddistinguono l’introduttiva “Fabulous”. “Ezio” esorta ai primi movimenti del bacino. “Flying Fingers” vola poi altissimo. Battito regolare e sterzata di turno danno vita a una danza irresistibile con tanto di scratch finale, a ricordare l'amore di Philippe per la black music. E’ l’apice di una musica da club concepita con tocco sopraffino ed estrema grazia.

lesrythmesdgitalesLes Rythmes Digitales - "Liberation" (1996)
Stuart David Price, aka Les Rythmes Digitales, è uno di quei casi isolati e bellissimi del movimento francese. Il motivo? E' inglese ma francese a partire dal nome, nel sound e nell'anima. Uno di quei casi singolari di come il french touch abbia influenzato addirittura in terra d'Albione. Due dischi all'attivo tra il 1996 e il 1998, e un'idea che gira in testa come una trottola impazzita: elevare il french touch su piani diversi tra loro, portandolo a zonzo con una serie di trovate che pescano tanto da alcune soluzioni trip-hop e big beat vivide più che mai nel '96, e infarcire la torta con archi e piani in slow motion, come accade in coda nella magniloquente “Kontakte”, cinematografica e parimenti lenitiva da gridare al miracolo. Price è una sorta di Tricky senza THC e richiami voodoo. È un sarto del beat drum and bass rallentato ad hoc, il producer fantasioso capace di centellinare trame acustiche e passi danzerecci come pochi altri. “Liberation” è l’opera prima di uno scultore di suoni fugace, che finisce ben presto la benzina, lasciando però ben vivo un viaggio sonoro personalissimo messo in bella mostra in 8 episodi di mera fluorescenza elettronica, tra break incontrollati e inserti vocali a metà tra il soul e il jazz. Memorabile.

dimitrifromparisDimitri From Paris - "Sacrebleu" (1996)
Se il french touch fosse un aperitivo, “Sacrebleu” sarebbe un Acapulco e Dimitri From Paris il barman dietro il bancone del locale più facoltoso di Parigi. Il dj producer greco con cittadinanza francese è l’alchimista della variante chic di un genere che nel 1996 è ancora confinato tra i vicoli della capitale francese e la fu linea Maginot. Eppure, “Sacrebleu” è un capolavoro di ambientazioni alla Broadway, cullanti nenie da club in chiusura, mentre il fumo della sigaretta avvolge il piano bar e una cantante, nella fattispecie la vocalist ultra-sciantosa Atlantique Vénus Nguyen Manh Khanh, in arte Mademoiselle Atlantique, tratteggia effusioni cantando come una dea svampita che non sogna altro che candide lenzuola in cui affondare le proprie passioni. Carnalità e sciccherie, “Sacreblue” trasla gli anni 20 nel cuore di una Parigi indomita, elegante come non mai, e trae gioia da sample presi in prestito da pellicole storiche come “La dolce vita”, “Colazione da Tiffany”, “8 e 1/2”. Jazz cosmico con tanto di contrabbasso incalzante (“Rêveries (Edit)”), incursioni fumanti alla Tricky che farebbero gola financo ai Portishead, così come tantissimi altri (“Dirty Larry (Edit)”), partiture funky da capogiro - “La Rythme Et La Cadence (Full Length Version)” - che farebbero muovere le chiappe anche a un brontosauro. Un party irripetibile, non solo per la corrente french touch, ma per la musica tutta. A conquistare, ovviamente con la consueta charme del gentiluomo.

decrecyÉtienne De Crécy - "Super Discount" (1996)
Nel '94, la Disques Solid, l’etichetta nata nello stesso anno dalle menti di Etienne De Crécy, Pierre-Michel Levallois e Alex Gopher, è al centro di una rivoluzione disco singolare, in cui gli elementi cardine della dance newyorkese messa in mostra nei locali più in voga della Grande Mela a cavallo tra i 70 e gli 80, su tutti lo storico Studio 54, fondono all’unisono con la musica house propriamente detta di matrice chicagoiana. Un amplesso che muta in qualcosa di diverso grazie alle mani caldissime di dj transalpini del calibro di Etienne De Crécy, deus ex machina con Philippe “Zdar” Carboneschi dei seminali Motorbass e pioniere indiscusso del french touch più conturbante e al contempo stiloso. “Super Disconunt” è il disco che unisce Giorgio Moroder e lo sci-fi discotecaro dei coevi Daft Punk, Donna Summer e il funk spedito in orbita da una console in formato Cape Canaveral da un George Clinton qualunque. I dieci minuti dell’open-track “Le patron est devenu fou !” 10:06 (feat. Minos Pour Main Basse (Sur La Ville)) esplicano questo e molto altro, a precedere una serie illuminata e illuminante di bordate in cassa dritta estatiche e mai invasive, dense di ospiti del calibro di Minos Pour Main Basse (Sur La Ville), La Chatte Rouge, Mooloodjee, Dj Tall, Mr Learn e il sopracitato Gopher.

daftpunkDaft Punk - "Homework" (1997)
Cosa sarebbe il french touch senza "Homework"? Si potrebbe dire come il cinema senza Humphrey Bogart o la Formula 1 senza Nelson Piquet. Non tanto perché il primo capolavoro assoluto dei Daft Punk contiene gli elementi cardine di uno stile unico, bensì per la sua totalità, la sua conformazione espansa, in cui house, techno e gigionerie da disco music moroderiana si incrociano in una sinapsi fuori dai canoni. “Homework” è il manifesto di un’epoca che abbandona la zattera dei piatti in skretch motion per salire a bordo di un Concorde. Il singolo "Da Funk", ispirata rilettura di refrain elettronici anni 80 come "Pop Corn" e "Pop Muzik", ottiene immediato consenso planetario. “Around The World” sarà l’esplosione di una supernova nel cielo della dancefloor terrestre. E’ il trionfo di una fascinazione retrò che scazzotta con una sensibilità spinta da inguaribile nerd. Musica da videogame che entra in pista strizzando l’occhio al passato? Cos’altro chiedere ai due talenti ex-dipendenti della Fnac di Parigi e divoratori seriali di giochi come Tron? Magari altri compiti a casa. Se questo è il risultato, la musica popular è ancora un elegante divenire.

rinoceroseRinocérose - "Rinocérose" (1997)
I Rinôçérôse del chitarrista Jean-Philippe Freu e del bassista Patrice Carrié incarnano il fulgido esempio di band votata al french touch che strizza l’occhio al movimento big beat inglese. Battute lounge da contraltare a fraseggi rock spaziali, fisarmoniche a introdurre riff cinetici e andature pesanti (“Metal Mental Dub”), vortici ritmici da centrifuga e sirene impazzite (vedi la conclusiva “Les Funerailles De Toutankhamon”) e un’aria gigiona che imperversa sempre e comunque nei 7 episodi di un disco singolare, esperimento riuscito di una formula che apre le porte a una carriera in fondo nell’ombra, eppure ricca di ulteriori momenti epici, come “Installation sonore” del 1999. L’omonimo esordio del sestetto transalpino espone una cifra stilistica avvolgente, in cui rifugiarsi magari al tramonto delle sere di fine estate. Musica per rilassare il corpo e brindare alla vita senza scaldarsi troppo. Un ibrido in cui non mancano fughe new age ben calibrate, messe in atto dal flauto indiano di Franck Gautheir. E’ il trionfo di una pace dei sensi che da Montpellier risale lungo tutta la Francia, riscuotendo discreto successo anche in Germania e Inghilterra.

kidlocoKid Loco - "A Grand Love Story" (1997)
Jean-Yves Prieur, per tutti Kid Loco, ossia colui che ha reso cinematografico il french touch. “A Grand Love Story” è appunto una grande storia d’amore tra il disc jockey parigino e il cinema d’essai. Partiture che cullano l’anima, come l’introduttiva “A Great Love Theme”, traccia che sembra uscita da un album a caso di Riz Ortolani, o la successiva “Relaxin' With Cherry”, a rimarcare un esotismo che non sfigurerebbe in uno spezzone di “Emmanuelle”, la passionale e celebre pellicola del 1974 di Just Jaeckin tratta dal romanzo omonimo di Emmanuelle Arsan. Vibrazioni suadenti, ritmi carezzevoli, onde che si infrangono sulla riva: questo e molto altro nella musica di Kid Loco. Soluzioni ipnotiche a cui si aggiunge spesso e volentieri il contrabbasso e il consueto basso funky ad animare la mente e qualcos’altro. L’album si inserisce in un sotto-calderone tutto suo del french-touch, perché sposa tanto le avvisaglie trip-hop inglesi in auge a Bristol, quanto l’exotica più ammaliante. E basterebbero le sole "Love Me Sweet", cantata dalla dolcissima Katrina Mitchell, o il primo singolo estratto dall’album, la psichedelica “She's My Lover (A Song For R.)”, per intendere quella che resta una faccenda fuori dal coro. Una sosta su lidi inesplorati dannatamente illuminante.

moonsafari_03Air - "Moon Safari" (1998)
L'altro lato del french touch, quello più adatto a locali super-chic che ad affollate discoteche. Jean-Benoit Dunckel e Nicolas Godin, brillanti studenti di architettura, si dilettano a scrivere superbe canzoni electro-pop basate sulla sinergia tra sintetizzatori analogici, chitarre e strumenti assortiti, adagiate su metriche downtempo e inserite in un'ambientazione spaziale. Le melodie degli Air sembrano lievitare, ormai private della forza di gravità e pure di un rapporto spazio-tempo ben delineato, avvolte in quella formula retrofuturista che sarà impossibile per chiunque replicare (forse anche per loro stessi). “Moon Safari” è l'album più patinato e “spendibile” dell'intero movimento, ma non c'è nulla di confezionato al suo interno: è tutta roba genuina, assolutamente geniale e indimenticabile, come si conviene agli album che fanno la storia. Dieci canzoni, altrettanti potenziali singoli, alcuni dei quali segnano davvero un'epoca: “Sexy Boy” e “Kelly Watch the Stars”, spinte all'infinito da Mtv, ma pure “All I Need”, “You Make It Easy”, “Remember” e via dicendo. Vocoder robotici e voci celestiali, aneliti psichedelici e spigliatezza pop: in altre parole, lo spazio visto da Versailles.

pepebradockPépé Bradock - "Syntèse" (1998)
Il parigino Julien Auger, in arte Pépé Bradock, è una delle “meteore” più luminose della storia del french touch. Per l’esattezza, la sua ala deep house. E’ infatti un’esplosione di battiti in cassa dritta e vocalizzi soul-funky, estratti con precisione chirurgica dalla propria valigetta zeppa di vinili e prelibatezze d’annata. Basterebbe la sola “Atom Funk”, edita anche a nome Trankilou, per quantificare la bontà di una cifra stilistica atta a mixare in un sol colpo “Tango Hustle” degli irriverenti The Kay-Gees, “Buffalo Gals” di Malcolm McLaren e, appunto, l’originale “Atomic Funk” degli statunitensi Undisputed Truth. Ripescaggi di classe, inseriti in un contesto mediamente house, infarcito di fascinosi stop&go, o meglio quelle ripartenze con il sound compresso di una traccia che lascia il posto al refrain vocale, possibilmente in scia soul, di un’altra. Trovate a cui si aggiungono ripetuti inserti jazz, con la tromba sempre pronta a inebriare l’atmosfera, unita qui e là a rime hip-hop prese in prestito dal Bronx dei “bei” tempi. Un piccolo miracolo, nascosto, ancora oggi esempio di classe sopraffina ai controlli. Il volo di 11 minuti della memorabile “Deep Burnt” con i sample di di Freddie Hubbard, Max Roach e Lulu è soltanto l’ultimo esempio di un’opera cult.

oizoMr. Oizo – "Analog Worms Attack" (1999)
Conosciuto alle nostre latitudini come un classico esempio di “one hit wonder” grazie al tormentone di “Flat Beat”, pezzo inserito quasi in extremis in questo album di esordio (è l'ultima traccia in scaletta), Mr. Oizo - al secolo Quentin Dupieux - è in realtà un artista che riscuote un buon successo in patria, per quanto “Analog Worms Attack” sia in qualche modo anche il suo apice assoluto in termini di riscontri e popolarità. Pubblicato – guarda un po' – dalla prodiga F Communications, il disco mette in fila le influenze di Mr. Oizo, dai retaggi house americani e francesi a qualcosa di diverso e in qualche modo “coraggioso”, tipo le metriche hip-hop ed electro-funk che spuntano qua e là nei brani (strumentali) come schegge impazzite, rendendo l'ascolto decisamente meno noioso. I risultati raggiunti dall'artista parigino sono invero spesso interessanti (si ascolti “No Day Massacre”), tuttavia l'intera opera sconta la popolarità del singolone “Flat Beat”, che in Italia letteralmente spopola grazie allo spot di un celebre marchio di jeans, con tanto di pupazzo/alter ego che va a ruba.

cassiusCassius – "1999" (1999)
Philippe Zdar, già nei Motorbass, e Hubert Blanc-Francart, in arte Boombass: un sodalizio artistico a dir poco scoppiettante. Un aggettivo, quest'ultimo, che si addice perfettamente a “1999”, il disco con il quale i due francesi si congedano dal millennio (e dal decennio che ha visto il nuovo suono francese esplodere). Il repertorio – ben 16 brani per oltre un'ora complessiva - sintetizza le influenze dei due pesi massimi coinvolti: nel grande calderone si intrecciano acid house, electroclash, disco music e una marea di sample a infarcire i brani, sempre e comunque ballabili, sempre e comunque festaioli. L'operazione ha indubbiamente un risvolto commerciale, come testimonia il singolo trainante “Cassius 1999”, che sfonda nelle classifiche nella versione radio edit, totalmente diversa rispetto a quella “standard” che apre il disco. Il pezzo più interessante è però forse il secondo estratto, vale a dire “Feeling For You”, un numero disco-house dal retrogusto world, che rivela tutto il talento presente in questa piccola (a livello numerico) super-band transalpina. Il terzo estratto, infine, è “La Mouche”.

alexgopherAlex Gopher - "You, My Baby & I" (1999)
Alex Latrobe, aka Alex Gropher, inizia la sua carriera a fianco degli amici Étienne de Crécy, Nicolas Godin e Jean-Benoît Dunckel nel gruppetto pop Orange. Un quadretto formidabile di musicisti, al netto di un’ovvia acerbità, destinati in un modo o nell’altro a cambiare la storia della musica popular transalpina, checché ne dicano i puristi del pop cantautorale al di là delle Alpi. Alex è l’anima funky della combriccola, colui che mastica quintali di vinili di targa Motown e Stax. Insomma, Gopher è il guascone di turno. Un capitano solitario ai comandi di una navicella che sposta il french touch verso zone luminosissime. “You, My Baby & I” espone fin dal titolo, volutamente richiamante un’infinità di singoli soul, e la copertina con occhialoni specchiati alla Stevie Wonder in cui appare una chiara istantanea di una pellicola blaxploitation, la cifra artistica di un manipolatore di ritmi ispiratissimo e dal tocco inconfondibile. Il disco contiene fughe intergalattiche con propulsione funky (“Tryin” su tutte) e campioni che vanno da Herbie Hancock a Rose Royce. House compressa e rilucidata secondo una sensibilità oltremodo chic. Un album difficilmente ripetibile che mette le cose in chiaro: i francesi masticano house e ne sputano i semi con un’eleganza fuori dal coro.

demonDemon - "Midnight Funk" (1999)
Al pari dell’amico Alex Gopher, Jérémie Mondon, in arte Demon, è l’altro dj producer dalla vocazione funky di quella cerchia divina composta da una nutrita schiera di produttori pronti a francesizzare il battito disco. Non è un caso, infatti, che la sua opera di maggior peso, “Midnight Funk”, nomen omen, ospiti, tra gli altri, l’onnipresente de Crécy. E’ proprio lui, infatti, a produrre “Lil'fuck”, posta prima della title track, capolavoro deep house con il memorabile sample vocale di “Street Life” dei mitici Crusaders, traccia resa celebre dall’ugola caldissima di Randy Crawford. Non solo: "Now That I Have You" è erotismo allo stato puro. Pulsazioni liquide e cristalli in festa accompagnano i gemiti di una donna in calore, prima che il basso esploda, dando vita a una danza irresistibile, capace di scuotere le terga passo dopo passo. Percussioni sensuali, ma anche gigionerie sintetiche alla George Clinton periodo P-Funk All-Stars con cambio di direzione vagamente lounge. Prelibatezze in console che collocano Mondon e il suo miglior disco al centro di qualsiasi lista che si rispetti in scia french touch.

icubeI:Cube - "Adore" (1999)
I:Cube non è un solo omaggio al divino Ice Cube, bensì il moniker scelto da Nicolas Chaix, dj parigini salito alla ribalta per un remix riuscitissimo di “Around The World” dei Daft Punk. "Adore" è il suo secondo disco, e concentra al meglio tutte le intuizioni ai controlli di Chaix: sassaiole techno miste a scratch meccanici (“The Basic Bastard”), isolazionismi in scia dub con vocione dal fondo del secchio (”Le dub”), sciantose progressioni che anticipano di moltissimo la futura microhouse e contorsioni metalliche che farebbero gola a giovani produttori del genere dubstep ancora in fasce sulle frequenze Rinse Fr. (guarda un po’ che coincidenza). “Adore” è un disco di culto dell’ala underground del french touch. Un album a tratti incompiuto, più vicino alle intuizioni di Brixton che all’eleganza sfrenata dei suoi conterranei. Eppure, un’opera che quantifica lo stato di grazia di una combriccola di manipolatori spesso e volentieri anche distanti tra loro, ciascuno con la propria voglia di sedurre pubblico e critica. Chaix è l’alieno di turno e la sua valigetta uno scrigno di suoni provenienti da chissà dove (“Mighty Cube” in particolare).

touristSt Germain – "Tourist" (2000)
Ludovic Navarre si ripresenta sul luogo del delitto, con un ritorno alle origini che sembra voler suggellare un'epoca. “Tourist” esce in quello che è forse il momento cruciale del french touch almeno a livello di esposizione mediatica e di ritorni commerciali, nella primavera del 2000, più a suggellarne la coolness che – ormai - a deciderne i destini. Le nove canzoni, che vanno a comporre un'ora secca di musica, sono comunque nell'insieme uno dei più fulgidi manifesti del movimento, di cui il disco diventerà negli anni anche uno dei titoli più riconoscibili. I brani – opportunamente dilatati a livello di minutaggio - si muovono tra jazz, house e lounge, perfetti come sottofondo per dei locali di alta classe, ma anche per l'orecchio di un pubblico più attento, che non si ferma a un ascolto di superficie. Dalla frenesia metropolitana di “Rose Rouge” alle inflessioni world di “So Flute”, passando per le derive ancheggianti di “Sure Thing” e alla raffinata house di “Pont des Arts”, questo repertorio riesce a fare breccia a ogni latitudine con il suo sofisticato savoir faire. Un vero e proprio instant classic.

unitedPhoenix – "United" (2000)
Da patria dell'ancien régime a culla della nuova scena francese: è il bizzarro destino di Versailles che, dopo gli Air, dà i natali anche ai Phoenix. Il quartetto capitanato da Thomas Mars, creato quando il frontman aveva appena 10 anni di età (!), si presenta sulle scene con un repertorio di canzoni che mette insieme pop-rock, ritmi occasionalmente ballabili, una certa eleganza aristocratica che va di pari passo con una freschezza della proposta a dir poco miracolosa. Rispetto ai più altezzosi vicini di banlieu, i Phoenix sembrano interessati a scrivere canzoni tagliate su misura per il pubblico post-adolescenziale di cui essi stessi fanno parte: brani spigliati, radiofonici, a presa rapida. E in effetti “United” è una collezione di singoli al tempo stesso “facili” ma non dozzinali, iconici per via di quella vena francese che si ravvisa anche nell'incerto cantato in inglese di Mars (nome d'arte, ça va sans dire). Il pop sbarazzino di “If I Ever Feel Better” e “Too Young” indica una nuova via al french touch, più da feste in appartamento che da dancefloor infuocati, così come “Honeymoon” e “Summer Days” sono il contraltare agrodolce di una eterna giovinezza da vivere in controluce.

laurentgarnierLaurent Garnier - "Unreasonable Behaviour" (2000)
Colui che insieme a pochi altri (Daft Punk su tutti) ha esportato il french touch nel mondo, arriva alle soglie del nuovo millennio dopo aver sperimentato suoni algidi di matrice detroitiana e fascinazioni esotiche degne dell’Arthur Russell danzereccio a moniker Dinosaur L. Perlustrazioni sul mondo che trovano assoluto compimento nell’opera massima di Laurent Garnier, “Unreasonable Behaviour”. Un disco che fonde ambientazioni cibernetiche da pellicola noir (“Greed Part 1 & 2”), ritmi assassini che sembrano usciti da un rave organizzato insolitamente con cura (“Dangerous Drive”) e dilatazioni lounge a salutare il secolo appena trascorso (“Last Tribute From The 20th Century”) con lievissima ripartenza house in salsa chicagoinana. E’ un mix gestito con estro fuori dal comune. Garnier non è il classico dj-producer. E’ l’Henry Walton Jones Jr. del french touch. Un ricercatore tanto sopraffino quanto coraggioso di un sound che nel 2000 trova la sua quadratura del cerchio definitiva, tra campioni lontani, sinapsi di vario tipo e fughe dalla terra natia. D’altronde, c’è un mondo da conquistare, ovviamente con la charme del gentiluomo.

triplezeroLe Peuple De L'Herbe – "Triple Zéro +" (2000)
Per sintetizzare, si potrebbe parlare della via francese all'hip-hop, ma indubbiamente l'esordio di Le Peuple de l'Herbe è anche molto di più. Capitanata da DJ Pee e DJ Stani, la formazione di base a Lione in “Triple Zero +” mescola il linguaggio del rap con una formula sonora decisamente strutturata e dal taglio prettamente elettronico, sul quale si innestano a seconda dei casi influenze acid jazz, drum and bass, funk e dub. Un album che capta le sonorità dell'epoca e le rielabora in un linguaggio diverso ma nemmeno troppo, ottenendo un risultato di assoluto valore. La fusione di generi e stili è rappresentata al meglio in un brano come “Romantic”, nel quale vanno a sovrapporsi più linguaggi e sample che producono un effetto estemporaneo eppure sempre convincente. Strepitoso anche “Elektro M.J.”, un altro bignami di stili e citazioni dal tocco tipicamente francese. “Triple Zero +” rimane all'epoca della sua uscita un disco di culto soltanto in patria, ma è anche uno dei lavori più belli dell'epopea del french touch, di cui fa pienamente parte, nonché uno di quelli invecchiati meglio. Un capolavoro da recuperare.

bobsinclairBob Sinclar - "Champs Elysées" (2000)
Chris The French Kiss. Basterebbe questo simpatico nomignolo scelto da Christophe Le Friant, per tutti Bob Sinclar, per tracciare un primo quadro di un dj tra i più eccentrici e a tratti volutamente kitsch del french touch. Un appassionato di cinema, innanzitutto. Un mattacchione alla console il cui moniker è preso in prestito da Bob Saint-Clair, figura interpretata da Jean-Paul Belmondo nel film “Come si distrugge la reputazione del più grande agente segreto del mondo” di Philippe de Broca. Passione cinefila al centro anche della prima hit, prodotta dall’amico Thomas Bangalter, “Gym Tonic”, con sample vocale rubato da una Jane Fonda che nega ogni coinvolgimento. “Champs Elysées” segna il secondo disco di un marpione della console già all’apice delle classifiche da diversi anni. Disco music concepita solo per gioire dei piaceri della vita: è questa la missione di Sinclair, a cominciare dal tema introduttivo a cavallo tra una sigla di una soap opera dei 70, con archi in festa, e piroette sensuali alla Jean-Pierre Massiera, padre della dancefloor transalpina e del french touch tutto.

superfunkSuperfunk - "Hold Up" (2000)
Alla Marsigliese, verrebbe da dire, ascoltando la french disco dei Superfunk. Sono proprio loro gli esponenti di una culla di talenti provenienti dal sud della Francia nei primi anni 2000. Fabrice Texier (Fafa Monteco), MR Hamdi (Mike 303) e Stéphane Bonan amano la musica funky più di ogni altra cosa. Il synth-funk di Bootsy's Rubber Band e Parliament è preso in prestito solo per assecondare un sound in fin dei conti garbato. Un modello di riferimento stravolto da sferzate in cassa dritta e voce vocoder a fungere da Mc di un party organizzato tra Parigi e Marte. Non mancano poi assalti techno-house come quelli di “Come Back (Supamix)” e laccature in salsetta soul come la suadente "Lucky Star" con Ron Carroll in formato Robert Owens. Ma anche irresistibili pacchianate per coatti da pista, quali “The Young MC”. Sample sparsi con classe dei vari Cerrone, Earth, Wind & Fire, Afro Cuban Band e Amant espongono la variopinta sensibilità del trio, per un disco imprescindibile per chiunque voglia comprendere cosa significhi french house.

mirwaisMirwais - "Production" (2000)
Mirwais Ahmadzaï, in arte semplicemente Mirwais, è un producer dalla doppia vita. Da un lato, emblema di un sound caratteristico, figlio delle progressioni synth-pop messe in atto con la sua prima band negli anni 80, i Tax Girl, dall’altro lato pupillo rispolverato niente di meno che da Madonna, che lo chiama per la co-produzione e stesura di ben 4 album tra il 2000 e il 2019. Chitarrista un po’ gitano, un po’ classicheggiante, Mirwais esplica nel suo sensazionale “Production”, che segue di ben dieci anni l’omonimo esordio da chansonnier del 1990, una serie di trovate sonore che pescano tanto dall’estremo Oriente, come la celebre ballata “Paradise (Not For Me)” cantata proprio da Madonna, a improvvise frustate in perfetto stile big beat, quasi come se i Chemical Brothers avessero oltrepassato la Manica per conquistare Parigi. Nel mezzo, episodi come “Never Young Again”, ossia come rendere la pista da ballo una sorta di Eden figurato. “Prodution” è il frutto più vitaminico di un musicista completo, formatosi seguendo i flussi ancestrali della migliore progressive electronic e le stravaganti contaminazioni di inizio millennio.

daftpunk2Daft Punk - "Discovery" (2001)
E’ il 1998 quando sul pianeta cade la cometa “Music Sounds Better With You” degli Stardust, ossia Alain Quême (aka Alan Braxe), Benjamin Cohen (aka Benjamin Diamond) e Thomas Bangalter dei Daft Punk. La super-hit mondiale contenente un sample di Chaka Khan è il raggio di luce che illumina le discoteche nella loro seconda giovinezza. Il singolo racchiude la linfa per “Discovery” (giusto per capirci: disco del decennio Zero anche per la redazione di OndaRock) seconda prova dei due francesini diventati in breve tempo qualcosa di ben diverso da "un gruppetto di stupidi teppisti" ("A bunch of daft punk", secondo Melody Maker) e l’attesa della prossima venuta comincia a pesare alla stregua delle più grosse celebrità internazionali. “One More Time”, primo estratto del lotto mostra subito l’incredibile stato di forma del duo. A dar man forte al marasma generale è lo splendido video animato, che introduce "Interstella 5555", film d’animazione del 2003 creato da Leiji Matsumoto ispirato al capolavoro in questione. La scelta di piazzare alla voce (!) il compianto produttore house americano Anthony Wayne Moore, aka Romanthony, è poi azzeccata. Così come l’utilizzo del software autotune come correttivo vocale. Una serie di tracce memorabili (“Crescendolls”, “Digital Love”, “Veridis Quo”) riscrive la storia della scena francese, e non solo. Chiedere di “Harder, Better, Faster, Stronger” a Kanye West.

kittinMiss Kittin & The Hacker – "First Album" (2001)
Attiva sulle scene in qualità di dee-jay già dalla metà degli anni Novanta, Miss Kittin aka Caroline Hervé, da Grenoble, esordisce nel 2001 con “First Album” a braccetto con The Hacker (Michel Amato). La techno di Miss Kittin è peculiare rispetto alla scena french touch, dalla quale si distacca per un suono più algido e meno empatico. Peculiarità che, in un certo senso, la avvicinano più alle scene americana e berlinese che a quella parigina, e che le spalancano le porte del panorama electroclash europeo. Tuttavia anche la Hervé è figlia del grande movimento che nasce negli anni Novanta in Francia, dal quale, come si diceva, prende in parte le distanze con un sound più ieratico ed essenziale. “Life On Mtv” racconta l'apatia che accompagna le nuove generazioni che scavalcano il millennio piene di incertezze, mentre “Frank Sinatra” fornisce un notevole riscontro alla strana coppia, che non mancherà di collaborare anche in successivi lavori. Altra rilevante hit contenuta nell'album è “1982”, un brano che manifesta un'altra grande influenza di Miss Kittin, ovvero il synth-pop anni Ottanta.

modjoModjo - "Modjo" (2001)
Romain Tranchart e Yann Destagnol, ovvero i Modjo. Per l’esattezza la meteora dalla scia più lunga del french touch. Già, perché un singolo come “Lady (Hear Me Tonight)”,  accreditato a Nile Rodgers, Bernard Edwards, e, appunto, ai Modjo, rimane al primo posto nel Regno Unito per due settimane e conquista le classifiche di mezza Europa. Una di quelle hit che si conficcano in testa e non ti mollano più neanche un decennio dopo la loro uscita. Ma il primo e unico disco dei Modjo racchiude anche altro. C’è il refrain appiccicoso e ultra-estivo di “Chillin’” con il sample, guarda caso, di “Le Freak” degli Chic di Rogers ed Edwards, come se non bastasse quello di "Soup For One" dei medesimi Chic piazzato nella sopracitata super-hit.  Una vera e propria venerazione per il funk sintetico, che però cozza con momenti pop/mainstream di ben altra fattura, come “Peace Of Mind”. Casi isolati, perché schegge disco come “Rollercoaster” e ritmi rotanti come quello di “Music Takes You Back” definiscono appieno la direzione intrapresa in origine dal duo con profonda ispirazione.

alexkidAlexkid - "Bienvenida" (2001)
Alex Mauri, aka Alexkid, non è un dj qualunque. E’ un musicista dalla visione ampia, una sorta di direttore d’orchestra capace di chiamare a sé sessionman di varia estrazione e dare vita a uno dei dischi meglio suonati ed esotici del french touch. “Bienvenida” è un album totale, il manifesto della caratterizzazione lounge transalpina. Piano elettrico, chitarra, basso, percussioni di vario tipo, tromba, flauto, sassofono, console per azionare scratches e sample orchestrali di matrice jazz si avvicendano in un’opera maestosa. Si viaggia sul dorso di un cammello alla ricerca della prima oasi, come in “Maybe (Tape Mix”), traccia che farebbe gola a Tricky in qualsiasi momento della sua vita, ci si affloscia su cuscini morbidissimi mentre la voce rotta di Ursula Rucker farfuglia sensualità e un’acustica nubiana ammalia i sensi. “U’S Variation” è entrare in un harem in punta di piedi e scoprirne a piccoli passi le stanze, tra sax dolcissimi e bassi sinuosi. “Bienvenida” è una galante effusione. Un disco tra i più ricercati e di classe dell’intero movimento.

shazzShazz - "In The Light" (2001)
Il 2001 è l’anno d’oro del french touch votato al dancefloor. Non si contano i dischi riusciti in dodici mesi magici per la Francia musicale. Nei club parigini spopola il battito chic alternato a campionamenti che definire raffinati è un eufemismo. Partiture da passerella tra le più graziose in circolazione sono certamente quelle di Didier Delesalle da Dunkerque, nell’Alta Francia, meglio noto come Shazz. Beat voluttuosi come quelli della title track con piano morbidissimo sono solo l’antipasto di una ricetta garbata, dolcissima. Un album di musica lounge di primissima fattura, jazzato quanto basta per allietare i sensi in una cena romantica, o magari prima di tuffarsi come delfini nel locale del momento. “In The Light” è il disco meno incalzante del filone french touch. Una pacatezza che però lo rende quasi unico, con i suoi archi avvolgenti e le code pianistiche a cullare i sensi e anche qualcos’altro. Si potrebbe definirlo come un album di mera jazz-disco-music, in cui non mancano fughe cubane come quella di “Hemosa Maria” e bassi sintetici irresistibili, per intenderci alla Ray Parker Jr. Un disco che gode di luce propria. Un bagliore tenue, eppure avvincente.

wuzWuz - "Wuz" (2001)
Demon e Alex Gopher formano il duo Wuz. Un solo disco omonimo all’attivo, ma tanta, tantissima grazia da vendere. House, innanzitutto. Il modello chicagoiano funge da cartina di tornasole per quella che resta una cucitura alle macchine a suo modo singolare. I due dj producer identificano nella notte fonda la dimensione ideale da cui far emergere un’elettronica tanto ombrosa quanto accecante. Si prende l’avvio da esempio: dopo diversi secondi di compressioni introduttive, sale in cattedra il ritmo deep da capogiro della title track. Percussioni oblique e frattaglie funky sono alla base di “Focus”, prima che “Whitout You” riporti tutti, ma proprio tutti, nel club delle meraviglie. I due si cercano, ricamano suoni cupi e tenebrosi, alternati a momenti di quiete e repentine accelerazioni, quasi a voler emulare i maestri e amici Motorbass, con la sostanziale differenza di sciogliersi senza preavviso nell’acid(o) "Keep On Dancing" (Last Man Standing)”. Album per cultori della materia, ma anche per chi sente il bisogno di danzare a luci spente.

supermenloversThe Supermen Lovers - "The Player" (2002)
Una hit memorabile come “Starlight”, in compagnia di Mani Hoffman, potrebbe cancellare le restanti 13 tracce di un disco che ha comunque segnato la seconda ondata french touch in punta di piedi. La chiamano nu-disco, ma quella del parigino Guillaume Atlan, aka The Supermen Lovers, è un’alchimia ben calibrata di elementi pop e incursioni dance costanti, zeppe di effetti, storpiature, chitarrine alla Chic, veri e propri fari per tutto il calderone. Un party tamarro ma non troppo, in cui dominano il battito coatto di “Party’z Up” o la voce vocoder di “Dance With You”, anch’essa munita di un passo cocciuto e impostato. Gli episodi più leggeri, come “Diamond For Her”, assecondano un ascolto meno sudato, con diversi refrain talvolta fin troppo simili tra loro. Ma è la cifra di un musicista che vive il suo momento migliore. E il giretto gommoso di “White Hands” dimostra quanto Atlan riesca a variare a seconda dell’attimo. Fuggente, sia chiaro. Proprio come la sua musica.

cassius_01Cassius - "Au Reve" (2002)
Il nuovo millennio è cominciato da poco e Zdar e Boombass provano a ripetersi dopo i fasti del seminale “1999”, sganciato tre anni prima nell’esosfera limpidissima del french touch come un pallone-sonda alla ricerca di elettrificazioni di vario tipo. Al secondo giro di giostra, i due producer puntano dritto ad amplessi con il rock cibernetico dei cugini Daft Punk. Il primo chiaro segnale di questa necessità impellente come non mai è fornito dall’eccitante "The Sound Of Violence" in collaborazione con Steve Edwards. E’ soltanto il primo sodalizio di un album ricco di ospiti: Leroy Burgess, Ghostface Killah, Jocelyn Brown e Gladys Gambie. Una carrellata ben assortita che espone l’infarcitura di un’opera i cui momenti spaziano dalla cyber-disco diffusa a destra e a manca nei 14 movimenti al party sfrenato con sassofono in bella mostra in “Under Influence”, passando per l’house vecchia maniera di “I’m A Woman” posta al centro del piatto, fino al basso sfrenato di “Till We Got You And Me" e alla chitarrina formato Chic con assolo stoppato alla John Lee Hooker. Una seconda imprescindibile meraviglia del pianeta Cassius.

talkieAir - "Talkie Walkie" (2004)
L'album nel quale gli Air riprendono il loro cammino interstellare iniziato nel 1998 con “Moon Safari” è non di rado, per qualche strana ragione, sottovalutato a livello di critica. A differenza dell'esordio, è vero, mancano forse canzoni davvero epocali, ma in quel caso stiamo pur sempre parlando di un lavoro unico e irripetibile. In ogni caso, dentro a “Talkie Walkie” non c'è una nota fuori posto e men che meno un riempitivo, anzi l'impressione è di una ritrovata grazia che può declinarsi nelle arie paradisiache di “Cherry Blossom Girl”, nei riflessi stranianti di “Run”, nel trip psych-pop di “Surfing On A Rocket”, nel pop avanguardista di “Alpha Beta Gaga”, e ancora nei miraggi sintetici di “Biological” e nei panorami orientali di “Alone In Kyoto”, utilizzata da Sofia Coppola per la soundtrack di “Lost in Translation”. Insieme al già citato debutto e alla colonna sonora del “Giardino delle Vergini Suicide” (sempre della Coppola), “Talkie Walkie” forma il grande trittico del duo di Versailles. Che da allora, in effetti, non tornerà mai a quei livelli, se non a titolo sporadico.

vitalicVitalic - "Ok Cowboy" (2005)
Electroclash e techno per tutti. Accorrete numerosi. C’è Pascal Arbez-Nicolas, aka Vitalic. Spogliatevi di qualsiasi certezza acquisita e sfogatevi come mandrie di cavalli fuggiti da uno stra-maledetto ranch texano. “Ok Cowboy” è il disco più rapace di tutto il filone french touch. La scossa che chiunque vorrebbe prendere per sguazzare libero e incontrollato. La formula di questo miracolato del beat di Digione consiste nell’utilizzare casse asciutte da contraltare a roboanti giretti al synth. Vitalic è il capitano Kirk alla console. L’uomo di “My Friend Dario”, hit schiacciasassi che unisce un riff rock degno dei tempi migliori e un cambio di ritmo tale da far muovere le chiappe anche a un pachiderma. Tutti gli strumenti usati sono opportunamente sintetizzati, come chiarisce lo stesso Arbez-Nicolas. La sontuosa ascesa tech-house de “la Rock 01” e il beat schizzato di “no fun” conducono poi l’ascoltatore in un rave pazzesco. Sfacciato, disinibito al punto giusto, “Ok Cowboy” è un razzo che spinge verso l’alto e l’immaginifico, fortunatamente senza mai chiedere il permesso.

birdynamnamBirdy Nam Nam – "Birdy Nam Nam" (2005)
Si potrebbe obiettare che a metà degli anni Zero ormai il french touch abbia perso buona parte del suo fascino e della sua spinta commerciale, ed è forse per questo che sul territorio transalpino può nascere un album come “Birdy Nam Nam”, creatura primigenia di un sodalizio di quattro dee-jay che dietro l'arte del turntablism non fanno che portare avanti le istanze degli illustri compatrioti. In queste 18 canzoni, che vanno a coprire un'ora esatta, ritroviamo tante istanze già incrociate in precedenza e qui opportunamente rimescolate: una frittata piuttosto minimalista di ritmi downtempo, chillout e trip-hop, accenti jazz e world, scratch, campionamenti assortiti e preferibilmente mutuati da ambito cinematografico, essendo il riferimento principale – a partire dal nome della band – nientemeno che il Peter Sellers di "Hollywood Party" (anche se certe intuizioni sembrano più materiale da colonna sonora per ipotetiche pantere rosa). Inutile dire che la formula funziona, anzi non manca affatto di un certo fascino, andando a mescolare suoni già à-la page ma con strumenti e modalità del tutto differenti rispetto al passato.

justice_01Justice - "Cross" (2007)
Altro duo parigino (Gaspard Augé e Xavier de Rosnay), altro debutto fulminante, con apparizioni piuttosto altolocate in classifica. “Cross” (dal simbolo utilizzato come titolo) è un macigno elettronico, un diamante nero che strega una platea sufficientemente ampia da garantire ai Justice una nomination ai Grammy e un'attenzione che da tempo nessun gruppo francese riusciva a catalizzare. Nel mix di house e synth-pop il dogma è tenere alto il metronomo e saturare il suono metabolizzando la lezione tutt'altro che dimenticata dei Daft Punk, tenendo presente le scorribande soniche degli Air e strizzando l'occhio a un pubblico meno avvezzo a certi territori con un tocco melodico tutt'altro che banale. “Let There Be Light” e “D.A.N.C.E.” sono capolavori di quell'equilibrismo appena illustrato, con tanto di parti corali e svolazzi pseudo-orchestrali assortiti. Ma nella memoria collettiva entrano senza nemmeno troppa fatica le due parti di “Phantom”, una sorta di unico monolite electro con velleità funk servite su un piatto d'argento per discoteche più o meno d'ordinanza. Non epocale, ma senza dubbio generazionale.

sebastientellier_01Sébastien Telier - "SEXUALITY" (2008)
Se "L'incroyable vérité" pone in gioco tutte le carte future del mazzo di Sébastien Tellier, "Sexuality" incarna l'anima erotica del più stralunato dei cantori french touch. Erotismo, appunto. Passione, contatto, fusione, orgasmo e amore: l'inebriante gestualità dei corpi a sublimare l'emanazione diretta delle fragranze più candide dell'animo umano. In copertina, un guerriero e il suo cavallo sondano afrodisiaci sentieri, rivelando una nuova forma di edonismo naif, interpretando quel dualismo interiore dell'essere maschio: uomo/animale, spirito/carne. “Sexuality” mescola Gainsbourg, idolatria Brass, soul, pop, ululati kitsch e una quantità divina di citazioni erotiche. Il tutto è frullato e servito con classe da Guy-Manual de Homem Cristo. La libidine come metronomo ritmico: si parte lentamente, con grazia. C'è da conquistare il cuore di una donna, condurla tra nivee lenzuola, sognando di danzare al più presto su morbidi cuscini e cesellando a piccole dosi un'accattivante propulsione vocale ("Roche"). Tellier sfila dal suo arco una serie stimolante di frecce infuocate, su tutte la pornografica "Pomme", sospinta com'è da orgasmi rosa incontrollati e da una tastiera volutamente liquida, a tratti eterea. Ma è in "Sexual Sportswear" che il timido Casanova apre tutte le stanze del suo harem. Ribolle un magma di pulsazioni coatte, loop in visibilio e ormoni elettronici. Con “Sexuality”, Tellier gode dei suoi bordelli sintetici, scoprendosi maestro soul, scultore laccato e provocatore pop.

wolfgangPhoenix - "Wolfgang Amadeus Phoenix" (2009)
Forse l'album più iconico della band di Versailles, a conti fatti; probabilmente quello più conosciuto. Dalla sede dell'ancièn regime, Thomas Mars e compagni d'avventura salpano metaforicamente verso le lande mitteleuropee, accompagnati dal fedele Philippe Zdar alla produzione e ispirati da presunti afflati classicheggianti (Mozart omaggiato nel titolo, Liszt in un brano) che tuttavia producono hit danzerecce alle quali risulta difficile resistere. L'uno-due iniziale composto da “Lisztomania” e “1901” rappresenta il momento più inebriante dell'intera carriera dei parigini, qui alle prese con scorribande in levare che quasi abbagliano con il loro cristallino entusiasmo. Ma, di nuovo, l'intero album è una collezione di grandi canzoni non necessariamente occhieggianti: le due parti di “Love Like A Sunset”- in buona parte ma non del tutto strumentali - sono la dimostrazione che i ragazzi, se soltanto non fossero troppo impegnati a divertirsi, saprebbero anche costruire delle strepitose impalcature rock che vanno a ergersi su precisi incastri di chitarre e synth e che vengono appena speziate da un sottile strato di psichedelia.

kavinsky_01Kavinsky – "Nightcall" (2010)
Ennesimo prodotto dell'area metropolitana parigina, prima di tutto dee-jay e solo in seguito compositore, Vincent Belorgey alias Kavinsky appare fin dalle prime note di “Nightcall” come un artista cresciuto a pane e Daft Punk, la cui eredità si mescola a un synth-pop anni Ottanta e a un concetto di “spazialità” che è inutile ormai ribadire da chi possa essere mutuato (la soluzione è a pag. 46: Air, per la cui etichetta si ritrova a uscire). “Nightcall” non è un album, bensì un brevissimo Ep, che però rappresenta anche il momento topico del francese, già da qualche anno intento a mettere a punto la perfetta hit da discoteca. Accompagnato da un pezzo come “Pacific Coast Highway” che, in verità, prende più dai Justice che dagli ancor più illustri predecessori, “Nightcall” è certamente un brano derivativo nei riferimenti, ma anche uno dei più riusciti del decennio nel suo ambito. Delle varie versioni esistenti, vale la pena citare quella presente nell'Ep e il più ritmato remix di Dustin N'Guyen, nel quale è più semplice riscontrare i debiti del Nostro verso la scena nata ormai quasi vent'anni prima in quegli stessi paraggi.

m83_02M83 - "Hurry Up, We'Re Dreaming" (2011)
Dopo dieci anni di gavetta e di successo crescente, gli M83 da Antibes sfondano con “Hurry Up, We're Dreaming” tanto in patria quanto al di fuori dei confini nazionali, con l'album che diventa un successo in America (Pitchfork dà il voto 9 al disco) anche grazie al lavoro di un'etichetta come Mute. Una buona fetta del merito per questo exploit va assegnata ad Anthony Gonzalez, che scrive gran parte dei pezzi e si occupa anche della produzione a quattro mani con Justin Meldal-Johnsen. Gli M83 assemblano synth-pop, atmosfere dreamy, echi new wave (sono già gli anni del revival ottantiano) e melodie in grado di coinvolgere, come quella di “Midnight City”, che diventa il cavallo di battaglia della band della Costa Azzurra e nel quale echeggiano parecchie influenze, anche recenti (l'electro dei Justice, ad esempio). Gli M83 però guardano anche al pop-rock, come ben evidenziano le esplosioni chitarristiche di “Reunion” e la ballata acustica “Wait”. In vari passaggi quasi stucchevole, in generale piuttosto paraculo (in senso buono, o quasi), comunque un album in grado di ottenere un grande successo di pubblico in un momento in cui il french touch non sta vivendo gli anni migliori.

sebastiantotalSebastiAn – "Total" (2011)
Talento puro, quello di SebastiAn, pseudonimo artistico dietro il quale si cela il parigino Sebastien Akchoté, classe 1981. Considerando che “Total” è il suo esordio discografico “lungo”, alla tenera età di trent'anni, si può ben dire che il buon SebastiAn non sia più un giovanotto, ma per contro è già un nome affermato grazie a una sfilza di remix ed Ep ai quali si affiancherà una fortunata carriera di produttore. Insomma, il successo è già arrivato in altri modi e la discografia può aspettare. A livello di composizione, il Nostro ha le idee piuttosto chiare: i suoi pezzi ammiccano alla house francese tanto quanto all'electro-rock, senza forzare lo schema della forma-canzone e risultando anzi decisamente spendibili a livello commerciale. Peraltro, non mancano i featuring: nella travolgente “Love In Motion” (pezzo davvero pazzesco) c'è Mayer Hawthorne, in “C.T.F.O” partecipa M.I.A. e a “Tetra” prende parte Gaspard Augé dei Justice. Niente male, non c'è che dire. Più in generale, “Total” è davvero un disco di una freschezza e di una forza di idee... totali. Un'oretta scarsa spesa bene, casomai vogliate provare.

wagnerYan Wagner – "Forty Eight Hours" (2012)
Prima istantanea: Yan Wagner, appena ragazzino, compra una tastiera dopo aver assistito a un concerto dei Chemical Brothers. Seconda istantanea: Yan Wagner si esibisce nelle gallerie di New York, dove si trova temporaneamente per motivi di studio, in quelle che sono le sue prime esibizioni dal vivo. Terza istantanea: Yan Wagner ritorna a Parigi e viene subito reclutato per le aperture del nuovo tour degli Air. “Forty Eight Hours” è la prima prova discografica di questo talento la cui ascesa pare essere irresistibile, soprattutto negli anni a cavallo tra Zero e Dieci. Il disco risente dell'amore mai negato di Wagner per la techno, e in tal senso va ammesso senza troppi giri di parole che il parigino abbia una visione meno franco-centrica del genere. La bella title track, ad esempio, ha più a che fare con gli anni Ottanta sintetici e pare piuttosto un omaggio tutt'altro che celato ai New Order. Ma forse la vera caratteristica di Wagner è la voce da crooner che eventualmente rinsalda il legame con la madre patria in un ipotetico e forse un tantino blasfemo paragone con Serge Gainsbourg.

lafemmeLa Femme – "Psycho Tropical Berlin" (2013)
Probabilmente il miglior album francese dell'intero decennio, senz'altro il più folle, ispirato, debordante. La formazione di base a Biarritz, che poi si trasferirà a Parigi una volta annusata l'aria di un imminente successo in patria e fuori (per quanto il disco successivo, comunque ottimo, non riuscirà a stare su questi livelli), mette insieme un lotto di canzoni semplicemente irresistibili e che spaziano dal beat sfrenato di “Antitaxi” allo psych-rock di “Amour dans le motu”, dal boogie smaccatamente anni Sessanta di “Sur la planche 2013” alle danze freak da spiaggia di “Nous étions deux”, ma tendono anche verso la new wave e altre derive. Le menti sono Sacha Got alla chitarra e Marlon Magnée alle tastiere, compagni di musica ormai da diversi anni, mentre alla voce si alternano diverse cantanti (soprattutto Clémence Quelennec e Clara Luciani, ma non solo). Per tecnica, suono e spirito, siamo lontani dal french fouch propriamente detto, ma se è vero che l'accezione dal significato originario è andata a inglobare tutta una serie di declinazioni smaccatamente francesi, ecco, non c'è nulla di più francese di “Psycho Tropical Berlin”.

carpenterbrutCarpenter Brut - "Trilogy" (2015)
L'enigmatico Franck Hueso, nativo di Poitiers, è uno dei personaggi di spicco di quella che potremmo chiamare la nuova generazione del french touch. Il suo sound è senza dubbio incasellabile nel filone della synth-wave, e tuttavia la formula non manca di avere un peculiare accento francese nelle metriche ballabili e sostanzialmente techno e nell'ambientazione “spaziale”, che fa capolino ad esempio in “L.A Venice Bitch 80's”. L'asso nella manica di questo repertorio è probabilmente “Disco Zombi Italia”, singolone dotato del giusto appeal radiofonico, ma a mettere bene in evidenza i muscoli di Carpenter Brut sono una “Roller Mobster” sparata fuori come un proiettile verso orizzonti futuribili e una “Turbo Killer” dalle architetture fastose e non meno avveniristiche. Non stupisce che alcuni di questi brani siano stati sfruttati nelle colonne sonore di pellicole cinematografiche. Va inoltre aggiunto per completezza di informazione che “Trilogy” è sì l'album di debutto, ma - come dice anche il titolo - in realtà non fa altro che raccogliere i brani contenuti nei tre precedenti Ep.

caravellePolo & Pan – "Caravelle" (2017)
Album abbastanza clamoroso, questo “Caravelle”, per mano di altri due dee-jay parigini di nome Paul Armand-Delille e Alexandre Grynszpan. Al suo interno troviamo una formula che mescola elettronica e languori tropicali, pop cristallino e sbruffonerie assortite, ma con classe, al punto da sembrare una specie di versione francese dei primi MGMT. E tuttavia il sound di “Caravelle” resta ancorato ai confini patrii, non solo per l'uso quasi anomalo della lingua francese, ma per quel tocco, appunto, che attiva subito la geolocalizzazione al di là delle Alpi. L'apice del lavoro è probabilmente “Canopée”, un piccolo capolavoro di beat melanconico da sorseggiare in spiaggia, così come balneare risulta una “Aqualand” sospinta dai synth. Elettronica che si erge a protagonista in “Nana”, in “Kirghiz” e pure in “Dorothy”, in ogni caso speziate di languori esotici. Diciamo pure che delle dodici canzoni contenute in “Caravelle” non ce n'è nemmeno una da scartare, ma soprattutto è un disco in grado di piacere a un pubblico davvero eterogeneo. E scusate se è poco.

superhomard Le SuperHomard - "Meadow Lane Park" (2019)
I Le SuperHomard, da Avignone, si può dire che li abbiamo seguiti dagli esordi con “Maple Key”, fino a vederli sbocciare definitivamente con “Meadow Lane Park”, all'epoca dell'uscita disco del mese su OndaRock e poi celebrato da critica e artisti (in testa Paul Weller) di mezzo mondo. Le SuperHomard amano giocare con il lato electro-pop del french touch, costruendo brani che sembrano librarsi nell'aria, come “Springtime”, o tornare in picchiata a terra come “Paper Girl”, vinta dalla forza di gravità dei sintetizzatori che ne sottendono la parabola. Non possiamo non citare anche la synthwave vagamente psichedelica di “SDVB” e il midtempo sintetico di “Black Diamond”, ulteriori variazioni su di un canovaccio che richiama man mano alla mente vari nomi della scena francese e non solo, dagli Air fino ai Saint Etienne. Di sicuro quello della formazione provenzale è un sound raffinato ma al tempo stesso disinibito ed efficace, in grado di fare centro già dal primo ascolto. Senza dubbio uno degli album più significativi del decennio ormai concluso per la musica transalpina.

godinNicolas Godin - "Concrete And Glass" (2020)
Appare effettivamente casuale e al tempo stesso alquanto significativo concludere questo approfondimento con Nicolas Godin, uno di coloro che il “tocco francese” hanno concorso a modellarlo in modo significativo, e quando ci si mettono continuano a insegnare il mestiere alle vecchie e soprattutto alle nuove generazioni. Ecco, per molti anni Godin si è guardato bene dal tornare sul luogo del delitto, ma infine non ha resistito alla tentazione. All'alba del nuovo decennio, “Concrete And Glass” raccoglie in qualche modo la sua stessa eredità, seppur liberandola da velleità retrofuturiste per metterla al servizio di speculazioni riguardanti altri spazi, meno cosmici e più domestici. “Concrete And Glass” è infatti anche un ritorno alle origini anche del Godin studente di architettura. Dal punto di vista prettamente musicale, pezzi come “Back To Your Heart” e l'ottima “The Border” richiamano direttamente agli Air d'antan, riappropriandosi di una formula che nessuno è mai riuscito ad avvicinare con risultati altrettanto significativi. Bentornato a casa, Nicolas.

(in memoria di Philippe "Zdar" Cerboneschi)

Discografia



Video

Emmanuel Top - Acide Phase
(videoclip da Release, 1995)

Daft Punk - Da Funk
(videoclip da Homework, 1997)

Kid Loco - The Bootleggers
(videoclip da A Grand Love Story, 1997)

Air - Sexy Boy
(videoclip da Moon Safari, 1997)

Cassius - Feeling You
(videoclip da 1999, 1999)

St. Germain - Sure Thing
(videoclip da Tourist, 2000)

Phoenix - If I Ever Feel Better
(videoclip da United, 2000)

Bob Sinclar - Feel For Love
(videoclip da Champs Elysees, 2000)

Mirwais - Naive Song
(videoclip da Production, 2000)

Modjo - Lady (Hear Me Tonight)
(videoclip da Modjio, 2001)

Daft Punk - One More Time
(videoclip da Discovery, 2001)

The Supermen Lovers - Starlight
(videoclip da The Player, 2002)

Vitalic - My Friend Dario
(videoclip da Ok Cowboy, 2005)

Justice - D.A.N.C.E.
(videoclip da Cross, 2007)

Sebastien Tellier - Roche
(videoclip da Sexuality, 2008)

Pietra miliare
Consigliato da OR

French Touch su OndaRock

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