John Cage

Cento di questi silenzi

"L'arte ha oscurato la differenza tra arte e vita. Ora lasciamo che la vita oscuri la differenza tra vita e arte".

È d'obbligo ricordare a tutti, ancora una volta, che quest'anno ricorre il centenario della nascita di una figura chiave del ventesimo secolo, John Cage (1912 - 1992). Un appuntamento che, me ne convinco sempre di più, è giusto e bello celebrare, così come sta succedendo dall'inizio dell'anno, in maniera tanto singolare quanto incredibile, a Bologna e a Rimini. Nel primo caso con una lunga rassegna ("centocage") di conferenze, proiezioni, happening ed eventi esclusivi - tra cui uno sleep concert, una "passeggiata in ascolto" al quartiere del Pilastro e una serata con brani eseguiti dai bambini; nel secondo caso ("Everydayjohncage") con la diffusione, giorno dopo giorno, di citazioni e frammenti audiovisivi relativi al compositore, sulla stampa e nei luoghi pubblici e privati della città. In questo e in altri modi i due Comuni rendono un originale e sincero omaggio al compositore americano, con un affetto e una varietà di contenuti che probabilmente non avrebbero dedicato nemmeno a un padre - quale in realtà egli è, per molti versi.
C'è di che meravigliarsi, una volta tanto, delle forme assunte da questa commemorazione, necessariamente diversa da un tipico anniversario chopiniano o mahleriano, per citarne due avvenuti di recente. Il mio coinvolgimento nei confronti di questa ricorrenza diventa ogni giorno più intenso proprio per la sensibilità che gli enti locali stanno dimostrando, avendo compreso che dedicare l'intero anno 2012 a questo capitale compositore è il minimo che si possa fare. In secondo luogo, per la capacità di alcuni organizzatori di mettere in luce cosa è stata la musica durante e dopo John Cage, e cosa può ancora essere a distanza di tanti anni dai suoi esordi; e ciò avviene in un festoso clima di dialogo culturale, il quale non fa più pensare a una decrepita sala da concerto, bensì a un vero e proprio circo itinerante, una sagra della scoperta e della degustazione sonora.

D'altronde, chiunque ne abbia incrociato anche di poco la vita e le opere sa (o può ben immaginare) che Cage è stato un personaggio letteralmente unico, non ascrivibile a qualsivoglia categoria umana o musicale. Qualunque tentativo di apporre alla sua opera delle etichette, man mano coniate ex novo per collocarla in un'analisi comprensiva - o al contrario per relegarla a una definitiva marginalità - si è rivelato inutile; tanto che azzardarne una sintesi, in questa sede come in altre, si prefigura come uno sforzo titanico nonché indegno del suo soggetto.
Cage e la sua musica (che sono in definitiva la stessa cosa) non seguono un percorso evolutivo lineare: al contrario, come un neonato essi fanno esperienza del mondo sonoro in maniera imprevedibile, accogliendo ogni tipo di stimolo per poi assimilarne i segreti e imitarlo. Per questo la sua già di per sé sconfinata produzione, per gran parte basata sul più genuino concetto di sperimentazione, si apre ad un numero di interpretazioni prossimo alla teoria degli universi paralleli. Un orizzonte talmente indefinito da spaventare anche i più volenterosi, i quali si ritrovano a non sapere da dove incominciare per farsi un'idea soddisfacente del compositore.

Cage toypianoIo per primo mi ero abituato all'idea di non potermi addentrare nelle (non-)logiche della produzione cageiana, limitandomi a considerarlo un grande idealista e un rivoluzionario, stoico nel proporre per tutta la vita una musica, in definitiva, brutta. Ovviamente si trattava di considerazioni sommarie e di convenienza: sarebbe troppo facile schermarsi dietro alla più semplice delle idee (ma anche la più coraggiosa e memorabile ), ossia quel 4'33'' che tutti conosciamo, per trarre delle conclusioni affrettate. Non è mia intenzione dilungarmi sullo storico "tacet", partitura della quale si è discusso fin troppo; ma nemmeno intendo negarne, o peggio sorvolarne l'assoluta importanza, tanto per il percorso del suo compositore quanto per la storia della musica tutta. Nel suo libro "No such thing as silence" [2010, tr. it. "Il silenzio non esiste"], Kyle Gann è addirittura arrivato a postulare l'esistenza di due mondi musicali, uno prima e uno dopo 4'33''; al di là della pur plausibile teoria, il libro ha come sicuro pregio quello di far chiarezza sulla genesi e sui significati possibili di questo pezzo, ancora oggi ingiustamente considerato poco più che lo scherzo di uno sgradito provocatore. Dunque solo il tempo di dire che ancora oggi, nonostante l'indiscussa fama a tutti i livelli, in pochi accettano il fatto di poter essere loro stessi parte del brano, di rientrare nella cornice immaginaria che Cage appone al mondo per quei pochi minuti, sfatando una volta per tutte l'equivalenza tra silenzio e vuoto. Ecco perché, forse meglio di ogni (altra) musica, essa rappresenta e riassume la rottura avvenuta nel secondo Novecento.
Quella del compositore americano è stata anche una forma di difesa dalla tendenza dominante del secondo Dopoguerra, quando lo strutturalismo professato dai compositori post-weberniani minacciava di trasformare l'espressione musicale nel risultato di un freddo calcolo - non senza una certa dose di nichilismo latente. In tutta risposta, Cage ebbe il coraggio di promuovere un'estetica che andava contro ogni aspettativa e contro il senso comune: da un lato, una musica quieta e letteralmente semplice, quasi tutta interpretabile da non professionisti; dall'altro, i disordinati spartiti derivanti da procedimenti indeterminati, nella certezza che il caso dia sempre una risposta accettabile. In ogni modo, una "poetica dell'irrazionale" il più possibile distante dal dispotismo autoriale dei suoi predecessori come dei suoi contemporanei ("La personalità è una cosa troppo fragile per poterci fondare un'arte"); talmente estranea alla logica occidentale da mettere in crisi le ideologie della decennale stagione di Darmstadt e invertendo le rigorose tendenze della sua Neue Musik. Nel giro di poco l'epicentro della creazione artistica diventa il Greenwich Village, casa madre dell'happening, delle nuove arti performative e dell'avanguardia musical-teatrale. È in questo humus culturale che le intuizioni di Cage troveranno il sostegno di artisti come Merce Cunningham, David Tudor e il collettivo Fluxus, finché nel 1961 la raccolta di saggi "Silence" diventerà una vera e propria Bibbia per le menti di quella florida stagione americana.

Il lancio di una moneta applicato all'I-Ching (il Libro dei Mutamenti) come emblema di una musica che "imita la Natura nel suo modo di operare" e dalla quale ricava un'energia creatrice inarrestabile. È negli anni 50 che il compositore abbraccia definitivamente la filosofia orientale in parole e opere: "Music of Changes" (1951) è il capostipite della nuova fase compositiva di Cage, quasi del tutto affidata a procedimenti casuali. La stesura dello spartito non può che condurre a tracce caotiche e non-sequenziali, oltre ogni forma ammissibile di atonalità: ma il massimo del disordine non segna un'ulteriore emancipazione della dissonanza, bensì il passaggio dalla tensione meccanicista alla pacifica indifferenza, dal tormentato determinismo all'alea.
Da allora in poi l'attività di Cage si è aperta sempre più all'accettazione degli elementi "scartati", degli accostamenti improbabili o - stando al senso comune - proibiti che le tecniche divinatorie gli suggerivano, con una serenità tale per cui "la foglia che cade e il nubifragio che sommerge l'Australia hanno la stessa importanza" (Paolo Castaldi). Mano a mano anche il silenzio trova ampio spazio, non più come breve passaggio da una sezione all'altra di un brano, bensì come mezzo espressivo autonomo per una "contemplazione immota dell'Essere".
Nelle parole di Cage, "cambiare significa allontanare la mente dai pregiudizi e renderla disponibile ad esperienze diverse da ciò che ha imparato ad accettare acriticamente". Prima di lui la storia della musica ha seguito un graduale percorso evolutivo, fatto di piccoli, necessari "scandali": il cambiamento da lui proposto "non è disgregante, è allegro" e privo dell'intento sovversivo che spesso i grandi precursori adottano; ma per ciò che il nostro aveva in mente era necessario attuare la più radicale tabula rasa, ignorando i giudizi feroci - quando non gli insulti - e rischiando tutto sino alla fine. Viene in mente la leggendaria incursione al nostro "Lascia o raddoppia" dove Cage, oltre a partecipare come esperto di funghi (vincendo), riempì lo studio di utensili da cucina per l'esecuzione della sua "Water Music", sotto gli occhi meravigliati di Mike Bongiorno. Si può dire che la sua vita sia stata un eterno gioco al raddoppio, un percorso senza compromessi che per molto tempo lo ha persino portato a vivere in condizioni economiche disastrose.

Cage bellUna vita di sacrifici e, soprattutto, di incomprensioni. In un saggio del 1989, James Pritchett rimarcava che spesso "consultando la letteratura su Cage ci troviamo di fronte a disinformazione, generalizzazioni fuorvianti e opinioni basate su dicerie e supposizioni". A tutt'oggi ci troviamo di fronte a un immane paradosso: il più famoso (famigerato?) compositore del secolo scorso è anche quello che viene ascoltato di meno e del quale, ciò nonostante, tutti si sentono di poter parlare liberamente, ostentando una scarsa (ma secondo loro sufficiente) conoscenza del soggetto. Così, nel corso dei decenni, sono stati alimentati i più vari luoghi comuni, pronti all'uso per conversazioni pseudo-intellettuali: nulla che si avvicini veramente ad un approfondimento, più o meno critico, di una figura che porta con sé implicazioni culturali di una mole ineguagliabile.
Il suo maestro Schönberg aveva sentenziato, non senza una punta di disprezzo, che Cage non era di certo un compositore, semmai un inventore. Involontariamente, il padre della seconda Scuola Viennese gli ha fatto il miglior complimento possibile: se di compositori se ne poteva (e se ne può ancora) trovare ad ogni angolo del globo, lo stesso non si può dire per chi "inventa" qualcosa che rimanga a lungo e abbia un maggiore effetto sulla memoria collettiva - su tutte, l'idea che la musica sia ovunque la si voglia trovare.
Pur non avendo "fatto scuola" in senso stretto, il lascito di Cage sopravvive e continua ad essere fonte di ispirazione (diretta o meno) per le odierne avanguardie. Le singole idee sviluppate nei suoi lunghi ottant'anni - e ancor più l'ideologia totalmente indipendente dalla quale sono scaturite - hanno via via posto le basi per numerosi movimenti autonomi: dalle prime forme del minimalismo statunitense alla free improvisation degli anni 60-70, dal field recording all'odierno onkyo giapponese (dove spesso è un meditativo non-suonare a farla da padrone). Un'eredità talmente trasversale da non poter essere quantificata: in pratica chiunque si sia preso la libertà di fare ciò che voleva, tanto nella composizione quanto nell'esecuzione, lo deve anche a John Cage.

Dunque un enorme patrimonio, tanto ideologico quanto musicale, che però corre il serio rischio di andare perdendosi, se non riportato in vita attraverso nuove esecuzioni. Perché pur ammettendo l'enorme importanza delle numerose registrazioni in studio (specie la serie della Mode Records - sempre sia lodata), l'ascolto delle composizioni di Cage deve necessariamente andare di pari passo con il loro carattere vivo e visivo. Altrimenti come possiamo accorgerci che a essere "suonate" siano delle enormi conchiglie riempite d'acqua ("Inlets")? O che i fruscii e le minute percussioni provengano da un ensemble di piante amplificate ("Branches", "Child Of Tree")? La carica rivoluzionaria, finanche assurda, di quelle intuizioni trova il suo senso anzitutto nei gesti e in chi li guarda e ascolta. Da ciò spesso deriva una certa insoddisfazione per alcuni dischi, un senso di incompletezza pari alla descrizione di un quadro geniale che non possiamo vedere coi nostri occhi. Peraltro non stupisce che l'autore fosse strenuamente contrario alle registrazioni, definite in buona sostanza come un inganno, una fotografia falsata di ciò che si esperisce nella vita reale.
A maggior ragione, nel suo caso parliamo di una musica che in forma scritta si divincola, implora di uscire e trovare forme impreviste e improvvise, rifuggendo una forma prestabilita - tanti i brani concepiti per strumenti a piacere, addirittura "for any way of producing sounds" - o persino la sequenzialità - spesso le performance prevedevano l'esecuzione di più opere contemporaneamente.
E quanti meravigliosi spunti che si potrebbero citare: le partiture derivanti dalle imperfezioni di un foglio di carta o dalla sovrapposizione di cartografie stellari sul nudo pentagramma; gli innumerevoli mesostici, flussi di coscienza poetici dedicati ad artisti suoi amici - a suo tempo declamati anche da Demetrio Stratos; l'onnivora complessità delle "Europeras" e la tenera impersonalità delle suite per pianoforte-giocattolo o per carillon (a conferma dello "spirito bambino" che li animava); sino alla stravagante tre giorni del "treno preparato" emiliano-romagnolo (1978) del quale Bologna e Rimini, guarda caso, sono state le tappe principali.
Queste e decine di idee analoghe rispecchiano un preciso desiderio, consapevolmente accettato come un'utopia: la volontà di abbracciare spiritualmente tutti i suoni dell'universo conosciuto, di spingersi per quanto possibile al di là della poca cosa che è l'umana comprensione. "Credo che noi non dobbiamo agire ad un solo livello, in un solo modo, ma in tutti i modi che la nostra energia ci permette. [...] Invece di tentare di trovare il 'modo giusto' o il 'modo migliore' e di discutere all'infinito dobbiamo utilizzare tutti i modi che ci vengono in mente". E così ha fatto, con una musica che esprime affetto per ogni sfumatura, ogni stimolo incontrato per (mezzo del) caso e immortalato, a titolo di accenno, nella sua opera.

Cage beard"Non avete alcun bisogno di prenderla per musica, se questa espressione vi urta". Il suo umile monito non è servito a risparmiargli il vituperio dei benpensanti o di chi riteneva di non aver tempo da sprecare per simili "stramberie". Troppo spesso è stato indistintamente considerato al pari del suo mentore Marcel Duchamp, nonostante il loro modus operandi fosse diametralmente opposto - in pratica, l'intento dissacratorio e "distruttivo" del concetto di arte contro l'ambizione cageiana del suo massimo ampliamento.
Così, contro le accuse e le maldicenze aprioristiche, intendo rivendicare l'importanza, ma soprattutto la discreta bellezza, di tanti brani che ho potuto ascoltare e che ritengo valga la pena di scoprire. Forse sono in pochi, infatti, a immaginare che coscienza musicale si rifletta nei primi lavori per strumenti a percussione (come i famosi "Imaginary Landscapes"), spesso commissionati per accompagnare coreografie di danza moderna; come anche quel balletto di Cunningham dedicato alle stagioni ("The Seasons"), quasi una versione in miniatura del "Sacre" stravinskijano. Passando poi alle varie partiture per pianoforte preparato, un altro simbolo indimenticato dell'opera di Cage: capolavoro del fare di necessità virtù, dal quale a sua volta discendono le miliari "Sonatas and Interludes", forse le uniche largamente riconosciute come tali. E ancora, dagli inestricabili virtuosismi per violino solo ("Freeman Etudes") sino alla serie dei cosiddetti "Number Pieces" ai quali ha dedicato i suoi ultimi anni di vita, riprendendo lo stile quieto e meditativo dell'amico defunto Morton Feldman. Curioso e bello pensare che, poco prima della sua morte, Cage sia riuscito anche a portare a compimento il suo unico sogno cinematografico, One11 (1992): Henning Lohner ha realizzato per lui un film composto unicamente di luce e buio, finalmente libero dalla "schiavitù dell'immagine" e dalla sua centralità rispetto allo schermo; svincolandosi da soggetto e narrazione, il cinema si ritorce su se stesso tornando alla sua materia base.
Infine ricordo con piacere - anch'io in maniera del tutto istintiva - "The Wonderful Widow Of Eighteen Springs", un tributo joyciano per voce e pianoforte chiuso, che inspiegabilmente (e come sennò?) mi ha stregato e fatto innamorare di tutto questo.

Come ha fatto Cage per tutta la vita, anche a noi non resta altro che tentare: ascoltando ciò che ogni composizione ha da dire (o anche non dire), al di là del giudizio che ne ricaveremo; prendere ciascuna di esse come un mondo a sé, attraverso il quale egli amava raccontare la realtà senza per forza voler essere apprezzato per questo. Lo ricordiamo disponibile e cordiale con gli intervistatori, ai quali ripeteva con entusiasmo gustosi aneddoti e perle di saggezza zen; la voce flebile, l'aplomb inglese (nonostante lo spirito tipicamente americano del suo tempo), la risata contagiosa che così tante fotografie hanno ritratto.
Ridere, ecco la vera chiave. Dal nostro privilegiato punto di vista siamo in grado di accorgerci che Cage ci ha consegnato la possibilità di non prendersi troppo sul serio e, viceversa, di lavorare seriamente a cose percepite come poco serie. La passione per il quotidiano e il banale, vietare i divieti rivela "l'utilità dell'inutile", la necessità di uno sguardo molto, molto più ampio su ciò che già esiste e su ciò che è (ancora) possibile.
Come chi, così tanti anni fa, ha voluto svelarci questo segreto, anche io sorrido all'idea che quel cognome - oggi finalmente celeberrimo e celebrato - sia del tutto antitetico rispetto al vero dono che Cage ha fatto alla musica: la libertà più assoluta.

Discografia

Dieci pezzi facili

Quartet (1935)
Living Room Music (1940)
The Wonderful Widow of Eighteen Springs (1942)
Amores (1943)
The Seasons (v. per orchestra, 1947)
In a Landscape (1948)
Suite for Toy Piano (1948)
4'33'' (1952)
Branches (1976)
One5 (1990)


Dieci pezzi meno facili

Sonatas and Interludes (1946-48)
Six Short Inventions (rev. 1958)
Variations (I-VIII, 1958-67)
Indeterminacy (1959)
Atlas Eclipticalis (1961-62)
Etcetera (1973)
Thirty Pieces for String Quartet (1983)
Freeman Etudes (1977-80, 1989-90)
Fourteen (1990)
One11 (film, 1992)

Pietra miliare
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