Church

Under The Milky Way

"Juke-Box" è un passo indietro dal formato-album, un ritorno ai mattoni del pop: le canzoni. Riff, ritornelli, parole e immagini: quelle dei videoclip, o quelle che la musica evoca e utilizza per sedurre l'ascoltatore.
Lo scopo di questa rubrica è proprio entrare in questo gioco di seduzione, da sempre cruciale e da sempre dato per scontato. Scoprirne storie e protagonisti, ma soprattutto meccanismi, regole ed eccezioni. Guidati da una semplice domanda: come funziona una canzone?

 

      dall'album "Starfish" (Arista, 1988)


Ci sono canzoni che fissano l'essenza di un decennio. Magari proprio perché eccentriche rispetto ai canoni dell'epoca, eppure straordinariamente fedeli al suo spirito. "Under The Milky Way" è una di queste. Perché folgorati sulla Via Lattea, anzi "sotto", siamo rimasti un po' tutti. Neoromantici e (post)darkettoni, maniaci synthetici e nostalgici delle chitarre, beatlesiani irriducibili e seguaci delle nuove comete indie-pop prossime venture. Tutti irretiti da una canzone che non è spiegabile se non come una magia. Come quelle del film "Donnie Darko", che tredici anni dopo la riesumerà, consacrandola definitivamente a colonna sonora di un'era.

È il 1988 e gli australiani Church, smussate le atmosfere psichedeliche dei loro primi lavori, hanno deciso di seguire la scia del Pesce Stella. "Starfish", un nome che funziona, che sa di svolta. Ci vogliono provare anche loro, a imbroccare l'hit, sono indie nell'animo, ma hanno un colpo in canna che può frantumare le classifiche di mezzo mondo. E vogliono giocarselo, costi quel che costi. Al massimo qualche ayatollah della critica griderà al tradimento. Tanto si farà presto a tornare nelle retrovie, anche con dischi clamorosi (leggasi "Magician Among The Spirits").
È un colpo che parte piano, però. Cullato da soffici arpeggi di chitarre, che sono quasi crepitii siderali. Con la voce vellutata di Steve Kilbey a disegnare trame irreali, sognanti. Un cantato fatalista, malinconico. Un transfert, che conduce in un'altra dimensione. Onirica, metafisica, galattica, fate voi... Se Tom Verlaine strimpellava le sue serenate alla luna ("Marquee Moon"), i Church suonano sotto la Via Lattea. E una volta tanto, non è un synth a condurre in questo viaggio cosmico, ma il più "umano" degli strumenti: una chitarra, per di più acustica.
Under The Milky Way, sotto il riflesso nebuloso della Via Lattea, in una notte stellata del Nuovissimo Mondo. Magari nelle distese selvagge del deserto, lontani dalla megalopoli Sydney dove Kilbey e compagni hanno mosso i primi passi. Anche se il testo parla di Memphis e di tende abbassate, e il brano è stato composto da Kilbey insieme alla compagna di allora, Karin Jansson, in un locale di Amsterdam, il Melkweg (che in olandese sta proprio per "Via Lattea").

Quarantatré secondi, poi quell'ingresso prepotente della batteria, un colpo al cuore. L'arpeggio ora sembra quasi più insistito, trascinante, e anche il canto di Kilbey cresce d'intensità. "Wish I knew what you were looking for/ Might have known what you would find". Un auspicio ossessivo, ribadito due volte. Prima che si apra uno squarcio su questa notte crivellata di stelle e di malinconia: "And it's something quite peculiar/ Something shimmering and white/ Leads you here despite your destination/ Under the Milky Way tonight".
Ipnosi e catalessi, prima del lampo di genio. Un assolo fulminante, assurdo, inaudito. E meraviglioso. Sembrano cornamuse, ma in realtà è una chitarra suonata con l'E-Bow, quel congegno elettronico che genera un campo elettromagnetico in grado di far vibrare le corde, emulando il suono di vari strumenti - violino, violoncello, flauto, clarinetto, o, come in questo caso, cornamuse. Peter Koppes assurge così a uno dei più grandi interpreti pop di uno strumento che non ha mai suonato. Gli scherzi del destino...
Fatto sta che quell'assolo, epico e fragoroso, spacca in due la canzone, conficcandosi per sempre nella mente dell'ascoltatore. Troppo bello per essere vero. Poi arrivano anche le chitarre distorte di Willson-Piper e torna il filo di voce di Kilbey, a bisbigliare quelle parole misteriose. Cosa sarà quel qualcosa di così peculiare ("Something quite peculiar"), quel luccichio bianco ("Something shimmering and white")? C'è persino chi ha visto un'allusione alle droghe. Che succedeva, tra i tavolini della Via Lattea di Amsterdam?

Probabilmente, non lo sapremo mai. Anche perché Kilbey ha tagliato corto: "La canzone non è su un tema in particolare, volevo soprattutto creare un'atmosfera... Poi la storia le ha attribuito significati che non aveva". Così ci piace immaginare i Church sotto il cielo stellato d'Australia a ricordare quei giorni di successi, tanto dirompenti quanto effimeri. Peccato, perché la magia è rimasta. Anche tra gli spiriti. Un album ispirato addirittura da Houdini, otto anni dopo. Troppo tardi, però. L'hype si era già dissolto tra le nebulose della Via Lattea.

Discografia



Dall'album"Starfish" (Arista)
Pubblicazione: 16 febbraio 1988

Autori: Steve Kilbey, Karin Jansson
Produttore: Greg Ladanyi, Waddy Wachtel, The Church
Durata: 4'57''

Cover

Rick Springfield
(dall'album "The Day After Yesterday", 2005)

Grant Lee Phillips
(dall'album "Nineteeneightees", 2006)

Tearwave
(dall'album "A Different Shade Of Beauty", 2008)
Pietra miliare
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