Peter Gabriel
Arena di Verona
26 settembre 2010


Come sempre quando si tratta di Peter Gabriel - l'artista che meglio ha colto la fusione fra primitivo e tecnologico nell'arte contemporanea - c'è qualcosa di antico e modernissimo insieme in questa sua ultima incarnazione. A partire dal titolo della tournèe che sta portando in giro per il mondo, "New Blood": cosa di più primitivo del sangue, cosa di più tecnologico della macro-fotografia di due globuli rossi che, con dolcezza da coppia in simbiosi, si appoggiano l'uno all'altro, come a sostenersi, o a fondersi in un amore infinitesimale?


gabriel_report_1Il sessantenne più amato dagli italiani, colui che ci ha fatto gioire e sognare con i Genesis raccontandoci di mondi leggendari e personaggi paradossali, vestendo ogni volta maschere diverse, e che poi nella sua seconda vita solista ha esplorato tutte le sfaccettature possibili di un percorso multi-disciplinare, non è un artista prolifico, lo sappiamo bene. Per il suo ultimo, "Scratch My Back", abbiamo aspettato otto anni da quello precedente, che a sua volta... Insomma, quattro dischi (gli ultimi) in ventiquattro anni non è molto, nella star making machinery del pop. Peter non ama farne molti, anche per le sue mille attività parallele (l'etichetta e i Real World studios, i videogiochi, le colonne sonore, la multimedialità, oltre agli impegni in molte nobili cause, tutte cose che gli sono valse il Polar Prize, una sorta di Nobel della musica), e quando li fa ama stupire, andare oltre. "Expect the unexpected" è sempre stato il suo motto. Un album di cover se lo sono consentito in molti, un album solamente con un'orchestra qualcuno di meno, un tour con orchestra sinfonica e "senza chitarre e batteria" direi nessuno.

Eppure, eccoli lì, nella pancia di questa antica Arena romana, tempio della lirica: lui vestito come sempre di nero, e i circa sessanta musicisti diretti dal giovane Ben Foster. Insieme a loro uno schermo levatoio e un fondale a tre strisce di led che in maniera a volte sottile, a volte stordente, accompagnerà i ventinove brani in scaletta come un fuoco d'artificio di effetti, colori, forme, riprese dal palco, home movies, psichedelica e simbolismi, figure umane scansionate e occhi che inglobano, e - mettetelo sempre in conto quando c'è Peter - delizioso umorismo (il cartoon su "Book of Love").


Il sipario elettronico pulsa, come il cuore di un eroe, e "Heroes" apre il "lato a" della serata, la messa in scena dell'ultimo album. È davvero un repertorio particolare: poche cover ‘famose', molte poco conosciute, alcune oscure. Il criterio, ma lo si capisce molto meglio dal vivo che sul cd, è emotivo: canzoni che parlano di eroi e di potere dell'amore, di sentirsi chiusi in una gabbia e di bambini che vivono in una bolla, di sentimenti crepuscolari e di paesaggi africani. Sul palco, anche se il materiale, per gli standard del rock, rimane solo relativamente accessibile, sia l'orchestrazione che la voce prendono vita in una maniera intensa, quasi inaspettata. Intanto, la New Blood Orchestra non è un'orchestra qualsiasi. Giovani, perlopiù, interpretano gli arrangiamenti di John Metcalfe con una dinamicità straordinaria, né fragile né invasiva. Non è neanche paragonabile a quei tentativi di fusione rock-classica che hanno funestato gli anni 60 e 70 (non a caso, niente chitarra e batteria), e neanche all'accompagnamento da grande entertainer di musica leggera (non a caso è Gabriel, non Frank gabriel_report_2Sinatra). La regola è: il giusto, dove serve. Se è un tocco di pianoforte, o un fondo delicato di violini, o una pulsazione da basso tuba è quella, e niente di più. Ma se serve la forza, che la forza sia con noi. E se c'è un finale da rilanciare oltre le strofe conosciute (e accade due volte, nella cupa "Darkness" e nella viscerale "Rythm Of The Heat"), Foster li prende per mano e li conduce in un vortice, impazzito e appassionato, di tensione e rilascio, costruzione e distruzione, creando un'eccitazione furiosa, che fa alla fine scattare in piedi i diecimila dell'Arena in un sontuoso applauso, liberatorio da tanta tensione.


La voce di Peter è da sempre uno dei gioielli misteriosi del rock. Non è potentissima, non ha quella forza trascinante dei cantanti da stadio, non è negroide anche se canta il suo r'n'b bianco, non è neanche in salute, visto che è reduce da una freddata settembrina. Ma ha una straordinaria qualità, uno di quei doni fatti di sottrazione, e non di addizione muscolare. Una espressività fatta di piccole nuance, scandisce le parole fin nei dettagli invisibili. Ha un dinamismo e una umanità che è un tutt'uno con la sua personalità, le sue maschere, le sue scelte esistenziali e artistiche. Peter ha una voce che commuove. E questa sera, mentre le telecamere del prossimo dvd invadono di sguardi indiscreti il palco strapieno e nell'Arena non si sente null'altro che il silenzioso ronzio digitale di migliaia di foto e telecamere digitali, la voce di Peter Gabriel è una magia continua. Sussurra, e grida. Ti accompagna e ti ammalia, e poi ti scuote e ti strapazza. Fa sentire - questo è il prodigio dell'Orchestra - ogni singolo, impercettibile suono, incrinatura, respiro, battito. Peter non ha mai cantato così. E' come se si fosse preparato tutta la vita per questo evento, per il momento in cui tutto sarà nudo ed esisterà solo la voce. Non si muove molto, accenna appena la sua gestualità un po' iconica. Lascia ad alcuni momenti, rarissimi, quella sua maniera di scattare in avanti, con un movimento di busto pungente come quello di un cobra, che nel passato lo caratterizzava tanto. Ma la sua voce, al contrario, dopo qualche cautela iniziale si muove tantissimo, sale e scende, si arrampica e si getta nel vuoto - ed è ogni volta un tuffo al cuore.


Ma non è un concerto trascinante, almeno nella prima parte. È più una lenta, accuratissima operazione di cesello, un lavorare meticoloso a scavare nelle parole altrui cercando significati propri. "Power Of The Heart" di Lou Reed e "My Body is a Cage" degli Arcade Fire, più la sua "Wallflower", spiccano.

gabriel_report_3Quando il repertorio si fa il suo, dopo l'intervallo, l'energia è un'altra, sul palco e in platea. Dato che poi i concerti di Peter ognuno se li vive in maniera del tutto personale, come fosse una chiacchierata a due che improvvisamente evoca pensieri e memorie dimenticate, per me è "Mercy Street" la canzone del cambio di stato. Le immagini sgranate di una barca nel mare sugli schermi, il tono di Gabriel commosso e commovente, quella semplice frase "wear your inside out", che evidentemente tocca qualche corda non protetta... improvvisamente per me si apre qualcosa, e da quel momento in poi è solo emozione, pura e indifferente a tutto il resto.

Poi il segnale: "è un po' freddo stasera, se volete scaldarvi questa è l'occasione giusta...". Sulla intro di "Solsbury Hill" centinaia di persone scattano verso il palco e migliaia saltano in piedi a ballare, e fare festa, e fare memoria, e pensare che il cuore, anche stasera, fa boom boom boom. E poi i bis, con la promettente norvegese Ane Brun, nuova corista al fianco della figlia Melanie, che sostituisce i voli a planare di Youssou N'Dour su "In Your Eyes", e riveste "Don't Give Up" di una emotività da levare il fiato. Al fine, una delicata "Nest", orchestrale con alcuni piccoli tocchi al pianoforte dello stesso Peter, chiude il cerchio, con una misura e una classe che hanno pochi pari fra gli artisti del nostro secolo.


Volti felici, soddisfatti di aver partecipato a quest'ennesima sorpresa su un percorso che non delude mai. La gioia di aver constatato che la pancia c'è, e bella prominente, ma non è ancora piena, come non lo è mai stata. Il Peter Noster, come scritto su una maglietta in platea, anche oggi ci ha liberato dal male del banale. Quest'uomo, che ha scritto alcune delle più belle canzoni dei nostri giorni, che ha spostato avanti la musica contemporanea ogni volta che ha pubblicato un lavoro, ha ancora molti altri momenti inaspettati da farci aspettare.

Foto di Carlo Massarini

Discografia

Pietra miliare
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