I migliori Ep soul e r&b del 2019

Dodici ascolti dell'anima

Inutile negarlo, tra i fruitori di musica dell'era streaming il formato album sta lentamente perdendo d'importanza, portando con sé tutti i decadimenti e i rinnovamenti del caso. Non solo, ma con l'accesso gratuito a giganteschi database digitali contenenti milioni di canzoni, il panorama contemporaneo si è trasformato in uno sconfinato oceano di musica nel quale è fin troppo facile perdersi o decidere direttamente di gettare la spugna. Sia da parte del consumatore che dell'industria e dei musicisti interessati nasce quindi spontanea una domanda comune: come ovviare a tale situazione? Risposta univoca ovviamente non esiste, ma al momento pare che il caro vecchio Extended Play stia (ri)assumendo un ruolo di vitale importanza all'interno del panorama discografico.
Il motivo è tutto sommato semplice: l'Ep è sia un valido punto fermo tramite il quale l'artista può presentare al mondo il proprio operato, che uno snello contenitore di musica più facilmente digeribile per l'ascoltatore interessato a scoprire nuovi artisti. E anche l'industria ha il suo tornaconto, dal momento che l'Ep è meno dispendioso da mettere in piedi e meno ufficiale da promuovere - questione di non poco conto anche per le grandi etichette che li producono, dal momento che con le enormi fratture economiche all'interno dell'industria discografica causate dallo streaming gratuito, arrivare all'album può essere un processo troppo lungo e che non garantisce comunque ritorni sicuri. Meglio quindi andarci cauti e fare le cose passo passo, sostengono alcuni.
 
Così l'Ep al momento è diventato una tappa quasi forzata per farsi le ossa mentre si raccolgono i consensi necessari per andare avanti, e questo discorso vale soprattutto nel caso di tutti quegli artisti che si muovono al di fuori dalle attuali mode dance-pop da classifica e ambiscono a una qualità non necessariamente "condivisibile". Questa tendenza sta sicuramente dando i suoi frutti nel campo di certo r&b alternativo e delle varianti del vecchio soul riaggiornate per le sempre affamate orecchie del pubblico moderno. Nel corso dell'ultimo paio di decenni i generi in questione si sono trasformati in un esperanto che ha travalicato i confini del terreno americano per andare a spaziare - in questo numero - dalla Cina alla Danimarca e dall'Inghilterra alla Corea, catturando l'amore degli ascoltatori più attenti e creando un microcosmo di nomi in ebollizione i quali - si spera - un giorno riusciranno tutti a fare il grande salto. Senza intenzione di completismo alcuno e senza gerarchia d'importanza, qui sotto raccogliamo alcune uscite degli ultimi mesi che più ci hanno stuzzicato e incuriosito.

Semma - Ribbons & Bows (Fade To Mind)


In un universo parallelo dove accadono solo cose belle, Mariah Carey ha indossato il suo magico strap-on glitterato per mettere incita Kelela, ed è nata una bella bimba di nome Semma. Dal genitore uno, la piccola ha ereditato uno strabiliante dinamismo vocale che le consente di scartare tra i registri e le ottave con la facilità del bere un bicchier d'acqua, mentre il genitore due è meglio responsabile per averle tramandato l'amore per le sonorità elettroniche alternative e uno spiccato intimismo in fase di scrittura. Cresciuta prima a pane e Uk-garage, e poi mandata a studiare a Los Angeles negli studi della Fade To Mind di Kingdom, Semma ha impacchettato uno degli Ep più squisiti dell'anno. Si viaggia con nonchalance dall'incedere marziale dell'introduttiva "Trouble In Paradise" al ritmo spezzettato e punteggiato da minacciosi bassi di velluto di "My Boy", passando poi attraverso una title track che si snoda come un lamento sotto un cielo stellato, e il terapeutico canto di speranza garage-pop di "In Time". Lampante, insomma, il modo in cui estro vocale, produzioni avantgarde e una solida scrittura r&b confluiscano assieme in un prodotto talmente ben impacchettato da farne rimpiangere giusto la breve durata. Menzione di riguardo per l'irresistibile "Bittersweet", con i suoi accenti bollywoodiani e un'interpretazione vocale da brividi che cavalcano su un secco ritmo digitale. In una parola: perfetto. (Pandolfini)

Yerin Baek – Our Love Is Great
(JYP)


È recente la notizia che ha visto la cantautrice Yerin Baek abbandonare i blasoni di casa JYP e accasarsi presso la ben più piccola Blue Vinyl, pubblicando in questi giorni il suo primo album “Every Letter I Sent You”. Una scelta coraggiosa, ma necessaria, che complimenta la natura ricercata, a suo modo quasi dimessa, della giovane promessa dell'r&b più sofisticato, firmataria di uno dei migliori momenti del 2019 made in Korea. Trainato da “Maybe It's Not Our Fault” (numero uno nella Gaon Chart), delicato motivo dalle fattezze soul che mette in soffitta ogni accostamento alla ballata strappalacrime grazie al suo beat felpato e a pregevoli florilegi tastieristici, “Our Love Is Great” è Ep dolce e svagato allo stesso tempo, in cui Baek dà prova di una scrittura efficiente, versatile, che si traduce in lineamenti melodici leggeri ma mai evanescenti. Sfumature electro (“Merry And The Witch's Flower”), cesellature acustiche (“Dear My Blue”, interamente interpretata in inglese), aperture reggae (la title track, introdotta da un vellutato preludio jazz) complimentano interpretazioni non propriamente esplosive, sempre puntuali però nel conferire una dimensione di palpabile romanticismo anche al più dimesso dei fraseggi. Oltre la stucchevolezza di tanti balladeer coreani, un disco di incisiva leggerezza. (Karagiannis)

MorMor - Some Place Else (Don't Guess)

 
Metti una sera a cena in una casa di periferia, tra gli invitati scorgi Terry Callier e i Beach House intenti in una conversazione sul significato dell'esistenza umana, mentre seduto in un angolo c'è Peter Buck che arpeggia sulla propria chitarra, offrendo ai presenti in sala una struggente filigrana sonora che profuma del ricordo di un'adolescenza ormai lontana: questa è "Outside", un gioiello di scrittura capace di squarciarti il cuore con la più lieve delle carezze. "Some Place Else" segue l'Ep di anno scorso già trattato su queste pagine, e non fa che riconfermare il posto speciale che MorMor occupa nell'attuale panorama indie: il ragazzo scrive canzoni così soffusamente belle che ti disarmano, le interpreta con una voce soavemente ricca di inflessioni e le adorna con gusto di elementi acustici ed elettronici. Impossibile davvero pescare un pezzo chiave oltre al già citato singolo, dagli echi nineties delle corpulente chitarre di "Make Believe" ai dolci ricami di "Pass The Hours" con quel falsetto che improvvisamente spicca il volo, questo Ep è un nuovo compendio su cosa voglia davvero dire la parola "bellezza" in musica nel 2019. Riuscite anche voi a immaginare di ballare un valzer in riva al mare d'inverno sulle note di "Get Away"? Questo ragazzo ha un dono, si spera che non lo esaurisca mai. (Pandolfini)

Dua Saleh – Nūr
(Against Giants)


Si fa presto a rimanere irretiti da una personalità come quella di Dua Saleh, artista multidisciplinare da quel di Minneapolis (nata però in quel di Kassala, Sudan), coinvolta oltre che con la musica anche nella poesia e nell'attivismo. Con la sua prima prova discografica (“Nūr” significa luce in arabo), l'autrice catalizza immediatamente le attenzioni grazie a un flusso vocale deciso e a un'abilità lirica di spicco e calore, che non teme tematiche spigolose, ma che sa anche cedere il passo a momenti di puro eloquio a-verbale. La produzione, densa, urbana e industrialeggiante (4 dei 5 brani a cura del polivalente concittadino Psymun) non riesce comunque a spostare le vibrazioni del lavoro verso territori hip-hop, consentendo al canto di Saleh di esprimersi in tutto il suo trasporto soul, spesso e volentieri deviato rispetto al canone (il falsetto, quasi a mo' di spiritual solipsista, di “Survival”), pregno però di un'emotività che non molla mai la presa, ma fa valere ogni singola battuta. Un'importante rampa di lancio, per un'artista che potrebbe diventare una futura sensazione. (Karagiannis)

Jnr Williams - Withers On The Vine (Insanity)

 
Quando si parla del londinese Jnr Williams il termine gavetta si spreca, ma se non altro il 2019 è stato finalmente l'anno della svolta e "Withers On The Vine" è il suo secondo Ep in pochi mesi, a riprova di un entusiasmo finalmente ripagato. Le quattro tracce qui presenti mettono l'accento sulla sua caratteristica più peculiare: la voce. A tratti sembra di sentire il timbro arcaico e pastoso di Louis Armstrong e dei grandi della tradizione jazz, mandati a memoria come ricordi d'infanzia e poi filtrati tramite l'istinto alla ricerca di un naturale metodo espressivo che non perda mai d'occhio neanche le più moderne inflessioni urbane dell'East End. Bellissimo il tributo alla comunità caraibica di "Us In Major", un pezzo giocato su liriche schiette e un bel videoclip che cattura con grazia la fragilità e l'orgoglio di quella fetta di popolo. Altrove, la meditazione autunnale di "Another Page" si dipana leggiadra come un jazz sotto il segno di Mark Hollis, mentre lo scarno rintocco gospel di "Don't Give Up" e la pulsazione elettronica di "U 4 Ever" fanno di "Withers On The Vine" un ascolto intimo e raccolto, la cui forza risiede in un'osservazione dell'animo umano adulta e posata, ma mai parca di pathos. (Pandolfini)

Lexie Liu – 2030
(88rising)



Membro a pieno titolo di 88rising, compagnia produttiva-etichetta discografica-collettivo artistico teso a dare spazio ad artisti asiatici interessati a pubblicare negli States (Joji e Rich Brian i nomi più conosciuti), la sino-americana Lexie Liu è uno dei suoi nomi più peculiari e ambiziosi, autrice di uno dei momenti più felici dell'intero catalogo dell'ancora giovanissima label. Frutto dell'incontro tra culture, di una collisione espressiva che si evidenzia peraltro in un bilinguismo sfoderato con assoluta maestria, “2030” è opera fluida, il cui linguaggio trae le mosse da un composito codice urban, ricoperto però di una patina nebbiosa, a suo modo psichedelica, che non disdegna anche aperture a contesti ben diversi. Dai riverberi mandopop che animano “Hat Trick” alle atmosfere tropicali di “Strange Things”, Liu sa muoversi con agilità senza inciampare in imbarazzanti passi falsi, rendendo proprio l'articolato comparto sonoro. Spiccano nel contesto del disco le modulazioni electro di “Nada”, con una vocalità non lontana dalla Rihanna più patois, e la spazialità trap di “Outta Time”: una comprensione del presente giocata con caratura di musicista scafata, che le frutterà ben più di qualche semplice riconoscimento indie. (Karagiannis)

Joviale - Crisis
(Blue Flowers Music)



Una voce tremolante ma capace di pungere al momento opportuno, e un chitarrismo apparentemente sgangherato ma sempre puntuale: ecco "Crisis", uno degli ascolti leftfield più buffi e interessanti dell'anno. L'approccio libero alla scrittura e i mille colori degli arrangiamenti (a cura del produttore Bullion, già al lavoro con Sampha e David Byrne) fanno della britannica Joviale una sorta di Aldous Harding, certamente meno artistoide ma al contempo ben più terrena e simpatica nel suo fare un po' impacciato. Fa sorridere l'andamento di "Struggle Cuddle", mentre con "Ride Away" siamo dalle parti di una pallida e imbronciata PJ Harvey che è stata imbarcata controvoglia in vacanza premio su una crociera diretta a Cuba. E poi c'è il singolo "Dreamboat", misterioso nel suo quieto ancheggiare arrichito da percussioni e una voce capace di snodarsi con personalità tra i controcanti e un flautato falsetto. "Crisis" conferma quanto ormai si sospettava da tempo: la musica dell'anima avrà forse perso di passione ai piani alti della chart, ma nelle retrovie d'Inghilterra si trovano svariati personaggi degni di nota e Joviale è sicuramente uno di questi. (Pandolfini)

Yehaiyahan – Under The Moonlight (IdleBeats)



Più un album breve che un effettivo Ep/mini-album, “Under The Moonlight” segna il passaggio della producer cinese ChaCha al suo nome di battesimo e all'adozione di un linguaggio più sfaccettato, da lei stessa definito come “soul cinematico”, in cui l'elettronica individua percorsi più personali, atmosferici, tesi a supportare contorni vocali rarefatti, acquatici, talvolta pure angoscianti, mai privi però di anima e pathos. La title track, supportata da una base tastieristica che pare garage-house liofilizzata, definisce nel modo migliore il concetto, consentendo a Yehaiyahan la stesura di una linea canora dai puliti contorni r&b, perfettamente inserita nel contesto minimalista, ripetitivo, dell'accompagnamento sonoro. “Hold On No More” la avvicina alla ricerca electro di una pioniera quale V V Brown, ammantando il decorso di sfumati accenni percussivi; “Something” è Kelsey Lu in un suadente pullulare di rintocchi sintetici e sospiri a-melodici, “Know U More” offre invece una sponda al bel trip-hop dei tempi che furono, accostandolo a una più moderna strutturazione elettronica. Surreale, denso di una dolce umanità, il nuovo percorso della musicista cinese, per quanto ancora all'inizio (e da lei stessa annunciato come tutt'altro che semplice) rivela già una pasta di prim'ordine. (Karagiannis)

Zalma Bour - Safe Space (autoprodotto)



Nei battibecchi in Rete tra baby boomers e millennials, il concetto di safe space ha spesso sollevato polemiche, mettendo in luce un'incomunicabilità generazionale tra genitori che criticano la troppa sensibilità dei giovani d'oggi, e quest'ultimi che, per far fronte alle sfide della vita moderna, hanno sviluppato un meccanismo di autodifesa basato sull'esclusione e il ritiro in figurati spazi sicuri. Zalma Bour affonda il coltello nella questione senza scrupoli, creando un proprio "Safe Space" sonoro dove leccarsi le ferite e cercare una meditativa pace dei sensi. Innegabile, tuttavia, la maestria con la quale l'autrice monta un ascolto ponderato da cima a fondo; partendo dagli accenti cibernetici della prima FKA twigs con "Redesign" e "Not For Me", la proposta si fa presto più calda e carnale, come a voler inscenare un processo di guarigione emotiva e di ritorno al proprio stato di grazia. Su "Prove It" affiora una voce limpida come acqua di fonte, un ritmo di terso chill-funk alla Toro Y Moi fa capolino in "Joke", e non mancano nemmeno il bozzetto acustico jazzato di "Try" e una "86.2" che sembra uscita dal canzoniere di Jhené Aiko. Scarno ed essenziale, ma sempre efficace tramite una cura sonora distillata al dettaglio, "Safe Space" ha tutto quel che serve per farsi notare nell'oceano delle autoproduzioni Soundcloud, si spera che per Zalma Bour la guarigione sia solo iniziata. (Pandolfini)
 
Celeste - Compilation 1.1 (Universal)



Celeste non è certo la proposta più moderna in lista, va detto: le sue ballate soul accarezzate dal piano come fogliame autunnale non sarebbero fuori posto in un disco di Rumer o dell'Adele più pacata. Ma c'è indubbiamente una qualità sonoro/vocale che riesce a fare del classico un proprio punto a favore, e Celeste ha dalla sua una personalità che buca oltre la forma. Una schiettezza urbana figlia di Amy Winehouse ("Lately", "Summer"), e certe inflessioni vocali roche e jazzate che ricordano la collega Rebecca Ferguson (l'imbronciata "Strange", la bellissima e umbratile "Ugly Thoughts", una slanciata "Coco Blood") forniscono un ascolto che è sicuramente consigliato a tutti gli amanti del vecchio soul d'autore. "Compilation 1.1" è una comoda raccolta in streaming di sette brani pubblicati quest'anno - alcuni già inclusi nel precedente Ep "Lately" uscito giusto qualche mese fa. Con tre concerti in quel di Londra andati sold-out solo quest'autunno, Celeste è già ampiamente collocata sulla rampa di lancio e gli addetti ai lavori in Uk stanno puntando tutto su di lei. Si spera che, in futuro, la ragazza riesca a conservare intatto quel pathos che al momento la rende papabile sia al grande pubblico che agli ascoltatori un attimino più esigenti. (Pandolfini)
 
Joy Crookes - Perception (Insanity)

 
A volte basta una canzone per raccogliere in meno di quattro minuti tutta l'essenza della propria arte, e Joy Crookes quest'anno ha inanellato il momento perfetto: l'insostenibilmente agrodolce "London Mine" è una delle migliori dediche alla città che si siano sentite negli ultimi tempi, un beat elettronico anni 90 ne sostiene l'impalcatura mentre l'autrice canta con serafica leggiadria del proprio affetto nei confronti di una cruda e spesso solitaria realtà urbana. Figlia di genitori anglosassoni e bangladeshi, la giovane Joy Crookes illustra i propri pensieri con un inusitato realismo che non lascia molto posto a orpelli di sorta, e le rimanenti tracce di "Perception" scorrono come le immagini di un cortometraggio sulla vita nella capitale durante una rara domenica di riposo. Ecco il ritmetto indietronico alla Saint Etienne di "Hurts", lo spiritoso motivo vintage-giovanilista alla Lily Allen di "No Hands" e una più maliconica canzone d'amore come "Darkest Hour" che arriva impreziosita da qualche inserto di ottoni jazz. Ma "Since I Left You - demo" mette meglio in mostra la peculiarità delle interpretazioni di Joy: la sua voce, così semplice e disadorna, le fa incentrare praticamente tutto sulla narrazione, e il risultato è talmente fresco che balza subito alle orecchie. (Pandolfini)
 
Jeuru - King Of The Cruel (Sony Denmark)

 
Conosciuto qualche anno fa grazie alla bellissima collaborazione col duo danese Kyo, l'americano Jeuru - ma ormai di stanza a Copenhagen, dove lavora come modello - conferma con questo primo Ep solista il suo gusto per le interpretazioni crude, drammatiche e barocche, sempre a cavallo tra formale rigidità e giovanile trasporto. Il suo songwriting prende spunto dall'r&b elettronico tipico di questo decennio, ma l'influenza è poco più che una lieve guida; Jeuru si immerge in un bagno di languide chitarre e inserti di ambient a blocchi ("All The Same Dream", già edita nel disco con Kyo), emerge come una Sfinge dal deserto nella drammatica sacralità di "Midnight Lullaby", si dona con voce incerta e tremolante sull'intermezzo "As Time Passes By", e poi si abbandona alla deriva negli oltre otto minuti di "Distorted Rainbows", divisi in una prima parte acustica di lacrimevole bellezza e una seconda di droni e muraglie di chitarre post-rock. In mezzo al tutto, una title track dal crescendo sinfonico ma con un giro melodico che profuma di rock anni 90. Originale, ispirato, bizzarro, meticcio: non ci sono dubbi sul fatto che "King Of The Cruel" sia un prodotto per pochi, ma sono proprio queste qualità che fanno di Jeuru un nome di ultra-nicchia da seguire a tutti i costi. (Pandolfini)

Discografia

In questo numero:

Semma - Ribbons & Bows(2019, Fade To Mind)
Yerin Baek - Our Love Is Great(2019, JYP)
MorMor - Some Place Else(2019, Don't Guess)
Dua Saleh - Nūr(2019, Against Giants)
Jnr Williams - Withers On The Vine(2019, Insanity)
Lexie Liu - 2030(2019, 88Rising)
Joviale - Crisis(2019, Blue Flower)
Yehaiyahan - Under The Moonlight(2019, IdleBeats)
Zalma Bour - Safe Space(2019, autoprodotto)
Celeste - Compilation 1.1(2019, Universal)
Joy Crookes - Perception(2019, Insanity)
Jeuru - King Of The Cruel(2018, Sony Denmark)
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