Non-music

Invito all'ascolto dell'inudibile

Esiste un limite all'atto di ascoltare? C'è forse un livello esperienziale oltre il quale è impossibile affermare con certezza, non tanto se stiamo ascoltando della musica, quanto se stiamo effettivamente ascoltando qualcosa?
La diatriba sul confine tra musica e presunta “non-musica” riguarda un pubblico che va ben oltre la schiera di critici e teorici autorevoli, toccando da vicino i comuni commentatori delle piattaforme web e potenzialmente chiunque inserisca la propria musica in un dato insieme, al di fuori del quale si trova qualcosa d'altro – ed è un sondaggio che potete attuare facilmente già tra i vostri amici.

Può sembrare supponente – oggi i più direbbero hipster – pensare a una "ecologia del suono": a molti potrebbe sembrare assurdo dedicare parte del nostro prezioso tempo e della nostra ancor più preziosa passione per la musica a fenomeni sonori che sfiorano l'assenza, testimonianze acustiche di un'esistenza quasi impercettibile. Eppure tutti noi facciamo continuamente esperienza dei (semi)vuoti acustici: un ufficio lavorativo ove impera soltanto il continuo ronzio dei computer, la sala d'aspetto di un ambulatorio, il minuto scorrere della vita alle sei del mattino... Ogni contesto ha una propria dimensione sonora che sta a noi individuare, decifrare, eventualmente attribuendole un valore e un significato “musicali” ad essa estranei.
Facendo tesoro della fervida (benché lacunosa) analisi filosofica di Vladimir Jankélévitch, silenzio e musica sono addirittura strette in un legame indissolubile. Il silenzio viene prima e dopo la musica, ma scandisce anche la materia di cui essa è costituita. Al netto di sotterfugi digitali, infatti, il silenzio è il punto d'arrivo di tutta l'intenzione musicale; da esso ha inizio e ad esso necessariamente ritorna. Anzi, se ci limitassimo a considerare la composizione classica, quella che chiamiamo musica non sarebbe altro, in realtà, che un'elaborata stesura d'inchiostro su carta, la quale prende vita e diventa suono soltanto all'atto dell'esecutore (e qualora la figura dell'esecutore venisse a mancare, esisterebbe ancora il concetto di musica?)

In natura non esiste il silenzio assoluto: non possiamo perciò decidere deliberatamente di isolare gli elementi sonori di nostro interesse dalla realtà che li circonda. È bene dunque chiarire che l'insieme qui (come altrove) indicato per comodità con il termine "non-music" favorisce una ricerca che non ha come obiettivo il dominio del silenzio, ma la costante interazione con esso.
Con l'avvento del pensiero cageiano, il limitato concetto di silenzio diviene una sacca in grado di accogliere tutto ciò che si verifica a livello sonoro nello spazio che occupiamo. Nella tardiva reinterpretazione e nello sviluppo della nuova improvvisazione, specialmente quella giapponese, si potrebbero individuare – senza restrittive pretese di carattere tassonomico – tre diversi approcci nell'utilizzo del silenzio in musica:

a) come materia prima grezza, da “modellare” direttamente. L'esempio principe è la quasi quindicinale ricerca di Toshimaru Nakamura con la sua no-input mixing board: il silenzio di una macchina che non emette suoni naturali è l'idea e il mezzo con cui Nakamura – anche in coppia con Sachiko M - lavora a micro-manipolazioni elettroniche ripetitive e asettiche;
b) come non-colore di una tavolozza. Uno stile di scrittura ed esecuzione in gran parte riconducibile al compositore americano Morton Feldman (peraltro amico stretto di John Cage all'epoca) e che ritroviamo in altra forma nel fondamentale “Opposite” (1998) di Taku Sugimoto, una raccolta di meditazioni per chitarra in clean basate sulla discontinua alternanza tra le note suonate e le loro risonanze naturali, che sfumano poi in attese pregne di senso, di carattere quasi contrappuntistico. Altro momento esemplare l'ultima traccia del "Duos for Doris" (2003) di Keith Rowe e John Tilbury, tra i titoli più osannati del catalogo Erstwhile e di tutta la EAI (Electroacoustic Improvisation);
c) come una tela bianca sulla quale i singoli suoni risaltano con ancor più forza, e su cui agire direttamente, di pennello come di coltello – seguendo l'intuizione spazialista del nostro Lucio Fontana. Esempi casuali ma efficaci si possono trovare nel secondo movimento del recente quartetto “Tsst!” (2012) o nei puntillistici strumenti a fiato di Masahiko Okura in “Time Service” (2004).

Con alcuni degli album citati qui di seguito delineeremo anche le caratteristiche del fenomeno onkyôkei (音響系): nato per necessità di quiete pubblica tra le mura del piccolo locale "Off Site" a Tokyo, negli anni il termine onkyô è giunto a sintetizzare un pensiero e un'estetica musicale propri della impro nipponica contemporanea – e in tal senso non applicare una traduzione al nome gli ha assicurato di mantenere la sua intrinseca specificità nazionale.
Significa semplicemente “suono”: una terminologia che svincola i musicisti da una descrizione precisa del loro stile, il quale ha come unico comun denominatore l'assoluta concentrazione, appunto, sul suono in sé – sia come prodotto di uno strumento che come fenomeno acustico incontrollato. È sotto l'egida di Ôtomo Yoshihide che si sono affermate personalità come Taku Sugimoto, Toshimaru Nakamura, Sachiko M e Taku Unami, oggi di rilevanza assoluta nella scena dell'improvvisazione elettroacustica e del lowercase.
Dunque, come si può facilmente intuire, qui non si tratta soltanto dell'infinita eredità cageiana: anzi, è il caso di ribadire che in prima istanza John Cage prese a prestito le filosofie e i culti orientali per dare vita ai più disparati atti di esistenza sonora che compongono il suo catalogo, e che sarebbe dunque necessario risalire a fonti ben più arcaiche per comprendere gli sviluppi di queste tendenze e includere il concetto di silenzio nel nostro bagaglio di ascolti.

tomelillaCiò premesso, l'esplorazione a tutto campo di Cage rimane a oggi il punto di partenza ideale per sondare i confini della musica comunemente intesa. E una interessante rielaborazione del concettualismo alla base del famigerato 4'33" possiamo trovarla nell'album Dancing In Tomelilla (Hibari, 2012) del sound artist Éric La Casa. Da sempre dedito all'esaminazione degli spazi e delle loro sonorità nascoste, egli è qui intento a catturare da diverse distanze e angolazioni le prove di un concerto da bar – cui fa seguito la performance vera e propria – del gruppo jazz Cool Quartet assieme alla cantante Lina Nyberg. I frammenti acustici che formano il collage "September In Tomelilla" si manifestano in un percorso acustico strutturato come un racconto dalle tinte noir, solcato da passi scricchiolanti a ridosso del palco o dal tintinnìo della zona bar, sino all'area antistante il locale ove trapela soltanto qualche nota ovattata. La Casa ci invita ad ascoltare gli spazi attorno alla musica, a realizzare che al di fuori di un'esibizione continua a succedere altro, il mondo fa il suo corso e nulla può metterlo a tacere.

neigeUn Peu De Neige Salie (Selektion, 1993) di Bernhard Günter è la pietra miliare del cosiddetto "microsound", uno degli esempi più iconici di sperimentazione elettroacustica proiettata verso la manifestazione di suoni quasi impercettibili. Benché l'autore ne abbia scoraggiato l'ascolto per associazione di immagini, risulta impossibile non pensare ai più minuti eventi sonori in natura: è come se potessimo accedere a una dimensione acustica altrimenti inaccessibile, dove ci fosse dato di udire i passi di una formica o, come nel titolo tratto da un haiku, la caduta al suolo e l'immediato sciogliersi di un fiocco di neve. Inseriti in un silenzio che non è mai veramente tale, i microscopici eventi sonori agiscono come forellini su una figura piana di massima quiete, non come elementi di disturbo bensì come innocui agenti esterni che subito divengono parte organica della superficie sonora. Un ascolto che obbliga alla massimo grado di attenzione – pena l'assoluta inudibilità – ma che ci ripaga col disvelamento di un universo acustico parallelo che è pura metafisica. L'estetica radicalmente riduzionista di Günter ha gettato le basi per gran parte della EAI a venire, ancora oggi incredibilmente foriera di innovazione ed entusiasmo avanguardista.

beugerIn certe composizioni dell'olandese Antoine Beuger c'è quasi il timore di turbare la sacralità del silenzio: nei dodici movimenti di "Tanzaku" gli archi dei suoi esecutori rasentano le corde con stridente cautela, dando vita a un "soffio" polifonico sinistro e anti-emozionale che porta all'estremo le visioni notturne di Salvatore Sciarrino. "Sekundenklänge (Some Sounds, Just Seconds)", scritto "per uno strumento con suoni in decadimento", vede proprio il capofila della chitarra onkyô Taku Sugimoto, che procede a inserire brevi pulsazioni discontinue nello spazio acustico, con una delicatezza tale da farli sembrare tasti di un toy piano elettrico. Ci troviamo qui, senza tema di smentite, nell'ambito dell'esplorazione del suono puro.
Il gruppo di autori e performer Wandelweiser, fondato da Beuger e dal violinista tedesco Burkhard Schlothauer, è ancora oggi un baluardo della "silent music". Il catalogo della relativa label discografica è ricco di pubblicazioni interessanti, le quali spaziano dalle avanguardie storiche alla nuova generazione di compositori e field recorder.

2secondsMichael Pisaro e Taku Sugimoto sono i fautori di una delle più affascinanti analisi sull'alea e sullo scorrere del tempo in musica: il trittico 2 Seconds/ B minor/ Wave (Erstwhile, 2010) dura esattamente sessanta minuti, venti per ciascun brano. Un disco concettuale e schematico, sommariamente pianificato e infine eseguito separatamente, con strumenti a piacere e in piena autonomia (Pisaro in California, Sugimoto in Giappone), come nella fondante “Indeterminacy” di John Cage e David Tudor.
“2 Seconds” origina dalla scansione temporale del metronomo, punto di partenza per qualsiasi composizione musicale: gli accenti sincopati dei due musicisti finiscono quasi sempre per avanzare in perfetta sincronia, dando forma agli attimi attraverso interventi sonori tenui ma precisi. E ancor più nelle armonie di “B minor”, che si avvicina maggiormente a una figura musicale riflessiva e delicata; ciascuno con la propria chitarra, i due artisti percorrono liberamente due diversi tempi musicali e sondano gli spazi con feedback e risonanze naturali. Infine “Wave” si esplica, come da titolo, in due diverse interpretazioni del concetto di “onda”; per Sugimoto un suono d'intensità e tonalità costanti, per Pisaro il concreto frangersi del mare sulla sponda californiana.
Benché isolati l'uno dall'altro, gli interventi del duo riescono – in modo sorprendente – a trovare il loro senso reciproco in un moto continuo, sistematico ma che conserva una incantevole spontaneità. Tre diverse forme di un'estasi dell'ascolto: l'alea che va finalmente incontro all'ordine naturale delle cose, del tempo e del suono.

quartetSi rende inoltre necessario citare la collaborazione tra Nikos Veliotis, Taku Sugimoto, Kazushige Kinoshita e Taku Unami per Quartet (Hibari, 2005), nel tempo assurto a disco cult per gli ascoltatori affascinati da queste derive ultra-minimali. A suo modo emblematico, proprio per il dispiego di musicisti che vi prendono parte e per la determinazione con cui si impegnano a non fare musica. Un primo brano di mezz'ora conta pochissime note suonate da chitarra e violino, brevi scricchiolii d'ambiente e un pregno silenzio naturale. Nella sezione seguente emerge, a fasi alterne, un doloroso duetto d'archi memore dei più scarni Godspeed You! Black Emperor. Arduo a credersi, ma lentamente comincia a intravedersi un'azione in crescendo, un lieve climax dell'atto sonoro dove gli interventi isolati non dialogano tra loro, ma attestano la loro mera presenza. Un contesto meditativo ove diventa impossibile non fare caso alle sparute epifanie acustiche, e proprio in ciò risiede il valore ultimo di "Quartet". Chi l'ha affrontato con la giusta predisposizione racconta un'esperienza in grado di riaprire i sensi e di commuovere per la sua nuda onestà, scevra da qualsiasi intento ideologico, pur nell'evidente radicalismo che la contraddistingue. Una non-musica che non ha la pretesa di parlarci o trasmetterci qualcosa, ma che semplicemente è.

petroleMuovendo verso territori leggermente meno ostici, si potrebbe poi tracciare un breve percorso in quella che potremmo classificare come non-musica "narrativa". Un caso di rilievo è Pétrole (Entr'acte, 2009) di Lionel Marchetti e Yôko Higashi, sorta di film senza immagini ambientato in una Chernobyl immaginaria ancora percorsa da radiazioni invisibili. L'atmosfera rimanda all'infinito grigiore dei paesaggi post-industriali devastati di “Perdizione”, dove già si faceva uso di suoni d'ambiente ripetuti e dilatati per restituire l'aria opprimente e mefitica di un'immaginaria periferia del mondo. E anche qui frammenti di musica popolare e moderna attraversano l'area acustica e si mescolano alla musica concreta di Marchetti e Higashi, come fossero l'ultima traccia di una civiltà soggetta a una graduale, inesorabile sparizione. Nei cori lontani e onnipresenti pare risuonare una flebile eco dei nastri di Luigi Nono: spogliati di ogni residuo d'intolleranza proletaria, ne avanza un lamento in sordina, impotente di fronte a una catastrofe già accertata.

teatroassenteTra i risultati più interessanti in questa stessa direzione è particolarmente consigliato l'ascolto di Teatro Assente (Erstwhile, 2011) a opera del binomio Taku Unami/ Takahiro Kawaguchi. No hay banda, citando la grottesca esibizione nel night-club del "Mulholland Drive" lynchiano: l'azione di un ipotetico palcoscenico e di una platea popolata da una sola persona viene resa astratta dalla soppressione dei sensi – escluso ovviamente l'udito. Con l'aiuto di titoli in forma di didascalia siamo invitati a ricostruire le scene quasi immobili di questo spettacolo della mente; non ci è dato sapere da dove provengano questi suoni, possiamo solo avvertirli e immaginare un microcosmo entro il quale, nel loro interagire, acquistino un senso compiuto. Facciamo buio intorno e perdiamoci in questo happening post-dadaista dove ancora una volta siamo noi a riavvolgere, per quanto possibile, la matassa dei significati.

middleoflifeLa narrazione vera e propria sta invece alla base del lungo brano in forma poetica The Middle Of Life (Die Ganze Zeit) (Gravity Wave, 2013) realizzato da Michael Pisaro, Oswald Egger, autore del testo e voce narrante principale, e Julia Holter, giovane promessa “dark” del cantautorato americano. Ispirato nientemeno che dall'incipit della Commedia dantesca – recitato in varie lingue nella prima parte del brano – il racconto si snoda tra pacifici field recording di un corso d'acqua registrati a Neufelden, in Austria, intrecciati ai sottili droni elettronici di Pisaro, all'eco distante di un flauto (Antoine Beuger) e a sezioni d'orchestra fantasma. Solo verso la fine del viaggio gli overdub della celestiale voce di Julia Holter si esprimono in solitaria, come una strofa senza parole, e infine il pianoforte conduce Egger alla chiusura del cerchio.

photographsPhotographs (Erstwhile, 2013), capitolo finale di una trilogia a cura di Graham Lambkin e Jason Lescalleet, offre ciò che il titolo stesso riporta, ma in una forma curiosa e affascinante: fotografie sonore, field recordings filtrati e modulati elettronicamente per dar loro la forma di un ricordo sbiadito, come fosse estratto dai polverosi archivi di Caretaker. Una conversazione per strada, un breve percorso in auto, un canto durante una liturgia, ma anche la quiete delle mura casalinghe: entrare a far parte, per pochi minuti, delle vite degli altri guardandole attraverso un cannocchiale la cui lente oscilla tra la fedele adesione alla realtà e l'astrazione, nel tentativo di descrivere la memoria dei sensi.

rowetilbury15orenough still not to know (Sofa, 2015) è il terzo monolitico sforzo del duo formato da Keith Rowe e John Tilbury, leggendari membri dell'AMM, e segna un nuovo estremo traguardo nell'arte della non-music. È la creazione di uno spazio sonoro che diventa soggetto e oggetto della performance, nel quale i due musicisti si annullano consacrando tre ore e mezza all'arte per l'arte, alla paziente attesa prima di posare le dita su un accordo, o su un foglietto di carta, o su niente. Una mastodontica tela bianca sulla quale la chitarra di Rowe è soltanto un'ombra che ogni tanto passa e lascia un segnetto, mentre Tilbury detta la tonalità pescando col contagocce dal suo repertorio feldmaniano.
La dedizione con la quale il duo si impegna a non significare configura “enough still not to know” come l'atto definitivo di una dichiarazione fatta molto tempo addietro, presumibilmente, da Andy Warhol: se tante persone possono accettare che la vita non abbia senso, perché non fanno lo stesso con l'arte? A ogni altra domanda su questo “oggetto” (non) risponde la performance stessa: una lunghissima frase mai scritta, e perciò incancellabile. Il supporto audio potrebbe così essere l'ultimo baluardo di resistenza della libera espressione artistica, accessibile a tutti coloro che siano semplicemente disposti a prestarvi attenzione.


Molte altre pubblicazioni interessanti compongono i cataloghi di etichette come Erstwhile, Cathnor, Trente Oiseaux e Hibari, punti di riferimento per questo inesauribile filone compositivo, dove l'unica misura sta nel coraggio di spingersi oltre le convenzioni di ciò che viene indicato come “musica”, nel tentativo di esplorare qualcosa di molto più vasto e assoluto: il suono in sé, le forme che può assumere nel plasmarlo e le suggestioni che può provocare nell'accostamento ai più diversi contesti.
Ascolti che possono lasciare perplessi, scatenare diatribe filologiche ma anche affascinare, aprendoci a innumerevoli altre scoperte e, soprattutto, rieducandoci a un ascolto attento, foss'anche una tantum. Dopo svariati decenni di avanguardie, l'auspicio è ancora lo stesso: non di evadere dalla forma musicale, ma di espanderla al di là dei limiti imposti dalle tendenze transitorie, avvicinandosi per tentativi a un concetto “assoluto” di suono, eliminando l'arbitrario discrimine tra ciò che è musica e ciò che non lo è. A voi il piacere di superare questo tabù, una volta per tutte.

Discografia

Discografia consigliata

Bernhard Günter – Un Peu De Neige Salie (1993)
Taku Sugimoto – Opposite (1998)
Toshimaru Nakamura, Tetuzi Akiyama & Taku Sugimoto – The Improvisation Meeting At Bar Aoyama (1999)
Toshimaru Nakamura – No-Input Mixing Board (2000)
AA.VV. – Improvised Music From Japan (Box 10 Cd, 2001)
Keith Rowe & John Tilbury – Duos For Doris (2003)
Nikos Veliotis, Taku Sugimoto, Kazushige Kinoshita, Taku Unami – Quartet (2004)
Antoine Beuger – A Young Person's Guide To Antoine Beuger (2008)
Lionel Marchetti and Yôko Higashi – Pétrole (2009)
Michael Pisaro & Taku Sugimoto – 2 Seconds / B minor / Wave (2010)
Taku Unami / Takahiro Kawaguchi – Teatro Assente (2011)
Cool Quartet with Lina Nyberg featuring Éric La Casa – Dancing In Tomelilla (2012)
Michael Pisaro, Oswald Egger, Julia Holter – The Middle Of Life (Die Ganze Zeit) (2013)
Graham Lambkin / Jason Lescalleet ‎– Photographs (2013)
Keith Rowe / John Tilbury ‎– enough still not to know (2015)

Pietra miliare
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