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Canzoni del dopobomba - L'incubo dell'apocalisse nucleare in 24 brani

“It’s the end of the world as we know it (and I feel fine)”, cantavano i Rem nel 1987, “è la fine del mondo così come lo conosciamo, ma io mi sento bene”. Trentacinque anni dopo, quel senso di precarietà non solo è tornato, ma è anche diventato molto più angosciante. Se negli anni Ottanta si pensava a un’apocalisse nucleare come esito finale ipotetico della Guerra Fredda, oggi il rischio è reso drammaticamente attuale dal conflitto in Ucraina, che vede una potenza atomica minacciare costantemente l’uso di testate nucleari contro il fronte opposto, ovvero non solo Kiev, ma tutto il mondo occidentale. In più, ad accentuare lo scenario distopico da “fine del mondo”, sono stati i due anni della pandemia, con l’esperienza alienante del lockdown e le pesanti restrizioni che ne sono seguite. Senza cercare di cantarci su, ma neanche di cedere al pessimismo cosmico da day after, abbiamo allestito questa playlist “a tema”, in cui l’incubo della “soluzione finale”, nucleare e non, riecheggia con tonalità e sfumature diverse.

 

Si parte allora con la fiaba apocalittica in salsa beat sixties dei Giganti (“La bomba atomica”) per scivolare subito tra le storiche radiazioni elettropop dei Kraftwerk (“Radioactivity”), in un misto di ansia e raggelante ironia (“is in the air for you and me”). Una doppietta per gli Ultravox, che si sono occupati magistralmente del tema, sia in versione con punto esclamativo (la romantica ode foxxiana di “Hiroshima Mon Amour”), sia senza, con l’ultimo ballo prima dell’esplosione atomica di Midge Ure e della sua bella in “Dancing With Tears In My Eyes” (come da video-cult, in cui si corrodono anche i filmini dei ricordi della vita che fu).

 


Ma per l’intera new wave l’apocalisse nucleare è un chiodo fisso, un’ossessione costante. Si prendano ad esempio gli Stranglers alle prese con il loro “Nuclear Device” (dall’epico “The Raven”) o gli Orchestral Manoeuvres In The Dark che intitolarono la loro più celebre hit al nome del Boeing 29 che, guidato da Paul Tibbets e chiamato così per via del nome della madre, sganciò Little Boy su Hiroshima. Synth-pop ad alto tasso di radiazioni nucleari anche per Heaven 17 (l’ironica “Let’s All Make A Bomb”) e Anne Clarke (la suadente “Poem For A Nuclear Romance”), mentre gli U2 al “fuoco indimenticabile” (per l’esattezza, alla mostra fotografica "The Unforgettable Fire" sulle vittime delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki) dedicarono un disco intero, qui rappresentato dalla struggente title track.
Anni di Guerra Fredda, si diceva. E allora ecco espressa da due punti di vista differenti l’angoscia di una escalation: se Sting con “Russians” adotta una chiave passionale (e un po’ retorica) sulle note di Sergei Prokofiev, auspicando che “anche i russi amino i loro figli” e li preservino dal “giocattolo letale di Oppenheimer”, citando anche Krushchev e Reagan, l'idealismo ingenuo di Adrian Borland dei Sound si sublima nel commovente crescendo di “Missiles”, con le tastiere a mimare i sibili degli aerei da guerra e quell’urlo disperato: "Chi diavolo fa questi missili?".

Nello stesso decennio, ci sarà anche chi cercherà di affrontare il tema sdrammatizzando. Come il Donald Fagen scintillante di "The Nightfly" che in “New Frontier” immagina un party in un rifugio atomico, narrando di un adolescente impacciato alle prese con una sventola bionda e del suo tentativo di trascinarla nella sua insolita "tana" (“It's just a dugout that my dad built, in case the Reds decide to push the button down... We've got provisions and lots of beer...”). Oppure gli stessi Rem del succitato scioglilingua “It's The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine)”, cronaca semiseria di un mondo in frantumi attraverso un pastiche ironico di frasi fatte, rime nonsense e allusioni surreali (tra i nomi in libertà, anche Leonid Breznev assieme a Leonard Bernstein e Lenny Bruce). Più drammatica - anche se dissimulata dietro la splendida apertura melodica – la piano ballad di “Breathing” in cui il soprano cristallino di Kate Bush svela l'esito di una guerra nucleare, in cui ciò che resta è solo aria tossica, di radiazioni: chip di plutonio che invadono i polmoni di una madre che cerca di proteggere il feto che cresce dentro di lei.
Ma la fine del mondo può essere una questione di minuti. Quattro, quelli che Roger Waters ricorda in “Four-Minute Warning”, nome del sistema pubblico di allarme attivo in Gran Bretagna tra il 1953 e il 1992 per allertare la popolazione in caso di attacco nucleare sovietico (ma nella sua storia, è il giovane disabile Billy a dare il segnale di lancio a tutte le basi missilistiche del pianeta che si distruggeranno a vicenda, liberando il mondo dall'oppressione militare). Due minuti (a mezzanotte) invece separano il mondo dall'eterna oscurità nel celebre brano degli Iron Maiden, che allude al dispositivo ideato dagli scienziati americani per calcolare il rischio di guerra nucleare sulla Terra (“Two Minutes To Midnight”).

Anche in Italia non sono mancate svariate riflessioni sul tema. Ne abbiamo scelte tre, oltre a quella iniziale dei Giganti: quella degli Area apocalittici di "Brujo" ("stregone" in spagnolo) che dà l'abbrivio a un incubo di desolazione post-nucleare su “Caution Radiation Area”; la folgorante profezia di Franco Battiato ne “L'esodo”, con tanto di premonizione sull'imperialismo russo (“Prima che la terza Rivoluzione industriale/ provochi l'ultima grande esplosione nucleare/ prepariamoci per l'esodo/ il grande esodo/ un esodo/ per noi giovani del futuro/ Fine dell'imperialismo degli invasori russi/e del colonialismo inglese e americano...”); e infine la surreale “Washington” in cui un sardonico Lucio Dalla, in inedite vesti elettropop, narra le vicende post-apocalittiche di due piloti, unici superstiti sulla Terra a seguito di un devastante conflitto mondiale (il primo porta con sé una foto dei figli, mentre il secondo è chiamato "zebra" perché è nero ma ha perso le braccia e gli sono state impiantate quelle di un bianco di nome John!).

 

E se i Cigarettes After Sex piegano persino la loro “Apocalypse” alle consuete cadenze sognanti e narcotiche, gli A Perfect Circle di “So Long, And Thanks For All The Fish” scelgono una citazione cinefila, rievocando “Guida galattica per autostoppisti” di Garth Jennings, in cui i delfini, dopo aver avvertito gli umani che la Terra sta per essere demolita per costruire un’autostrada spaziale, lasciano il pianeta congedandosi con un laconico “Addio, e grazie per tutto il pesce” (singolare invece la teoria della band secondo cui le morti tra 2016 e 2017 di innumerevoli artisti, tra cui David Bowie, Prince, Gene Wilder, Muhammad Ali e Carrie Fisher, sarebbero l'indizio di un’imminente fine del mondo).
Non poteva naturalmente mancare Chernobyl, madre di tutte le catastrofi nucleari, evocata dalla colonna sonora dell'omonima serie Hbo a cura di Hildur Gudnadottir con il sibilo di “Bridge Of Death” che simula il rumore delle radiazioni come l’urlo di disperazione del genere umano impotente.
Prima della Fine, non resta che la fuga, magari con mezzi di fortuna. Ma se Crosby, Stills & Nash nella storica “Wooden Ships” immaginano un drappello di superstiti che si allontanano su una barchetta di legno da un mondo devastato dalla guerra nucleare fra le due superpotenze (Usa e Urss) che si stavano contendendo il Vietnam, i World Party di Karl Wallinger in “Ship Of Fools” rovesciano l'argomento della nave salvifica, ammonendo sull'imminente catastrofe e gridando: "Save me, save me from tomorrow/ I don't want to sail with this ship of fools".

 

Buon ascolto, con la speranza di esorcizzare e non vedere mai (più) tradotti in realtà gli incubi preconizzati in questa playlist, che in omaggio a Philip K. Dick abbiamo voluto intitolare “Canzoni del dopobomba”.



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