Lao Che e dintorni

Musica dalla Polonia, 2010-2015

La scena musicale polacca sembra godere di ottima salute, a dispetto delle vendite ormai piuttosto risicate (quando si superano le trentamila copie il disco è considerato un successo, che si superino le centomila succede ormai una volta l’anno). A compensare il crollo del mercato ci sono tre fattori.
Primo, la diversa distribuzione del calo fra artisti mainstream e artisti underground. I grandi nomi sono stati infatti fortemente colpiti dalla crisi e le vendite non sono ormai che una frazione di quello che sarebbero state anche solo nell’immediato post-2000. I musicisti alternativi invece ne hanno risentito molto meno e continuano a vendere cifre poco distanti da quelle di quindici anni fa.
Questo ha portato a una loro presenza sempre più corposa nelle classifiche di vendita, che occupano ormai con costanza. Non è affatto raro che si giunga al paradosso di vedere artisti poco famosi vendere più di artisti sulla bocca di tutti (categoria ormai occupata il larga parte dai rapper).
Secondo, la capacità rigenerativa del terzo canale della radio nazionale, che trasmette esclusivamente musica alternativa e fa eccezioni per il mainstream solo qualora ritenuto di qualità. Si tratta di un canale storico, un perno della cultura polacca che dai primi anni Ottanta ha assunto il ruolo di baluardo della musica con pretese artistiche e sta affrontando egregiamente l’era di internet e dei social network.
La sua nuova veste interattiva gli ha permesso di continuare a destare l’interesse di quella minoranza dei giovani che non si rispecchiano nell’invasione dell’hip hop.
Per comprendere l’importanza di questa operazione, ponetevi una semplice domanda: riuscirei a immaginare Radio Rai 3 con un pubblico composto anche da adolescenti?
Terzo, il riscontro dal vivo, sempre più notevole. Non a caso la Polonia ospita ormai alcuni fra i migliori e più remunerativi festival di musica alternativa del mondo.

Istruzioni per l’uso

Questa guida è un’introduzione al meglio del pop-rock polacco dal 2010 a oggi. Sono stati esclusi rap (la scena è vastissima e da fuori è davvero difficile farsi un’idea in tempo reale), elettronica sperimentale (droni, ronzii e rumori assortiti, perché di scarso impatto locale e indistinguibili da quelli di qualsiasi altro luogo) e metal (scena che ha un discreto riscontro a livello mondiale e non necessita pertanto di essere svelata).
Di certo si tratta di musica che necessita di più ascolti. Il polacco può suonare ostico se non ci si è abituati, come del resto ogni lingua, ma una volta adattato l’orecchio lo si scopre sorprendentemente musicale, alla bisogna duro quanto il tedesco e morbido quanto il portoghese.
L’intenzione dell’articolo è inoltre di rappresentare un punto di partenza anziché d’arrivo, non si hanno pertanto pretese di enciclopedismo, e a costo di ribadire l’ovvio, si precisa che la selezione è strettamente legata al gusto dell’autore. Ciò ha portato all’esclusione di nomi che probabilmente un polacco tirerebbe fuori fra i primi, ma come si suol dire, nessuno è perfetto.
Si parte dal 2015 e si va indietro. Per adesso sono dieci dischi, ma probabilmente ci sarà una seconda puntata.

Lao Che: “Dzieciom”
(2015)

lao_che_01Guidati dal cantante Hubert Dobaczewski, in arte Spięty, i Lao Che stupiscono il pubblico polacco sin dal 2002, mostrandosi capaci di mantenere la propria personalità pur maneggiando gli stili più differenti. Per l’importanza della proposta e il buon riscontro di pubblico, rappresentano forse la massima entità musicale che la Polonia abbia generato dopo il 2000. Questo nuovo album, giunto inaspettato dopo quel “Soundtrack” che per la prima volta evocava lo spettro della ripetizione, è eclettico persino per i loro standard.
I brani presentano gorghi strumentali capaci di cambiare più volte passo durante la corsa, texture raffinate composte da frammenti di musica lounge che rimpolpano sincopi funk, synth che si muovono a scatti su ritmi jazzati, chitarre rabbiose che affiancano contrabbassi e vibrafoni, fisarmoniche sfiatate che danzano con campionamenti indecifrabili, melodie mediorientali che sottolineano declamazioni teatrali ereditate dalla prestigiosa scuola della poezja śpiewana (poesia cantata), un attimo a un passo dal rap, quello dopo fantasmi di un crooner perso da qualche parte fra la qasba e il ghetto ebraico di Varsavia.
Non soffermatevi sul secondo brano, “Tu”, rock balcanico piuttosto banale e unico punto debole dell’opera, e godete invece delle spigolose progressioni arabeggianti di “Dżin”, delle saturazioni di chitarra e organo nel mutante etno-jazz “Z kamerą wśród zwierząt buszujących w sieci”, dell’andamento carezzevole di “Bajka o Misiu (tom pierwszy)”, delle furibonde chitarre shakerate che spuntano al secondo minuto di “A chciałem o sobie”, e soprattutto del capolavoro synth-funk minimalista “Wojenka”, che trasforma una poesia per bambini di Danuta Wawilow in un sofferto inno anti-guerra.
Nel momento in cui questo articolo va online, “Dzieciom” resiste nella classifica polacca da 36 settimane. Quel che più conta però è che difficilmente ascolterete qualcosa di simile in questo 2015.

Dawid Podsiadło: “Annoyance And Disappointment” (2015)

dawid_podsiadloPodsiadło ha vinto l’edizione polacca di X-Factor nel 2012, diventando il Marco Mengoni polacco. E invece no! È proprio da ciò che si evince lo stato di salute della scena, che permette al vincitore del talent show più seguito di registrare un disco indie-pop conforme ai suoi gusti e alle sue ambizioni, affiancandogli un produttore di grido quale Bogdan Kondrack. Il risultato di quelle sessioni è “Comfort And Happiness” (2013), duecentomila copie vendute, più di ogni altro disco polacco dalla data della sua pubblicazione a oggi. E quando un album ottiene successo senza facili concessioni alle sonorità mainstream, per la musica è sempre una bella notizia.
L’appena uscito “Annoyance And Disappointment” mostra però ancora più personalità. Se l’ascolto del debutto spingeva a formulare diversi paragoni, su cui si sorvolerà per non sminuire il talento in oggetto, a questo giro si ha la sensazione di ascoltare un artista pienamente convinto dei propri mezzi.
Solo tre brani su tredici sono in polacco, un peccato perché quando si esprime nella sua lingua il risultato è sempre entusiasmante. C’è comunque poco da lamentarsi, perché la pronuncia del suo inglese è credibile e le canzoni ci sono, sotto forma di uno squisito pop alternativo, colorato da tastiere d’annata (su tutte l’organo Hammond), strumenti acustici, chitarre elettriche jazzate, saltuari fuzz psichedelici, e soprattutto dalla sua voce smagliante, screziata di soul, per quanto inconfondibilmente bianca.
Dalla mutazione Motown di “W dobrą stronę” alla cavalcata “Son Of Analog”, passando per il finale caotico di “Byrd” e la penetrante malinconia di “Block”, si snoda un disco eccelso.

Fisz Emade Tworzywo: “Mamut” (2014)

fisz_emadeI fratelli Waglewski, in arte Fisz e Emade, lavorano in team sin dal 1999. Sono considerati le due figure più importanti del rap alternativo locale e hanno pubblicato album sia a proprio nome, sia con sigle di vario tipo (Bassisters Orchestra, RHX, Tworzywo Sztuczne). Si tratta di opere caratterizzate da beat piuttosto validi, ma senza comprendere la lingua per il rap è difficile non annoiare.
La collaborazione col padre, Wojciech, figura storica della musica polacca, li ha portati nel 2008 a espandere i propri orizzonti, affrontando tanto il jazz quanto il rock alternativo, tendenza poi ribadita dal progetto garage-rock Kim Nowak.
È però con questo album che i due chiudono il cerchio, ottenendo sia il loro più grande riscontro di pubblico, con 32 settimane di permanenza in classifica, sia la definitiva maturazione artistica. Ci sono ancora un paio di brani rap, entrambi con la partecipazione di Dj Eprom, ma il resto si divide fra contagiosi inni alternative dance e lenti noir con tastiere d'atmosfera, praticamente trip-hop.
Gli arrangiamenti sono ricercati, le linee di synth hanno suoni profondi e evocativi, o cattivi e taglienti a seconda della necessità, il pianoforte gronda nostalgia. In "Wróć" si trovano suoni degni di Jean Michel Jarre, "Karate" sfoggia un eccitante assolo d'organo elettrico, "Wojna" piazza nel gran finale un tappeto d'archi dal sapore tragico, le notturne "Zemsta" e "Ślady" sembrano uscite dal giradischi di Nujabes, mentre "Pył" e "Zwiedzam świat" sono bombe da dancefloor.
Alla sensuale voce di Fisz si affiancano qua e là quelle di Justyna Święs e Kasia Nosowska, mentre Emade produce con la sua proverbiale maniacalità (anche nell’album dei Lao Che preso in esame poco sopra è lui a dirigere i lavori).

Happysad: “Jakby nie było jutra” (2014)

happysadPoveri Happysad. Provenienti da Skarżysko-Kamienna, piccola città nel sud est del paese, guidati dal cantante Kuba Kawalec e con ormai undici anni di carriera alle spalle, sono forse l’entità più odiata in assoluto dall’ascoltatore indie polacco. Anzitutto, sono enormemente famosi pur sfruttando sonorità simili a una moltitudine di altre band rimaste underground, e peggio ancora, i loro testi sono interamente improntati sull’analisi dei problemi dell’adolescenza. Un peccato può essere perdonato, ma su due e di tale entità non si può davvero passar sopra.
Poi ci sarebbe la musica, che è sempre stata dignitosa e negli ultimi due album s’è fatta ambiziosa e piena di colori. A quanto sembra ciò non conta per il pubblico polacco che si presume più colto, conta però per il sottoscritto, che li inserisce in lista senza batter ciglio.
“Jakby nie było jutra” è il loro sesto album, il terzo al numero 1 in classifica, e contiene una manciata di grandi canzoni. Si prosegue il discorso iniziato da “Ciepło/Zimno”, uscito due anni prima, che vedeva il loro indie-rock inizialmente un po’ piattino aprirsi a ingerenze elettroniche e lambire in alcuni tratti emo e noise-rock. Il nuovo bersaglio è una formula space-rock di facile presa, che evochi scenari futuristici senza smarrire il potenziale commerciale.
Il punk-funk ruffiano di “Tańczmy” è forse fuori luogo, ma i restanti brani fanno centro pieno, dal viaggio cosmico dello splendido singolo “Smutni ludzie” al basso galoppante dell’estatica “Ten dzień”, passando per la folktronica cibernetica di “Ciała detale” e le frenetiche distorsioni di “Mbtv”.

Tomek Makowiecki: “Moizm” (2013)

tomasz_makowieckiQuinto album in carriera per Makowiecki, secondo come solista, ha ottenuto ottime recensioni e un’incoraggiante risonanza nel sottobosco locale.
Come Podsiadło, anche Makowiecki venne fuori grazie a un talent show, uno dei primi importati in Polonia, nel lontano 2002. In Italia sarebbe rimasto senza contratto già anni fa, oppure sarebbe riuscito a imporsi a suon di musica sterilizzata, a uso e consumo della famigerata casalinga di Voghera. In Polonia invece dopo oltre un decennio ha ancora la possibilità di pubblicare un album come questo, senza concessioni al mainstream e con una produzione di livello assoluto, nonostante non abbia finora mai riscosso rilevanti successi di vendita.
Quello che colpisce è il gusto mostrato dalle dieci canzoni, quattro delle quali in inglese, capaci di muoversi fra ritmi danzabili e pop-ambient al velluto. Un David Sylvian ancora interessato alla melodia di facile presa avrebbe potuto pubblicare qualcosa di simile, provate lenti come “Ostatni brzeg” e “Your Foreign Books” per credere.
Due i capolavori che spingono questo album verso la grazia, benché a parte l’eleganza non sembrino avere molto in comune. Uno è la bomboniera alternative dance “Holidays In Rome”, l’altro è “Dziecko księżyca”, dieci minuti di luce intensa con tastiere che si ammassano creando un infinito gioco di onde, rifrazioni e ruscelli melodici, mentre la voce di Makowiecki sorvola il paesaggio con la delicatezza di un angelo. Per creare un simile diamante, il ragazzo s’è appoggiato a due leggende della musica polacca: Józef Skrzek, già tastierista e leader del trio prog SBB, e il compositore di colonne sonore Daniel Bloom.

Ania Rusowicz: “Genesis” (2013)

ania_rusowiczFiglia d’arte, Ania non ha problemi a inserirsi nel mondo della musica, prima come membro del mediocre gruppo pop Dezire, con cui partecipa all’Eurovision, e poi come solista. È in questa veste che mette in pratica i suoi disegni, pubblicando “Mój Big-Bit”, album di debutto gradevole ma prescindibile, in cui rilegge diversi brani del repertorio di sua madre, Ada Rusowicz, e quindi “Genesis”, opera della maturità con l’aiuto del solito Emade, che siede in sala di controllo.
La voce di Ania è al contempo statuaria e suadente, ha la gravità di antiche dive come Anna German e Dalida, ma a differenza loro canta su basi rock e sa aggredire qualora sia richiesto, come nel garage rock “To nie ja”, tutto fuzz e ritmi serrati.
I dodici brani in scaletta sono dedicati a una psichedelia che, non fosse per la produzione hi-tech di Emade, si direbbe vecchio stile, fra chitarre surf, organo Farfisa, interventi orchestrali, parentesi morriconiane, profumi orientali e bizzarrie ritmiche.
Il menù comprende il solenne esotismo di “Nie uciekaj”, le reiterazioni di “Mantra”, i cambiamenti improvvisi di “Polne kwiaty”. Un album che avrebbe forse meritato un riscontro superiore a quel modesto numero 30 in classifica, ma non sempre le cose vanno per meglio, neanche in una scena tanto stimolante.

Afro Kolektyw: “Piosenki po polsku” (2012)

afro_kolektywFisz e Emade non sono gli unici partiti dal rap e in seguito approdati alle sonorità della musica alternativa.
Gli Afro Kolektyw nascono a Varsavia sul finire degli anni Novanta e si distinguono da subito per l’elevato tasso tecnico. Le basi strumentali sono interamente suonate dai membri della band, senza l’ausilio di giradischi o campionatori. Prevedibile pertanto che dopo qualche album il rap non sarebbe più bastato.
La svolta arriva con questo quinto lavoro, gentile raccolta di indie-pop jazzato. “Niemęskie granie” è tinta da chitarre jangle, ghirigori pianistici e un sottile strato di Mellotron (o almeno, ci somiglia), “Wiążę sobie krawat” sembra una canzone dei Phoenix con un coro di bambini, “Człowiek guma” contiene due minuti di voce filtrata e squisite chitarre acustiche, “Krótki film o kaszlu” è una sorprendente ballata per pianoforte balbuziente, “Żałosny wieczór z czarnoksiężnikiem” un rilassato funk con sonorità da cocktail bar, “Nasza doskonałość” più o meno lo stesso, ma a velocità raddoppiata. Si tratta di un vero zibaldone di musica intelligente e ricercata, denso di elettronica analogica e calde sonorità fusion.
Quanto al frontman, Michał “Afrojax” Hoffmann, se sulle sue capacità di rapper non c’erano dubbi, qui si svela anche valido cantante, dal timbro sgraziato ma intenso.
A oggi rimane l’unico album della band a essere entrato nella classifica polacca.

Niechęć: “Śmierć w miękkim futerku” (2012)

niechecLa scena jazz polacca è da circa mezzo secolo fra le più ricche del mondo e le uscite di valore non sono mancate neanche negli ultimi tempi. Valga per tutte il debutto dei Niechęć, quintetto di Varsavia che attraversa in nove strumentali i diversi stati d’animo del jazz contemporaneo, delineandone una veste melodica di relativamente facile approccio, che sposa la precisione della fusion e la ruvidezza del rock alternativo, i paesaggi della fantascienza e le pulsazioni sghembe del prog, la catalessi del post-rock e l’imponenza di una colonna sonora.
Il disegno è ben calibrato e mette al primo posto l’immediatezza dei brani, a suon di delicati schizzi di pianoforte, riflessi di chitarre, barriti di sax, manti di tastiere, misteriosi movimenti di contrabbasso e improvvise cascate percussive.
Si tratta di un titolo ormai di culto fra gli appassionati, per quanto le vendite siano state irrisorie e il progetto riesca a sopravvivere solo grazie ai concerti dal vivo e al sostegno della radio nazionale, per cui ha suonato diverse volte.
A capo della formazione il bassista Stefan Nowakowski e il sassofonista Maciek Zwierzchowski, che firmano otto dei brani presenti.

Maria Peszek: “Jezus Maria Peszek” (2012)

maria_peszekNata a Breslavia nel 1973, Maria Peszek è un personaggio estremamente controverso, a partire dal suo look lesbo che non attira certo le simpatie di un paese che – tolti quei pochi, pur ribollenti centri culturali – non è fra i più aperti di vedute (a ripensarci però, noi italiani sull’argomento dovremmo solo stare zitti). Attrice teatrale e televisiva, scrittrice, autrice di giochi, cantante e chi più ne ha più ne metta, giunge al vertice creativo con questo terzo album, notevole successo di vendite con le sue quattro settimane al numero 1, nonostante fra i media solo il terzo canale della radio nazionale gli abbia riservato spazio.
Il motivo è presto detto, considerando testi che, oltre a mettere a nudo le fragilità dell’artista descrivendo i collassi nervosi di qualche anno prima, si scagliano contro il cattolicesimo e il patriottismo. Un atteggiamento inaccettabile da quelle parti e che spiega bene la polarizzazione del pubblico nei suoi confronti. Difficilmente un polacco esprimerà un’opinione calibrata sulla Peszek, o la si ama o la si odia.
Certo la prima opzione sarebbe preferibile, vista la qualità delle canzoni, dominate da synth brulicanti, programmazioni ossessive, possenti tamburi e bassi distorti. Si va da feroci inni di punk elettronico come “Sorry Polsko” e “Wyścigówka”, a crescendo drammatici come “Ludzie psy” e “Pan nie jest moim pasterzem”.

Strachy na Lachy: “Dodekafonia” (2010)

strachy_na_lachyDetestati quasi quanto gli Happysad dagli ascoltatori più ricercati, ne condividono parte delle caratteristiche: testi-slogan per far presa sul pubblico giovanile e una notevole popolarità raggiunta con suoni pienamente rientranti nell’universo alternativo.
A fondarli furono nel 2002 il cantante Krzysztof Grabowski e il chitarrista Andrzej Kozakiewicz, entrambi già membri dei Pidżama Porno. L’idea era quella di un progetto collaterale, ma il grande successo riscosso a partire dal 2005 li ha spinti a mettere gradualmente da parte la band madre, con cui hanno praticamente smesso di pubblicare album.
“Dodekafonia” è la quinta uscita a nome Strachy na Lachy, il primo numero 1 della carriera e a oggi il loro prodotto più compiuto a livello musicale. La patinata componente reggae che caratterizzava i primi lavori è stata epurata, tanto che qui il brano più vicino a certi territori è una vignetta noir come “Ten wiatrak ta łąka”. Anche l’elemento folk, da sempre loro marchio di fabbrica, è stato raffinato, evitando facili cori da osteria e puntando semmai su ballate soffuse come “Cafe sztok”. Si è invece dato spazio alle chitarre, di stampo Franz Ferdinand, e all’elettronica, di ricamo ma decisiva nel conferire dinamismo ai brani. Ne risultano singoli vincenti come “Ostatki - nie widzisz stawki” e “Twoje oczy lubią mnie”.

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