Psych-pop Uk anni 60

Dall'Ufo club alla Swinging London

Intro

Non è sempre semplice risalire all’origine (geografica e non solo) di un genere musicale: se si può affermare senza alcun dubbio che il rock’n’roll sia un fenomeno nato negli Usa e con minor certezza ma relativa sicurezza lo stesso si può dire del punk, grazie al tempismo dei Ramones sui colleghi inglesi (senza dimenticare il proto-punk di Stooges e New York Dolls), per quanto riguarda la psichedelia le cose si fanno più complicate. Fin dagli inizi dei Sixties le influenze reciproche tra le due sponde dell’Atlantico sono state complesse e colme di rimandi da ambo le parti, tanto che il beat inglese dei Beatles prendeva inizialmente l’abbrivio dal rock degli anni 50 mescolato alle armonie degli Everly Brothers e ai ganci melodici dei girl group, tutti elementi americani rielaborati attraverso la lente armonica della tradizione europea in uno stile comunque freschissimo e innovativo, mentre gli stessi Rolling Stones affondavano nelle radici del blues (e rhythm’n’blues) di marca Usa riuscendo comunque a connotarlo in una nuova versione personale e l’orgoglio British veniva raffigurato dall’iconica union jack, vessillo sfoggiato spesso dagli Who.

Nel 1964 le band nominate (a cui aggiungeremmo almeno i Kinks) e decine d’altre vennero esportate negli Stati Uniti con il fenomeno della cosiddetta British invasion che influenzò importanti gruppi più (Byrds) o meno (Beau Brummels) conosciuti e diede inoltre origine al genere garage-rock con migliaia di ragazzi americani (all’epoca si stima oltre il 60 percento dei teenager!) pronti a emulare le gesta dei gruppi British beat appunto nei garage di casa, irrobustendone e sporcandone la formula in una miscela eccitante, grezza e aggressiva, con l’uso di suoni distorti (in particolare il pedale fuzz) proto-lo-fi e un approccio approssimativo proto-punk all’interno di un fenomeno di massa (almeno a livello numerico) e al contempo underground con rade emersioni in ambito dei 45 giri, molti dei quali raccolti in leggendarie antologie postume come “Nuggets”. E proprio il garage-rock con tutte le differenze del caso è stato spesso accostato alla psichedelia tanto che il connubio garage-psych ha segnato la storia del rock, dagli Electric Prunes fino a Ty Segall e non è un caso che il termine “psychedelic” venne usato tra le primissime volte nel titolo di un album da una band d’indole garage come i Blues Magoos in “Psychedelic Lollypop” nel 1966.

È proprio a partire dall’inizio del secondo lustro dei Sixties che i tempi iniziarono a cambiare, in modo ancor più accelerato (il sempre lungimirante Dylan l’aveva intuito con almeno un paio  d’anni d’anticipo): orde di giovani infiammati dalla letteratura beat e dall’uso delle sostanze psicotrope  si opponevano a una realtà oppressiva nella quale non si riconoscevano, cercando di cambiarla con atti di disobbedienza civile e proteste più o meno violente che deflagrarono nei tumulti del ’68, creando ambiti sociali alternativi con le comuni hippie oppure semplicemente rifugiandosi in mondi immaginari con l’utilizzo delle droghe leggere e dell’Lsd in voga all’epoca, stupefacenti che andavano a sostituire le anfetamine assunte dai mod per ballare durante i weekend nei club o gli stimolanti di cui abusavano artisti celebri (come ad esempio Johnny Cash) per resistere a tour massacranti. Le droghe allucinogene ebbero un ruolo non marginale per la psichedelia in quanto utilizzate proprio per “svelare la coscienza” (questa l’etimologia del termine) e per espanderla sviluppando la creatività in ambito artistico, insieme all’approfondimento delle filosofie orientali e delle tecniche meditative per la crescita spirituale e interiore.
Tali fermenti socio-culturali non tardarono a tracimare nell’ambito musicale alterandone il linguaggio e primi germogli del pop e del rock psichedelico sbocciarono nel 1966: negli Stati Uniti con i Byrds che volavano alti otto miglia su “5th Dimension”, con l’esordio dei Jefferson Airplane e soprattutto con “The Psychedelic Sounds of the 13th Floor Elevators”, in cui la band di Roky Erickson alternava sventagliate garage a brani visionari e allucinogeni, mentre in Gran Bretagna il germe psych attecchì tanto in contesti underground con il fenomeno freakbeat (un’evoluzione acida e barocca del beat originario) tipico di band non troppo conosciute tra cui i Creation, quanto in quello dei più grandi e celebri gruppi, su tutti i Beatles dell’Lp “Revolver”, che conteneva l’avanguardistica “Tomorrow Never Knows” (oltre che altri pezzi lisergici firmati John Lennon), sempre in ambito beat gli Who di “Sell Out”, in ambito folk il Donovan di “Sunshine Superman” e in quello blues i Cream di “Fresh Cream”.
Dunque il (pop-) rock psichedelico inglese e quello americano nacquero nello stesso periodo ma fin dall’inizio assumeranno forme stilistiche differenti che divergeranno ulteriormente nel loro sviluppo successivo.

Il momento dell’affermazione definitiva del fenomeno avvenne nell’anno di grazia 1967, data centrale della storia del rock nella quale, per limitarci agli Stati Uniti, esordirono Jimi Hendrix, Doors, Velvet Underground e (con minor impatto) i Grateful Dead, mentre i Jefferson Airplane pubblicavano “Surrealistic Pillow” e “After Bathing At Baxter's”, due tra i loro migliori album. Se per i primi tre seminali nomi citati andrebbe fatto un discorso a parte in virtù di uno stile personale e comunque per motivi diversi (tra cui la morte di alcuni dei protagonisti) esaurirono più precocemente la loro arte, furono gli ultimi due gruppi nominati, entrambi attivi nel polo di San Francisco (insieme ai Quicksilver Messenger Service), a portare avanti la fiaccola psichedelica, i Jefferson Airplane con derive politiche rivoluzionarie e i Grateful Dead dilatando la formula sonora con fluviali improvvisazioni e jam session che sonorizzava i loro trip confluendo nel cosiddetto acid rock. Era musica figlia del proprio tempo, nei contenuti sovversivi acuiti da un contesto dilaniato dalle morte dei due Kennedy e dalla guerra in Vietnam che diventava di anno in anno sempre più inaccettabile, figlia dei grandi spazi americani attraverso cui fluivano le infinite note delle suite più estese, figlie della storia di uno stato rivolto fin dagli albori verso la conquista di nuove distanze e della libertà, ideale spesso tradito dietro un’ipocrita facciata.

Swinging LondonDiscorso completamente diverso in Inghilterra dove la psichedelia si affermò in un contesto borghese privo di impegno socio-politico, nella società benestante della modaiola Swinging London e negli ambienti intellettuali degli studenti d’arte attraverso uno stile musicale che non si discostava troppo dalla forma canzone cercando di ravvivare e modernizzare la radice beat, almeno in gran parte dei casi. Da ciò non bisogna desumere un maggior valore da attribuire alla versione americana del genere, dato che l’impegno politico non è necessariamente sintomo di maggior rilevanza artistica; del resto, nel Regno Unito la sperimentazione musicale era ugualmente presente, anche se si esprimeva non tanto nella dilatazione dei tempi quanto prevalentemente in una ricerca espressa tramite le manipolazioni effettuate in studio di registrazione, l’uso di strumenti esotici, effetti chitarristici, arrangiamenti barocchi e la deformazione delle melodie del pop più tradizionale, con liriche surreali e argute che andavano oltre la realtà ordinaria, figlie della paradossale vena nonsense di Lewis Carroll e dell’inventiva dei primi romanzi di fantascienza.
Anche in Inghilterra è il 1967 l’anno chiave del genere con l’esplosione definitiva del fenomeno avvenuta durante la summer of love grazie all’uscita di “Stg. Pepper’s Lonley Hearts Club Band” dei Beatles (1° giugno) e “The Piper At The Gates Of Dawn”, l’album d’esordio dei Pink Floyd (5 agosto) registrati entrambi nelle stesse settimane negli Abbey Road Studio della Emi con le due band a spiarsi e influenzarsi reciprocamente. Se “Stg. Pepper's” fu un vero e proprio evento culturale, disco dell’ennesima consacrazione dei Fab Four, prodotto psichedelico ma fondamentalmente pop per quanto avveniristico, frutto del grande lavoro in studio del “quinto Beatle”, ovvero il produttore George Martin, oltre che dell’estro di una band in stato di grazia e ai massimi livelli di creatività, l’esordio della band capitanata da Syd Barrett, dopo i primi singoli squisitamente psych-pop, iniziava a esplorare zone sconosciute attraverso derive interstellari e sperimentazioni sonore ancor più ardite che ne facevano un altro caposaldo della psichedelia britannica, a comporre la trilogia maggiore del genere targato Uk con la psych-operaS.F. Sorrow” dei Pretty Things uscita però l’anno successivo.

Il capolavoro dei Beatles consacrò il  fenomeno psichedelico a livelli di massa, buona parte della quale all’oscuro, almeno all’epoca, dei riferimenti lisergici (l’acronimo Lsd, allusione pur smentita dagli autori in “Lucy In The Sky With Diamonds”) e spirituali - esoterici con una copertina che inseriva tra i vari personaggi figure di spicco della mistica orientale come Yogananda e al contempo l’oscuro occultista Aleister Crowley, ma al di là dei contenuti più o meno velati, attraverso uno stile creativo e fruibile fece da traino per altre band importanti all’epoca distanti dal mondo psichedelico come i Rolling Stones, in parte nel sottovalutato “Between The Buttons” (tra gli album preferiti da Syd Barrett all’epoca) e soprattutto nel confuso “Their Satanic Majesties Request”, il loro anti-“Stg.Pepper's”, o gli Animals nell’ottima celebrazione della scena titolata “Winds Of Change” (a nome Eric Burdon And The Animals).
Nel frattempo a Londra parallelamente nasceva una scena underground sostenuta da storiche riviste come International Times e mitici locali come l’Ufo Club (situato in Tottenham Court Road), scena guidata dagli esordienti Pink Floyd, all’epoca lontani dal ruolo di istituzione del rock che avrebbero ricoperto in seguito, insieme a band come i primi Soft Machine e i meno conosciuti Tomorrow a rappresentare un’alternativa acida e carbonara alla più patinata Swinging London, con un seguito di giovani abbigliati in modo stravagante a presenziare alterati dalle droghe psichedeliche a happening acidi e concerti memorabili che vedevano tra gli spettatori celebrità come Paul McCartney e Brian Jones. In realtà, questa scena sotterranea a livello discografico rappresentò la punta dell’iceberg di un sottobosco alternativo che diede vita a un florilegio di produzioni di ampiezza inusitata, raramente intercettate dal pubblico e spesso riesumate da pubblicazioni postume.

È proprio da questo ambito sommerso che abbiamo prevalentemente pescato per questa lista (ovviamente non esaustiva) dei dieci tra i migliori album ascrivibili al genere pop psichedelico inglese (più o meno underground) degli anni 60, tralasciando la psichedelia ad ampio raggio dell’esordio dei Pink Floyd e quella patafisica dei primi due lavori dei Soft Machine, mantenendoci all’interno del perimetro pop legato alla forma canzone, dove la scrittura e l’elaborazione di quest’ultima ha raggiunto livelli di creatività e fantasia ormai lontana dai semplici motivetti Mersybeat grazie a nuove sonorità e arrangiamenti, trucchi da studio e manipolazioni visionarie e avveniristiche, tali da  fondare un vero e proprio (sotto)genere che ebbe massimo fulgore nella seconda metà degli anni 60 per poi spegnersi a fine decennio per venir spazzato via da hard-rock, progressive e glam.
Per rimanere in un ambito “sotterraneo” sono stati esclusi dalla lista  i vari album citati in questa introduzione in quanto prodotti da band molto conosciute (uniche eccezioni gli Hollies, meno seguiti in Italia che in patria, e gli “insospettabili” Bee Gees) comunque ampiamente trattati in altri contesti per lasciare spazio a gruppi misconosciuti, spesso fuori anche dall’ambito della controcultura e del giro Ufo Club (tranne i Tomorrow), che ebbero carriere brevi e sfortunate con all’attivo uno o due dischi, nonostante la qualità della proposta che li rende non solo materiale per collezionisti e completisti ma tesori perduti da riscoprire per gli amanti di queste sonorità che nacquero in quei frangenti e in essi brillarono di massimo fulgore, pur lasciando tracce successivamente, tanto nel recupero neopsichedelico del Paisley Underground (soprattutto Rain Parade e Plasticland) degli anni 80, quanto in quello di artisti contemporanei come i primi Tame Impala, i britannici Temples o i più recenti e sottovalutati Electric Looking Glass o The Striped Bananas (e molti altri, un elenco completo sarebbe chilometrico).

Abbiamo infine aggiunto come addendum una raccolta dei primi singoli dei Pink Floyd, non inseriti negli album ufficiali, che rappresentano al pari della produzione coeva dei Beatles lo zenit del pop psichedelico, genere durato poco più di un paio di stagioni ma che con il suo fascino surreale e raffinato si è guadagnato una porzione di eternità nella storia della musica pop e rock.

1967

Blossom Toes - “We Are Ever So Clean”

Blossom Toes - We Are Ever So CleanPrecedentemente dediti al beat con il nome The Ingoes, i Blossom Toes vennero convertiti al verbo psichedelico sotto l’egida di una vecchia volpe come Giorgio Gomelski, già produttore degli Yardbirds, e con il loro debutto “We Are Ever So Clean” diedero vita a un’opera che ha poco da invidiare a lavori contemporanei ultra-celebrati come “Stg. Pepper’s”, grazie a una qualità e una completezza nel mediare da lato un taglio lisergico, evidente fin dall’iniziale “Look At Me I’m You” tra chitarre effettate, suoni in reverse, melodie acide e coretti stranianti, in un sound perfetto per descrivere la perdita dell’identità indotta dalle droghe allucinogene, dall’altro un’eleganza negli arrangiamenti barocchi culminanti nelle note di clavicembalo, archi e trombone che esaltano il crescendo melodico di “People Of The Royal Parks”, da fare invidia perfino a titolari di un canzoniere prestigioso come Ray Davies.
Le due componenti si compenetrano in un album pervaso da classe sopraffina, tra le vignette alla Kinks deformate da armonie alterate (“Telegram Tuesday”) la cui ironia sfocia perfino in derive demenziali alla Bonzo Band (“The Remarkable Saga Of The Frozen Dog”) pur senza disdegnare ballad più canoniche dal gusto classicheggiante (“Love Is” e “What’s It For”) con orchestrazioni degne di Burt Bacharach. Nella traccia finale “Track For Speedy Freaks” vengono ri-assemblati come in uno specchio deformante frammenti delle canzoni dell’album che rimane uno dei più riusciti capolavori del genere.

Kaleidoscope - “Tangerine Dream”

Kaleidoscope - Tangerine DreamUna delle poche band in grado di competere con i Blossom Toes sono i londinesi Kaleidoscope (da non confondere con gli omonimi e contemporanei Kaleidoscope americani), meno ironici ed eccentrici dei primi ma altrettanto capaci al livello compositivo da raggiungere i vertici del pop psichedelico inglese grazie all’esordio “Tangerine Dream”, uscito con qualche mese di ritardo rispetto alla Summer of love (novembre 1967), uno dei frutti pregiati del pop underground dell’epoca, non a torto apprezzato tra gli altri da un certo Paul McCartney. A livello melodico siamo all’apice del genere, grazie alla ventata di freschezza e purezza che sgorga sin dal brano iniziale che porta il nome del gruppo, con un intreccio tra piano cristallino, acustiche dolci e armonie vocali floreali, poi si alternano carezze di rara delicatezza folk accomunabili al contemporaneo Donovan (“Please Excuse My Face”), carillon fatati che spargono petali variopinti su quelli dei Velvet Underground più dolci (“Dear Nelly) jingle jangle byrdsiani che sfociano nei sogni in tecnicolor dei primi Pink Floyd (“In The Room Of Percussion”), e si sfiora perfino il freakbeat nella più movimentata “Holydaymaker”. Capolavoro nel capolavoro, si staglia nel finale lo struggente singalong “The Sky Children”, uno dei più grandi prodotti dell’utopia hippie, contraltare idilliaco dell’inquietante “White Rabbit” (Jefferson Airplane), scevra del retroterra politico che infiammava i brani analoghi delle band al di là dell’Atlantico, e per questo ancor più sognante e pura.

Creation - “We Are Paintermen”

Creation - We Are PaintermenQualcuno penserà che i Creation siano passati alla storia per il particolare fatto che il loro chitarrista Eddie Phillips suonasse la chitarra con l’ausilio dell’archetto anni prima di Jimmy Page: niente di più riduttivo, visto che il gruppo in questione rimane tra i primi e più significativi esponenti del genere freakbeat (fusione di beat, garage e rock psichedelico) se non della psichedelia inglese tutta, anticipata dai loro primi singoli d’annata 1966. Pur possedendo uno stile più ruvido della media, tanto da avvicinarsi a band come Who e Troggs (piuttosto che ai più morbidi Beatles psichedelici) per via di sonorità distorte e influssi mod intuibili nell’iconico 45 giri in “Making Time”, rientrano in questa lista grazie a un gusto melodico sublimato nel ritornello acido del secondo singolo “Painterman”, oltre che in altri irresistibili pezzi (“Can I Join Your Band”, “Nightmare” dotata di coretti ultra-pop) del loro unico Lp “We Are Paintermen” all’interno del quale perfino le cover version di “Hey Joe” e “Like A Rolling Stone” passano in secondo piano rispetto alla freschezza degli originali. Il taglio lisergico, invece, si sublima nell’acida “Though My Eeys” e sarà acuito nei loro live con l’utilizzo di light show sulla scia dei primi Pink Floyd.
Come i Beatles transitarono in Germania, ma con un destino alquanto diverso: qui registrarono per problemi con la casa discografica il loro unico album (raggiunsero anche la top ten tedesca con il già citato singolo “Painter Man”!) e invece di conquistare il mondo, ebbero problemi a emergere anche nella perfida Albione per poi sfaldarsi nonostante il loro indubbio valore, lasciando l’amaro in bocca in una carriera artistica e commerciale a dir poco sfortunata.

Bee Gees - “Bee Gees First”

Bee Gees - Bee Gees FirstProprio quei Bee Gees: forse non tutti sanno che la band dei fratelli Gibbs dieci anni esatti prima di far ballare il mondo intero con i pezzi della soundtrack di “Saturday Night Fever” esordivano con un album quasi omonimo (“Bee Gees First”) all’interno del quale pasteggiavano con delizie armoniche arricchite da arrangiamenti lussureggianti degni dei contemporanei Beach Boys o degli Zombies, gravitando in un mondo baroque-pop che al di là di instant-classic come “To Love Somebody”, che con la psichedelia avevano comunque poco a che vedere, non disdegnava derive acide grazie a revolverate del calibro di “In My Own Time” (chiaramente sul modello della “Taxman” dei Beatles) e “I Close My Eyes”, o a melodie insolite arricchite da archi ariosi (“Cucumber Castle”), mentre l’ancor più visionaria “Every Christian Lion Hearted Man Will Show You” segna il vertice lisergico. Se i due album successivi mantengono qualche tratto di questo esordio, ma vertendo su un più canonico classic pop, la svolta disco-music che li ha caratterizzati e fatti conoscere al grande pubblico potrebbe dare l’impressione di ascoltare praticamente un altro gruppo.

Hollies - “Butterfly”

Hollies - ButterflyGli Hollies ebbero una carriera parallela a quella dei Beatles: esordirono nel 1963, appena un anno dopo dei Fab Four, partendo da canzonette Merseybeat pur dotate di melodie irresistibili per poi evolversi in chiave psichedelica nel biennio ’66-’67; non bisogna però considerarli meri emulatori, semmai coprotagonisti di una scena formidabile con tanto di consenso di critica e ottimi risultati di vendite. Per la band di Manchester l’infatuazione per la psichedelia fu opera soprattutto del leader Graham Nash ed esplose, coniugata a un innato gusto pop, in “Butterfly” fin dall’iniziale “Dear Eloise”, con tracce del surrealismo di “Lucy In The Sky With Diamons” e nell’idillio fiabesco alla Donovan di “Pegasus” ma anche nella ricerca di strade alternative con esotiche suggestioni raga (“Maker”) o addirittura nella sperimentazione con manipolazioni elettroniche, materiale già visionario a livello melodico (“Try”, probabilmente un invito a ben altro tipo di sperimentazioni). Nonostante i buoni risultati artistici dell’album (non accompagnati però dal successo commerciale) Nash, in rotta con il resto della band che voleva abbandonare le velleità psichedeliche, decide di lasciare gli Hollies, partire per gli Usa dove formerà il noto supergruppo in compagnia di David Crosby e Stephen Stills (e poi Neil Young).

1968

Nirvana - “All Of Us”

Nirvana - All Of UsOvviamente non quei Nirvana, ma sarebbe arduo confondersi (come potrebbe capitare invece riguardo ai contemporanei Kaleidoscope Uk e Usa): troppo netta la differenza tra la Seattle degli anni 90, dominata da suoni distorti e camicie di flanella, rispetto alla Swinging London di trent’anni prima, decisamente più elegante nei suoni e nell’estetica da dandy raffinati. Fu proprio Londra la sede dell’incontro tra l’irlandese Patrick Campbell-Lyons e l’inglese d’adozione ma greco d’origine Alex Spyropoulos, nucleo centrale dei Nirvana (U.K.) giunti all’esordio nell’estate del 1967 con “The Story Of Simon Simopath”, uno dei primi concept-album in assoluto usciti in Gran Bretagna, che narrava una immaginifica storia di formazione ambientata in un universo parallelo dotato di una città a sei dimensioni dalla quale il protagonista voleva scappare, imparando a volare verso lidi migliori: storie che possono essere partorite quando l’utilizzo di sostanze psicotrope e la fantasia a briglia sciolta vanno in rotta di collisione nel genere sci-fi; d’altronde, erano gli anni della stagione d’oro della letteratura di fantascienza grazie ad autori come Robert Sheckley e Philip K. Dick.
Se il concept surreale riconduceva il gruppo alla nascente psichedelia, il sound opulento e barocco rimandava piuttosto a un pop orchestrale (fin troppo?) elegante. L’ispirazione artistica dei Nirvana trovò compimento con il successivo “All Of Us” che aumentava le ambizioni del debutto ampliando le suggestioni baroque-pop stile primi Bee Gees con un gusto proto-prog sinfonico alla Procol Harum, la cui “A Whiter Shade Of Pale” non lasciò certo indifferente la band che si cimentava perfino in strumentali cinematici di gusto morriconiano (“The Show Must Go On”). A ricondurre i Nirvana in ambito psych-pop sono brani degni dei Blossom Toes come “Girl In The Park”, “Miami Masquerade”, “Frankie The Great” e “Everybody Loves The Clown”, zuccherini appena bagnati da una stilla di Lsd, quel tanto che basta alla creazione e deformazione di armonie insolite e acidule, senza dimenticare il phaser chitarristico dell’iniziale “Rainbow Chaser”, unico successo a 45 giri di una band ingiustamente dimenticata.

Tomorrow - “Tomorrow”

Tomorrow - TomorrowParlare dei Tomorrow significa riferirsi ai massimi livelli della psichedelia inglese underground (e non solo) degli anni 60. La band frequentava il “giro giusto” dell’Ufo Club, esibendosi accanto ai primi Pink Floyd tra gli altri, e il suo act era tra i principali in cartello. Suonano apparentemente più rock della media, in virtù della presenza in formazione del chitarrista Steve Howe, prima della fase prog con gli Yes, oltre che dei primi singoli “My White Bycicle” e “Revolution”, infiammati dall’elettrica del neo-guitar hero di formazione hendrixiana grazie all’uso massiccio di wah-wah, flanger, distorsori ed effettistica varia. In realtà, nell’unico album omonimo i Tomorrow si misuravano anche col pop più sopraffino, le cui ascendenze sono tradite dalla cover elettrificata di “Strawberry Fields Forever”. Grazie al gusto melodico del cantante e compositore Keith West, coadiuvato dal produttore Marc Wirtz per gli arrangiamenti, l’album è disseminato di preziose pepite in forma di vaudeville a tinte pastello (“Shy Boy” “Auntie Mary’s Dress Shop”), impreziosite da un piano visionario, alternati a confetti acidi degni dei coevi Pretty Things di “S.F. Sorrow” (“The Incredible Journey Of Timothy Chase”).
A rendere unico e completo l’album sono le tracce visionarie della west coast di “Hallucination” e una vena politica, per quanto generica e ingenua, presente nei primi singoli. Nonostante tanto ben di Dio, il ritardo dell’uscita dell’album, pubblicato solo nel 1968, e lo scarso successo, unito alle fratture interne al gruppo, portarono allo scioglimento dello stesso relegandolo a un parziale e immeritato oblio. A completare la formazione era il batterista Twink, poi transitato nei Pretty Things, Pink Faires, Stars (fantomatico progetto con Syd Barrett durato meno di un mese tra gennaio e febbraio del 1972) e protagonista di un disco solista non inserito in lista, in quanto caratterizzato da uno stile sperimentale che trascendeva il pop.

July - “July”

July - JulyPur all’interno della forma canzone, i July possono essere visti come i più lisergici del lotto. Esordiente nel 1968 con il disco omonimo, la band sembra incapsulata nella bolla surreale e multicolore dei primissimi Pink Floyd che imperversavano nell’anno precedente: bastano i primi magici secondi di “My Clown”, considerato non a caso tra i migliori singoli della psichedelia inglese (al pari di quelli dei Tomorrow e delle band più note), che tra chitarre multi-effettate e suggestioni barrettiane sembra evocare il volto liquefatto del diamante pazzo quando prima di un concerto si cosparse il capo di Mandrax (un potente tranquillante) mescolato a gel per capelli che, sciolto dal calore degli amplificatori, ne deformava le sembianze sconvolgendone la psiche.
Raddoppia l’effetto psicotropo l’altro 45 giri giustapposto in scaletta “Dandelion Seeds”, ora grazie a scansioni ritmiche creative e chitarre non più liquide e a tratti addirittura infuocate; mentre le ludiche “Jolly Mary” e “Hallo To Me” aggiornano il canzoniere beat all’epoca di Kaleidoscope e Blossom Toes, mantenendo gli stessi standard qualitativi. Ad arricchire il sound compare una vena quasi etnica, frutto di svariati viaggi in Marocco, evidente nei suoni di “In The Way” con l’ausilio di tablas e congas ad accompagnare armonie di gusto mediorientale. L’intro percussiva di “You Miss It All’’ è invece solo un depistaggio che precede bordate acide à-la “S.F. Sorrow”. La capacità di coniugare chitarre deformate e percussioni etniche, melodie allucinate e strutture tradizionalmente pop con una ispirazione continua e senza cedimenti rende l’esordio omonimo dei July uno dei migliori lasciti della psichedelia britannica, oltre che un pezzo di culto per i collezionisti. Purtroppo la band, proprio come i Tomorrow si sciolse poco dopo l’uscita dell’album, con ancor meno clamore e maggior indifferenza del pubblico.

1969

Apple - “An Apple A Day”

Apple - An Apple A DayAltra meteora con un solo disco all’attivo, gli Apple giunsero con ritardo alla pubblicazione di “An Apple A Day”, visto che lo stile è quello tipico della Swinging London del 1967. Si tratta di un album psichedelico nei contenuti, con l’invito a banchetti chimici nel pop solare di “Let’s Take A Trip Down Rhine”, ma soprattutto in una ispirazione compositiva basata sull’asse melodico e stilistico Lennon-Barrett in gioielli psych-pop come “Mr. Jones”, “Buffalo Billycan” (entrambi usciti in 45 giri), “Queen Of Hearts Blues” e “Photograph”. A completare l’album emerge un’inaspettata vena hard nei power chords proto-garage dei primi Kinks che squassano “Doctor Rock”, in un paio di cover super-elettriche degli Yardbirds (“Rock Me Baby” e “Psycho Daisies”), mentre i riff chitarristici e il piano indiavolato di “The Mayville Line” fanno pensare a un peculiare proto-glam. Nonostante lo scarso successo, “An Apple Day” rimane tra gli album più importanti del genere uscito in Inghilterra all’epoca, oltre che pezzo raro nel mercato discografico.

Open Mind

Open MindI londinesi Open Mind si distinguono dai gruppi citati precedentemente grazie a una formazione più classicamente rock, composta dal quadrilatero voce-chitarra-basso-batteria, che diede vita a un sound privo di orpelli orchestrali e suoni eccentrici, più diretto ma non certo grezzo o poco curato.  Seguaci dello stile freakbeat ormai fuori tempo massimo (il loro esordio arrivava a fine decennio) e forse anche per questo ignorati all’epoca, scrissero brani ficcanti e paradossalmente tuttora trascinanti e accattivantin come l’iniziale “Dear Louise”, alternandoli a mantra ipnotici (“Free As The Breeze) che tradivano un certo influsso dell’acid-rock a stelle e strisce dei Jefferson Airplane (“I Feel The Same Way Too”).
Se la loro matrice psichedelica emergeva anche da un immaginario lisergico (il singolo “Magic Potion”, dal titolo allusivo) e dagli acidi guizzi strumentali, i fili con la tradizione britannica sono annodati saldamente da un gusto melodico che innerva l’intero lavoro e si sublima in coretti beat o refrain epici (“Horses And Chariots”). Come per le band precedenti, anche per gli Open Mind il tempismo non fu certo il loro forte, cosa ancor più vera nel loro caso: due anni di ritardo (all’epoca un’enormità di tempo) e un sound ancor più passatista della media impedirono l’emersione dall’underground, relegando la band al culto più sotterraneo.

1970

Pink Floyd - “The Best Of Pink Floyd”

Pink Floyd - The Best Of Pink FloydIl titolo e la data non traggano in inganno: si tratta non di un best of ma della raccolta dei primi singoli dei Pink Floyd usciti negli anni 60, che in Italia uscirà tre anni dopo con il titolo di “Masters Of Rock”. Il fascino surreale dei primi due 45 giri della band, “Arnold Lane” e “See Emily Play”, usciti nel 1967 ma restati fuori dagli album ufficiali (sono presenti solo su compilation come “Relics” e “Works”) rendeva quelli che all’epoca erano solo promettenti esordienti non soltanto dei discepoli dei Beatles psichedelici ma dei veri e propri rivali, che grazie alla capacità compositiva del loro leader Syd Barrett e agli arguti orpelli della sua band per certi versi tendevano a superare i loro maestri, come confermò più avanti l’esordio “The Piper At The Gates Of Dawn”.
Ma è nei singoli citati che rifulgeva il loro carattere psych-pop, tra testi che rispettivamente discernevano di travestimenti compulsivi e fungevano da dediche a una fantomatica frequentatrice sballata dell’Ufo Club, attraverso aperture melodiche insolite e arrangiamenti lisergici, notevoli soprattutto quelli del tastierista Rick Wright. Oltre ai primi due 45 giri, vengono anche inseriti i due retro, il freakbeat di “Candy And The Currant Bun” (in origine “Let’s Roll Another One” titolo troppo esplicito dunque non accettabile all’epoca) e l’acquarello psych-folk “The Scarecrow” (presente nell’album d’esordio al pari di “Chapter 24” e “Mathilda Mother”), oltre all’altrimenti introvabile “Apples And Oranges”, l’ultimo singolo a firma di un Barrett sempre più allucinato e appannato, tra wah-wah acidi e intuizioni armoniche ancor più oblique e meno commerciabili. Era probabilmente l’inizio della fine del sodalizio tra il resto della band e il suo leader, ormai in evidente declino psichico, probabilmente a causa dell’abuso di Lsd, tanto che nel 1968 Syd lasciò definitivamente i Pink Floyd per una carriera solista breve (appena due album) seppur folgorante, a dimostrazione del suo tormentato ma indiscutibile genio.