Punk vs. prog

Storia di un falso mito

La copertina del numero dedicato al 1977 di "The History Of Rock - A Monthly Trip Through Music's Golden Years" è dominata dai Clash, duri e combattivi. La rivista, uscita nel luglio 2016, è una raccolta enciclopedica di articoli selezionati usciti sulle due testate musicali britanniche più riverite della storia del pop: New Musical Express e Melody Maker. Fra gli altri nomi in primo piano troviamo: David Bowie, Fleetwood Mac, Peter Gabriel, Led Zeppelin, Iggy Pop, Ac/Dc. E poi chiaramente il piatto forte: Sex Pistols, Jam, Television, Ramones, Buzzcocks… quel che ci si poteva immaginare, no?
Eppure, il '77 fu anche l'anno dell'uscita di "Animals" dei Pink Floyd e "Going For The One" degli Yes, dischi di grande impatto e importanza. Scorriamo la rivista: sui Pink Floyd c'è un breve annuncio, che sardonicamente osserva come il nuovo faraonico album sia in ritardo sulla data di uscita prevista. Sugli Yes nulla. Né d'altra parte su qualunque altro artista oggi associato o associabile al progressive rock.
Del resto, è il '77. L'anno del punk, della rivolta contro i "dinosauri" del rock progressivo, l'anno in cui si fece piazza pulita di assoli interminabili, concept-album, folletti e deliranti pretese letterarie.

 

51tzheyqjil._ac_ul900_sr615900_Così vuole il mito: il 1977 segnò la cesura più importante della storia del rock. Il momento in cui una nuova generazione di musicisti disse una volta per tutte basta alle velleità artistiche di una frangia del pop ormai persa fra suite tortuose e fughe fantascientifiche. L'anno zero dell'immaginario indie e alternativo fu marcato da un delitto purificatore: l'uccisione deliberata del prog da parte del suo nemico giurato, quel punk la cui energia vitale era sprigionata dall'odio per la musicalità tronfia di gruppi in cui il tastierista godeva di più minutaggio del cantante.
Come ogni mito, questa visione limpida e facile da raccontare possiede un fondamento di verità, ma presuppone, soprattutto, svariate distorsioni e ricostruzioni grossolane, che non trovano corrispondenza nelle narrazioni e nei dati del tempo, e portano fra le firme anche quelle delle due riviste protagoniste dello speciale "The History Of Rock".
Nel 1977, sia Nme che Melody Maker recensirono le uscite di Yes e Pink Floyd, e lo fecero pure con toni di encomio. Col passare degli anni, tuttavia, questo apprezzamento passò in secondo piano, e prevalse la narrativa che negli stessi mesi altre pagine delle medesime riviste andavano proponendo: quella secondo cui le band della "nuova onda" sarebbero apparse dal nulla, già letali e armate come Atena, pronte a distruggere tutto perché prive di alcun legame affettivo verso ciò che le aveva precedute. Una semplificazione di ottima efficacia pubblicitaria, che tuttavia già al tempo faceva acqua, e ne fa ancora di più oggi che, consultando una pluralità di fonti storiche allora difficilmente accessibili tutte insieme, è possibile tracciare le fila di quella complessa fase di trasformazione.

 

La lettura "punk vs prog" della storia del rock è una costruzione giornalistica che ha poco a che fare con le inclinazioni dei musicisti dell'epoca. Il processo che portò la stampa musicale, principalmente britannica, a identificare con suite, cambi di tempo e ambientazioni fantascientifiche il "nemico" musicale contro cui gli esponenti del punk si battevano corrisponde a una trasformazione valoriale che ha radici nei primi anni Settanta e prende una forma vicina a quella attuale solo ad anni Ottanta iniziati. In mezzo, dieci anni di relazione giornalistica controversa con ciò che ora chiamiamo "prog rock" e che allora, come si vedrà, rappresentava un contesto assai meno definito rispetto a oggi; un territorio eterogeneo che andava sotto molti nomi, fra i quali "progressive rock" non è sempre stato il principale.
Fra le altre mutazioni che caratterizzarono la discussione musicale dell'epoca, particolarmente significativa fu la crescente sensazione che il rock, fino alla fine degli anni Settanta sinonimo di rottura e emancipazione giovanile, stesse diventando una parte integrante della società borghese, e che gli artisti di fama mondiale emersi a ridosso del cambio di decennio godessero di fortune economiche ormai in diretto contrasto con la creatività calante delle proprie idee musicali.

Parte 1: mito

 

Cronache dall'"anno zero"

 

Prima di partire con flashback e fast-forward, conviene immergersi appieno nel clima di quel momento chiave, il biennio 1976-1977 che scompigliò le carte dell'industria musicale britannica. Scartabellando fra vecchie fanzine e interviste d'epoca, e perlustrando il database della stampa musicale in lingua inglese Rock's Back Pages (comprendente sia periodici britannici che statunitensi), è possibile cogliere un quadro assai ricco delle percezioni del periodo. Che cosa ne emerge?
Una importante sorpresa: la scena punk non ce l'aveva col prog. In centinaia di pagine scorse, gli strali degli artisti punk contro composizioni chilometriche e tempi dispari sono sostanzialmente assenti, e le accuse rivolte ai musicisti prog rappresentano un'assoluta rarità. Significa che i vari Johnny Rotten, Joe Strummer, Captain Sensible fossero dei lord, compiti e rispettosi nei confronti dei loro predecessori progressivi? Nient'affatto. La furia iconoclasta di questi personaggi non aveva uguali, ma era rivolta contro un bersaglio assai più ampio: tutto. O per meglio dire: tutto ciò che avesse a che fare con gli hippie e i loro valori estetici e musicali.

 

sniffingglue6La prima intervista ai Clash nella leggendaria fanzine britannica Sniffin' Glue (n. 6, 1976) è decisamente esplicita: la musica precedente è "tutta merda", si salvano solo i Ramones e (va' a sapere perché proprio loro) i Mott The Hoople. L'anno successivo la band avrebbe cantato: "No Elvis, Beatles, or the Rolling Stones in 1977".
Fra gli altri zimbelli favoriti dai rappresentanti della scena incontriamo Eric Clapton ("Preferirei vedere i peggiori quattro musicisti di questo posto sulla scena", Captain Sensible, Fanzine, 1977), Eagles, Led Zeppelin, Rod Stewart, Elton John e Who. Sì, anche Yes ed Emerson, Lake & Palmer e, sì, la fatidica t-shirt "I hate Pink Floyd" indossata frequentemente da Johnny Rotten è ancora ricordata da molti. Ma dai nomi fatti dovrebbe emergere un aspetto ricorrente: il punto non è mai stato l'aderenza degli artisti ai dettami del rock sinfonico - il punto era lo stardom.
Mark P, fondatore di Sniffin' Glue e poi leader degli Alternative Tv, sintetizza la linea in modo particolarmente efficace sull'ultimo numero della fanzine (n. 12, 1977):

La musica è un mezzo perfetto per mostrare il dito medio all'establishment. Una volta che si fa rispettabile, perde tutta la sua potenza. È questo che è accaduto, nel corso degli anni Settanta. Tutta l'aggressività è svanita e le rockstar hanno iniziato a sembrare più interessate a fuggire nei paradisi fiscali o partecipare ai party della Famiglia Reale che a curarsi dei propri fan, ai quali peraltro dovevano interamente la loro posizione privilegiata.

E ancora, su "Chainsaw" (n. 2, 1977):

Il guaio con il business della musica è che rende troppi soldi. Un gruppo inizia, piace alla gente e questa va a vederli. Fanno un Lp e un singolo. Tutti lo comprano. Suonano in sale sempre più grandi. Fino a questo punto, è tutto ok. Ma poi cominciano a diventare pigri. Faranno un singolo e un album all'anno e difficilmente appariranno dal vivo. E continueranno a fare centinaia di migliaia di sterline. Diventano molto ricchi, così ricchi che non sanno cosa farsene dei loro soldi — che vengono spesi in Rolls-Royce, cocaina, truffe e ville a Corfù. Se avessero veramente cura della loro musica e dei loro fan, farebbero più album e suonerebbero in concerti dal vivo gratuiti invece di aumentare il prezzo del biglietto. Sto parlando di gruppi come i Led Zep, che fanno un album ogni 12-18 mesi, che fanno circa due concerti all'anno e ancora sono in cima alla classifica del New Musical Express.

Gli hippie arricchiti, imbolsiti, ormai organici al sistema che avevano giurato di combattere sono il bersaglio musicale dell'astio punk. La confusione fra questa categoria e "il prog" nasce dalla miopia rispetto a quelle che erano le linee di frattura dell'epoca, molto più basate su fasce di pubblico e venue frequentate che su raggruppamenti stilistici cristallizzati ex post.
Se oggi Yes ed Emerson, Lake & Palmer da un lato, e Soft Machine e Van Der Graaf Generator dall'altro, possono facilmente essere iscritti al registro dei prog-rocker, allora per gli appassionati esisteva fra loro una differenza macroscopica: i primi erano artisti di enorme successo, tali e quali a Eagles e Wings, i secondi invece erano esponenti del panorama alternativo.

Confessioni e contrapposizioni

 

Nei mesi immediatamente successivi al big bang punk, riviste come Melody Maker e (soprattutto) Nme continuarono a soffiare sul fuoco dissacratorio della "nuova onda", arrivando ad allinearsi coi tabloid nell'inventare ulteriori astruse rivalità. La più celebre è quella "punks vs. teds", che avrebbe contrapposto in episodi di violenza stradaiola gang di nichilistici fan di Sex Pistols e Clash e più conservatori seguaci del rockabilly. Parallelamente, il circuito delle fanzine iniziava a rompere il velo del presentismo assoluto inizialmente propugnato dai musicisti punk, e a far emergere preferenze ed eroi adolescenziali.
La scialuppa dei "salvabili", un tempo riservata ai soli Ramones, andò via via popolandosi, mutando in un pantheon più ricco. Trovarono posto David Bowie, Marc Bolan, Iggy Pop, i Velvet Underground e tutto ciò che ne era scaturito, gli Mc5, i primi Who, ma anche gli Ac/Dc, i Blue Öyster Cult (talvolta definiti "punk" tout court!), i Cheap Trick e una messe di nomi underground spesso inquadrabili oggi come prog fatto e finito: Hawkwind, Deviants e Pink Fairies, Peter Hammill, Magma, Soft Machine, East Of Eden, Third Ear Band, Robert Wyatt, Kevin Ayers e Gong!

 

bwPer le confessioni più compromettenti occorrerà invece attendere. Gli Stranglers furono fra i più coraggiosi e già nel 1977 svelarono all'Nme che il loro tastierista Dave Greenfield era un fan sfegatato degli Yes. La passione per Steve Howe di Keith Levene (Clash, poi Public Image Ltd) sarà cosa nota almeno dal 1985, mentre quella di Mick Jones dei Clash ("prima di 'Tales From Topographic Oceans'") emergerà assai più tardi, nel 2012 della raccolta di interviste "Punk Rock: An Oral History", curata da John Robb e ricca, volendo, di altri gustosi disvelamenti.
Nel 2013, la messa all'asta di una collezione di 97 dischi appartenuti a Joey Ramone rese nota la presenza di "Close To The Edge" accanto ad album di Genesis, Emerson, Lake & Palmer, Led Zeppelin, Elton John e Doors.
Se, come ovvio che fosse, anche il formidabile agent provocateur John Lydon avrebbe infine rivendicato la sua devozione ai Pink Floyd, quella del buon Mark P di Sniffin' Glue per gli Emerson, Lake & Palmer fu resa pubblica ancor prima dell'avvento del punk: sua una lettera del 1973 sul Melody Maker che celebrava la band come "ottava meraviglia del mondo"!

 

Ma, se il focus musicale delle avversioni punk non era il genere progressive rock bensì lo star system rock'n'roll, che cosa rendeva la familiarità coi grandi nomi del prog così difficile da confessare? Dopo tutto, i volti glam di David Bowie, Marc Bolan e Lou Reed, presto riconosciuti dagli esponenti del punk come numi tutelari, non erano affatto artisti squattrinati e poco noti.
Per comprenderlo, è necessario fare un passo indietro rispetto al vivo dell'azione, e tornare ai discorsi musicali di qualche anno prima, a cavallo fra i decenni Sessanta e Settanta. Si scoprirà che: a) il concetto di "progressive" come genere era tutt'altro che consolidato; b) dopo un'iniziale luna di miele, gli atteggiamenti delle principali testate musicali britanniche verso gli artisti prog presero a inasprirsi ben prima dell'esplosione del punk.

Di generi e aggettivi

 

L'espressione "progressive rock" appartiene al lessico del giornalismo musicale dalla fine degli anni Sessanta. Questo non deve però indurre a pensare che il suo significato si sia mantenuto inalterato lungo tutti i cinquanta e passa anni che ci separano dalla sua introduzione.
Inizialmente, il termine fu introdotto come calco dal gergo jazzistico: "progressive jazz" indicava da tempo gli stili affini a quello del pianista e compositore Stan Kenton, influenzati dalla musica classica europea e in particolare dal modernismo. In piena era psichedelica, l'espressione venne utilizzata per qualificare la musica di quegli artisti che più marcatamente cercavano di spingere il rock'n'roll in nuovi territori, esplorandone le recenti pieghe blues rock (Yardbirds, Cream, Ten Years After, John Mayall), country e folk (Byrds, Willie Nelson), o imparentate con il pop barocco di marca Beatles e Beach Boys.

 

Negli anni immediatamente successivi, oggi visti spesso come momento culminante del progressive rock, l'espressione si fece in realtà poco frequente e il suo campo di utilizzo restò estremamente ampio. Lo rimase anche durante l'era punk (anche nel caso in cui gli artisti del periodo se la fossero presa col "progressive rock" dunque - e non lo fecero - sarebbe fuorviante prendere la cosa per un attacco a Genesis e Gentle Giant), e solo attorno alla metà degli anni Ottanta il significato andò a stabilizzarsi su qualcosa di paragonabile a quello attuale.
Per evitare confusione fra i significati storici e quelli contemporanei, questo articolo ricorre a espressioni di conio relativamente recente come "prog rock" e "prog" (attestate in Gran Bretagna dalla fine degli anni Ottanta) per riferirsi al genere come oggi è largamente inteso, mentre impiega "progressive" e "progressive rock" (salvo ulteriori specificazioni) per fare riferimento agli usi d'epoca.

 

jvncwoccorrenzedeltermineprogressivenellastampainlinguainglese_2_1Esaminando più in dettaglio le fortune dell'espressione "progressive" nella stampa in lingua inglese, una ricerca nel database di Rock's Back Pages testimonia lo scarso utilizzo della locuzione durante tutta la prima metà degli anni Settanta. Quando era impiegata, figurava in combinazione a un'ampia gamma altri termini: "progressive music", "progressive pop", "progressive blues", "progressive soul", "progressive country". Anche quando l'abbinamento era con "rock", spesso "progressive" era inserito fra virgolette, testimonianza di come l'accezione fosse quella di un aggettivo che si componeva di volta in volta con sostantivi diversi, a indicare non un genere specifico, ma un'attitudine, uno zeitgeist musicale trasversale a più filoni.
Anche l'elenco degli artisti a cui l'etichetta veniva associata conferma la distanza rispetto all'uso odierno: nel triennio 1968-1970 che corrisponde al picco di diffusione del termine, i nomi più citati erano Led Zeppelin, Fleetwood Mac, Small Faces, Jimi Hendrix, Rolling Stones, Doors, oltre che Yes, Nice e Jethro Tull. Il tono degli articoli in questione era, quasi sempre, entusiastico: "progressive" era la buzzword del momento, e le discussione sulla "progressività" della musica erano all'ordine del giorno nelle interviste pubblicate.

 

Il paper "The Absent Presence Of Progressive Rock In The British Music Press, 1968-1974" dei musicologi Chris Anderton e Chris Atton (2020) aiuta a fare ulteriore chiarezza, sottolineando come, dopo il boom a fine anni Sessanta, nei primissimi anni Settanta l'utilizzo del termine "progressive" subì un chiaro declino. Già fra gli articoli del 1972 capita di imbattersi in giornalisti che citavano la moda "progressive" come una tendenza del passato.
Nei primi anni Settanta, molte delle band oggi associate al prog erano etichettate, spesso intercambiabilmente, come "heavy", "underground" e "head" (aggettivo, es. "head music"), ma fra gli appellativi figuravano anche espressioni più fantasiose come "epic rock", "techno-rock" e perfino "rocko-phonic" o "technoflash".
Nelle 255 fitte pagine dell'edizione 1976 della "Encyclopedia Of Rock" curata dall'Nme, il termine "progressive" ricorre solo quattordici volte, raramente in associazione a band oggi definibili come prog.

 

Il grafico riportato sopra mostra le ricorrenze del termine "progressive" negli articoli del database Rock's Back Pages. Oltre al calo dell'inizio degli anni Settanta, si evidenzia un moderato ritorno in auge dell'aggettivo a partire dal 1973, che nel 1975 è più spesso che mai associato al sostantivo "rock" in una formula compatta. Questa ripresa corrisponde a diversi fattori, fra i quali la diffusione anche presso la stampa non specializzata e la marginale affermazione del termine negli Stati Uniti (soprattutto in riferimento a un nuovo formato radiofonico, il "progressive", che muterà poi in quello "album-oriented" di cui si parlerà più avanti).
Il contributo maggiore, però, è legato all'ingresso in gioco di un nuovo attore nell'ambito della critica rock britannica
: la rivista Sounds, che portò a un significativo riallineamento delle due testate che fino ad allora si erano contese il mercato, Melody Maker e Nme. Da entusiasti araldi del verbo "progressive", i due periodici divennero infatti (gradualmente e con numerosi ripensamenti e contraddizioni) sempre più scettici verso le evoluzioni della scena che avevano contribuito ad alimentare.

Quando il vento cambiò

 

Lanciato nel 1970, "Sounds" propugnava il superamento delle categorie di genere e mantenne per tutti gli anni Settanta una forte attenzione alle band chiave del prog britannico. Rispetto alle riviste concorrenti, ebbe da subito un taglio più intellettuale e maturo, che presupponeva un target meno adolescenziale e legato perlopiù alla gioventù universitaria.
La sua avversione alle categorizzazioni limitò l'utilizzo dell'etichetta "progressive", soprattutto nei primi anni di attività; crescentemente, tuttavia, nella fase centrale del decennio le sue pagine proposero il binomio "progressive rock" in un'accezione sempre più vicina a quella di un genere vero e proprio ("I Genesis sono indubbiamente la miglior band di 'progressive' rock'n'roll sulla piazza", 18/12/1976), pur comprendente un insieme di band decisamente più ampio di quello attuale.

 

mo6sbaxqj0y41La circolazione di Sounds risultò limitata, ma il suo impatto fu amplificato dalla scelta delle testate concorrenti di riorientare le proprie linee editoriali in senso opposto. Benché in un primo momento Nme tentò di seguire la strada di Sounds dichiarandosi "settimanale intelligente" e abbracciando l'eliminazione degli steccati di genere e pubblico, entro la metà del decennio sia Nme che Melody Maker avevano reso esplicita la propria presa di distanze dal successo di Yes, Emerson, Lake & Palmer e Genesis.
Il già citato volume enciclopedico dell'Nme edito nel 1976 qualifica la scuola "flash rock" di Yes e Elp come "pomposa ed eccessiva" e "Brain Salad Surgery" come il frutto di "ego-inflated dinosaurs" (per lo stesso album, l'edizione 1973 parlava di "qualità musicali insuperate"). Un altro studio di Anderton, pubblicato quest'anno sulla rivista "Media Narratives in Popular Music", illustra come il Melody Maker fu ancora più precoce nel cambio di orizzonti: già nel 1973 scorgeva un rischio di noia nei precedentemente inattaccabili Pink Floyd, bollava "Thick As A Brick" come "privo di immaginazione" e indicava come per gli Elp fosse ormai "troppo tardi per sviluppare un senso del gusto".

 

In "Policing the Boundaries of Art and Entertainment" (2016), il musicologo Derek B. Scott interpreta la metà del decennio Settanta come il momento in cui una sorta di "polizia del pop" si fece strada in ambito critico, animata dalla volontà di mettere al bando il presunto "pretenzioso ed elitista tradimento dei valori della musica popolare" per mantenere la musica rock su binari più consoni col proprio sguardo, influenzato in particolar modo dal Centre For Contemporary Cultural Studies dell'Università di Birmingham.
Molti degli artisti che la critica adottò come modello di autenticità rock potevano vantare solide credenziali "alternative" nel panorama statunitense: Velvet Underground, Mc5, Stooges, John Cale, Captain Beefheart e Lou Reed. Al di qua dall'Oceano, invece, a ricevere una buona considerazione erano soprattutto nomi accostabili al glam come David Bowie, Marc Bolan, Brian Eno e Roxy Music. Quando il punk esplose, la nuova cosmogonia del rock era di fatto già pronta: attendeva soltanto profeti dotati del carisma adeguato a divulgarla.

L'affondamento del Titanic

 

Nel luglio 1976, l'Nme quasi non si era ancora accorto dell'esistenza dei Sex Pistols, ma dando spazio alla credibilità underground del leader dei Deviants Mick Farren pubblicava "The Titanic Sails At Dawn". Un brillante j'accuse verso il jet set del rock'n'roll che, partendo dall'analisi delle lettere ricevute dai lettori della rivista, incitava gli stessi ad abbandonare la devozione verso le glorie del passato e a mettere in piedi la propria band, ancorché sgangherata e priva di mezzi. La sintonia col mood critico degli anni a venire fa oggi apparire l'invito quasi profetico:

L'unico personaggio, o quasi, che sembri avere un qualche interesse nel progresso sociale del rock'n'roll è David Bowie, con la sua figura di Übermensch scheletrico e occulto. Chiunque altro sta ballando il valzer nel salone, o giocando al gioco delle sedie al tavolo del capitano [...] Lettera dopo lettera viene ripetuta la stessa cosa. Sembrate avercela tutti con gli Who e Liz Taylor, Rod e la Regina, Jagger e la Principessa Margaret, [...] nel nome del moderno super-rock stile 70s. [...]  La salvezza del rock'n'roll non sarà rimettere assieme i Beatles. Quattro ragazzi che suonano ai loro coetanei nello scantinato di un club potrebbe esserlo. E qua, caro lettore, è dove entri in gioco tu.

download_1__1Di lì a poco, il boom discografico del punk avrebbe reso concreta la visione di Farren. Le principali pubblicazioni musicali britanniche reagirono in modo differente al fenomeno: vi fu chi accolse con interesse la nuova ondata e i suoi proclami incendiari, evitando però di rinnegare le proprie passioni storiche, e chi colse il subbuglio generato da Rotten, McLaren e Vicious per completare la propria transizione anti-progressiva.
Paradossalmente, delle tre testate di riferimento è la più filo-prog, Sounds, ad approfondire per prima il fenomeno punk, con gli articoli di John Ingham. I suoi pezzi sono un esempio della postura ambivalente con cui la sua testata accolse la "nuova ondata". Nel riportare la retorica delle band con lo stile coinvolto tipico dell'epoca, Ingham si riferisce agli artisti degli anni precedenti come "old farts" ("vecchiacci") che "avrebbero dovuto essere scortati all'eutanasia anni fa" (09/10/1976). Altre volte, tuttavia, adottò una prospettiva più distaccata, sottolineando i legami con le formazioni storiche (sui Clash: "Nessun giovane ha visto una'energia così dirompente se non dagli Who o dai Quo in uno stadio", 13/09/1976). Un atteggiamento ondivago, che però rimase incentrato sull'opposizione "nuove leve"-"vecchi decrepiti" e non prese mai il contorno di un attacco diretto specificamente verso il prog.

 

Diverso il tono dei pezzi scritti per il Melody Maker da Caroline Coon, una veterana della Swinging London che rapidamente divenne fra le più ferventi fautrici della lettura "anti-progressiva" del punk. Il suo articolo chiave "Rock Revolution", uscito a fine luglio 1976, fu forse il primo a spingere sul contrasto aperto al prog rock:

Il rock era pensato per essere prima di tutto divertente. L'impossibilità di vedere le proprie star da vicino o di suonare la loro musica sta facendo sentire un'intera generazione di fan disperatamente inadeguata. [...] Le band psichedeliche come Jeffeson Airplane, Grateful Dead, Soft Machine, Pink Floyd furono musicalmente importanti finché non si disintegrarono insieme all'underground o scomparvero nella propria insularità. Essenzialmente middle class o legati ad ambienti benestanti e universitari, crearono le premesse per formazioni come Genesis, Jethro Tull, Elp, Yes, Rick Wakeman, Roxy Music e Queen, il cui 'progressive rock' impiega una quantità crescente di strumentazione tecnica, si è spinto sempre più in una direzione quasi orchestrale e cita a piene mani dalla musica classica.
Tutte queste band sono state acclamate dalla critica. Ma l'elemento cruciale manca. Questi musicisti sono sempre stati gentlemen in versione rock e la loro musica può essere suonata solo da persone con simili temperamenti accademici. La musica, ancorché ispirata, è molto oltre ciò che un generico teenager possa riprodurre nella sua stanzetta. David Bowie è l'unica persona con cui questa ondata crescente di rock fan di terza generazione sembri identificarsi.

La risposta dell'Nme arrivò nell'agosto del 1976, con il reclutamento di due giovanissime firme appositamente dedicate alla "nuova onda" (N.B.: l'espressione "new wave" originariamente indicava l'esplosione punk nel suo complesso, e tutto ciò che ne sarebbe seguito. Solo in seguito si produsse lo slittamento di significato che associa alla locuzione il filone più intellettuale e/o beneducato della scena).
I due neo-inseriti, Tony Parsons e Julie Burchill, come altri giovani autori di fanzine, erano più interessati a raccontare la scena dall'interno che a sparlare del rock establishment, e anzi non si facevano problemi a tirare in ballo i grandi del passato come riferimento positivo (02/04/1977: "Lo scopo originale della new wave, punk rock o che dir si voglia [è] di scrivere canzoni sulla cultura giovanile della fine degli anni Settanta con la stessa accuratezza, onestà, percezione e genuina rabbia che Elvis, i Beatles, i Rolling Stones non possono più dare").
Erano soprattutto i giornalisti più agé, come Nick Kent, a cogliere ogni possibile espediente per prendersela coi propri miti di un tempo, e specialmente con gli artisti prog ("termini come progressive/art rock sono diventati sinonimi di esitanti pretenziosità e sintesi crude e raffazzonate di forme opposte", 05/02/1977 recensendo i Television; "ho speso l'ultimo paio di giorni riascoltando pigramente un mucchio di album dei Genesis - un'esperienza non particolarmente gratificante", 10/06/1978).
Quarant'anni più tardi, alcuni di quei giornalisti avrebbero sviluppato un atteggiamento più trasparente. Proprio Nick Kent avrebbe confessato a Mike Barnes in "Younger Than Yesterday" di aver incontrato per la prima volta Mick Jones dei Clash a un concerto dei King Crimson nel 1969 e di avere ormai "più simpatia per il prog che per il punk. La maggior parte delle formazioni punk parla della propria musica come di arte, e francamente non lo è — né lo era il prog, ma quantomeno i tizi del prog avevano un certo humour riguardo a quel che stessero facendo, e c'era un senso di sperimentazione ed esplorazione musicale".

 

Al termine del 1977, in sintesi, le tre principali testate britanniche concordavano su un'analisi: una nuova ondata di rock giovanile era arrivata a fare piazza pulita della musica imbolsita dei vecchi hippie arricchiti. Ma l'ostilità verso le star del recentissimo passato, assai veemente e indiscriminata soprattutto nelle prime interviste agli artisti punk, era stata "incanalata" dalle due riviste più seguite in una direzione affine alla propria linea editoriale, già consolidata negli anni precedenti. Il "nemico" che sarebbe stato travolto dall'impeto punk, stando a Nme e Melody Maker, era rappresentato precisamente da quei musicisti prog che, all'indomani dell'avvento di Sounds, le due testate avevano iniziato a dileggiare.
Se si dà poi credito alla ricostruzione di Scott circa l'esistenza di una metaforica "polizia del pop" attiva nella stampa musicale di quegli anni, ecco che il quadro esplicativo si completa: benché i punk e i suoi prosecutori non avessero, inizialmente, alcuna avversione specifica verso il prog nel suo complesso, l'ammissione di un qualche rispetto per artisti del filone rischiava di compromettere il proprio credito presso la critica specializzata. Benissimo, dunque, terminate le prime tornate di interviste al vetriolo, riconoscere la propria passione adolescenziale per Who e Kinks, ma per carità: per Yes ed Emerson, Lake & Palmer solo con parole di scherno.
Che gli artisti ci credessero o meno (a leggerne le dichiarazioni recenti, si direbbe di no), l'effetto sui giovani dell'epoca fu assai incisivo. Lo stigma verso il prog-rock si consolidò ulteriormente nel decennio successivo e, quantomeno in ambito indie e alternativo, riveste ancora oggi un significativo ruolo identitario.

Oltre e altrove

 

Il racconto a suo modo lineare che si è sviluppato finora non deve nascondere un elemento: il quadro era tutt'altro che monolitico. Gli stessi numeri di Melody Maker e Nme che ospitavano gli affondi anti-hippie e anti-establishment riportavano anche impressioni positive sui medesimi artisti maltrattati nelle altre pagine.
Vigeva un certo pluralismo di vedute. Guardando gli andamenti di medio termine, è evidente tuttavia come l'avversione di Nme e Melody Maker per le vecchie glorie e segnatamente per il prog si sia conservata negli anni successivi, anche attraverso il ricambio di firme e il passaggio del focus dal vivo dell'onda punk ai fenomeni post-punk e new pop. Al contrario, Sounds mantenne, soprattutto con gli articoli di Phil Sutcliffe, un'attenzione alle proposte in continuità con l'epoca precedente, approfondendo al contempo sia la scena più direttamente legata al punk sia le sonorità heavy metal.

 

Proprio Sounds seguì con una certa curiosità le evoluzioni della scena neo-prog capitanata da Marillion e Twelfth Night, il cui pubblico d'altra parte mostrava ampie intersezioni con gli amanti della New Wave Of British Heavy Metal. Per inciso, un picco registrato nel 1983 nell'utilizzo della parola "progressive" corrisponde a un utilizzo dell'espressione ormai ampiamente sovrapponibile a quello odierno: il termine si riferisce specificamente alle band di rock sinfonico (Genesis, Yes, Elp, Van Der Graaf Generator ecc.), con estensione a nomi come Pink Floyd e Jethro Tull, ma non a Queen, Roxy Music o Led Zeppelin.
In qualche modo, sembra che la definizione del "canone" progressivo e la definitiva trasformazione da aggettivo a etichetta di genere sia legata temporalmente alla prima ondata di esplicito revival: "progressive rock" divenne sinonimo di quella musica, ostracizzata della stampa, che gli artisti neo-progressive riprendevano.

 

19740301E altrove? Ogni paese sembra aver posseduto dinamiche proprie, nessuna delle quali estrema come quella britannica.
Negli Stati Uniti, la "luna di miele" della stampa musicale per il prog britannico non si è mai svolta: firme entrate nell'immaginario rock come Lester Bangs e Robert Christgau sono state fin da principio aspramente critiche verso il filone ("Un surrogato della merda", Christgau sul debutto dei King Crimson, Village Voice 1971; "In caso di crisi energetica, ci sarebbero gli estremi per considerare gli Elp dei criminali di guerra", Lester Bangs su Creem vol. 5 n. 10, 1974).
Per la prima edizione di "The Rolling Stone Ilustrated History of Rock'n'Roll" (1976), il progressive rock ("o art rock") britannico si riduce ai nomi più celebri, incapaci di comprendere che "il sintetizzatore è uno strumento molto maltrattato e molto frainteso. Se affidato a personaggi come Keith Emerson, Jon Lord (dei Deep Purple) o Rick Wakeman, e usato alla stregua di un organo elettrico truccato, il suo suono risulterà per forza di cose artificioso e triviale".
La stampa alternativa guidata da Creem e Rolling Stone, insomma, fu da sempre orientata a una linea lontana dai valori prog, da un lato più "rockista" e dall'altro legata agli elementi black e cantautorali, e non ebbe bisogno di revisionismi di sorta per accogliere i protagonisti della "nuova onda", soprattutto se americani.

 

Un'eccezione significativa al trend anti-progressivo (e in buona misura anche anti-britannico) statunitense fu rappresentata da Trouser Press, fondata nel 1974 da Ira Robbins e sottotitolata "America's only British rock magazine". L'archivio pdf interamente accessibile online mostra come dal primo numero fino all'ultimo, uscito nel 1984, la rivista mantenne una forte simpatia per il gusto primo-settantiano e le sue evoluzioni, accompagnandola dal 1976-77 a un'attenzione verso le proposte più ricercate in ambito new wave, post-punk e poi hardcore, new romantic e sophisti-pop. Su una linea simile anche la newyorkese Rock Scene, più "leggera" e legata alle frange pop dell'heavy metal, e parimenti consultabile online.

Fuori dall'anglosfera

 

Allontanandosi dai paesi di lingua inglese, un'analisi in ottica punk vs prog si rivela ancora meno adeguata a descrivere lo scenario. In Italia il punk ebbe poca risonanza, e non sancì una discontinuità nelle proposte discografiche o nella linea editoriale di testate come Ciao 2001, che nei primi anni Ottanta ancora portava serenamente in copertina Ringo Starr e Jefferson Starship, Genesis e Styx accanto a Madness, Bob Marley, Ultravox, Blondie e Clash.
Diverso il discorso sul versante "alternativo" della critica musicale, legato alla sinistra extraparlamentare e rappresentato da Muzak (nata nel 1973) e da Gong (nata nel 1974 da una scissione nella redazione di Muzak).
Ben presto queste testate fecero una bandiera della propria avversione agli artisti "mainstream" come Pink Floyd, Yes o Genesis preferendo loro Soft Machine e Gong e poi, col graduale "formalizzarsi" della loro musica, personaggi come Tim Buckley, Captain Beefheart e un numero sempre crescente di minimalisti, improvvisatori radicali, jazzisti di matrice free e avant.
Sulle pagine di queste riviste si stroncavano Beatles e Bob Dylan e si avanzavano perplessità sulla formula dei riveritissimi Area ("Cosa [...] ci garantirà che questi ragazzi non ci stiano prendendo in giro, avendo ascoltato qualche disco di musica contemporanea per sbaglio?", Muzak n.8, 1974; "Demetrio Stratos continua a inseguir singulti e libertà oppresso da rigide strutture", Gong n. 5, 1975).
Anche l'avvento del punk non raccolse l'entusiasmo del nucleo storico di redattori. Muzak aveva già chiuso i battenti nel 1975, ma gli autori di Gong descrissero i Ramones come "Novità assai povere ma à la page" e della scena in generale scrissero: "Spesso sono proprio le stesse premesse socio-ideologiche del punk a concedere un fiato troppo corto ai giovani protagonisti di oggi. [...] A tanto siamo arrivati, alla fine del viaggio: agli assoli telecomandati, anche, ai rigidi ritornelli" ("Top Music '77", 1977).
I sottotitoli delle due testate sono "Mensile di musica Progressiva-Rockfolkjazz" (Muzak) e "Mensile di musica e cultura progressiva" (Gong), a riprova di come all'epoca l'accezione di "progressivo" fosse distante da quella di oggi anche nel nostro paese.
L'abitudine presso la critica dichiaratamente "progressiva" a svalutare le formazioni di successo permane anche negli anni seguenti: il libretto "La musica rock-progressiva europea" di Luca Majer e Al Aprile, pubblicato nel 1980, è implacabile nel suo trascurare, e se possibile demolire fra le righe, artisti come Genesis e King Crimson.

 

fools_mate_special_stock_2_0000In altri paesi la situazione è altrettanto sfaccettata. In Francia, Rock&Folk mantenne nel passaggio fra Settanta e Ottanta una buona circolazione, raggiungendo l'apice nei primi anni Ottanta e continuando a seguire esponenti della "vecchia onda" (e delle sue propaggini contemporanee) accanto agli artisti figli di punk e new wave. Lo stesso per la tedesca Musik Express, largamente consultabile online.
Fra le realtà minori, meritano una segnalazione fanzine come la francese Atem, attiva fra il 1975 e il 1979 e molto attenta alla zona grigia fra il prog più incompromissorio (zeuhl, Rock in Opposition, frange kraut, ma anche scena di Canterbury o i percorsi di Robert Fripp e Peter Hammill) e le nascenti sperimentazioni in ambito post-punk e industrial. Oppure la giapponese Fool's Mate, curatissima sul piano grafico e capace di proporre senza soluzione di continuità avant-prog e Kate Bush, Japan e Lucio Battisti, il suono mutante dei This Heat accanto al classical crossover fuori tempo massimo degli Sky. Testimonianze interessanti di una terra di mezzo che produsse centinaia di formazioni anche negli anni dell'eclissi del prog dalla stampa britannica.

 

Quelli riportati sono soltanto esempi, che mostrano però come il quadro della stampa fosse articolato rispetto all'immagine appiattente che si può trarre guardando solo alle riviste anglo-americane più ricordate.
La frattura punk/prog, oggi data per scontata, perde di centralità e svela molteplici altre chiavi di lettura per le trasformazioni del rock europeo della seconda metà degli anni Settanta.
Da un lato emerge la prevalenza, soprattutto nel periodo 1976-77, delle dicotomie punk (o "new wave") vs. tutto, punk vs. hippie e perfino (con poca credibilità ma molta esposizione) punk vs. teds. Dall'altro, si rivela l'importanza di altre opposizioni coeve, che in alcuni casi sembrano essere molto più determinanti nel dettare preferenze artistiche e linee editoriali: Stati Uniti vs. Gran Bretagna (ed Europa in generale), Gran Bretagna vs. Europa, musica orientata al successo vs. musica di alternativa.
L'ambiguità nell'utilizzo del termine "progressive", vistosa almeno fino ai primi anni Ottanta, così come l'incertezza su quali artisti costituiscano il "canone" del progressive rock inteso come genere, inducono a mettere ulteriormente in discussione l'assunto secondo cui lo scopo del punk fosse, sul piano musicale, "uccidere il prog".
Esce invece rafforzata l'impressione che l'intera retorica punk killed prog sia una costruzione giornalistica, elaborata a partire dai preconcetti di una parte della critica musicale che già da prima aveva iniziato a ricercare valori alternativi a quelli poi identificati col prog.
Ai nostri giorni, però, presso appassionati e addetti ai lavori questa lettura risulta largamente maggioritaria. Sorge dunque spontanea una domanda: guardando il quadro con la prospettiva permessa dagli strumenti di oggi, è ancora legittimo affermare che il punk abbia spazzato via il prog settantiano come oggi lo intendiamo?

Parte 2: realtà?

 

Lo sguardo del grande pubblico…

 

Per scoprire se il punk abbia o meno fatto piazza pulita del prog, bisogna anzitutto capire quale ambito si stia trattando: si intende che dopo l'esplosione del punk il prog non venne più suonato, o che non ebbe più successo?
Non è una differenza da poco: il primo caso implicherebbe che il punk abbia fatto da deterrente contro il prog presso i musicisti, il secondo caso che abbia modificato i gusti degli ascoltatori al punto da rendere il prog improponibile. È stato dunque il produttore (gli artisti) o il fruitore (il pubblico) a rinnegare il prog sulla spinta del punk?
Entrambe le cose, risponderebbe probabilmente la critica odierna, e invece nessuna delle due, dati alla mano. È necessario scardinare l'universalità di questa visione: la percezione attuale vuole infatti che il punk abbia spazzato via il prog ovunque, quando in realtà il rapporto fra i due è stato ben diverso a seconda del luogo, con discrepanze radicali non solo fra paesi anglofoni e non, ma anche solo fra Regno Unito e Stati Uniti.

 

Quella che oggi la critica propugna è una visione proveniente dal Regno Unito (gli Stati Uniti sono arrivati a risultati simili compiendo, come già visto, un percorso diverso) e solo in seguito esportata nelle altre nazioni, le cui rispettive classi giornalistiche hanno aderito alla vulgata, aiutandone la diffusione a macchia d'olio (basti pensare in Italia a "Il mucchio selvaggio").
Va anche detto che decenni fa non era facile rendersi conto di quanto la narrazione fosse parziale, essendo le informazioni molto più difficili da reperire e comparare. Questo stesso articolo è una conseguenza diretta della possibilità di accesso alla documentazione necessaria tramite la Rete e trent'anni fa non sarebbe stato possibile scriverlo.
L'analisi si concentrerà ora su uno sguardo all'andamento delle vendite nel Regno Unito, sia perché luogo d'origine di questo travisamento, sia perché paese centrale – ben più degli Stati Uniti – per il punk e il post-punk: oltre all'enorme numero di band autoctone, addirittura molte band americane ottenevano lì la visibilità che il proprio paese negava loro (i Ramones, che non hanno mai raggiunto la top 40 negli Stati Uniti, andavano in top 10 nel Regno Unito; i Television, che non hanno mai raggiunto la top 200 negli Stati Uniti, andavano in top 10 nel Regno Unito; quando i Blondie divennero noti negli Stati Uniti, nel Regno Unito avevano già ottenuto quattro hit; più in piccolo, i Pere Ubu uscivano per la britannica Chrysalis).

 

classifica_britannica_maggio_1969Fu quindi l'emergere di questi nomi a spazzare via il prog, almeno nel Regno Unito?
È proprio l'andamento commerciale del genere a chiarire il quadro. Il primo disco prog a toccare la vetta della classifica britannica fu "On The Threshold Of A Dream" dei Moody Blues, nel maggio del 1969. Più tardi quell'anno gli fece seguito "Stand Up" dei Jethro Tull. Solo due titoli, ma è comprensibile, dato che si tratta di un anno ancora embrionale per il movimento (almeno per la nozione che ne abbiamo ora).
Nel 1970, la prima stagione dell'epoca d'oro, la situazione tuttavia non migliorò: "A Question Of Balance", ancora dei Moody Blues, e "Atom Heart Mother" dei Pink Floyd. Peraltro, due album di band che non sono esemplificative del prog (i Moody Blues incidevano brani piuttosto brevi e i Pink Floyd erano modesti a livello tecnico rispetto agli altri nomi di punta).
Nel 1971 toccò a "Tarkus" di Emerson Lake & Palmer e a "Every Good Boy Deserves Favour": ancora una volta i Moody Blues (è interessante vedere come una band oggi considerata di confine, all'epoca fosse il vero nome di punta). Nel biennio 1972-73, in quello che oggi è ritenuto l'apogeo del genere, nessun disco raggiunse il numero 1.
Il digiuno venne rotto nel gennaio del 1974, con "Tales From The Topographic Oceans" degli Yes, a cui fecero seguito nel giro di pochi mesi "Journey To The Centre Of The Earth" di Rick Wakeman e due album di Mike Oldfield: "Tubular Bells" e "Hergest Ridge". Un ritorno di fiamma destinato a non durare: nel 1975 il colpo riuscì solo a "Wish You Were Here" dei Pink Floyd (peraltro per un'unica settimana) e nel 1976 il conteggio tornò a zero.
Così, il triennio più ricco del prog a livello di dominio della classifica britannica finì con l'essere il 1969-71. Anche la congiuntura felice che si verificò nel 1974 è illusoria, visto che pur trattandosi di quattro album, gli artisti interessati furono soltanto Oldfield e gli Yes (di cui il sopraccitato Wakeman faceva parte).

 

I Sex Pistols entrarono per la prima volta in classifica nel dicembre del 1976: il che significa che nel momento in cui il pubblico si accorse di loro non c'era una band prog al numero 1 da quattordici mesi (da "Wish You Were Here", per l'appunto).
È evidente che il prog non possa aver smosso le coscienze dei punk fino al punto che si vuole far credere, perché pur avendo ottenuto notevoli riscontri, non ha mai dominato la scena.

… e la prospettiva degli appassionati

 

Non è solo questione dei relativamente pochi album al numero uno (spesso peraltro neanche con i nomi che oggi ci si aspetterebbe): molti gruppi che attualmente vantano grande culto in quel frangente, all'epoca erano stati del tutto irrilevanti nel Regno Unito.
I Van Der Graaf Generator, i Gentle Giant e i Caravan non entrarono mai nella top 40 britannica. I King Crimson, dopo il buon riscontro dei primi due album, scomparvero sostanzialmente dai piani alti, racimolando soltanto una settimana in top 20, con "Larks Tongues In Aspic" (1973). Addirittura i Jethro Tull dopo il 1972 non toccarono più la top 10 (prima che "The Zealot Gene", nel gennaio 2022, rompesse il tabù).
Si potrebbe a questo punto aggirare l'ostacolo sostenendo che il rock progressivo, pur non essendo onnipresente come viene spacciato, fosse comunque una forza che monopolizzava lo spazio fra gli appassionati: la nicchia del resto ha sempre percezioni dissonanti rispetto alla realtà.
Così come chi ha ascoltato musica alternativa negli ultimi vent'anni percepirà Radiohead e Arcade Fire come onnipresenti, laddove il mercato era dominato non certo da loro, ma da Eminem, Rihanna e dintorni, anche all'epoca poteva accadere che nel proprio ambiente di riferimento Emerson Lake & Palmer venissero percepiti come più presenti dei Carpenters (tanto per citare un nome davvero egemone nelle classifiche britanniche dell'epoca).
In effetti, nel settembre del 1973 i lettori di Melody Maker vennero interrogati sui propri musicisti preferiti e i risultati furono: Yes migliore band (seguiti da Emerson Lake & Palmer), Carl Palmer miglior batterista, Chris Squire (Yes) e Greg Lake entrambi sul podio dei bassisti, Rick Wakeman miglior tastierista (seguito da Keith Emerson), mentre fra i chitarristi si affermava Jan Akkerman, della band prog olandese Focus.
Eppure ci sono elementi che indicano chiaramente come neanche questa ipotesi regga fino in fondo. Quei sondaggi restituirono infatti liste in cui, tolta la devozione mistica per Elp e Yes, comparve un po' di tutto: Led Zeppelin, Mahavishnu Orchestra, Santana, Deep Purple, Roxy Music, David Bowie, Alice Cooper, Jeff Beck, ex membri dei Cream.
Nessuno degli appena elencati rientra nel prog come oggi lo si intende, il che dimostra come neanche nella nicchia degli appassionati la sua presenza fosse soffocante.

Altre "vittime": il caso del glam rock

 

Non è tutto: fra i generi che dominarono le classifiche prima dell'avvento del punk ci fu il glam rock, che era piuttosto benvoluto nella scena punk e i cui musicisti vennero presi spesso come esempio della pochissima musica pre-1977 degna di essere salvata (si è già spiegato come, proprio il fatto che venisse rigettata quasi in toto, finisca con lo scagionare il prog, che non era evidentemente un problema di per sé).
Del glam fecero parte David Bowie, T. Rex e Mott The Hoople, musicisti che i punk rispettarono quasi da subito – quando addirittura Beatles e Rolling Stones erano fra i nemici – e di cui in qualche modo sentivano di proseguire la missione.
Il glam, a differenza del prog, aveva cavalcato la classifica in maniera a tratti schiacciante, e non solo quella degli album, ma anche quella dei singoli, dove il prog fu quasi del tutto assente.

 

steve_harley__cockney_rebelPertanto, quant'è credibile che, verso la fine del '76, in Gran Bretagna ribollisse una generazione di ragazzi oppressi dal prog, quando uno degli stili che maggiormente apprezzavano aveva dominato fino a poco prima?
Salta peraltro all'occhio come il glam tirò le ultime zampate nel 1975 (benché epocali, in particolare con "Make Me Smile" di Steve Harley), e nel 1976 fosse sostanzialmente scomparso. Il prog non fu dunque l'unico genere a declinare commercialmente proprio in quel momento: altro elemento che dovrebbe far intuire come, semplicemente, la musica popolare sia costruita da cicli, e che all'epoca i generi musicali emergevano e si inabissavano nel giro di pochi anni. Il rock progressivo da questo punto di vista non se la cavò neanche male, resistendo dalla fine dei Sessanta alla metà dei Settanta: il punk della prima ora ebbe vita decisamente più breve (due-tre anni), eppure nessuno raccontò poi che qualche genere successivo l'avesse "spazzato via".

 

A smentire l'idea che il pubblico britannico abbia voltato le spalle al prog all'arrivo del punk non è comunque solo il fatto che gliele avesse già voltate indipendentemente, ma anche due curiosi colpi di coda avvenuti nell'estate del 1977, quando il fenomeno punk era ormai pienamente esploso, con gli Stranglers a imperversare nella classifica degli album e i Sex Pistols in quella dei singoli.
Elp e Yes tornarono infatti dopo due lunghe pause (erano entrambi stati in silenzio per quasi tre anni – ed è probabile che questa assenza concomitante abbia contribuito a sgonfiare il potere commerciale della scena prog) e azzeccarono dei successi sorprendenti: i primi con il 45 giri di "Fanfare For The Common Man", che in luglio si spinse al numero 2 (doppiamente inusuale, data l'allergia del prog alla classifica dei singoli), i secondi con l'album "Going For The One", che appena un mese dopo andò al numero 1 e divenne il loro maggior successo in patria.
Si tratta di due eventi episodici, che non generarono strascichi e non risollevarono il resto del prog, ma sono avvenuti nel bel mezzo della tempesta e dimostrano che non c'era un legame diretto fra successo del punk e insuccesso del prog.

Di estinzioni e linee evolutive

 

Chi dunque ha ucciso il prog, se non il punk? È una domanda che in realtà poggia su una fallacia logica, perché presuppone che nella musica popolare – ma il discorso potrebbe valere per l'arte in generale – i generi debbano sopprimerne altri per potersi imporre. La storia dell'arte mostra invece che, nel momento in cui il pubblico è abbastanza ampio, anche movimenti agli antipodi possano coesistere, in quanto non saranno necessariamente le stesse persone a fruirne.
La visione che prima ci fosse il prog e poi sia arrivato il punk a sostituirlo non funziona anzitutto perché sembra presupporre che nel rock ci sia spazio per un solo stile alla volta e che la progressione consista in una sfilata di antitesi e opposti. Eppure si è appena visto che prog e glam coesistettero, spesso confondendosi, e non rappresentarono certo gli unici approcci al rock presenti all'epoca: i primi anni Settanta videro anche abbondanza di hard rock, folk rock e blues rock, per dire solo alcuni dei filoni più diffusi nel Regno Unito.
Il rock si sviluppa insomma seguendo più linee evolutive in contemporanea. Ovviamente non è detto che la distanza fra queste debba rimanere incolmabile: persino il punk e il prog finirono col collimare nell'operato di alcune band, ma in linea di massima rimasero due distinte ramificazioni dell'albero del rock.

 

Il rock progressivo nacque come mutazione di baroque pop e psichedelia, raggiunse l'apogeo commerciale sotto forma di ciò che attualmente chiamiamo prog sinfonico, si mosse al confine con altri generi, ibridandocisi (progressive folk, jazz-rock, heavy psych), e generò serie di sottocorrenti sperimentali più ostiche, difatti destinate al sottobosco (Rock in Opposition, scuola di Canterbury).
Poi a metà anni Settanta sopraggiunse il declino commerciale, dovuto in parte a fattori fisiologici e in parte ad aspetti congiunturali. Fra i primi rientra il passare del tempo: all'epoca, ben più di oggi, il pubblico perdeva interesse nel sentire riproposte sonorità simili per diversi anni consecutivamente e capitava che pure i generi costantemente presenti in classifica scemassero per semplice inedia, senza bisogno di rivoluzioni.
Fra i secondi rientrano coincidenze (i già citati tre anni di pausa di Elp e Yes), eventi imprevedibili e avvenimenti complessi riguardanti l'intero spettro socio-culturale: si pensi per esempio alla perdita del potere commerciale che colpì buona parte del rock sul mercato britannico intorno al 1976. Senza indagarne i motivi, che necessiterebbero uno studio a parte, ci si limita a constatare che svariate correnti del rock si trovarono in difficoltà a livello locale in quel periodo.
Il calo delle vendite comportò ovviamente un calo degli ascoltatori (oltre che per il prog e per glam rock, anche per folk rock, blues rock e hard rock) e questo, a sua volta, una diminuzione del numero di persone che provarono a riprodurre musica di quel tipo. Coloro che nonostante tutto insistettero si ritrovarono relegati nell'underground senza più alcuna possibilità di emergere.

 

after_the_fireLa fine degli anni Settanta nel Regno Unito è ritenuta una sorta di traversata nel deserto dell'indifferenza per il rock progressivo, prima che arrivassero il neo-prog e il relativo, rinnovato interesse di pubblico.
Eppure, non solo fra il prog antecedente al punk e il neo-prog ci fu una serie di band che, seppur a livello carbonaro, proseguirono testardamente quel sentiero (tanto per dirne alcuni: i sinfonici Grace e After The Fire, i più sperimentali Art Bears e National Health), ma anche la musica circostante, in assenza di un prog ben visibile, dimostrò di non averlo dimenticato.
Anzitutto tramite le leve dell'emergente new wave – si pensi a nomi come Stranglers e Magazine – e in secondo luogo tramite alcuni degli stessi  grandi nomi del prog, che snellirono la propria musica fino a perdere, almeno in parte, le caratteristiche che li avevano resi classificabili in quel modo. Ne assunsero però di nuove, che li fecero confluire in parte verso la new wave (si pensi alle produzioni solistiche di Peter Gabriel o ai King Crimson con Adrian Belew), in parte verso il rock da arena americano (i Supertramp di fine anni Settanta), in parte a metà strada fra le due scuole (i Genesis della fase come trio), senza che tuttavia il legame con il loro stile di provenienza svanisse.
Se è vero che né la musica degli Stranglers, né quella dei nuovi Genesis, poteva essere confusa con il prog dei primi Settanta, era comunque palese che lo avessero rispettivamente ascoltato e suonato: per questo, in molti tratti della new wave e del nuovo rock da classifica rimase percettibile una sorta di radiazione di fondo, che probabilmente favorì non poco il risveglio commerciale del neo-prog.
Inoltre, anche se si trattò di un fenomeno meno vistoso di quelli appena accennati, molti nomi storici del prog avrebbero contribuito in maniera sostanziale alla nascita del movimento new age (fra gli apporti più signiticativi quelli di Mike Oldfield, Vangelis, Jade Warrior e Jon Anderson degli Yes come solista).

 

Il prog non venne quindi ucciso: le vecchie glorie trovarono altri sentieri, mentre il resto sprofondò sottoterra, dove rimase a germinare per qualche anno, in attesa di momenti più propizi per la diffusione sul mercato.

Dove i dinosauri divennero uccelli: gli States e l'Aor

 

A riprova di quanto la storia del rock non sia un oggetto monolitico, spostando il focus del discorso sugli Stati Uniti, ci si accorge di quanto la prospettiva cambi.
Il fenomeno prog ebbe lì un andamento completamente diverso rispetto al suo paese natio. Se oggi la critica indica il genere come profondamente britannico e sostanzialmente estraneo alla cultura americana, è anche perché effettivamente a livello locale non si sviluppò una scena.
Ci furono molte band vicine alle sonorità del prog britannico, in particolare quello sinfonico, ma rimasero nel sottobosco, spesso mettendo piede poco all'infuori dei propri garage e ignorando una l'esistenza delle altre: non un deficit da poco, dato che la consapevolezza reciproca di chi ne fa parte è uno degli elementi necessari affinché si possa parlare di "scena". Pochissimi gruppi arrivarono al contratto con una major e fra questi solo i Pavlov's Dog ottennero un pur minimo rilievo (con "Pampered Menial" toccarono il numero 181 in classifica).
Tuttavia, l'impatto del prog negli Stati Uniti fu notevole, anzitutto per i riscontri delle band britanniche: i Moody Blues piazzarono quattro album sul podio fra il 1970 e il 1972, i Jethro Tull altrettanti fra il 1972 e il 1974, gli Yes e gli Elp toccarono ripetutamente la top 10. Ci furono anche band che trovarono riscontro prima lì che in patria, come per esempio i Renaissance, o che lo trovarono solo lì (i Gentle Giant, che nel '75 fecero capolino nella top 50 con "Free Hand": un risultato non da poco per la complessità della loro musica).

 

È però il fenomeno dell'Aor a dimostrare davvero quanto contò il prog da quelle parti e per paradosso anche come mai il prog non generò un scena locale vera e propria. Pur essendo un acronimo, la sigla può avere due differenti significati: album-oriented rock e adult-oriented rock. Il primo nacque negli anni Settanta e indicava un format radiofonico (evoluzione del già menzionato format "progressive"), portato avanti da canali dedicati alla trasmissione di hard rock, prog e del soft rock più raffinato (talvolta ibridato con funk, jazz e sonorità westcoastiane). Il nome nasceva dal fatto che venissero spesso suonate anche tracce interne agli album e non solo i 45 giri: inutile dire che le band prog britanniche beneficiarono molto da un simile trattamento.
Il secondo significato, emerso negli anni Ottanta, sta a indicare un genere musicale nato con Styx e Reo Speedwagon, intorno alla metà dei Settanta. L'uso della sigla ha finito per generare una certa confusione: in molti oggi credono che, essendo gli esponenti del filone adult-oriented molto presenti nelle programmazioni album-oriented, il genere musicale debba raccogliere tutti gli artisti trasmessi da quella tipologia di radio.

A scanso di equivoci, l'Aor a cui ci si riferisce in questo articolo è esclusivamente l'adult-oriented rock derivato dalle due band sopraccitate, spesso indicato anche come arena rock, e in sostanza nato come mutazione del rock progressivo: si pensi a pietre miliari come "The Grand Illusion" degli Styx e "Leftoverture" dei Kansas.
Il loro era uno stile che, pur mantenendo un piede nel prog, portava anche qualcosa di nuovo. Il prog era il modello di partenza, ma le intricatezze ritmiche e armoniche venivano in parte filtrate, e inoltre si rinunciava alle suite, iniettando nella formula chitarre hard rock alleggerite da una produzione scintillante e armonie vocali dall'afflato epico. Che a tutti gli effetti fossero prodotti che non collimavano del tutto col prog classicamente inteso lo indica il fatto che, nonostante il loro grande impatto, la critica ritiene ancora oggi che quest'ultimo fosse estinto da prima della loro pubblicazione.

 

asiaL'Aor fu un genere di immenso successo commerciale negli Stati Uniti, superiore anche a quello dello stile che lo generò, e questo fece da pietra tombale sul possibile sviluppo di una scena prog americana: perché insistere su quel versante, rivelatosi costantemente infruttuoso per le band locali, quando questa nuova versione smussata concedeva possibilità di far carriera in misura esponenzialmente maggiore?
L'attrattiva dell'Aor fu tanto grande che addirittura le band britanniche ne furono ammaliate: è vero che nel Regno Unito non generò la stessa isteria incontrata in patria, ma le vecchie glorie erano da sempre bene attente al mercato americano e notarono subito le possibilità offerte da quel nuovo orizzonte. Assai più che gli atteggiamenti filo-punk della stampa britannica, fu la volontà di rafforzarsi sul fronte americano a spingere molte band chiave del prog britannico verso uno stile più pop: Genesis, Yes e Moody Blues hanno tutti prodotto brani – o addirittura interi album – in stile Aor, mentre altri veterani della scena, rimasti momentaneamente senza band, si riunirono appositamente in progetti Aor come Asia e Gtr.

 

Ecco perché il prog finì con lo scemare anche negli Stati Uniti: niente punk a spazzarlo via, bensì un naturale evolversi fino a trasformarsi in altro.
La narrativa del punk rottamatore si applicherebbe del resto particolarmente male al mercato statunitense, dove i Ramones – come già detto – non raggiunsero mai il mainstream: da un lato non ebbero quindi possibilità di intaccare la reputazione di Jethro Tull o Yes, che vendevano milioni di dischi, e dall'altro non ebbero alcun motivo di prendersela con le band prog loro connazionali, che erano sconosciute ai più (quasi sicuramente anche agli stessi punk).
Il punk americano, pur sorretto da uno spirito nichilista, aveva comunque un approccio meno distruttivo di quello britannico: non era interesse del movimento annientare la musica preesistente, perché nacque più come atto d'amore che di guerra. Emerse guardando al rockabilly anni Cinquanta, al garage rock anni Sessanta, al power pop e al glam dei Settanta, e fu quelli che andò a sostituire o modificare, non il prog.
Non che i punk apprezzassero solo quei modelli. I Cream, i Traffic, gli Yes o i Santana saranno sicuramente rientrati fra gli ascolti di molti di loro, ma comportavano un livello tecnico troppo elevato. Non tutti erano disposti a spendere giornate intere piegati sulla chitarra per ottenere la maestria necessaria a eseguire quei brani, quando potevano suonare musica molto più semplice come quella di Stooges e Velvet Underground. Spesso ciò che orientò i musicisti americani al punk fu nient'altro che questo.

 

Solo quando il movimento sbarcò nel Regno Unito assunse quei toni antagonisti che abbiamo già ampiamente esplorato. Tuttavia, anche lì la vera attrattiva non fu aggredire qualche movimento musicale preesistente (quello al massimo era un buon espediente pubblicitario), ma avere la possibilità di suonare la propria musica senza eccessivi sacrifici. Lo spiegano bene le impressioni del già citato Mark P. e di Peter Hook, bassista di Joy DivisionNew Order:

La musica rock non era affatto merda prima del punk, ma avevo sempre avuto questa sensazione che ci fosse un divario fra noi e loro, le band, che non avremmo mai potuto colmare. Era come un club speciale che aveva i Beatles e gli Stones come fondatori, e l'unico modo per diventarne membri era star seduti per anni da soli nella propria stanzetta a imparare come suonare la chitarra.
(Mark P, citato in "Sniffin' Glue: The Essential Punk Accesory", 2000)

Poi giunsero i Sex Pistols e suonavano terribili e dicevano a chiunque semplicemente di andare a farsi fottere. La nostra reazione fu: 'Oh mio dio! Potrei essere in grado di farlo; sarei capace di suonare altrettanto da schifo e dire a tutti di andare affanculo. Questo sì che saprei farlo anch'io!'.
Fu una rivelazione, perché prima di allora l'immagine del musicista erano Jimmy Page, John Paul Jones, Santana - completamente intoccabili, non potevi nemmeno considerare di essere nella loro stanza a un concerto, figurarsi provare a fare musica come loro! Coi Sex Pistols e il punk, d'un tratto sembrò che anche tu potessi farcela. Creammo una band, io e Barney [Bernard Sumner], appena uscimmo dalla porta. [...] Questo era l'effetto che aveva su di te. Mi fece formare una band, qualcosa che non avevo nemmeno mai preso in considerazione!
(Peter Hook, citato in "The Light Pours Out Of Me: The Authorised Biography Of John McGeoch", 2022)

Paese che vai, tramonto che trovi

Quando esplose la disco music, e si attuò un cambiamento generazionale, tutto quello che c'era prima fu spazzato via. Ci trovammo, dal giorno alla notte, senza richieste e pubblico.
(Aldo Tagliapietra delle Orme, intervista per OndaRock

Album interamente strumentale per gruppo rock e orchestra sinfonica, proprio mentre la disco music ci stava invadendo.
(Vittorio Nocenzi del Banco, sull'album "...di terra", intervista per Il Manifesto

Non c'erano posti per suonare, per l'avvento della disco music…
(Franco Mussida della Premiata Forneria Marconi, intervista riportata sul sito dell'Aess

Queste tre citazioni introducono un ultimo elemento che vale la pena discutere: i gruppi prog italiani percepirono di essere stati messi in difficoltà dalla disco music, e oggi nessuno dei loro membri cita il punk come elemento demolitore.
Il motivo è semplice: in Italia il punk non attecchì. Quasi nessuno ne suonava nel momento in cui il prog nostrano andava scomparendo, ossia fra il 1977 e il 1978: trovarono sbocco discografico soltanto gli Skiantos, che uscivano per la Cramps di Gianni Sassi, e i Decibel di Enrico Ruggeri, gli unici capaci di entrare in classifica (benché senza mai raggiungere la top 20). Due sole band, una delle quali pubblicata da un'etichetta nettamente orientata al prog. Eppure, anche senza il punk, in Italia il prog è sopravvissuto di un anno o poco più rispetto al declino britannico.

 

Ovviamente anche l'interpretazione dei musicisti italiani che abbiamo riportato è discutibile: nel nostro paese la disco music esplose nel 1975, con Barry White, il che significa che per circa due-tre stagioni convisse in classifica con il prog. Peraltro, non si capisce perché solo il prog avrebbe dovuto subirne l'impatto: ci furono molti cantautori che in quel periodo, pur senza concedersi alla disco, non subirono alcun contraccolpo commerciale. Alcuni di questi ricorsero peraltro proprio alla Premiata Forneria Marconi per arrangiare i propri dischi (da Alberto Fortis a Fabrizio De André).
Anche in questo caso, il declino di un genere, concomitante all'ascesa di un altro, fece percepire un collegamento diretto che in realtà non ci fu, tanto da non venire neanche sospettato dal resto dell'industria musicale. Che esclusivamente gli ascoltatori prog si fossero convertiti esclusivamente alla disco music è piuttosto difficile da credere, o perlomeno non risulta alcun dato attendibile al riguardo.

 

sbb_01L'Italia non fu l'unico paese in cui il calo del prog non è stato collegato al punk neanche in restrospettiva: allontanandosi ulteriormente dall'anglosfera l'assenza del legame si fa addirittura più manifesta.
La Polonia, per esempio, fu segnata da una ricca scena prog. Dischi in quello stile uscirono addirittura fino ai primi anni Ottanta ("Memento z banalnym tryptykiem" degli SBB, "Supernova" degli Exodus), con sonorità peraltro già sorprendentemente vicine a quelle del neo-prog britannico. Non si verificò insomma alcun periodo di vuoto commerciale fra la stagione classica e quella del revival, che sono quindi viste come un unico filone.
A un certo punto però il prog declinò anche lì (dal 1983 in poi non risulta più alcun successo in classifica) e senza che la nazione avesse sviluppato una scena punk. Ne ebbe invece una new wave, che esplose nel 1981 con gli album di debutto di Maanam e Izabela Trojanowska.
Ebbene, molti musicisti appartenenti alla new wave locale provenivano non dal punk, ma proprio dal prog: il chitarrista dei Maanam, Marek Jackowski, era stato membro degli Anawa, così come le canzoni di Trojanowska erano scritte e suonate dai Budka Suflera. Anche le band new wave che non avevano precedenti esperienze nell'industria discografica mostrarono spesso collegamenti evidenti con il prog: si pensi ai Republika, con i loro assoli di flauto, i ritmi in tempi dispari, i virtuosismi di chitarra e tastiere.

 

Il gioco potrebbe espandersi in molte direzioni, perché il prog è stato geograficamente molto più diffuso del punk durante gli anni Settanta, per cui sarebbero molte le scene in giro per il mondo in cui il prog a un certo punto è declinato senza che il punk avesse niente da dire al riguardo, in quanto sorto tempo dopo o addirittura mai: dal Giappone (in cui il prog, pur molto diffuso a livello sotterraneo, non trovò mai la strada delle classifiche) alla Spagna, passando per l'Argentina (altro caso in cui la scena new wave nacque senza passare per il punk e contò fra le sue fila giganti della scena locale quali Luis Alberto Spinetta e Charly García, entrambi provenienti dal prog).

Conclusione

 

La morte del prog – ammesso che sia mai avvenuta e anche volendo escludere le tante resurrezioni – non è insomma dovuta a un assassinio, ma a un naturale sfaldamento, a volte graduale, a volte più improvviso, oltre che differente a seconda dei contesti. Il fatto la sua fine sia "provincializzabile" a seconda della prospettiva la dice lunga su quanto scarso possa esser stato il ruolo del punk per il processo. Eppure, il filone perdette di centralità tanto in Gran Bretagna quanto altrove, indipendentemente dal suo godere di buona o cattiva stampa, dell'approvazione o del disprezzo degli altri artisti.

 

Sgombrato il campo da improbabili (ancorché assai gettonati) esecutori materiali, altri fattori acquistano credibilità come concause del declino del prog in termini di attrattiva.
Un aspetto cruciale fu la difficoltà di ampliare vocabolario e raggio d'azione mantenendo la riconoscibilità. Il genere fu incentrato sulla commistione stilistica e diede particolare importanza nel suo ricettario ad alcuni linguaggi specifici: il pop barocco, il rock psichedelico, il jazz, il folk, la musica classica europea. Oltre a questi filoni consolidati, vi furono legami profondi anche con altri ambiti, in forte sviluppo proprio in quegli anni: la fusion, l'heavy rock (con cui il prog era spesso sovrapposto a livello giornalistico), la nascente musica elettronica.
Alcuni di questi stili, come fusion e baroque pop, erano già di per sé costitutivamente ibridi; altri faticavano a rinnovarsi riscattando la propria popolarità. Di contro, le sonorità heavy e quelle elettroniche erano in forte sviluppo, ma la loro adozione portò a derive dotate di un'estetica e di un pubblico propri, non più identificabili in tutto e per tutto con il prog.
Molti artisti sperimentarono l'assimilazione di nuovi linguaggi (reggae e disco sono solo due dei possibili esempi), ma anche quando ottennero risultati convincenti non spalancarono per il filone orizzonti capaci di attrarre numerosi nuovi proseliti. Insomma, a un certo punto per svariati ascoltatori e musicisti il prog aveva esplorato pressoché del tutto le proprie possibilità ricombinatorie, e si era assestato su una serie di linguaggi statici (quello sinfonico, il Canterbury sound ecc.) per i quali si vedevano poche prospettive di sviluppo.
Anche gli elevati livelli tecnici associati al filone furono un deterrente all'ingresso in campo di nuove menti creative: l'apparente "irraggiungibilità" di virtuosi che avevano avuto anni per affinare le proprie abilità si combinava con le mirabolanti produzioni diventate lo standard del settore, determinando la sensazione che per nuovi musicisti fosse ormai impensabile affermarsi nell'ambito.

 

Fu insomma l'esaurimento dei low hanging fruits ("frutti sui rami bassi", e per questo più praticabili) a far arrestare la diffusione del prog nella sua forma più nota, spingendo tanto gli artisti già attivi quanto gli esordienti verso sonorità nuove. Che queste evoluzioni non siano state avvertite come dirette prosecuzioni del progressive è dovuto in parte allo stigma che, si è visto, la stampa impose sul filone e sul termine già dalla prima metà degli anni Settanta, e in parte dalla sempre maggior codificazione di ciò che potesse o meno ritenersi "progressivo".
Sebbene il termine fosse ancora associato a una gamma di significati più ampia di quella attuale, rispetto agli esordi tardo-sessantiani il suo uso era andato sempre più legandosi agli esponenti più in vista del filone sinfonico, facendo sì che qualunque modello alternativo fosse percepito come altra cosa. Circostanza in sé paradossale, visto che a muovere gli artisti verso nuovi orizzonti fu in buona parte proprio il gusto per la frontiera che era insito nell'espressione "progressive" fin dalla sua radice linguistica.

 

A riprova del legame fra progressive e ibridazione di linguaggi musicali, va infine osservato come l'aggettivo sia riemerso ciclicamente nei decenni successivi, in associazione con le derive più poliedriche di filoni differenti come il metal, la musica house e l'hardcore punk.
Ci si può spingere ad affermare che l'affiorare di una frangia prog sia la deriva inevitabile di qualunque corrente si sviluppi abbastanza a lungo da portare artisti e pubblico a ricercare l'adozione di forme più complesse e la commistione con altri stili. Tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta accadde a beat, folk rock e psichedelia, ma la stessa sorte capitò e continua a capitare a una vasta gamma di correnti musicali. Il punk, principale indiziato per un assassinio mai avvenuto, risulta in realtà assai più credibile come primo in ordine cronologico fra i filoni "progressivizzati" dopo la presunta fine del genere.

Punk vs. prog sul web

Bibliografia:

  • Nick Logan et al., "The NME Book Of Rock", Star Books, 1973 (e riedizioni successive)
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  • Aa.Vv., "Top Music '77", Arcana, 1977 
  • Caroline Coon, "The New Wave Punk Rock Explosion", Orbach and Chambers, 1977
  • Gino Castaldo, Simone Dessì, Bruno Mariani, Giaime Pintor, Alessandro Portelli, "Muzak", Savelli, 1978
  • Rina Antipirina et al., "Punk", Arcana, 1978
  • Nick Johnstone, "Melody Maker: History Of 20th Century Popular Music", Bloomsbury, 1999
  • Mark Perry, Terry Rawlings, "Sniffin' Glue: The Essential Punk Accesory", Sanctuary Pub Ltd, 2000
  • Gérard Nguyen, "Atem 1975-1979", Camion Blanc, 2010
  • Derek B. Scott, "Policing the Boundaries of Art and Entertainment", Kulturkritik und das Populäre in der Musik, 18, 53-63, 2016
  • The History Of Rock Magazine, 1976/1980, 2016
  • Chris Anderton, Chris Atton, "The Absent Presence Of Progressive Rock In The British Music Press, 1968-1974", Rock Music Studies, 7:1, 8-22, 2020
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  • Rory Sullivan-Burke, “The Light Pours Out Of Me: The Authorised Biography Of John McGeoch”, Omnibus Press, 2022