R.E.M. - Perfect Circle

Lifes Rich Pageant

LIFES RICH PAGEANT (1986)


BEGIN THE BEGIN

Rem - Perfect CircleSull’orlo di una crisi di nervi. Provati dall’esperienza frustrante di "Fables Of The Reconstruction" e da una serie sfibrante di performance live, i Rem rischiano di esplodere davvero. L’immagine plastica del crollo è la Rickenbacker di Peter Buck scagliata verso uno dei tecnici al Beacon Theater di New York, durante l’esibizione ai CMJ Awards. Un set proseguito poi, dopo le scuse imbarazzate di Stipe, con una versione a cappella di "Moon River". Ma l’abbandono in scena del chitarrista (che gli valse il titolo di “scemo della settimana” su Melody Maker) era solo una spia del malessere montato giorno dopo giorno nel corso del massacrante Preconstruction Tour. Con almeno tre episodi al limite: la contestazione a bottigliate da parte del pubblico durante un’esibizione di spalla agli U2 a Milton Keynes, in Inghilterra, la quasi-rissa in Canada tra Mills e un fan che stava insultando la band, e infine la furibonda resa dei conti interna nei camerini del JB Scott’s Theater di Albany, che Mills ribattezzerà “una simpatica seduta per chiarirsi le idee”.

Se le escandescenze di Buck non facevano altro che ribadirne il ruolo di rock’n’roll animal del gruppo, iracondo, ma contempo esuberante e trascinatore, le vere crepe si annidavano soprattutto nei dissapori tra Mills e Stipe, con quest’ultimo sempre più auto-relegatosi nel ruolo di intellettuale incompreso. Mills, forte di studi classici e di un background tecnico cruciale per gli equilibri sonori del gruppo, mostrava segni di crescente insofferenza di fronte agli atteggiamenti egocentrici di uno Stipe sempre più solitario e irrequieto, che manifestava la sua stravaganza anche sul palco, presentandosi avvolto in un gigantesco soprabito con macchie bianche dipinte sotto gli occhi e le mani legate col nastro adesivo. La solidità, invece, era incarnata dalla determinazione di Berry, la cui verve di performer dietro i piatti si sposava alla serietà del professionista.
I Rem, insomma, erano giunti a un punto di non ritorno: potevano diventare una delle mille indie-band che sono riuscite a imbroccare un paio d’album e poi si sono perse nelle nebbie dell’underground, oppure alzare la testa e guardare più in alto, cercando di rivitalizzare il magico sound degli esordi e sfondare definitivamente.

L’uomo della provvidenza si chiama Don Gehman. Di professione fa il produttore e ha già fatto la fortuna del rocker operaio John Cougar Mellencamp, puntando tutto su un suono diretto e senza fronzoli. I Rem individuano in lui la persona giusta per uscire dalle secche di "Fables". “Quell’album non riuscivo ad ascoltarlo, mi sembrava solo una nenia lamentosa”, racconterà Gehman. “Volevo fare dei dischi che mettessero meglio a fuoco le cose... Far sì che si potessero sentire e comprendere le parole che Michael cantava. Mi rendevo conto che anche così poteva essere impossibile cogliere il senso di quello che diceva, ma almeno la sensazione che se ne sarebbe ricavata non sarebbe stata così impalpabile” (Tony Fletcher, "R.E.M. La storia"). E Stipe gliene renderà atto: “Don Gehman è stato il primo produttore a sfidarmi come cantante, il primo a chiedermi cosa cantassi. È stato una spinta a esprimere meglio me stesso, mi ha rivelato le mie doti di cantautore”. Anche se poi preciserà: “Mi fece compiere un passo troppo lungo e mi ci vollero vari dischi per tornare indietro e ritrovare me stesso e i miei obiettivi. Fu come gettare un bambino nell’acqua ghiacciata e lasciarlo lì. Mi traumatizzò” (David Buckley, "R.E.M. fiction, una storia vera").
Anche la sede degli studi di registrazione – la tranquilla Bloomington, Indiana, città natale proprio di Mellencamp, con il suo lago e le campagne circostanti – era decisamente più consona alle corde del gruppo rispetto alla frenesia metropolitana di Londra. Così, pian piano i rem ritrovano armonia e buonumore. Il gusto per quella “commedia umana” che è la vita, "Lifes Rich Pageant". Un titolo che non nasce a caso: la frase è tratta infatti dal film con Peter Sellers "Uno sparo nel buio", un capitolo della saga della Pantera Rosa. Ed è – come nel film – la formula magica per esorcizzare tutte le difficoltà. Gehman riesce a rendere il sound “insieme robusto e trasparente”, secondo le indicazioni della band. Ma anche più corposo e orecchiabile, per poter far breccia nel pubblico. Con un drumming più possente e un organo a mantice a far da collante. L’energia e l’ispirazione si riaccendono. Come in un nuovo inizio. "Begin The Begin" è, allora, l’incipit ideale.

Birdie in the hand for life’s rich demand
The insurgency began and you missed it
I looked for it and I found it
Myles Standish proud, congratulate me

A philanderer’s tie, a murderer’s shoe

Life’s rich demand creates supply in the hand
Of the powers, the only vote that matters
Silence means security, silence means approval
On Zenith, on the TV, tiger run around the tree
Follow the leader, run and turn into butter

Let’s begin again, begin the begin
Let’s begin again like Martin Luther Zen
The mythology begins the begin
Answer me a question I can’t itemize
I can’t think clear, you look to me for reason
It’s not there, I can’t even rhyme here in the begin


Meglio un uovo oggi, per le grandi esigenze della vita
L’insurrezione è cominciata e tu te la sei persa
Io l’ho cercata e l’ho trovata
Myles Standish è orgoglioso, fammi i complimenti

La cravatta di un donnaiolo, la scarpa di un assassino

La ricca domanda della vita produce l’offerta nelle mani
Dei potenti, l’unico voto che conta
Il silenzio significa sicurezza, il silenzio significa approvazione
Allo Zenith, alla tv, la tigre corre attorno all’albero
Segui il capo, corri e diventa di burro

Ricominciamo, ricominciamo dall’inizio
Ricominciamo come Martin Luther Zen
La mitologia ricomincia dall’inizio
Rispondimi su un argomento che non riesco a chiarire
Non riesco a pensare con chiarezza, mi guardi in cerca di ragionevolezza
Qui non ce n’è, non riesco nemmeno a fare una rima qui all’inizio

Un nuovo inizio, dunque. Un po’ come quello che Springsteen auspicherà nell’inno "The Rising". Certo, i Rem non attingono alla stessa epicità, il loro linguaggio è sempre sconnesso, frammentato, allusivo. Ma è proprio a partire da "Lifes Rich Pageant" che Stipe e soci acquistano la definitiva consapevolezza del loro ruolo di portabandiera della nuova nazione rock. “Uniamoci e costruiamo un nuovo paese”, canteranno esplicitamente su "Cuyahoga". Non è la Daydream Nation dei Sonic Youth, ma qualcosa di non troppo dissimile. Ricoperti da un velo di populismo rurale ancora una volta in sintonia con le radici “sudiste”, i testi del disco affrontano temi sociali e politici con inusitata chiarezza. Mettendo in mostra un approccio positivista che dissolve quella cappa di apatia depressa lasciata in dote dal punk prima e dalla new wave poi. La tecnica lessicale è quella – non nuova, del resto, in Stipe – del let’s, dell’esortazione, dell’incitamento permanente. Contro la disuguaglianza, anzitutto, che concentra soldi e potere nelle mani di una élite (“Life’s rich demand creates supply in the hand / Of the powers, the only vote that matters”). Ma anche contro l’apatia e la passività, perché chi tace acconsente (“Silence means security, silence means approval”, un possibile riferimento a due slogan, il primo divenuto celebre durante la Seconda guerra mondiale, il secondo mutuato da quello degli attivisti anti-Aids “Silence = Death”).
A fugare le insidie della retorica, provvede la consueta ironia nonsense, con un ricorso continuo ai giochi di parole, a cominciare dal titolo (che echeggia la "Begin The Beguine" di Cole Porter) fino a quel Martin Luther Zen che condensa in un brillante neologismo il padre della controriforma, Martin Lutero, il leader nero e pacifista Martin Luther King e la filosofia zen orientale, che rifiuta le lusinghe della società dei consumi. Tre diverse forme di ribellione al potere, insomma. Myles Standish è invece l’ufficiale inglese che guidò i pellegrini a fondare la colonia di Plymouth, uno dei primi spicchi di Nuovo Mondo.
Ma ancora una volta Stipe si spoglia di ogni velleità da cantore politico: non è lui che può reggere il peso del mondo, non è a lui che bisogna chiedere risposte. Example: the finest example is you”. Il migliore esempio sei tu. Ed è solo mettendosi in gioco individualmente che si può acciuffare il treno della rivoluzione prima che sia troppo tardi (“The insurgency began and you missed it”).
La scelta di accentuare l’impegno politico si sposa al recupero di un sound più irruento e diretto. La batteria si fa largo e sale in cattedra (non caso, campeggia in copertina proprio il volto di Berry, con le sue celebri sopracciglia unite in primo piano). Le frasi orientaleggianti di Buck oscillano tra morbidezza e distorsione, con guizzi funk-rock tenuti a stento in carreggiata, su cui la voce di Stipe saltella agile e corposa. Il risultato è un boogie convulso e arrembante, che scaraventa l’ascoltatore dentro il disco senza troppi complimenti.

THESE DAYS

Rem - Lifes Rich PageantMichael Stipe osa sempre di più. Se "Begin The Begin" era sostanzialmente un incitamento a scrollarsi di dosso l’apatia, "These Days" va ancora oltre, coinvolgendo direttamente la band in un inconsueto tentativo di instaurare un feedback diretto con il proprio pubblico.
Un manifesto di speranza, in cui i quattro georgiani si immaginano di fronte a un crocevia morale, facendosi interpreti in prima persona di propositi e ambizioni generazionali. Con una premessa che sembra quasi voler mettere le mani avanti rispetto a quel che seguirà.

Now I’m not feeding off you, I will rearrange your scales
If I can, and I can
March into the ocean, march into the sea


Non vivo in simbiosi con te, riordinerò la tua scala di valori
Se potrò, e so di potere
Marciare nell’oceano, marciare nel mare

Niente simbiosi, insomma, perché è impossibile un’identificazione completa tra artista e pubblico, ma per la prima volta i rem si “scoprono”, con un approccio mai così innodico e declamatorio.

All the people gather
Fly to carry each his burden
We are young despite the years we are concern
We are hope despite the times
All of the sudden, these days
Happy throngs, take this joy wherever, wherever...


Si riunisca tutta la gente
Ognuno corre a portare il proprio fardello
Siamo giovani nonostante gli anni, siamo la preoccupazione
Siamo la speranza, nonostante i tempi
All’improvviso, questi giorni
Folle felici, portate questa gioia ovunque, ovunque...

Un fiero senso di appartenenza che si manifesta ancor più direttamente nel verso successivo:

I wish to meet each one of you
And you, me, you, if I can and I can
We have many things in common, name three (three, three, three)


Vorrei incontrare ciascuno di voi
E voi, me, voi, se posso e so di poterlo fare
Abbiamo molte cose in comune, nominane tre (tre, tre, tre)

Stipe racconterà di aver scritto la canzone in una camera d’albergo, dopo un concerto in cui si era procurato una lesione agli occhi. Poco dopo, era tornato a vedere. Quel testo, dunque, poteva leggersi anche come metafora di una rivelazione. Poi, però, quel velo di timidezza e autoironia che ha sempre ammantato le canzoni dei Rem torna a stendersi, interrompendo bruscamente l’empatia generata dai versi precedenti.

I had a hat and it sunk, reached down
Yanked it up, slapped it on my head


Avevo un cappello ed è andato a fondo, è andato giù
L’ho tirato su con uno strattone, me lo sono schiaffato sulla testa

Come una parentesi comica a spezzare la tensione di un film drammatico. Stipe, dunque, è combattuto: da un lato, si scopre sempre più interprete di un’ansia generazionale che lo accomuna alla indie nation, al suo stesso pubblico; dall’altro, non rinuncia a preservare la sua indipendenza e il suo distacco, evitando di farsi coinvolgere in derive protestatarie che potrebbero minare l’originalità della sua creatura. Certo è che, come in "Begin The Begin", le parole suonano sferzanti come non mai, enfatizzate da sonorità aggressive, che lambiscono la furia del punk. Un galoppo sferragliante, con Mills che trova modo di dar vita a un controcanto da epopee e polvere da sparo.

FALL ON ME

Rem - Fall On MeMa i Rem non vogliono certo diventare una combat-band. Né nei testi – sempre filtrati da un approccio letterario e umanistico – né nei suoni, elegantemente forgiati nel solco della miglior tradizione folk-rock. Sono pur sempre dei sontuosi balladeer, insomma, e a ricordarcelo giunge proprio il singolo e capolavoro dell’intera raccolta.
Ariosa e struggente, "Fall On Me" è una tipica ballata circolare che attinge tanto alla canzone degli anni Cinquanta, quanto ai languori psych-folk di Byrds e Crosby, Stills, Nash & Young, stupenda nel breve doppio arpeggio introduttivo ed esemplare nella crescente linearità del verso che incontra un commosso ritornello, con Mills che si produce in uno dei suoi magici contrappunti. Resterà una delle migliori melodie mai composte dai Rem. “È una canzone sull’oppressione, si può applicare a tutto ciò che si vuole”, spiega Stipe. Il testo procede ancora una volta per accumulo di immagini, è allusivo, ma al contempo esplicito nel condannare le devastazioni ambientali, il progresso che deturpa la natura e insanguina il cielo. Il prologo, però, cita gli esperimenti di Galileo, che faceva cadere oggetti dalla torre di Pisa, rievocando quel tema della gravità cui si era già accennato a proposito di "Feeling Gravitys Pull".

There’s a problem, feathers iron
Bargain buildings, weights and pulleys
Feathers hit the ground before the weight can leave the air
Buy the sky and sell the sky and tell the sky and tell the sky

Don’t fall on me (What is it up in the air for) (It’s gonna fall)
Fall on me (If it’s there for long) (It’s gonna fall)
Fall on me (It’s over it’s over me) (It’s gonna fall)


C’è un problema, le piume sono ferro
Edifici a buon mercato, pesi e carrucole
Le piume cadono al suolo prima che il peso possa lasciare l’aria
Si compra il cielo, si vende il cielo, dì al cielo, dì al cielo

Non cadermi addosso (perché è in aria?) (sta per cadere)
Cadimi addosso (se sta lì a lungo) (sta per cadere)
Cadimi addosso (è finita, è sopra di me) (sta per cadere)

Il j’accuse ecologista, invece, affiora nei versi successivi, con un riferimento alle piogge acide, che corrodono le statue nei parchi e dissanguano il cielo.

There’s the progress we have found (when the rain)
A way to talk around the problem (when the children reign)
Building towered foresight (keep your conscience in the dark)
Isn’t anything at all (melt the statues in the park)
Buy the sky and sell the sky and bleed the sky and tell the sky...


Abbiamo scoperto il progresso (quando la pioggia)
Un modo per girare attorno ai problemi (quando i bambini regnano)
Costruire previsioni torreggianti (tieni la coscienza al buio)
Non è niente, dopotutto (sciogli le statue nel parco)
Si compra il cielo e si vende il cielo e si dissangua il cielo e di’ al cielo...

Al tempo della demagogia reaganiana, di un’America del benessere che cresce a ritmi vorticosi verso il progresso, i rem si fermano a contemplare la natura ferita da un’umanità cieca e senza più scrupoli (“keep your conscience in the dark”). Un grido di dolore che si eleverà ancor più vibrante nell’altro anthem ecologista del disco, "Cuyahoga".

CUYAHOGA

Rem - Michael StipeLe acque del fiume che scorre tra i Monti Appalachi si sono tinte di rosso. Non è solo il rosso del fango. È il sangue versato dai nativi indiani, una carneficina che resta una ferita e una macchia indelebile nella storia d’America. Nello stato dei Rem, la Georgia, si era consumata una delle pagine più crudeli di quello sterminio, la Marcia delle Lacrime (1838-39), durante la quale tredicimila indiani furono costretti a rifugiarsi a ovest del fiume Mississippi, percorrendo oltre 1.500 chilometri: un quarto di loro morì per il freddo e la fame. “C’è una mancanza di storia che è la versione americana del senso di colpa cattolico”, dirà Stipe, la cui bisnonna era un’indiana Cherokee, al giornalista inglese Jon Savage nel 1989. “Credo ci sia qualcosa che non quadra nel sogno americano. La gente non viene informata dell’annientamento della cultura degli indiani a cui apparteneva questa terra” (Jon Savage, "Time Travel. From The Sex Pistols to Nirvana. Pop, Media and Sexuality", 1977-96, Vintage, 1996).
Le acque del fiume Ohio, invece, sono state avvelenate dalle scorie industriali dei nuovi americani, che in nome del progresso stanno distruggendo la natura.
Mentre l’America si culla nel sogno reaganiano, i Rem scuotono le coscienze con una ballata che è un atto d’accusa, ma soprattutto un incitamento alla militanza attiva contro tutte le ingiustizie. “Uniamo le nostre menti e costruiamo un nuovo paese”, urla Stipe. Uno slogan politico a tutto tondo (anche se, stando a un’altra interpretazione, la frase potrebbe alludere invece alla ricostruzione dell’identità nazionale avvenuta proprio sulle macerie della civiltà indiana).

Let’s put our heads together and start a new country up
Our father’s father’s father tried
Erased the parts he didn’t like
Let’s try to fill it in, bank the quarry river, swim
We knee-skinned it you and me, we knee-skinned that river red


Uniamo le nostre menti e costruiamo un nuovo paese
Il padre del padre di nostro padre ci ha provato
Ha cancellato le parti che non gli piacevano
Cerchiamo di ricostruirle, arginiamo il fiume, nuotiamo
Ci siamo spellati le ginocchia io e te, abbiamo tinto di rosso il fiume

Il vecchio fiume Cuyahoga che scorre lungo l’Ohio, passando da Cleveland fino al lago Erie, attraversa un territorio che storicamente apparteneva agli indiani d’America. Era la culla di quell’antica civiltà, ma i bianchi l’hanno strappato loro con la violenza, bagnandolo del loro sangue e inquinandolo al punto da trasformarlo in una polveriera. Per Buck, è “la metafora dell’America e delle sue promesse perdute”.

Underneath the river bed we burned the river down
This is where they walked, swam, hunted, danced and sang
Take a picture here, take a souvenir
Cuyahoga
Cuyahoga, gone


Sotto il letto del fiume abbiamo bruciato il fiume
È qui che camminavano, nuotavano, cacciavano, danzavano e cantavano
Scatta una foto, prendi un souvenir
Cuyahoga
Cuyahoga, scomparso

Il ricordo dolente del fiume in agonia assume quindi i toni irati dell’invettiva. Contro coloro che stanno riscrivendo il libro della storia, incuranti delle loro colpe.

Rewrite the book and rule the pages, saving face, secured in faith
Bury, burn the waste behind you


Riscrivi il libro e metti in ordine le pagine, salvando la faccia, sicuro della tua fede
Seppellisci e brucia i rifiuti dietro di te

L’America è colpevole, dunque. Per il suo passato di sopraffazione e violenza, ma anche per il suo presente di individualismo sfrenato e corruzione. Stipe, però, a differenza dei suoi predecessori della punk generation, non si rifugia nel nichilismo. Vive anch’egli quel clima di euforia positivista che contaminò l’intero decennio Ottanta e crede ancora in una riscossa, ispirata a un senso di fratellanza e unità. Un ritorno all’innocenza perduta. Le cadenze da inno sono ben supportate dal basso enfatico di Mills e dal ritornello trascinante, che si apre in una delle tipiche melodie ariose della band. “Volevamo riproporre qualche chiamata alle armi à-la Jefferson Airplane”, ironizzerà Buck. Anche se Mills ammetterà che “l’attivismo degli anni Sessanta è approdato dall’innocenza al cinismo molto presto e ora prevale un clima apatico in cui ogni rockstar che pensi di poter cambiare le cose finisce inevitabilmente delusa”.
Ma "Cuyahoga" può essere ascritta alla categoria delle canzoni di protesta tout court? Non esattamente, secondo un’interessante riflessione di David Buckley, scaturita dalla premessa che la musica pop sia un cattivo veicolo per i messaggi politici, in quanto pensata soprattutto per parlare dell’interiorità. “Ciò che fecero i Rem”, scrive Buckley, “fu adottare quella che lo scrittore Simon Reynolds ha definito la tattica dell’entrismo. Le canzoni entriste utilizzano le melodie dolci del pop, ma i testi della polemica politica radicale; così, canzoni degli anni Ottanta di gruppi come gli Hue And Cry, i Wet Wet Wet, gli Style Council, i The The, i Deacon Blue o i Beautiful South potrebbero, a un primo ascolto, sembrare pop allegro e spensierato, ma a un esame più attento rivelano un fine didattico. È uno dei modi per trasmettere il messaggio: un testo polemico presentato in una confezione addolcita. E mentre la musica dei rem è più dirompente e più pittoresca, ed esprime più tristezza e vagheggiamento rispetto a molti dei nomi appena ricordati, Cuyahoga, nonostante la sua deriva metaforica, segue in parte questa tradizione entrista”.
Dolente e toccante, "Cuyahoga" segna uno dei vertici emotivi del disco e rimarrà un evergreen dei Georgiani. Ne realizzeranno una interessante cover i Decemberists di Colin Meloy.

HYENA

“L’unica cosa di cui aver paura è la paura stessa”, teorizzava Franklin Delano Roosevelt, presidente degli Stati Uniti dal 1933 fino al 1945. Michael Stipe rovescia l’enunciato per denunciare a chiare lettere uno degli incubi degli anni Ottanta: la minaccia nucleare.

The only thing to fear is fearlessness
The bigger the weapon the greater the fear
Hyena is ambassador to here

Night time fell like the closing
Meager pay, but recognition
Hyena crawls on his belly out
The town is safe again tonight


L’unica cosa di cui avere paura è la mancanza di paura
Più potente è l’arma, maggiore è la paura
La iena è l’ambasciatore di questo luogo

La notte è caduta come la fine
Paga infima, ma riconoscimento
La iena esce strisciando sul ventre
La città è di nuovo salva stanotte

Lo spettro degli armamenti nucleari, evocato con vigore dalle due superpotenze al tempo della Guerra Fredda, viene smascherato con un riferimento, ancora una volta, alla natura: "Hyena", la iena predatrice, diviene così l’unico, possibile “ambasciatore”. Racconterà Stipe: “Il mondo è una catena in cui il pesce grosso mangia il pesce medio che a sua volta ha mangiato il pesce piccolo. Gli Stati Uniti sono il pesce grosso, il Messico quello medio, il Guatemala il piccolo. Il pesce grosso diventa sempre più grosso. Ecco di cosa parla questo brano”.
Chitarre abrasive e torrenziali cadenze southern infiammano un nuovo, surreale apologo contro i danni dell’imperialismo a stelle e strisce, rinsaldando il nucleo politico del disco. Non un capolavoro, ma un brano tosto e diretto, che sicuramente sarà piaciuto a Gehman (anche se, in realtà, era stato inizialmente progettato per fables). Curiosità: lo strano grugnito iniziale è una delle imitazioni di animali in cui ama cimentarsi, anche sul palco, Michael Stipe.

THE FLOWERS OF GUATEMALA

Rem su Rolling StoneLa natura bifronte – dolce nella musica, feroce nei testi – di "Lifes Rich Pageant" si rinnova ancor più palese in "The Flowers Of Guatemala", un’ode a tutte le vittime delle dittature latinoamericane, introdotta dal breve (semi)strumentale tex-mex di "Underneath The Bunker" (i Calexico dieci anni prima?). Un arpeggio di chitarra tipicamente velvettiano, insistito e dimesso, è il filo spinato a cui si appende la tenerissima melodia di una ballata dalle cadenze funeree e spettrali, con percussioni dal fascino esoterico (triangoli e bicchieri) a danzare come ombre sullo sfondo. E nuovi intrecci vocali puntellano il lamento onomatopeico di Stipe.
Il fungo velenoso dell’amanita cresce rigoglioso sulle tombe dei caduti per la libertà, come a voler seppellire, insieme a loro, la verità storica di quei massacri.

I took a picture that I’ll have to send
People here are friendly and content
People here are colorful and bright
The flowers often bloom at night

Amanita is the name
The flowers cover everything
The flowers cover everything

There’s something here I find hard to ignore
There’s something that I’ve never seen before
Amanita is the name they cover over everything


Ho scattato una foto che dovrò spedire
La gente qui è amichevole e allegra
La gente qui è colorata e luminosa
I fiori sbocciano spesso di notte

Amanita è il loro nome
I fiori coprono tutto
I fiori coprono tutto

C’è qualcosa qui che trovo difficile ignorare
C’è qualcosa che non ho mai visto prima
Amanita è il loro nome, coprono tutto

È un nuovo atto d’accusa contro la politica imperialista degli Stati Uniti, artefice e complice impunita di quell’oppressione, con il suo sostegno alle dittature nei paesi latinoamericani e con il suo interventismo anti-comunista, che non conosce imbarazzo neanche di fronte alle stragi perpetrate dagli squadroni della morte in Salvador e dai contras in Nicaragua.

I BELIEVE

Stipe, stavolta, si è scoperto fin troppo. Lavora ancora per sottrazione, lasciando all’allusione metaforica il focus della narrazione, ma senza disdegnare inconsuete confessioni in prima persona. Così, tra l’intro di banjo, le chitarre country e la fisarmonica incantata di "I Believe", è tempo di tornare a cavalcare l’onda emozionale di liriche sciolte e criptiche, che affondano ancora nei recessi più oscuri della mente, scavano nei ricordi dell’infanzia, rievocano nuove suggestioni primordiali e simbolismi religiosi. Il titolo, apparentemente assertivo, si rivela dunque solo il pretesto per un altro flusso di pensieri e immagini in libertà.

When I was young and full of grace
And spirited – a rattlesnake
When I was young and fever fell
My spirit, I will not tell
You’re on your honor not to tell

I believe in coyotes and time as an abstract
Explain the change, the difference between
What you want and what you need, there’s the key
Your adventure for today, what do you do
Between the horns of the day?

I believe my shirt is wearing thin
And change is what I believe in


Quand’ero giovane e pieno di grazia
E vivace – un serpente a sonagli
Quand’ero giovane e arrivò la febbre
Il mio spirito, non lo dirò
Sul tuo onore, non dirlo

Credo nei coyote e nel tempo come astrazione
Spiega il cambiamento, la differenza tra
Quello che vuoi e quello che ti serve, lì è la chiave
La tua avventura per oggi, che fai
Preso tra i corni del giorno?

Credo che la mia camicia si stia logorando
E credo nel cambiamento

Il serpente evoca un simbolismo biblico, mentre la febbre è un riferimento autobiografico alla scarlattina che Stipe contrasse all’età di due anni. Poi c’è quel surreale oggetto della fede – il coyote – un possibile omaggio all’innocenza della giovinezza e a una natura primordiale e incontaminata, che torna ancora una volta al centro della scena. È la fede dei nativi americani, capaci di mediare tra natura e spirito. Così come agganciati a una dimensione spirituale appaiono quel successivo “Trust in your calling” (fiducia nella chiamata), oltre al precetto biblico di non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso.
Rintocchi di banjo e un ritornello trascinante illuminano un brano avvolto nell’oscurità di versi così ambigui e sfuggenti. Ma la chiave di tutto è forse in quella parola “change”, che chiarifica una volta di più il messaggio di riscossa insito in tutto l’album.

SWAN SWAN H

Uno sbocco di dolore trattenuto sul dialogo teso di due chitarre acustiche, con l’ennesimo respiro leggendario della fisarmonica a introdurre il sapore acre e lontano della tradizione. La nenia lugubre di "Swan Swan H" è – almeno musicalmente – la vetta drammatica dell’album, un altro frammento di memoria sudista, che affonda le radici negli anni drammatici della Guerra civile.

A pistol hot cup of rhyme
The whiskey is water, the water is wine
Marching feet, Johnny Reb, what’s the price of heroes?

Six in one, half dozen the other
Tell that to the captain’s mother
Hey captain don’t you want to buy
Some bone chains and toothpicks?


Una pistola, una tazza calda di rima
Il whisky è acqua, l’acqua è vino
Piedi in marcia, Johnny Reb, qual è il prezzo degli eroi?

Sei in uno, mezza dozzina l’altro
Dillo alla madre del capitano
Ehi capitano non vuoi comprare
Catene d’ossa e stuzzicadenti?

Un’altra allucinazione sospesa tra delirio e razionalità, sonno e veglia. Una storia di alcol e pistole, che avrebbe potuto tranquillamente trovar posto tra le Favole della ricostruzione. Johnny Reb è il nomignolo spregiativo dato dai Nordisti ai ribelli del Sud: “Qual è il prezzo degli eroi?” - lo scherniscono i suoi nemici. E quel macabro souvenir delle “catene d’ossa e stuzzicadenti” condensa tutto l’orrore della guerra (“Six in one, half dozen the other” è invece un’altra espressione colloquiale, che si potrebbe tradurre come “è sempre la stessa storia”).
Definita, non a torto, “la Wendell Gee dell’album”, "Swan Swan H" riesce in realtà a far meglio del predecessore, conquistando un posto di diritto nello scrigno dei piccoli gioielli nascosti della band. Dal vivo, Stipe la canterà spesso in coppia con l’amica Natalie Merchant (10,000 Maniacs), una delle migliori interpreti e autrici del periodo.
Vitale e vibrante, proprio tanto quanto "Fables" era introverso e depresso, "Lifes Rich Pageant" è l’album con cui i Rem escono definitivamente allo scoperto, gettando le fondamenta del loro successo mainstream. Un successo ormai a portata di mano, perché cinquecentomila copie vendute per un Lp di college-rock (primo disco d’oro della band) sono già un’impresa. E "Fall On Me", forte anche di un bel videoclip, diventa il loro primo embrione di hit, conquistando un posto tra i primi cinque pezzi più trasmessi dalle radio rock ed entrando anche negli Hot 100.

"Lifes Rich Pageant" è dunque l’anello di congiunzione tra i primi Rem, quelli più alternativi ed enigmatici, e i secondi Rem, quelli che, pur senza snaturare la loro identità, voleranno verso il boom mondiale a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Resterà l’unica collaborazione con Gehman, ma probabilmente decisiva nell’imprimere una svolta al sound del gruppo, fissando anche un nuovo standard per la musica alternativa americana. Ken Stringfellow, musicista, cantante dei Posies e, in futuro, anche tastierista per i Rem, afferma: “Lifes Rich Pageant fu senz’altro un punto di riferimento per molte delle persone con cui suonavo all’epoca. Era stranamente fastoso e corale, ma senza disturbare o sembrare patetico. Era suggestivo e diretto, e dietro di sé aveva una passione di cui non ci si poteva vergognare”.
“L’unica cosa che manca al disco è l’apostrofo in Lifes”, scriverà nella recensione di fine anno la rivista Rolling Stone. Difficile darle torto.