Pietre miliari ai raggi X

Cocteau Twins e Beach House: il dream-pop di ieri e di oggi

Due pietre miliari del dream-pop di ieri ("Treasure" dei Cocteau Twins) e di oggi ("Bloom" dei Beach House) al centro della nuova puntata di Rock in Onda, il programma condotto da Claudio Fabretti tutti i mercoledì dalle 12 alle 14 sulle web-frequenze di Radio Città Aperta (www.radiocittaperta.it).
I pionieri e maestri dell'etereo Cocteau Twins con uno dei loro indiscussi capolavori ("Treasure", 1984) e a seguire, quasi 30 anni dopo, il nuovo canone del genere nella versione aggiornata al Duemila dei Beach House di "Bloom" (2012): due pietre miliari dream-pop di ieri e di oggi a confronto.

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Cocteau Twins - Treasure - Beach House - Bloom


Pochissime band sono riuscite a partorire una formula originale e svincolata da ogni tempo e tendenza, come quella dei Cocteau Twins. Partiti da suoni tenebrosi e claustrofobici, debitori per molti versi di Siouxsie & The Banshees, gli scozzesi sono approdati a un pop etereo, visionario e onirico, ancora in qualche modo memore delle radici darkwave (soprattutto nei ritmi sintetici e nelle penetranti linee di basso), ma dagli sviluppi totalmente peculiari e inediti. Nei loro madrigali ultraterreni, un flusso sonoro, impregnato di dissonanze, echi, riverberi, scorre via fluido, libero, leggerissimo, e si libra in voli estatici fino ad altezze irraggiungibili. Con uno spettro di influenze che spazia dal folk celtico al gothic, dai melismi mediorientali all'ambient music. Le loro sembrano a tutti gli effetti "canzoni" regolari, accattivanti e orecchiabili; in realtà pochi gruppi hanno compiuto sperimentazioni tanto ardite, a partire dal canto semplicemente indescrivibile di Elizabeth Fraser. Una voce cristallina, che sa essere infantile e spiritata, eretica e angelica al tempo stesso. E' lo strumento in più al servizio delle loro ambientazioni trasognate, all'insegna di una sorta di trance ipnotica, in cui possono coesistere il peggior incubo e la visione più celestiale. Da qui, la definizione di "dream-pop" o "ethereal wave" per il genere ideato dalla band scozzese. Un approccio che, seppur erede della psichedelia, non insegue "paradisi artificiali" della mente, ma scava nei recessi più profondi dell'inconscio, alla ricerca delle emozioni più intime dell'animo umano e di una visione trascendente della realtà.
"Treasure" (1984) è opera dal valore musicale ineccepibile, ma dall'ancor più grande valore emozionale: pochi dischi possono vantare tanta raffinatezza e tanto fascino e offrire temporanee vie di fuga dalla realtà tanto suggestive e meravigliose. L'ascolto di "Treasure" equivale a rifugiarsi in una dimensione totalmente "altra", equivale ad aprire uno scrigno antico e misterioso, giunto chissà come tra di noi, prezioso e ammaliante, carico di colori e visioni, di sogni e incantesimi. "Treasure" è esaltazione e introspezione, è artificiosità totale e ingenua spontaneità, è un gioco altamente intellettuale e spudoratamente semplice. In una parola "Treasure" è la gioia di fare e ascoltare musica, al suo stato più genuino..

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Tra i tanti revival eighties del nuovo millennio, non poteva certo mancare all’appello il dream-pop. Epperò, diciamocelo chiaramente, era una scommessa persa in partenza. La sensazione era che quella stagione si fosse ormai esaurita, che fosse pressoché interamente evaporata nella nuvola fatata dei maestri Cocteau Twins. Cosa poteva restare da spremere da quelle loro filigrane ultraterrene, impregnate di dissonanze, echi, riverberi, da quelle cantilene eteree che la voce mesmerica di Elizabeth Fraser innalzava in rapinose traiettorie celesti? Certo, c’era stata l’epopea shoegaze a rinvigorire quel sound etereo con coltri di frastornanti feedback, c’era stata l’esperienza psych-pop dei Mazzy Star a trasfigurare quelle ninnananne in nuove, ammalianti vertigini narcolettiche, oppure la lezione di band come Mercury Rev e Sigur Rós, capaci di aggiornare il rock – più o meno “post” - alle suggestioni sognanti di quella indimenticata fuga dalla realtà. Niente, però, che lasciasse presagire una reale palingenesi del dream-pop, l’affermazione di un nuovo standard di riferimento, capace di dettare legge nella variegata galassia musicale del Duemila. Proprio quello che invece è riuscito a realizzare la coppia Victoria Legrand-Alex Scally, facendo della sua Casa sulla spiaggia l’avamposto di una vera e propria resurrezione del genere.
Quello dei Beach House è un suono intrigante, avvolgente, luccicante sotto il profilo acustico. Un flusso anestetico e persuasivo di accordi mielosi e ritmiche sbronze. L'assenza di orientamenti prestabiliti rende i due liberi dal peso di nuovi ingaggi: la tavolozza, infatti, è composta essenzialmente da tre elementi: slide guitar, tastiera e batteria programmata. Con Scally a dilettarsi tra echi riverberati, loop e diavolerie elettroniche assortite. Già il tris d’assi d’esordio (gli album “Beach House”, “Devotion” e “Teen Dream”) mette in mostra il talento cristallino dei due. Ma è a partire dal quarto lavoro che la coppia d’oro del nuovo dream-pop “istituzionalizza” il suo sound in un formato classico e inconfondibile. Lo sfondo è il manto nero tempestato di luci bianche di “Bloom” (2012), tela ideale per mettere punto una formula definitiva, che farà scuola per l’intero decennio. All’acerbo lo-fi del debutto subentrano tessiture più soffici e levigate, tutto si fa più maturo e rifinito. Si amplia anche la gamma sonora: non più solo una catasta di organetti vintage, ma anche strati di chitarre, dense coltri di bassi ed effetti ritmici rigogliosi rispetto al minimalismo da cameretta dei primi esperimenti. Una cristalleria di suoni in cui risplendono le interpretazioni sempre più leggiadre ed espressive della dolce Victoria, anima anche “visiva” del duo, con le sue fascinazioni teatrali e cinematografiche (David Lynch in primis).


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