San Fedele Musica - Il classicismo oltre l'accademia

Intervista a Francesco Zago

Se la mia (ottusa e contraddittoria) riluttanza nel considerare la cosiddetta "musica classica" come un mondo conciliabile con il mio modo di vivere la musica si è mitigata fino quasi a dileguarsi, molto lo devo all'attività del Centro San Fedele. Parlo in prima persona facendo mia un'abitudine che ho altrettanto da sempre combattuto (e continuerò a farlo) solo perché reputo che questo merito abbia influito su di me quanto su di un'intera generazione milanese, che ha trovato nell'Auditorium di Via Hoepli un autentico tempio in cui, finalmente, classicità e attitudine contemporanea potevano incontrarsi, riscoprirsi parenti anziché nemiche. Arrivando a smettere di considerare il repertorio cosiddetto classico come un universo sonoro riservato a pochi adepti e da fruire in maniera reverenziale, senza personalizzare né l'esecuzione (riducendo così i musicisti a meri "esecutori) né l'esperienza dell'ascolto (ridotta a mera fruizione passiva). Abbattendo addirittura, senza mezzi termini, la barriera (apparentemente inostruibile) che separa Beethoven da Cage, Mozart da Schoenberg, Webern da Reich. Trasformando il contrasto in sfumatura, riportando in luce relazioni storiche ed evolutive e rapporti di influenza e ispirazione troppo spesso dimenticati o (peggio) ignorati. Rendendo insomma il "classico" accessibile alla contemporaneità, intellegibile e apprezzabile da chi ragiona linguisticamente con i suoni del presente o del passato recente, mostrando come esso sia sostanza in grado di adattarsi e appartenere a un'epoca anche lontanissima da quella in cui ha avuto origine e rivelandone dunque la vera e autentica grandezza immagnifica.

Il 5 ottobre riparte la stagione musicale del Centro con la prima di una rassegna emblematica dell'attitudine innovativa (e per certi versi rivoluzionaria, almeno in un ambiente "fermo" come quello nostrano) introdotta in città dalla Fondazione San Fedele. Vale a dire un "doppio ritratto" su Bach e Scarlatti, in cui i repertori dei due geni del Settecento verranno tradotti in linguaggio contemporaneo da una vasta schiera di artisti, liberi finalmente di svestire i panni degli esecutori e di indossare quelli degli interpreti. Fra questi c'è Francesco Zago, un veterano della musica contemporanea italiana e non, che ha attraversato ben tre generazioni, assorbendone i connotati e regalando puntualmente spunti in grado di caratterizzarle in una maniera particolare e propria. Un'avventura che non ha mai chiuso le porte alle esperienze più variegate, ma che ha mantenuto una costante importante: l'annullamento delle barriere temporali e formali. Se con l'esperienza Yugen il Rock-In-Opposition è tornato ad appartenere al presente e con Not A Good Sign il vocabolario prog si è arricchito di significati legati all'oggi, nel progetto Zauss e nel corso della sua carriera da solo guitarist Zago ha ridisegnato a modo suo le relazioni fra classicismo tradizionale e sperimentazione contemporanea. Il tutto senza esimersi dall'adeguare al suo scopo anche le tecniche strumentali, mettendo in luce lati espressivi nascosti della chitarra elettrica, superando i canoni rock e ponendo una distanza importante dagli stessi.

Uno dei suoi ultimi progetti riguarda una rivisitazione "poliprospettica" della Ciaccona di Bach, che presenterà proprio alla "prima" della nuova stagione di San Fedele Musica, in un contrasto efficace ed esplicito con il clavicembalo solista di Jean Rondeau. Abbiamo incontrato Zago per approfondire assieme a lui tutte le tematiche abbozzate in questa presentazione, in una chiacchierata in grado di toccare (e unire) trasversalmente musica e filosofia, teoresi e pratica, riflessione ed espressione.

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Intervista a Francesco Zago

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Per prima cosa vorrei farti una domanda riguardo al titolo dell'opera che presenterai. La descrivi così: "La Ciaccona di Bach è un trionfo del limite e del suo superamento: una rifrazione infinita a partire da un materiale minimo e, per di più, affidata a uno strumento solista". Dopodiché nel titolo della tua interpretazione parli di "prospettiva" al singolare, come se essa non fosse che una delle tante possibili, quasi una parcella di questa rifrazione infinita. Oppure come se essa fosse in grado di mettere in luce una gamma di prospettive diverse di fruizione. Puoi entrare nel dettaglio di questo concetto, affascinante quanto poliedrico, di prospettiva?
Il termine “prospettiva” può essere inteso in vari modi. Come giustamente suggerisci, la rilettura elettrica della Ciaccona di Bach è una delle tante “prospettive”, uno dei tanti punti di vista diversi su un brano così celebre e frequentato della tradizione occidentale. Non si tratta solo di un’interpretazione o di una trascrizione del testo, ma della sua “proiezione” attraverso uno sguardo moderno, pur nel rispetto del materiale originario. Al tempo stesso in questo caso si può parlare di “prospettiva” nel senso di “mettere in prospettiva” il brano, di offrirne un’immagine più chiara, esaltandone alcuni aspetti tramite la loro dilatazione nel tempo e nella dinamica – sottolineandone il contrappunto nascosto, l’armonia a cui alludono le linee originarie. Da un’ottica ancora più ampia, affiancare l’esecuzione di Jean Rondeau al clavicembalo (a sua volta una trascrizione dell’originale per violino) alla mia versione elettrica equivale a disegnare le linee prospettiche che uniscono letture diverse di un unico materiale – attraverso epoche e approcci diversi.

Ho letto che nel presentare l'opera parli del suo retroterra logico-matematico a livello compositivo come di una delle sue caratteristiche prime e principali. Su di essa, sembri aver articolato una disamina "scientifica" (non a caso, citando di nuovo, leggo "osservarne, come attraverso un microscopio sonoro, ogni singolo sviluppo"). Dove e quando nasce l'idea di questa "vivisezione" dell'opera di Bach? Che rapporto vedi tra le tecniche compositive ed esecutive che hai adottato per eseguirla e il suo linguaggio musicale originario?
La musica di Bach racchiude un mistero, poiché concilia strutture numeriche e matematiche precisissime e pathos espressivo, due aspetti che a noi moderni sembrano inconciliabili. Nessun compositore, credo, è mai più riuscito a unire questa forma di “ascesi” numerologica e pitagorica con la potenza degli “affetti” e del sentimento. Per questo la sua musica si presta a una lettura epidermica, immediata, e insieme a un’analisi meticolosa e solo apparentemente fredda, “scientifica”. Come nella numerologia medievale e rinascimentale, in Bach il numero non è vuota cifra matematica, ma simbolo di una perfezione più alta. Nel caso della Ciaccona, ciascuna delle variazioni esplora una delle innumerevoli trasformazioni melodiche e armoniche a cui è possibile sottoporre il tema iniziale. Per questo ho parlato di “rifrazione”: come attraverso un cristallo, Bach proietta un materiale tematico minimo per ottenerne una fantasmagoria di suoni, sviluppi, architetture. Ai nostri occhi moderni ma ancora imbevuti di romanticismo ottocentesco, una tale operazione ci appare lontanissima – ragione e sentimento ci paiono irriducibili l’uno all’altro. Per Bach e i compositori del suo tempo questa dicotomia non doveva apparire assolutamente tale. La mia versione della Ciaccona tenta di moltiplicare ulteriormente questa ricchezza, sfruttando le sonorità e le tecnologia di oggi: “osservarla al microscopio” significa coglierne infinite sfumature – o “pieghe”, per usare la nozione su cui Deleuze basa la sua analisi della cultura barocca e della filosofia di Leibniz – altrimenti invisibili, amplificandole (concretamente) e sottolineandole, fermandole nel tempo attraverso la tecnica della ripetizione e della microvariazione.

Proseguendo su questo, nel descrivere il tuo approccio a questa rielaborazione contemporanea descrivi la "Ciaccona" come "un esercizio di estrema disciplina compositiva, per i vincoli imposti dalla forma rispetto alle proporzioni del risultato" in cui "la struttura numerica, perfino algoritmica e 'automatica' della sua musica non esclude, anzi genera un’estrema tensione negli 'affetti'". Qualcosa che letto su due piedi pare quasi un paradosso - ma proprio lì si gioca forse la sua chiave di volta. Puoi approfondire, dal tuo punto di vista, questo rapporto tra forma e fruizione? Come può un'opera fondata su una forma "logica" e "matematico-algoritmica" riuscire appunto a convogliare "affetti"? E credi che in questo vi sia una separazione netta fra il piano compositivo/esecutivo e quello della fruizione da parte dell'ascoltatore?
Come suggerivo anche prima, credo che oggi sia impossibile recuperare del tutto l’unità di ragione e “affetti” – in termini molto grossolani, il romanticismo ha escluso la ragione ed esaltato il sentimento e l’irrazionalità, mentre tanta arte figurativa e musica del Novecento ha puntato tutto sulla struttura annullando di fatto il pathos. Per questo oggi la forma è in aperta collisione con la fruizione: la forma non è più intelligibile dal pubblico, e per poter fruire di un brano è necessaria una “spiegazione” – mentre non è necessaria alcuna spiegazione per apprezzare le Variazioni Goldberg o l’Arte della Fuga, per fare solo due esempi di composizioni dalla ferrea struttura matematica. Così la musica “colta” di oggi raramente riesce a toccare la “sensibilità” dell’ascoltatore, mentre chi recupera la semplicità viene accusato di essere un tradizionalista o, peggio, un reazionario.

Mi ha sempre affascinato molto l'idea di arte proposta da Heidegger, che parlava (nello specifico della poesia) di una forma di anticipazione (figlia della precomprensione da parte dell'artista) rispetto alle caratteristiche dell'epoca in cui si sviluppa, prima ancora che come una (a quel punto ovvia) conseguenza delle stesse. Seguendo questa linea di pensiero e generalizzandola, potremmo dire che qualsiasi opera nata e sviluppatasi in un periodo storico ne ha in qualche modo assunto i tratti in maniera preliminare, ma anche che quei tratti sono destinati ad appartenere a quell'epoca specifica. Adattando quest'idea alla musica, nel tuo rielaborare Bach ho letto un'operazione autentica (e come tale rara) di "attualizzazione": una ripresentazione di un'opera scritta in un linguaggio atemporale al suo stato puro (quello musicale "classico") in vesti strumentali ed esecutive che appartengono pienamente al presente. Qual è la tua opinione al riguardo? Che lettura dai alla tua operazione rispetto a quello che la "Ciaccona" rappresenta nel suo essere puro?
Nessun prodotto culturale giunge a noi “puro” – ma è sempre filtrato dalla “precomprensione” di cui parlava Heidegger e che Gadamer avrebbe ripreso proprio in riferimento al tema dell’interpretazione. La mia operazione, in modo più o meno consapevole, riprende un passato così ricco di storia interpretativa (la Ciaccona di Bach, così come la musica di Purcell o Dowland) guardandolo con l’occhio di oggi, dalla situazione di oggi – rispetto alla tecnologia e alla fruizione – senza alcuna illusione filologica. La mia domanda non è: “Cosa avrebbe scritto Bach se fosse vissuto oggi?”, ma “Cosa avrebbe scritto Bach se nella sua epoca avesse avuto a disposizione gli strumenti di oggi?”. Ovviamente è una domanda a cui non possiamo rispondere. La proposta che mi è stata fatta da Antonio Pileggi e dal San Fedele è un tentativo di affrontare con orecchie irrimediabilmente diverse un mondo la cui “purezza” ci è preclusa, ma insieme di poterne apprezzare la ricchezza. In termini più concreti, si tratta di avvicinare un pubblico che vede la “tradizione” come materia esclusiva degli studiosi e sottolinearne i possibili richiami alla logica e alla sensibilità del presente. 

Rimanendo su questo tema, si apre un ulteriore scenario ampio e delicato: quello del rapporto tra accademismo e modernità/contemporaneità. L'aspetto che più mi tiene distante e disinteressato rispetto all'approccio cosiddetto "accademico" a certa arte classica è proprio quello di continuare a perseverare in un'operazione retrograda, quella appunto di mantenere (presumibilmente) "in vita" un patrimonio come quello della musica classica "proteggendolo" (per me: privandolo) della veste che la contemporaneità strumentale ed esecutiva gli darebbe con naturalezza. In poche parole: ancorarlo a quello che era il suo status esecutivo nel momento storico della sua nascita. Un'operazione come quella di "Chaconne Perspective" fa l'esatto contrario. Pensi che questa sia la modalità più autentica per fruire nel 2015 di un'opera potenzialmente "inifinita" (come tu stesso la definisci) come questa?
Forse non è la più autentica – e molti sicuramente penseranno che non lo è affatto, e che il passato sia intoccabile – ma sicuramente fra le più interessanti e coraggiose. Come dicevo prima, ogni opera del passato si arricchisce della sua stessa storia, del futuro a cui è andata incontro dopo la sua creazione. Questo concerto fa ancora di più: accosta l’interpretazione “tradizionale”, affidata all’enorme talento di Jean Rondeau, a una rilettura assolutamente non ortodossa, ma che non ha nulla di dissacrante. In altre parole, mette in collisione due visioni diverse ma complementari: è da questa dialettica che può nascere qualcosa di nuovo, suscitando l’interesse del pubblico, quantomeno scuotendone l’indifferenza, e non da una visione univoca dell’opera.

L'egemonia che il mondo "accademico" (che reitera questo genere di approccio) ha guadagnato nel tempo sul patrimonio musicale cosiddetto classico sta alla base, a mio parere, dell'assurdo divario che esiste oggi tra "musica classica" e ciò che non è considerato tale. Tu invece sei impegnato da sempre, almeno in apparenza, ad annullare questo divario, dimostrando attraverso operazioni come questa (ma anche, per esempio, nella performance su Steve Reich che hai portato l'anno scorso a San Fedele, completamente diversa nel repertorio, quasi opposta nel percorso e nell'approccio ma non così dissimile nel significato) quanto lo stesso non sia che un mero luogo comune. E, soprattutto, riqualificando in maniera definitiva la figura e il ruolo, sacrificati fino all'annullamento nell'impianto accademico, dell'esecutore e della sua sensibilità. Credi in un superamento del dualismo soggetto-oggetto nel rapporto tra compositore e opera? Ti consideri più un esecutore o un interprete?
Mi trovo ormai da anni nella scomoda posizione dell’”ibrido”. A seconda dei contesti in cui mi muovo e delle competenze che mi vengono richieste sono esecutore, interprete, compositore. Per me è del tutto naturale annullare questo divario... per il semplice motivo che questo divario, dal mio punto di vista, non esiste. Senza dubbio le proposte del San Fedele sono fra quelle in cui mi trovo più a mio agio, proprio per l’ambiguità di fondo del mio approccio.

La tua relazione con Auditorium San Fedele rappresenta uno dei più importanti punti di incontro rispetto a questo aufhebung del repertorio classico. E' un po' come se l'Auditorium sia diventato in questi anni il tempio per eccellenza dell'incontro tra arte classica e ricerca sonora contemporanea, in cui questi due ambiti squarciano il velo di Maya che li separa (ri)scoprendo finalmente il loro avere moltissimo in comune. Ti senti effettivamente partecipe di questo tipo di relazione? Cosa rappresenta per te l'esperienza del Centro San Fedele e come si è articolata l'intersezione del loro percorso con il tuo?
L’Auditorium San Fedele mi sta offrendo l’occasione di esplorare questa direzione: la riscoperta del passato con gli strumenti del presente. Prima con l’Off Topic Ensemble diretto da Renato Rivolta, poi nelle performance solista di Purcell e Reich, infine Bach: Antonio Pileggi si è rivelato preziosissimo nel fornire ed elaborare idee quantomeno audaci rispetto al panorama odierno, e sono molto contento di poter far parte di questo percorso così particolare. Chaconne Perspective è una sfida molto impegnativa, che ho raccolto con piacere – e non senza qualche timore: muoversi in territori inesplorati è affascinante quanto rischioso. Mi auguro davvero che questa esperienza prosegua in futuro e si arricchisca di altri episodi.

Un'ultima domanda per chiudere: quali progetti stai elaborando al momento? Verso quali direzioni pensi possa muovere il tuo percorso artistico nei prossimi giorni, mesi, anni?
In questo momento sto concludendo la lavorazione del quinto cd di Yugen, ensemble che ho fondato nel 2005 e che rappresenta un altro tentativo di unire linguaggi diversi fra loro – il rock e la musica contemporanea. Nel frattempo porto in giro la mia performance solista, "ESP – Electric Solo Performance", e collaboro con l’ensemble elettrico Repertorio Zero.

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