Depeche Mode

Ultra - La rinascita dalle ceneri

Per comprendere meglio il processo realizzativo del nono album in studio pubblicato dai Depeche Mode nel 1997, è necessario fare un passo indietro lungo tre anni.
La band esce letteralmente devastata dal “Devotional Tour”, l’infinita tournée (più di un anno) conclusasi nel 1994 e schedulata a sostegno del fortunato “Songs Of Faith And Devotion”. Il gruppo è ormai diviso, distrutto, soprattutto nei rapporti personali. Dave Gahan, ormai obnubilato dall’eroina e dalla fatica di quell’estenuante girovagare, l’8 ottobre 1993, durante la tappa programmata a New Orleans, viene colpito da un infarto causato da un’overdose e deve ricorrere alla rianimazione per non lasciarci le penne. Martin Gore continua a rifugiare le sue angosce e i suoi malesseri personali nell’alcol e Andrew Fletcher è preda in modo sistematico della depressione più disfunzionale, un mostro che lo sta attanagliando già da qualche anno e che lo porterà addirittura ad abbandonare i colleghi (sostituito dal fidato session man Daryl Bamonte) già a partire dalla prima data brasiliana dell’"Exotic Tour", una serie di concerti estivi che fungeranno d’appendice al "Devotional Tour".
Chi tiene a galla i cocci, sempre più frantumati, è Alan Wilder, anch’egli estenuato dal dover reggere la baracca in tutto e per tutto: dal preparare i brani da pubblicare nel live che documenterà il tour, dall’organizzare aspetti che esulano dal lato artistico, una situazione che lo porterà, proprio in quei giorni, a comunicare via a fax a Dave che al termine di quanto già pianificato avrebbe lasciato la band senz’alcuna possibilità di ripensamenti, dopo tredici anni colmi di grandi soddisfazioni.

 

I concerti estivi si sviluppano come peggio non si potrebbe: Dave si frattura due costole lanciandosi goffamente sul pubblico durante l'ultima esibizione nell’Indiana; Alan rischierà la vita, involontariamente, qualche settimana dopo la fine degli impegni dal vivo, per colpa di un aereo militare schiantatosi a poche centinaia di metri da lui mentre percorreva una strada con la propria auto. Martin sarà sempre più spesso vittima di crisi epilettiche e, per non farsi mancare nulla, ancora Dave, nell'estate del 1995, tenterà il suicidio tagliandosi le vene durante una conversazione con sua madre, in preda alla più profonda crisi e naturalmente innescato dal folle uso di allucinogeni. Poco tempo dopo divorzierà anche dalla sua seconda moglie.
Insomma, il quadro è orribile, il peggiore che si possa immaginare e da più parti sono forti le sensazioni che portano a pensare che i Depeche Mode abbiano concluso definitivamente il proprio dorato percorso artistico, forse proprio nel momento storico di apice assoluto, anche a livello commerciale.

La rinascita dalle ceneri

 

L’abbandono di Wilder lascia sbigottiti soprattutto Gore e Fletcher, che mai avrebbero immaginato una conclusione di questo tipo. Tra l’altro, lo stesso Wilder, per mezzo di un comunicato stampa distribuito nei giorni successivi alla decisione di lasciare la band, non usa mezzi termini nell’addossare dure critiche a Gore e Fletcher, senza mai, a dire il vero, citarli platealmente.
Martin e Andy (Dave è ancora in squadra ovviamente, ma le sue condizioni psicofisiche sono lontane dal poter essere considerate adeguate) cercano di tenere botta, contrastando con forza tutte le pesanti vicissitudini e decidendo di provare a proseguire, contro ogni pronostico, l’esperienza Depeche Mode.

 

Nell’ottobre del 1995, affidandosi alla produzione di Tim Simenon (soluzione che si rivelerà prodigiosa per le loro sorti artistiche), i Depeche Mode entrano in studio per concretizzare alcune idee nate nel frattempo. Se le sessioni strumentali sembrano procedere con una certa regolarità, non si può dire lo stesso per le parti cantate da Dave. Il suo stato di salute vacilla sempre più e il gruppo riesce a portare a termine la registrazione vocale di un solo brano (la futura “Sister Of Night”).
L’apoteosi del disfacimento totale di Dave Gahan, che poi diventerà il suo lasciapassare per un vero e proprio rinnovamento, avviene il 28 maggio del 1996.
Ritornato a Los Angeles su consiglio di Martin, per curare la sua forte tossicodipendenza, Dave patisce l’ennesima overdose, questa volta di speedball, che lo conduce alla morte clinica per ben tre minuti, prima che i medici lo riescano, di nuovo, a salvare miracolosamente, tra l’altro senza subire apparentemente alcun danno cerebrale per assenza di ossigeno al cervello: una fortuna sfacciata.
Il salvataggio in extremis convince Gahan a sottoporsi, finalmente, al ricovero in un centro specialistico di recupero. Saranno giorni che Dave definirà, nei racconti successivi, inizialmente terribili, ma catartici e, da un certo momento in poi, di grande speranza ed energia, un abbrivio che sarà lo scudo che lo condurrà alla completa guarigione e alla rinascita definitiva come uomo, innanzitutto, e quindi come artista. Il reintegro definitivo di Dave riporta nuova linfa vitale nel terzetto.

 

Martin Gore, da sempre la principale mente pensante del gruppo, a seguito di tutto l’ambaradan accaduto nei mesi precedenti, ha paradossalmente in mano infinito materiale emozionale sul quale far circolare la sua eccelsa mente d’autore. Oscuro, dolente, riflessivo, quasi sempre riverso su situazioni di patimento e di inquietudine non solo personale, Martin volta pagina ancora una volta, per scrivere e pensare una serie di brani dai quali sgorgano in modo evidente le immense difficoltà vissute in questi ultimi anni. Il bello è che Gahan, tornato dopo il termine delle cure, sembra davvero un individuo diverso, ancora non totalmente recuperato, ma in buona forma, quasi non fosse accaduto nulla.
I primi brani scritti da Gore, per quello che successivamente diventerà “Ultra”, sono tre, a dir poco emblematici dell’intero progetto: “Useless”, “Insight” e “Sister Of Night”, che riepilogano in modo magistrale il sentimento che scorre in questo momento nelle viscere dei Depeche Mode. Tra l’altro, proprio questi tre titoli avevano composto la celebre demo che Martin Gore presentò proprio a Tim Simenon come brossura promozionale volta a convincere il produttore inglese a partecipare al progetto, il quale ne rimarrà immediatamente folgorato, seppur trovandosi di fronte a provini scarni e poco approfonditi.

 

In “Useless”, uno dei quattro singoli estratti dall'album e autentico baluardo dell’intera discografia dei Depeche Mode, emerge, forse per la prima volta nei versi scritti da Gore, un impulso di rabbia, di battaglia vera tra due anime che si sono amate e che ora provano l’altrettanto forte ardore dell’odio più plateale, quello che probabilmente precede il momento del rimorso, lui che ha sempre preferito trattare il malessere più nascosto, quello che difficilmente viene esternato, è ora l’artefice del dolore più carnale, quello che giunge quasi alla colluttazione fisica:

Well it’s about time
It’s beginning to hurt
Time you made up your mind
Just what is it all worth

Il brano è sporco, immondo, grezzo, ed è questa la ruvida, quanto affascinante, costante che prevarrà all’interno dell’intero album: la chitarra elettrica prende spesso il sopravvento sulle elettroniche, altra situazione non casuale, che contraddistinguerà larghe sezioni del disco.
Il videoclip, ovviamente girato dall’indissolubile e straordinario Anton Corbijn, riflette come meglio non potrebbe tutta quest’enfasi totalizzante. Dave Gahan ci si tuffa come meglio non si potrebbe, con la sua voce inconfondibile, aguzza, resa ancor più velenosa da tutto ciò che gli è accaduto. Con il suo magnetico e ghignante viso segnato dalle vicende, di chi già dall’infanzia ne ha passate di ogni tipo, si presenta davanti a una telecamera scagliando tutte le accuse in faccia alla sua donna, intimorita (lo si vedrà alla fine del video) e con un geniale effetto scenico, pare persino spingerla e strattonarla.
Il lavoro apportato da “Bomb The Bass” aka Tim Simenon a questo brano e a tutti gli altri in scaletta, grazie alla sua proverbiale abilità nel gestire la base ritmica delle composizioni che si è trovato a rimaneggiare nel corso della sua invidiabile carriera, è risultato fondamentale e la commistione del suo operato con i plumbei assemblaggi e i disegni distorti forgiati da Gore e dagli stretti collaboratori ha donato una profondità diversa rispetto a quella gustata anche solo nei lavori immediatamente precedenti.
La produzione di album seminali come “Violator” e “Songs Of Faith And Devotion” era stata affidata a Mark Ellis aka Flood, che aveva contribuito alla creazione di quelle atmosfere piuttosto cupe, miste a slanci pirotecnici, che si sono rivelate i capisaldi dell’enorme successo registrato da quei due dischi.
I Depeche Mode, con l’abbandono di Wilder, decidono di apportare una svolta anche dal punto di vista stilistico, ed ecco che la scelta ricaduta su Simenon, da tempo sui taccuini della band, non si rivela per nulla casuale.

 

Proseguendo la trattazione dei singoli scelti per promuovere “Ultra”, una porzione significativa se la autoassegna indiscutibilmente “Barrel Of A Gun”, altro pezzo diventato oggetto di culto tra i “devoti” e non solo tra loro.
Si narra, ma sembra essere la classica leggenda metropolitana, che Dave Gahan, risvegliatosi dalla morte clinica accertata dopo l’ultima overdose di Speedball, abbia enunciato la frase "Do you mean this horny creep", che sono esattamente i versi d’apertura di “Barrel Of a Gun”. Che sia vero o meno, è innegabile che Martin Gore abbia assimilato tutte queste situazioni a dir poco sconvolgenti all’interno di ogni microscopica cellula del proprio corpo.
Visto da un punto d’osservazione esterno, “Barrel Of A Gun” appare il grido disperato di chi sente di essere giunto al limite, di chi ha provato cosa vuol dire aver toccato il fondo, la disperazione, la fine, parafrasando il titolo della canzone, di chi ha visto puntata la canna del fucile dritta sulla tempia e anche qui i diretti riferimenti ai trascorsi di Dave sono ancor più espliciti. Le musiche che accompagnano tanta frustrazione non sono da meno: ritmo incalzante, tensivo, Gahan che canta imperioso con la voce leggermente effettata, a tratti rauca, a rendere il tutto, se possibile, ancor più infettivo e pruriginoso.
Il pezzo traina “Ultra” in testa alle classifiche britanniche, per la seconda volta dopo “Songs Of Faith And Devotion” (“Violator” si fermò al numero 2), probabilmente anche grazie a quell’umana sensazione d’associazione che prevale in chi nota che certe emozioni cantate e suonate coincidono con reali vicende di vita vissuta, ancor meglio se d’assoluta difficoltà.

Gli inferi descritti in “Barrel Of A Gun” sono però nulla rispetto a ciò che si presenta in “Home”, episodio entrato ancor più di altri nell’olimpo assoluto degli evergreen dei Depeche Mode e immancabile in ogni esibizione live del gruppo, da quel momento in poi. “Home” nasce da lontano nella mente e nel cuore di Martin, che forse proprio per questo motivo si impone di cantarla personalmente, perché tutte queste parole, tutte le emozioni descritte, le ha vissute sulla propria pelle. Una vita di errori, di interrogativi, di momenti dove non sapeva chi fossero i veri riferimenti, dove dovesse approdare la sua anima d’uomo, prima che d’artista, fragile, in preda alle più terribili paure; è proprio in questi versi che tutto si risolve, che tutto tende ad avere una spiegazione, dove Martin intuisce quale possa essere il senso della vita:

Here is a song/ From the wrong side of town/ Where I’m bound To the ground/ By the loneliest sound/  That pounds from within/ And is pinning me down

E poi la salvezza:

And I thank you/ For bringing me here/ For showing me home/ For singing these tears/ Finally I’ve found/ That I belong here

Non si è mai capito chi o che cosa Gore volesse raffigurare con il termine “Home”, ma è chiarissimo come sia un luogo, una persona, che lo ha profondamente e positivamente segnato, avviandolo alla serenità, in modo che appare definitivo.
L’arrangiamento intimo, a tratti orchestrale, con la sua chitarra che volteggia maestosa, regala ancora oggi brividi indiscutibili a ogni approccio, forse come mai più accaduto con medesimo risultato.

L’ultimo singolo, ma non certamente per demeriti, è “It’s No Good”, altra colonna portante, non solo di “Ultra”. E’ innegabile che questa sia una traccia che voglia provare a riposizionare i tasselli al proprio posto. Già dall’introduzione e dalla struttura melodica, sembra di rivivere i fasti dei Depeche Mode più tradizionali. In “It’s No Good” è messa per un attimo da parte quella patina oscura che plasma l’intero percorso, in luogo di un appeal più coinvolgente, nel quale si intravvedono i barlumi delle sonorità che caratterizzeranno il successivo album “Exciter”. Il mondo musicale sta cambiando, il trip-hop e l’elettronica dancefloor si stanno trasferendo dalle piccole sale dei club verso grandi platee e questo i Depeche Mode e Tim Simenon lo hanno intuito, ecco perché “It’s No Good” assume i galloni d’alfiere di questo processo evolutivo. Non a caso, proprio questo sviluppo artistico direzionato verso sonorità clubbing ha spinto, nei mesi successivi, a un benevolo saccheggio dei brani contenuti in “Ultra” da parte dei più importanti deejay e producer di musica elettronica, che si sono impegnati nel predisporre alcuni straordinari remix: Kruder & Dorfmeister, Dj Shadow, Underworld, Air, Mad Professor, hanno letteralmente ribaltato i connotati di pezzi come “Useless”, “Home”, “Barrel Of A Gun”, solo per citarne alcuni, prevedendo nuovi arrangiamenti e nuovi orizzonti verso i quali lanciare tutto questo bendidio.
Ci siamo soffermati sul lato prettamente musicale, con breve digressione di carattere più generale, ma non certo perché il testo pensato da Gore per “It’s No good” sia trascurabile, nient’affatto:

Don’t say you want me/ Don’t say you need me/ Don’t say you love me/ It’s understood/ Don’t say you’re happy/ Out there without me/ I know you can’t be/ ’Cause it’s no good

Qui il messaggio non sembra rivolto per forza a qualcuno o meglio qualcuna, piuttosto verso chi pensa che senza un riferimento non si possa guidare la propria vita verso mete produttive e soddisfacenti. Un Gore decisamente saggio (e qui torniamo al discorso fatto per “Home”) che apre a nuovi scenari del processo creativo personale.

Terminati i singoli promozionali, si può tracciare una prima valutazione, ovviamente sommaria, che, almeno per chi sta scrivendo queste righe, porta ad affermare che i soldi spesi per l’acquisto del disco possono già considerarsi un ottimo investimento.
La cosa interessante è che le altre sette tracce (escluse bonus track) che vanno a completare la lista, sono tutt’altro che secondarie e, in misure diverse, meritano di ritagliarsi un autorevole spazio all’interno dell’opera.

 

Passando rapidamente per i due strumentali “Uselink” e “Jazz Thieves”, occupanti un ruolo che va oltre il classico collante posto tra un brano e l’altro, grazie a succulente scelte armoniche che ben agghindano il clima piuttosto irrequieto espresso lungo il cammino, si affrontano episodi come “The Love Thieves”, una ballata oscura, da ascoltare possibilmente al buio, con un paio di candele profumate, magari speziate più che dolci, pronte ad accarezzare la mente che, con gli occhi chiusi, si lascia cullare dalla calda voce di Gahan:

Love needs it's martyrs/ Needs it's sacrifices/ They live for your beauty/ And pay for their vices/ Love will be the death of/ My lonely soul brothers/ But their spirit shall live on in/ The hearts of all lovers

Una poesia lanciata verso una categoria immaginaria, ma forse nemmeno troppo, quella dei cosiddetti rapinatori dei sentimenti, che provano ad annientare le emozioni della vittima di turno, privati delle loro emozioni, ma imperterriti nel combattere chi con la menzogna o con altri loschi archibugi cerca di appropriarsi di un caposaldo dell’esistenza degli esseri viventi.

Altro passaggio da vivere con grande trasporto è “Sister Of Night”, sebbene strutturato su dinamiche strumentali più penetranti, mescolate tra vigorosi slanci della sei corde e levigate vibrazioni elettroniche che mandano letteralmente a nozze un inappuntabile Gahan abbigliato in doppiopetto e volto a interpretare uno dei capitoli più sentiti ed evocativi in scaletta. E’ proprio qui che il disastro esistenziale tocca il fondo, un punto dal quale non sembra più esserci alcuna possibilità di risalita:

Sister of night/ When the hunger descends/ And your body’s a fire/ An inferno that never ends

Chi è questa “sorella della notte”? Nient’altro di chi viene invocato per fuggire dal buio, dalle tenebre che fagocitano ogni dolore, che lo spengono non per risolverlo, perché per chi è convinto di non avere altre carte da giocare per la propria salvezza, non esiste una via di ritorno alla luce: un grido disperato.
Un brano, come detto in apertura, tra i primi scritti da Gore per l’occasione e quindi particolarmente significativo dello sfacelo, piuttosto fresco al tempo, patito in uscita da tutto quanto aveva caratterizzato il rovinoso "Devotional Tour".
Non è probabilmente un caso se dopo “Sister Of Night” la sequenza presenti “Freestate”, altro momento che fa dell’intensità emozionale la propria arma, un brano che si collega in modo quasi fisiologico con il precedente, che ritraeva quella mano emaciata che cerca di fuoriuscire dal fango per cercare un appiglio in grado di riesumare il corpo ancora inabissato nell’angoscia e reso ormai praticamente inerte.
“Freestate” è esattamente la puntata successiva della serie, quella della rigenerazione:

Let yourself go/ Let your feelings show/ Picking up the conversation/ Deep in your imagination/ Tune into the lonely voices/ Talking of their only choices

E poi:

Step out of your cage/ And onto the stage/ It's time to start/ Playing your part/ Freedom awaits/ Open the gates/ Open your mind/ Freedom's a state

Sono frasi fin troppo chiare da parte di chi ha vissuto sulla propria pelle la presenza delle tenebre più catramose, ma perfettamente consapevole che dal nulla, con grande spirito di abnegazione, affiora la resurrezione, il riscatto. Sebbene le difficoltà non possano essere risolte in un battibaleno e le cicatrici resteranno callose ed evidenti, forse per sempre, le lesioni squarciate, quelle sanguinanti, con questi forti presupposti evolutivi sono destinate a rimarginarsi del tutto.

Un'altra rappresentazione creata e interpretata direttamente da Martin Gore è “The Bottom Line”, altro capitolo tra i più introversi del menu, che non prevede gli slanci orchestrali di “Home”, ma lascia che il telaio elettronico, invero mai troppo invadente, si posi su un testo che lo stesso Gore pare, senza troppi dubbi, rivolgere a Dave, ripercorrendo alcuni dei peggiori momenti da quest’ultimo trascorsi di recente:

Like a cat dragged in from the rain/ Who goes straight back out and do it all over again/ I'll be back for more/ Something that is out of our hands/ Something we will never understand

Il gatto che continua a uscire mentre fuori piove, trascinato da una forza negativa che lo porta a compiere azioni che sa già essere penalizzanti e pericolose per se stesso, il gatto, proprio il soprannome che i medici affibbiarono a Gahan dopo l’ennesimo salvataggio dalla morte, l’animale che per antonomasia possiede tante vite (nove o sette a seconda delle culture), ma che ora rischia di aver esaurito tutti i bonus a disposizione.

 

Il disco si chiude con “Insight” ed è un’uscita particolarmente densa di contenuto. Laddove per tutto il percorso si è trattato principalmente il dolore, la difficoltà, il senso di smarrimento, addirittura la morte, Gahan regala qui un’interpretazione accorata, vellutata, per un testo che, quasi a sorpresa, invoca senno, illuminazione, un viaggio spirituale dentro di sé, alla ricerca di quella forza che la vita possiede anche nei momenti più bui:

Wisdom of ages/ Rush over me/ Heighten my senses/ Enlighten me/ Lead me on, eternally

E poi:

And the spirit of love/ Is rising within me/ Talking to you now/ Telling you clearly/ The fire still burns/ I'm talking to you now/ The fire still burns/ Whatever you do now/ The world still turns

Lo schema melodico del ritornello rimanda a brani classici dei Depeche Mode (“Walking In My Shoes”), una sorta di passaggio di testimone per quello che il terzetto di Basildon proporrà nel prossimo futuro.

Nell’excursus compiuto tra i labirinti di “Ultra”, è doverosa la menzione di due ulteriori brani emersi dalle medesime session, che solo qualche mese dopo l’uscita dell’album da studio hanno impreziosito la pubblicazione della raccolta “The Singles ’86-‘98”.
Per permettere a Gahan di proseguire e ultimare la sua fase di recupero psicofisico, “Ultra” non fu scortato dalla classica serie di concerti promozionali (se si escludono giusto un paio di occasionali happening), che dopo quanto accaduto durante e dopo il “Devotional Tour” erano l’ultima cosa che avrebbero voluto effettuare Gore, Gahan e Fletcher. La pubblicazione della suddetta raccolta diede invece nuovo slancio per una vera, questa sì, promozione live, a dire il vero schedulata su soli quattro mesi.
Nel Greatest Hits è presente un inedito, “Only When I Lose Myself” e anche il suo rispettivo lato B, “Surrender”, pubblicato solo nel singolo che ha accompagnato la distribuzione del Best Of. Nell’economia dell’approfondimento di “Ultra”, entrambi i brani citati risultano particolarmente indicativi, per motivi differenti, fungendo da succosa appendice al già pantagruelico pasto offerto e non è un caso se ne è stato previsto l’inserimento all’interno della versione deluxe diffusa nel 2007.
“Only When I Lose Myself” riprende, all’incirca, lo schema stilistico già provato in “Insight” o “The Love Thieves”, con un’interpretazione patinata di Gahan che racconta di quanto si possa trovare salvifico conforto nel prossimo, con approcci anche carnali, soprattutto quando la propria essenza appare svuotata da ogni velleità di reazione:

It's only when I lose myself with someone else/ That I find myself, I find myself

Una riflessione tangibile, probabilmente tra le più reali mai scritte da Gore, che da sempre vive il proprio rapporto con i sentimenti in modo alquanto naif. Le sequenze arabeggianti che dividono il refrain con la strofa, accrescono l’estrema eleganza del componimento, che si sarebbe sicuramente posizionato nei piani altissimi di un’immaginaria graduatoria dei brani inseriti in “Ultra”.

 

Da non sottovalutare è anche “Surrender”, come sintetizzato poc'anzi, relegata a retro del titolo capitano, ma probabilmente una delle migliori espressioni tra i brani cosiddetti secondari dei Depeche Mode, se non, persino, la più riuscita. Un brano spigoloso, caratterizzato da orditure elettroniche contraddittorie, che lanciano sprazzi raffinati, frequentemente annientati da arguzie sonore, di varia fonte, che accrescono il livello di guardia di un episodio che potrebbe fungere, sia a livello musicale che di contenuti, da cartina di tornasole della generale essenza Depeche Mode. Ricordo di aver letto da qualche parte negli anni immediatamente successivi alla sua pubblicazione, ed è un concetto che mi trova in totale sintonia, che nel testo sono presenti moltissimi vocaboli che, prima o poi, sono confluiti in modo sistematico all’interno delle canzoni scritte da Gore e soci: rapture, fate, holy, passion, flaming, tra gli altri, sono termini significativi, non troppo canonici, ma che contraddistinguono l’intero percorso dei Depeche Mode.

 

I migliori vocabolari della lingua italiana definiscono il termina ultra come un antico prefisso proveniente dal latino tardo, epoca nella quale si iniziò a contaminare la ferrea lingua scritta con locuzioni provenienti dal più moderno parlato, dando vita a forme espressive inedite. Il suo utilizzo tecnico è da sempre stato quello di precedere un aggettivo o un sostantivo, per rafforzare quelle situazioni che andassero oltre, al di là di un limite, che superassero un confine prestabilito e i Depeche Mode non avrebbero potuto trovare un titolo più adatto da assegnare a ciò che più di ogni altro loro lavoro configura il faticoso e tenace superamento di ogni ostacolo, di ogni difficoltà personale e di squadra; già solo l’aver raggiunto il sudato traguardo della pubblicazione ha rappresentato l’essenza dell’essersi spinti più in là di ogni gigantesca sconnessione affiorata sull’accidentato tragitto e l’esito finale, meglio essere subito chiari, è l’esatto opposto di ciò che si potrebbe immaginare da un qualcosa nato dalla disgregazione, dall’abbandono, dal massimo disordine.
“Ultra” è un disco partito piuttosto in sordina, e non poteva essere altrimenti visti i presupposti, ma diventato progressivamente tra i più significativi dell’intera discografia del gruppo inglese, tanto da essere spesso richiamato a chiara fonte d’ispirazione da numerosi artisti. Ogni volta che capita di tuffarmi (e succede spesso) tra le musiche e tra i contenuti regalati da questi brani, più di tutti gli altri scaturiti dal dorato repertorio dei Depeche Mode, ritornano alla mente ricordi, non necessariamente connessi a quel periodo, nuove letture, inedite fragranze armoniche, ma l’unica cosa che resta sempre invariata è la grande emozione che ne scaturisce.

 

L’ascolto di “Ultra” non può prescindere dalla conoscenza di tutto ciò che è accaduto al gruppo e ai loro singoli componenti, prima e durante la stesura del progetto. Solo con questo imperativo l’album può essere inteso a fondo, una condizione impegnativa che non capita di frequente, una situazione straordinaria, come lo è il nono full length in studio dei Depeche Mode, una band che troppo spesso è stata  liquidata con eccessiva semplicità, forse in virtù delle colossali hit che hanno regalato loro fortuna e successo, ma è da dischi come questo che ogni più frivola impressione rischia di essere mutata in modo assoluto.