Arthur Russell

Arthur Russell

Camminando nella luce di un miracolo

Personalità ermetica e decentrata, Russell ha consegnato alla popular music l’esperienza più peculiare e trasversale, trasfigurandosi in compositore d’avanguardia, improbabile paladino della cultura disco-gay e chansonnier sofisticato, veicolando in realtà un messaggio unitario, volto a soverchiare paletti e convenzioni nei linguaggi pop. Ritratto di un buddhist bubble-gum musician

di Roberto Rizzo

Una stella oscura, una scheggia di luce che finisce nella notte. Un’immagine celinianamente severa, che riassume come poche quella che è stata l’esperienza e il vissuto di Arthur Russell, astro lontanissimo della cui rapida parabola si sono accorti in pochi, il cui speciale universo estetico è stato compreso fino in fondo quasi da nessuno. Almeno fino a quando l’ondata revival dei Duemila non l’ha fatto oggetto di una necessaria, ma non per questo meno clamorosa rivalutazione, rendendo giustizia così a uno dei pochi personaggi, nell’ambito della popular music, autorizzato a fregiarsi del titolo di “genio”.
Personalità introversa, a suo modo individualista, votata interamente all’ampliamento e al perfezionamento ossessivo della propria musica, Russell ha flirtato praticamente con ogni espressione e scena possibile, spremendo ogni cosa meglio di chiunque altro, un passo più in là di chiunque altro, salvo poi sottrarsene un attimo prima di essere sorpreso dall’occhio fossilizzante di critici e media. Composizione minimalista, club culture, avanguardia, cantautorato folk e lascivia post-punk vanno a comporre così l’ammasso eterogeneo di stili che ha contribuito a (non) definirne l’identità obliqua e sfuggente.
Proviamo lo stesso a corrergli dietro e a mettere un po’ d'ordine quindi in questo guazzabuglio.


Who knows what grows in the morning light 
when we can feel the watery dew? 
I just can't be there with no other, 
I know those hills will be true, 
away from my sister and brother, 
and down through the grasses so blue


Metamorfosi numero uno. Dalle praterie ai mantra con Allen Ginsberg

Charles Arthur Russell nasce nella primavera del 1951 in un villaggio rurale dell’Iowa. È un bimbo che cresce con tutte le tipiche caratteristiche dell’énfant prodige: impara a suonare magistralmente il pianoforte quando non ha ancora undici anni, a quattordici ha già all’attivo le sue prime composizioni, mentre i suoi interessi stanno già deviando altrove. In particolare, è il violoncello portato in casa dalla madre ad attrarlo, fino a quando non decide di apprenderlo con lo scopo iniziale di entrare a far parte dell’orchestra della scuola, ma che si rivelerà essere poi l’unico amore di tutta una vita.
Tutto questo mentre divora quelle letture atipiche, da articoli sull’avanguardia a stelle e strisce al Libro Tibetano Dei Morti, intercalando tomi di filosofia in quantità, che spalancano le porte alle future passioni per il buddhismo e l’avanguardia di John Cage.
Arthur ha in definitiva un’adolescenza tranquilla, solitaria e apparentemente felice, nel suo ambiente domestico campagnolo di libri e trattori, quando a diciotto anni il serafico ragazzetto sorprende i genitori (il padre era diventato sindaco della cittadina di Oskaloosa) annunciando di voler partire alla volta di San Francisco e unirsi a una comune buddhista.

La West Coast è notoriamente polo d’attrazione per eccellenza di fricchettoni e bohémien, la sottocultura di San Francisco in particolare emerge in quegli anni come un coacervo abnorme di possibilità e fermenti artistici e filosofici: movimenti hippie tra pacifismo e residui beat, installazioni ed eventi in odor d’avanguardia all’ordine del giorno, con nuove tendenze filosofico-spirituali che dall’Oriente si affacciano armate di volumi e conti in banca, offrendo garanzie di equilibrio esistenziale per i suoi affiliati. L’intelletto eccitato del giovane di provincia ha solo da tuffarsi felice e assetato di conoscenza.
Violoncello in spalla, casacca color arancio, Russell si inserisce velocemente nella cultura metropolitana. Arte e vita sono in questo periodo una cosa sola: Arthur va a vivere nella comune di un guru mongolo mentre durante il giorno frequenta la scuola del prestigioso maestro indiano Ali Akbar Khan, dove apprende le tecniche di composizione della tradizione indiana settentrionale. Un altro è però l’incontro che dovrà scombussolare definitivamente le cose e incidere brutalmente in questa storia: quello con Allen Ginsberg.
Il leggendario poeta e pensatore della “gioventù bruciata” è impegnato al tempo nello studio e nella promozione del movimento Hare Krishna, che sostiene anche finanziariamente, e ingaggia Russell nella sua setta per registrare alcuni mantra (frammenti dei quali sono oggi reperibili in rete). La sintonia tra i due è eccezionale, il sempre taciturno Arthur, appena ventenne, apprende con estrema facilità e segue istintivamente le “linee” del maestro. Una collaborazione che si protrae per tre lunghi anni, in cui Russell si occupa di musicare i reading di Ginsberg, che culmina infine in un breve ma intenso rapporto sentimentale tra i due.
La chiusura con Ginsberg nel ’73 è solo una formalità, tra i due permarrà un affettuoso rapporto epistolare alternato a frequenti visite e aiuti di carattere economico che continuerà per più di un decennio. Simbolicamente è però la fine di un ciclo: lasciata la comune che gli imponeva di cedere la proprietà del violoncello, Russell lascia anche San Francisco e apre un altro audace capitolo del suo percorso. Alla volta di New York City.


The birth of the moment

Is never ending
Home away from home,
Home away
From home


Metamorfosi numero due. Doppio carpiato nella subcultura newyorkese

Dai caldi contorni dei tramonti californiani alla formicolante vita decorata di verde e acciaio di New York passa lo spazio di un continente non solo in termini geografici. Arthur Russell lo attraversa sul finire del 1973, inseguendo quel suo personale cruccio artistico che si palesa in maniera sempre più pressante: trovare la chiave della pop music. Mentre si iscrive alla Columbia University (che abbandonerà dopo poco) e frequenta alcuni corsi di musica elettronica alla Manhattan School Of Music, entra in contatto con la vivace e rinomata scena avanguardista di New York, in cui però trova un’accoglienza particolarmente fredda. La strada che gli si para davanti è ripida e tortuosa: le prime opere di Russell, lungimiranti per quanto ancora in formazione, vengono criticate aspramente dall’influente teorico e musicista seriale Charles Wuorinen, in particolare in merito alla sua coraggiosa composizione “City Park” in cui venivano letti tra gli altri brani di Gertrude Stein ed Ezra Pound. La gavetta di Russell era costretta necessariamente a procedere per altre vie.
In quegli anni, mentre lo si poteva trovare con facilità in giro a guadagnarsi un miserissimo vivere suonando nei ristoranti o dietro una bancarella di indumenti usati, riceve le dimostrazioni di stima e affetto da parte di Philip Glass, agli inizi di un’impressionante carriera di compositore minimalista, che diverrà la seconda ombra, assieme a quella di Ginsberg, destinata a vegliare sull’intero percorso del musicista. Un’altra amicizia segna un deciso giro di boa, questa volta per il suo curriculum, vale a dire Rhys Chatham, che lo incarica di sostituirlo nella direzione artistica del piccolo ma importante circolo culturale d’avanguardia The Kitchen.

Arthur RussellUn periodo breve, quello “della cucina”, ma estremamente importante per Russell, il luogo in cui hanno modo di arricchirsi e svilupparsi gli embrioni responsabili di tutte le esperienze parallele del dj col violoncello.
Russell amministra il Kitchen prevalentemente sulle tracce dell’avanguardia minimalista, ospitando per lo più artisti misconosciuti o esordienti, con un’attenzione speciale per musica e arte performativa, quando nel 1975 chiama ad esibirsi nel locale prima i Modern Lovers poi i Talking Heads, nello stupore inorridito degli addetti ai lavori. Una scelta significativa e profondamente simbolica, quella di Russell di introdurre il rock in un contesto tipicamente arty, preannuncio di quello che a breve avrebbero fatto Laurie Anderson e lo stesso David Byrne – vale a dire riempire il gap che allontana musica colta e popolare, processo fortemente peculiare dei Settanta americani – ma che tuttavia non viene compresa nell’ambiente e segna la fine del periodo di Russell al locale.

In questo periodo gli eventi viaggiano a velocità doppia. Russell mette piede nel suo storico appartamento sulla dodicesima strada dell’East Village, un buco senza elettricità, sistemato alla meno peggio, a quanto si dice, da Ginsberg in persona, mentre artisticamente è sempre più attratto dall’universo rock, in particolare dopo aver iniziato a frequentare il CBGB’s.
Così è per intercessione del suo amico più illustre, Glass, che approfondisce il suo rapporto con David Byrne, che dopo aver trascorso insieme alcune serate lo supplicò di entrare nei suoi Talking Heads, in quel periodo occupati con la scrittura del primo album. Russell declina l’offerta per “divergenze estetiche” (“loro venivano tutti dalla School Of Art… e poi io portavo i capelli lunghi”, si giustificherà in una delle pochissime interviste concesse), nonostante comparirà alla chitarra in alcuni dei primissimi live delle “teste parlanti”.

Si ritrova invece più affine alla personalità di Ernie Brooks dei Modern Lovers, cui somministra alcuni pezzi per voce e chitarra auspicando una collaborazione. Una band vedrà effettivamente la luce nella seconda metà del decennio, The Flying Hearts, che include oltre a Russell e Brooks, Larry Saltzmann (chitarra) e David Van Tieghem (percussioni). Più che per i frutti discografici portati a maturazione (nessuno), la formazione è importante per essere il nucleo centrale di un ensemble aperto coordinato da Russell (in cui compaiono anche Byrne, Peter Gordon e Jerry Harrison) che si ritrova ad improvvisare per lunghe sessioni intermente strumentali.
Nel progetto di Russell, si sarebbe dovuto accumulare materiale per più di quarantotto ore di musica, da riassemblare e far suonare senza interruzione per due giorni di fila. Nella realtà però i raduni saranno solo cinque e, perduti nelle tarantelle della discografia dell’epoca, solo pochi frammenti riusciranno a salvarsi.

L’opera derivata che viene fuori concretamente è la serie Instrumentals, due volumi per meno di un’ora di musica che vedono la luce in maniera estremamente disordinata: il secondo volume compare per primo sulla Another Side, etichetta satellite della Disques du Crepuscule (ma solo nel 1984), il Volume 1 invece giacerà trascurato negli anfratti più dimenticati delle case discografiche per quasi trent’anni.
Come accennato, si tratta di musica interamente improvvisata, “senza alcuna idea di sorta su quale sarebbe stato il risultato finale”, ricorderà Gordon, dal background evidentemente minimalista ma edificata con gli strumenti e gli stratagemmi tipici del rock, a partire dal titolo, un rimando preciso proprio a quel tipo di linguaggio.
Si tratta di una composizione (o meglio, di una “performance”) unica nel suo genere, che parte da una fonte di per sé indefinibile, variando a seconda dei contesti dall’ensemble cameristico per piano, clarinetto, violoncello, trombone e marimba al complesso rock per chitarre, basso, tastiere e batteria. Lo sguardo di Russell è strabico e lungimirante, un occhio alla pop musicCanterbury e la psichedelia – l’altro al minimalismo di ciò che proprio in quell’anno veniva fuori da emeriti compositori come Steve Reich, Terry Riley e l’amico Philip Glass (è l’anno infatti di “Music For 18 Musicians”, come di “Einstein On The Beach”).
La ripetitività è uno dei concetti-chiave della musica di Russell, sottinteso a ben vedere in ognuna delle sue trasformazioni e già avvertibile in questa manciata di strumentali: abbattere i concetti di inizio, narrazione e conclusione in favore della possibilità di entrare in sintonia con la piéce in un punto qualsiasi, staccarsene e riprenderla a seconda dell’umore ritrovando lo stesso tipo di connessione, senza perdere alcuno stadio evolutivo fondamentale.
Assecondare il mood del momento, quindi, nella fattispecie uno stato precarissimo di gioia e melanconia urbana, confortante e destabilizzante a un tempo. Sedere in un caffè ad osservare volti e pose o rincasare nel bozzolo domestico al termine di una giornata intensa e stimolante, con la consapevolezza di partecipare ad un rito immortale che non conosce principio e che non guarda verso alcun fine. L’arte di Russell trovava la sua espressione più matura già in questa sfortunatissima opera.


Bang go-bang-bang go bang-o

Go bang-bang-bang, go bang-o, yay!
 

Metamorfosi numero tre. Wanna go bang!, ovvero: disamina di un coito disco mutante

Millenovecentosettantasette dunque, l’anno in cui Philip Glass compone “North Star”, mentre Meredith Monk è in giro per New York con le sue esibizioni multidisciplinari (“Our Lady Of Late”) e Brian Eno pubblica i manifesti dell’ambient music Music For Airports e “Music For Films”. Tutto ciò però si eclissa momentaneamente da questa storia, almeno in apparenza.
Lo scenario si tramuta infatti in un locale gay grondante sudore e sporcizia: la Grande Mela del resto non dorme mai e la mirror ball è lì a rammentarlo per bene a tutti gli adunati.
La scena disco newyorkese è prima di tutto un fenomeno sociale, fatto di grandi personalità dei piatti e di club fortemente caratterizzati e caratterizzanti, di cui Nicky Siano è il padrino indiscusso nel leggendario Gallery (prima di imporsi allo Studio 54), mentre Walter Gibbons e Larry Levan sono i nomi di spicco rispettivamente al Galaxy 21 e al Paradise Garage.

Il nostro umile protagonista “dal volto da contadino” si affaccia sulla scena fortificato dalla recente accettazione della propria omosessualità, con un misto di prurigine e viva curiosità verso un genere, la disco, di cui annusa le potenziali liberatorie e i confini generosi che non conoscono paletti predefiniti. Russell inizia una breve e burrascosa relazione con il parrucchiere italo-americano Louis Aquilone, al tempo amico strettissimo di Nicky Siano e habitué dei sabati sera tiratardi.
È lo stesso Siano inoltre, parecchi anni dopo, a ricordare il debutto di Russell nella scena: “Dopo aver trascorso alcuni sabati sera senza Louis, Arthur si decise infine ad accompagnarlo per locali. Dopo la terza o quarta settimana iniziò a venire senza Louis. (…) Il suo modo di ballare era bizzarro, strampalato: era in tutto e per tutto un ballerino bianco in un contesto prevalentemente nero”.
La congiuntura astrale non poteva essere delle più favorevoli, quindi: da un lato il desidero del nostro di sperimentare con la popular music, dall’altro il giro di conoscenze giuste, Siano, Byrne e Will Socolov. Finanziato dalla “galleria” di Siano, Russell scrive e produce il suo primo singolo, sotto lo pseudonimo Dinosaur: si tratta della stravagante “Kiss Me Again”, tra i cui credits figurano nomi come Peter Zummo, David Byrne e Gloria Gaynor, popolarissima disco-hit che scioglie il suo motivo soulful in una sofisticata ricerca tra bassi pulsanti e ritmiche cangianti. Pubblicato dalla Sire, il singolo fa il giro dei locali di Manhattan, è un discreto successo commerciale con circa duecentomila copie vendute, ma farà fatica ad affermarsi nei circuiti mainstream. Ed è soprattutto un esperimento estemporaneo senza seguito: l’affermazione di Siano come il papa della dj culture newyorkese – ascesa che ha già in sé il seme della rovina, la polvere bianca – e l’estrema puntigliosità di Russell non sono più conciliabili.

Le strade si divaricano quindi. Mentre Siano è momentaneamente in California in una comunità di recupero, Arthur frequenta le innovative serate alla corte di David Mancuso: il suo The Loft è un piccolo spazio per un nightclubbing alternativo, senza alcolici e sottoscrizioni obbligatorie, cibo gratuito per tutti, libero consumo di marijuana e soprattutto una qualità audiofila considerata a quel tempo la migliore in città. In questo club, che diventa meta di pellegrinaggio allo stesso modo di hippie e comunità omosessuale, Arthur Russell forgerà la sua nuova creatura amorfa: Loose Joints.
In questo progetto gli orizzonti della disco si dilatano ulteriormente, spingendo su ricerca ritmica, mai così influenzata da stimoli afro e tribali, e soprattutto sul groove, merito indiscusso, questo, del “secondo uomo” coinvolto nell’esperimento, Steve D’Acquisto, eccentrico studente e dj seguace dell’improvvisazione e dell’imperfezione come credo artistici.
Tre sono i singoli portati a termine da questa particolare coppia aperta (ai due si aggiungono infatti Steven Hall e vocalist vari ingaggiati nel Loft), probabilmente gli episodi più complessi e seducenti nell’intero percorso clubbing del nostro: la conturbante “Pop Your Funk”, crocevia tra un funk secco e sentori house dove il soul si asciuga in un bisbiglio maschile ammiccante, “Tell You Today”, destabilizzante numero houseggiante condito con fischi, chorus stonati in loop e derive jazzy, mentre per la prima volta vengono introdotte tecniche tipicamente dub, come l’uso massiccio del riverbero e dell’eco e le linee “basse” più scure del solito.
Il vero capolavoro del collettivo sarà però la formidabile “Is It All Over My Face?”, groove efficacissimo guidato da un basso spiritato che spinge tutto il resto (voci in estasi, calde effusioni di fiati e percussioni) in un unico sfondo. Il singolo sarà trasformato poi un instant-hit da club ed airplay radiofonico nel memorabile remix per voce femminile ad opera di Larry Levan.

Arthur RussellL’attività di Russell in termini di produzione e djing si fa a dir poco frenetica nei primi Ottanta, comparendo come autore e co-produttore su svariati progetti e altrettanti pseudonimi: come Felix mette a segno l’ottimo singolo “Tiger Stripes”, disco-soul notturno dal basso ingombrante, diventa invece Lola per una manciata di sette pollici electro-funk, si trasforma in Killer Whale per alcuni missaggi di brani altrui (celebre il “dub remix” per “Radio Rhythm” di Signalsmart), mentre indossa la maschera di Indian Ocean per il curioso Ep “School Bell/ Treehouse”, probabilmente l’esperimento più estremo del periodo, con ritmiche e groove ridotti al minimo sindacale – fondamentalmente un duetto tra percussione e violoncello.
Gran parte di queste produzioni trovano rifugio presso la piccola piattaforma discografica Sleeping Bag Records, messa su dallo stesso Russell insieme a Will Socolov (la cui abitudine di dormire in sacco a pelo è all’origine del nome), che di questa sorta di disco ubriaca e in forma libera prima e di certo “old school” hip-hop poi, diventa un autentico faro.
Tutte queste intuizioni di genio disco, questi brandelli di erotismo sparsi confusamente nell’arricchimento di una forma mai paga di sé, che inavvertitamente già anticipava tanta house e acid jazz a venire, sarebbero rimasti però poco più di sfizi d’archivio e divertissement estemporanei per cultori della materia, non avessero trovato sfogo e giustificazione in un’opera più unitaria e corposa.

Il compito di cristallizzare questa formula obliqua e innovativa su full length spetta quindi a 24→24 Music, per cui Russell si riappropria del suo primitivo nomignolo Dinosaur (inserendoci una ‘L’), e primo Lp a uscire per la Sleeping Bag Records nel 1981.
Il titolo deriva dall’espediente compositivo adottato di variare il ritmo ogni ventiquattro battute, ma allo stesso tempo allude ambiguamente all’idea di un lavoro around the clock, circolare, ricco di temi ripetuti e senza una vera evoluzione chiusa.
Un lavoro breve (appena mezz'ora), dalle luci soffuse e dal termometro in impennata: la sintesi del discorso è probabilmente racchiusa in quella richiesta sconcia celata dietro il singolo “Go Bang!”: un groove assassino esalato dal piccante manage a trois fra un tappeto ritmico in mutazione continua, bassi anarchici e frasi d’organo roventi che attraversano con disinvoltura l’amplesso. Più che agli ambienti tipicamente disco, questo clima di ghiotta perversione, ancora più spiazzante se ci si sofferma sul piccolo individuo realmente all'opera in consolle, è in realtà incredibilmente prossimo ai territori no-wave: tra le chitarre funky e i sax ubriachi di “Get Set” e “In The Corn Belt” (James Chance è dietro l’angolo), e voci stonate che si rincorrono nel buio alla ricerca impellente di sevizio e sodomia, 24→24 Music sembra allestire un disco-club per veterani punk e nichilisti assortiti, pulsione erotica ed efficacia della formula che non mancano di stuzzicare nomi illustri dell’ambiente. Il produttore Bob Blank su tutti, ma anche l’astro nascente del djing ­newyorkese, Francois K., che remixa una versione alternativa di “Go Bang!” con i vocals di Lola Love, rendendola probabilmente la disco-hit più popolare di Russell.

Anche in questi momenti di (relativa) fama Russell mantiene però un profilo costantemente bassissimo, non riesce, e non è suo interesse, cucirsi la stoffa del dandy sintetico o del disc-jokey eccentrico e carismatico che gli avrebbe spalancato immediatamente i baciamano del mainstream. Al contrario, anche nelle sue serate più “calde” è spesso nella penombra, restio ai riflettori, con la folla talvolta meravigliata nel venire a sapere che quelle linee e quei groove erano prodotti da quel piccolo bianco in giubbotto da muratore e con il volto bucherellato dall’acne.
Al tempo stesso, la personalità frammentata di Arthur Russell non è fatta per legarsi in maniera definitiva a nessuno dei suoi pseudonimi, trovata la chiave della pop music, a questo punto, si trattava di aprire le porte.


It takes my whole time
I'm on another thought now
My eyes searching the real face
Of an angel

Metamorfosi numero quattro. Echi e pensieri in de-sincronizzazione

Per quanto Russell non abbia mai smesso di frequentare i circuiti disco, partecipando a numerose serate e alla produzione di una manciata di singoli fino a pochi mesi dalla sua prematura scomparsa, a partire dalla prima metà degli Ottanta il suo sguardo si era già posato altrove.
Stabilizzatosi nella sfera privata dalla lunga e intensa relazione con Tom Lee – fedele compagno e confidente che resterà al suo fianco per tutti gli anni a venire, che sorvolerà sugli sporadici tradimenti del partner e che amministrerà la sua eredità artistica postuma – Russell collabora con Laurie Anderson in qualità di percussionista, viene coinvolto per un breve periodo tra le fila della nuova band di Ernie Brooks, The Necessaries, e attraverso il solito Glass entra in contatto con Robert Wilson, per cui collabora nel musicare il classico “Medea”.
È la grande occasione, per Arthur, per fare il definitivo salto di qualità e inserirsi nel filone dei grandi compositori minimalisti della sua generazione.
La scrittura della pièce procede intensa, ma Russell, notoriamente pessimo manager di se stesso, con la sua avversione per rigore e schemi prefissati, compromette la riuscita della collaborazione: dopo un avvio promettente, l’incertezza e la puntigliosità sulla composizione la fanno da padrone e dopo alcune prove saltate, Wilson decide infine di licenziarlo.
Quello che ne resta è ancora una volta un lavoro incompiuto. Pensata in principio per voce e strumenti, l’opera che viene portata concretamente a termine costituisce in ogni caso il lascito più importante di Russell nell’ambito della composizione orchestrale. È ancora Philip Glass a racimolarne i rimasugli e a pubblicarli poi in edizione limitatissima come Tower Of Meaning per la Chatham Square.

Parallelamente alle sue produzioni effettive sui fronti più diversi, Russell però si è sempre cimentato, nell’intimità domestica, nella scrittura di una notevole quantità di canzoni ed esperimenti su voce e violoncello, impressionante soprattutto se confrontata con la discografia esigua consegnata al momento della scomparsa. Questo corpus di brani viene continuamente limato e arricchito negli anni, lavorando meticolosamente su ogni singolo aspetto, all’inseguimento di una perfezione sfuggente che ha come unico risultato una quantità di materiale (stimato intorno alle mille ore) condannato a restare perennemente “in progress”.

Arthur RussellL’insicurezza cronica viene però spezzata nel 1986 dalla pubblicazione del lavoro più originale, istintivo e personale della sua fugace esperienza: World Of Echo. Raramente accade come in questo monologo essenziale e assordante che l’artista si fondi in maniera integrale nella sua opera, mimetizzandosi fino ad annullarsi completamente. Gli arrangiamenti non sono mai stati così scheletrici: rimossi beat, groove e motivi orchestrali, quello che rimane è un violoncello elettrificato, pochi effetti elettronici e una voce in trance talmente nuda da mettere in soggezione.
Più che un disco di canzoni, World Of Echo è infatti il flusso di una coscienza in dormiveglia, una hall of mirrors in cui si rifrangono tracce di vissuto, desideri intimi e impulsi nervosi, materializzati nel respiro della voce e del violoncello. In virtù della sua dimensione decisamente spontanea e nebbiosa, l’album non può che essere un distillato di instabilità, sfasamenti e rimbombi che riecheggiano come in un acquario, rivelando a fasi alterne scorci di vibrante enfasi (“Soon-To-Be Innocent Fun/ Let’s See”) inaspettate qualità ritmiche (“Answers Me”) e liriche (“Being It”). Un mantra che assorbe e purifica, ma, come tale, impossibile da sviscerarne il centro e le reali componenti ipnotiche.
Un lavoro estremamente personale anche per l’evidente filo che traccia nel percorso dell’artista, facendo riemergere, sfigurate, soluzioni stilistiche del passato più o meno recente (il raga, i riverberi dub) e rimasticando auto-citazioni dei trascorsi compositivi (“Tower Of Meaning”) e disco-gay (“Wax The Van”, “Treehouse”), opera ermetica e seducente, che in definitiva si riconosce e si spiega parzialmente soltanto nel nome del suo autore.
Album unico nel suo genere, di cui è ancora oggi impossibile rintracciare dei parenti in linea diretta, World Of Echo raccoglie un discreto successo di critica, grazie a un mini-tour che vede Russell impegnato a quel tempo in una serie di performance per soli violoncello ed elettronica, e soprattutto all’attenzione del Melody Maker, che lo inserisce tra i dischi più “significativi” del 1986, facendolo vivere di un’onda lunga di stima e relativa popolarità per tutto l’anno successivo. Russell però, ben poco interessato a seguire i numeri delle vendite, è nuovamente al lavoro nel suo piccolo appartamento, al costante rimestamento di brani vecchi e nuovi, puntando questa volta ad una formula mai così prossima alla forma-canzone.

Il destino tuttavia ha già cominciato a remare contro, impiantando il principio della distruzione in questi ultimi momenti di grande creatività. Poco dopo la pubblicazione di World Of Echo, infatti, causa l’incontro clandestino di una notte, gli viene diagnosticato il virus dell’Hiv, che lo costringe a una lunga chemioterapia. Uno di quegli annunci che avrebbe sconvolto la vita di chiunque, ma che invece viene accolto con insolita serenità da Arthur e compagno, senza compromettere le attività abituali, in primo luogo clubbing e scrittura domestica, rafforzando in maniera ancora più struggente il rapporto del musicista con Tom, cui saranno dedicati buona parte dei nuovi pezzi.

 

Nonostante i temi per lo più solari e positivi, fatalmente, Another Thought non può non caricarsi quindi di una profondità tutta particolare. Russell intende consegnare con questa raccolta una manciata di brani più delineati, dall’approccio quasi cantautorale: più che un monologo, Another Thought è una sequenza di brevi racconti, ballate dai testi raffinati e dai contorni più limpidi, mentre l’appassionato cantato è un continuo ondeggiare tra una malcelata fragilità un po’ infantile e una sensualità vellutata che rimanda al soul di Terry Callier, artista caldeggiato privatamente da Russell fin dal suo arrivo a Manhattan.

La prima metà dell’album è costituita così da serenate minimaliste per voce e violoncello dalla semplicità e intensità disarmanti: dalla melodia radiosa di “A Little Lost” allo spoglio blues di “See-Through Love” in cui ogni singolo suono freme di un’emozione indescrivibile, fino al motivetto leggerissimo di trombe e congas di “This Is How We Walk On The Moon” (ad oggi uno dei suoi brani più noti) scorrono un pugno di vignette di grazia trasparente e cristallina, che appesantire con ulteriori commenti significherebbe soltanto insozzare.

La seconda metà del disco predilige invece soluzioni più astratte, psichedeliche e a-strutturate: i testi si riducono molto spesso a frasi essenziali ripetute con toni ed enfasi differenti, sostenute da arrangiamenti più ricchi che pescano dagli esotismi à-la Byrne e dal synth-pop per guidare estasi amorose totalizzanti (“My Tiger My Timing”, “In The Light Of The Miracle” – quest’ultima con il controcanto di Elodie Lauten) o pacate riflessioni e nostalgie private (“Me For Real”, “Losing My Taste For The Night Life”).

Ne esce un disco ibrido, nei piani di Russell un passo verso un altro progetto teorizzato che non vedrà mai la luce: un'opera più grande che avrebbe incluso un'orchestrina di ottoni, echi e registrazioni "open air", riallacciate alle strutture pop. Album che in conclusione riprende la forma-canzone con il solo fine di sbaragliarla definitivamente, sorta di testamento spirituale del musicista, Another Thought non arriverà però su disco prima di sette anni, grazie soprattutto all’interessamento, ancora una volta, di Glass, che lo pubblicherà, postumo, per la Point Music nel 1994.


Uno, nessuno, centomila

 

Russell muore nell’aprile del 1992, all’età di quarant’anni, legandosi indissolubilmente alla lista dei nomi, eccellenti e non, vittime dell’Aids tra il finire degli Ottanta e i primi Novanta, lasciandosi dietro oltre mille cassettine tra materiale inedito e remix sparse per il suo appartamento newyorkese, gelosamente custodite da Tom Lee, che in quella stessa stanza vivrà per ancora quindici anni.

Per circa un decennio su di lui calerà quel sipario del resto mai alzatosi completamente, finché nei Duemila una serie di ristampe e antologie riporta il suo nome sorprendentemente sulla bocca di molti, con numerose dichiarazioni d’affetto (su tutte, Jens Lekman) e cover di lusso (“Janine” interpretata da Tracey Thorn).
A partire dal 2004, quindi, arrivano anche le prime, fondamentali, pubblicazioni di materiale inedito, guarnite con una biografia (“Hold On To Your Dreams”, di Tim Lawrence) e un documentario (“Wild Combination”, di Matt Wolf, presentato al 58° Berlin Film Festival).

A dir poco essenziale l’album Calling Out Of Context (2004), che mette in luce un lato di Russell che non ha fatto in tempo a venire fuori in toto in vita, vale a dire quello più influenzato dall’hip-hop e dall’elettronica di marca Ottanta. Il disco raccoglie il mini-album “Corn” originariamente pensato per la Sleeping Bag Records ma rifiutato al tempo da Socolov (episodio che segnò la rottura tra i due), insieme ad altre perle inedite del periodo come la splendida “That’s Us: Wild Combination”, “The Platform On The Ocean”, due brani tra i più lavorati e rivisitati dal compositore, “Calling All The Kids”, prodotta e remixata con Walter Gibbons e altro materiale pensato per il progetto electro 1-800-Dinosaur, abbozzato per la Rough Trade e che si ascrive alla lunga lista degli “incompiuti” di Russell.
Nel 2006 invece viene resa giustizia al Russell più minimalista e contemporaneo, con l’edizione di First Thought Best Thought, doppio Lp che rimette insieme dopo oltre vent’anni i suoi “Instrumentals”, con “Tower Of Meaning” e con l’aggiunta di succulenti inediti (“Sketch For The Face Of Helen”).

Altra pubblicazione imprescindibile, nell’universo russelliano, è poi la compilation Love Is Overtaking Me (2008), raccolta di ben ventuno tracce, concesse straordinariamente da Lee e risalenti a periodi differenti. Viene fuori qui un Russell inedito, menestrello folk per brillanti ballate chitarristiche che si riallacciano da una parte alla tradizione cantautorale americana più pregiata (John Martyn, Van Morrison, Joni Mitchell) ma che gettano un ponte anche verso le spiagge più austere e intimiste di Nick Drake. Si spazia così tra umori (la dolcezza di “Nobody Wants A Lonely Heart”, l’ironica “What It’s Like”) e stili (il country di “I Forget And I Can’t Tell”, la crooner-ballad “Love Comes Back”), con la sommessa e tenerissima “Goodbye Old Paint” e la saltellante “Janine” come apici indiscussi di questa spiazzante raccolta che evidenzia un altro, l’ennesimo, lato di una personalità disintegrata.

Personalità che continua ad arricchirsi di nuove sfumature nelle successive antologie, tra cui spicca Iowa Dream (2019), tributo melodico e  imbevuto di Americana al suo poco interpellato Stato natale,. Se piccole lezioni di stile come "I Never Get Lonesome" (country: il riferimento è Townes Van Zandt), "The Dogs Outside Are Barking" (pop: il riferimento è Jackson Browne) o "Sharper Eyes" (folk: il riferimento è Jackson C. Frank) confermano la rinomata abilità nel misurarsi con la tradizione, una serenata da lacrime come "You Are My Love" è qualcosa che va oltre i suoi già siderali standard, mentre "Everybody Everybody" dimostra quanto basti poco per imbastire una canzone perfetta. Ma occhio ad adagiarsi sugli allori, perché parliamo pur sempre di una scheggia impazzita: ecco allora che, quando meno te le aspetti, spuntano fuori "Barefoot In New York" (praticamente un patchwork tra "The Murder Mystery" e "Sense Of Doubt") e "Just Regular People" (riuscite a immaginare "Blue Jay Way" ripensata da Robert Wyatt?), come anche il sincopato post-punk-funk di "I Kissed The Girl From Outer Space". Il violoncello se ne sta in disparte ma, quando emerge, ci ricorda che asso fosse l'Arthur strumentista: vedi la title track, in cui rispolverare la spensieratezza power pop dei Necessaries, non senza nostalgia.

Tra tutte le pubblicazioni postume Picture Of Bunny Rabbit cattura uno dei periodi più fervidi dell’autore, basandosi su registrazioni di poco antecedenti al capolavoro, nonché unico album pubblicato in vita. Concesso alla stampa dalla sorella e dalla madre di Arthur Russell, l'album offre uno sguardo sulla produzione del musicista, destinata a far da colonna sonora per balletti e opere teatrali. Le armi a disposizione di Russell sono sempre state essenziali e basilari: un violoncello, una voce, effetti e tanta immaginazione. Picture Of Bunny Rabbit condivide con World Of Echo lo straziante dolore dell’annunciata morte per AIDS.
Le nove tracce vivono di contrasti tra forme solide e forme fluide, il graffio strumentale e la fragilità della voce hanno i connotati di una musicalità aliena, infestante, in particolare la splendida, impetuosa e dissonante title track. L’attitudine alla composizione pop e cantautorale è appena percepibile, l’imprevedibilità e sempre in agguato ed è difficile seguire le complesse strutture compositive senza far ricorso ad una buona dose di immaginazione e follia. Anche le parole non seguono uno schema, spesso simili a granelli di sabbia gettati al vento al pari di un canto blues “Not Checking Up”, o stritolate tra la labbra al punto da assomigliare ad un lamento esangue “Telling No One”.
Torbide melodie e slanci appassionati creano l’ennesimo ossimoro creativo, la tracimante sensualità di “Boy With A Smile” e l’aspra bellezza di “Very Reason” sono sufficienti a giustificare l’interesse per questo nuovo documento inedito. Due splendide incursioni nello stesso immaginario di Vini Reilly (“Fuzzbuster #06”, “Fuzzbuster #9”) e l’ardimentosa versione cut and jam di “In The Light Of A Miracle” (da “Another Thought”) sottolineano con fermezza la potenza visionaria di Arthur Russell e ne espandono ulteriormente l’universo creativo.

Arthur Russell, in fondo, è stato questo. Osservando retrospettivamente il percorso di questo talento spezzato proprio al suo culmine, a mostrarsi lampante è un io frammentato che non si rimette e non si consuma al cospetto di nessuna forma, ma che di tutto assorbe e si impregna, rasentando il vertice di un’impersonalità estrema, dopo di ché non può che trovarsi una forma grottesca e altrettanto radicale di autenticità. Paradosso che Russell ha incarnato come pochi altri, emergendo come un’individualità esistita a sé, che tutto ha sorpassato e che a tutto, necessariamente, sopravvivrà. 

 

Every step is moving me up
(I'm so far away)
One moment there
Moving me up
Every step is moving me up
One moment there
One tiny, tiny move
It's all I need and I jump over


Contributi di Ossydiana Speri ("Iowa Dream")

Arthur Russell

Discografia

DINOSAUR L
24→24 Music(Sleeping Bag Records, 1981)

ARTHUR RUSSELL
Tower Of Meaning (Chatham Square, 1983)
Instrumentals v.2(Another Side, 1984)

Let's Go Swimming(Ep, Logarhythm, 1986)

World Of Echo(Upside Records, 1986)

Another Thought(Point Music, 1994)
The World Of Arthur Russell(compilation, Soul Jazz Records, 2003)

Calling Out Of Context(Rough Trade, 2004)
First Thought Best Thought(compilation, Audika, 2006)
Springfield (compilation, Audika, 2006)
Love Is Overtaking Me (Audika, 2008)
The Sleeping Bag Sessions (compilation, Traffic Ent. Group, 2009)
Corn (compilation, Audika, 2015)
Instrumentals (compilation, Audika, 2017)
Iowa Dream (compilation, Audika, 2019)
Picture Of Bunny Rabbit(compilation, Audika, 2023)
Singoli su 7''
Dinosaur: Kiss Me Again (1978)
Loose Joints: Is It All Over My Face? (1980)
Loose Joints: Pop Your Funk (1980)
Dinosaur L: Go Bang! (1982)
Loose Joints: Tell You (Today) (1983)
Felix: Tiger Stripes(1984)
Indian Ocean: Treehouse / Schoolbell (1986)
Lola: Wax The Van (1987)
Lola: I Need More (1988)
Lola: Work It (1989)

Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Dinosaur L - Go Bang! (Francois K. mix)
(da 24→24 Music, 1981)

Let's Go Swimming (Coastal Dub)
(da Let's Go Swimming Ep, 1986)

Soon To Be Innocent Fun
(da World Of Echo, 1986)

A Little Lost
(da Another Thought, 1994)

 

That's Us, Wild Combination
(da Calling Out Of Context, 2004)

 

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