Vladislav Delay

Vladislav Delay

Un caleidoscopio elettronico

Sasu Ripatti è stato in questi dieci anni uno dei protagonisti della musica elettronica. Spaziando dall'house alla techno, dall'improvvisazione al jazz, ha saputo costruirsi una fama mondiale. Ripercorriamo la sua storia e lo intervistiamo in esclusiva, alla luce della sua nuova creatura: "Vantaa"

di Asquini, Biancalana, Delli Paoli, Mandolini

Sasu Ripatti viene dal Nord, da una città di centrotrentamila abitanti, Oulu. Siamo nella Finlandia settentrionale, cinquecento chilometri dalla capitale, a pochi passi dal Golfo di Botnia. Fa freddo, molto. Gli inverni sono lunghi e rigidi, le estati secche e tiepide. Sasu nasce nel 1976, Jean-Michael Jarre pubblica "Oxygene" e in un certo senso tutto parte anche da qui. Cosa rende questo biondo finlandese, trapiantato a Berlino per sette anni e ora in una tranquilla casetta a Hailuoto, così speciale nella multitudine di artisti elettronici degli ultimi quindici anni? Cosa rappresentano ora nomi - i suoi moniker - come Vladislav Delay, Luomo o Sistol nella musica elettronica? Cosa fa di Sasu una icona così sfuggevole e così "totale" per capire cosa sia la musica negli Anni Zero? La risposta, banalmente, è presto detta. Nei suoi alias, l'uomo venuto dal Nord declina tutto ciò che si può declinare. Plasma suoni ora alieni, ora terribilmente terrestri. Minimo comun denominatore? L'agilità, il sapersi muovere con terrificante abilità nelle pieghe del suono. Il saperlo plasmare, rivoltare, adattare ad uno stato d'animo, ad un moto perpetuo. Uno dei protagonisti degli Anni Zero ci parla e vive con noi.

Forma e sostanza - Vladislav Delay

Vladislav Delay è probabilmente l'alias più celebre di Sasu, certamente il più prolifico. Con nove album all'attivo, Delay esplora a tutto tondo un universo musicale fatto di ambient dimesso, elettronica nebbiosa, dub scostante e field recording. Ma andiamo per ordine...

Anno 1999, il debutto: Ele. Lavoro ancora piuttosto acerbo, ma che ben fa capire la pasta sonora dalla quale si muove Delay. Tre pezzi per un'ora secca di fluttuazioni a mezz'aria, impalpabil, dub lievi e scoordinatissimi. "Pisa" si muove scostante nel suo incedere quasi frenetico, "Khode" parte con un respiro ambientale e stende il suo velo dub a macchina, mentre la title track si rivela forse l'episodio più debole del trittico, viaggiando in uno stato gassoso un po' incocludente.
Da qui però sarà una ascesa continua.

Trascorre meno di un anno e il salto - grosso - è già fatto. Il balzo prende il nome di Mutila, l'attracco è Maurizio e la sua Chain Reaction. Sette tracce, quasi un'ora e venti di ambient-dub. Delay firma in volata uno dei suoi capolavori, forse la vera vetta in assoluto della sua carriera. Si parte con "Ranta", uno scuro quadretto di ambient nel quale scorrono vene di sangue grigio. Nel ribollire sinistro della prima traccia si scorgono le linee più cupe di un Fluxion sedato o dei Monolake più cervellotici.
Il fluire dub di "Raamat", in moti non distanti da Pan American, l'ambient brioso di "Viite" stordirebbero qualsiasi mente: andirvieni e bollori, effervescenze acquatiche e impalpabilità cronica. E' però nel mantra di "Houne" che Delay definisce il suo credo, la sua estetica: ventidue minuti che partono con un beat ovattato, un tocco quasi gentile che si svela progressivamente in un ritmo spastico che si apre a glitch e una dub-techno dal retrogusto futurista, il tutto immerso in un liquido avvolgente. E se l'iniziale isolazionismo di "Karha" riporta la memoria alla mitica compilation del 1994, salvo poi svoltare verso quadretti ottundenti, la successiva "Pietola" respira un profumo acre d'autunno, di terra che si sgretola e frequenze radio dissestate.
Mutila marca la distanza dal Delay più ambientale e dismesso, lo porta a una dimensione non distante dalle primissime prove di forza a nome Luomo. E ci consegna un capolavoro di visionarietà, in un gioco di chiaroscuri si disegnano landscape che profumano di ghiaccio. Solamente all'inizio, ma la stoffa già è consegnata alla storia.

Tempo pochi mesi e Delay torna all'assalto, questa volta sulla mitica Mille Plateaux. L'etichetta è all'apice e lo ingaggia: nasce Entain. Entain è un disco profondamente diverso da Mutila. Non c'è quel beat ficcante e ovattato, si torna sulla scia dell'esordio. Non è un caso che "Khode" ed "Ele" altro non siano che un remake delle tracce di Ele. Il dub a pelo d'acqua di "Khode" fotografa il silenzio di una palude immersa in un'umidità che pian piano si dirada, i glitch di "Poiko" rompono l'ambient tiepido che procede senza soluzione di continuità.
"Ele" rivisitata brilla di luce propria, adagiando la sua melodia su trame melliflue e giochi d'acqua, mentre "Notke" è ancora l'ambient-dub che t'aspetti e puntualmente sorprende: partenza solare, un sole pallido che si staglia in un tramonto di nubi grigiastre dipinte con toni d'un giallo smunto. Ancora una volta, con coordinate piuttosto diverse, Delay firma un altro centro. La pecca - l'unica - dell'album è forse da ricercarsi nell'essere arrivato dopo Mutila. Per il resto, disco fantastico perché mostra l'ambient-side del suo predecessore. Ne inverte la rotta, e la ripercorre al contrario. Mai uno specchio è stato così fedele.

A due capolavori, nemmeno a dirlo, segue il terzo. In Anima emerge un nuovo Delay, forse molto più affine alle sexy melodie a nome Luomo. Cosa sia Anima è difficile dirlo. Non è un lavoro di ambient, non è un propriamente dub, non è un disco house, né idm o glitch. E' tutto questo e il suo contrario. L'affascinante formula dell'unico pezzo - un'ora la durata - gioca su un piano nuovo. Unite i Future Sound Of London più lisergici, l'ambient-dub di marca Basic Channel, le fughe post- dei Labradford e poi Pan American, l'house soulfoul a nome Luomo o il trip-hop più zuccherato e otterrete Anima.
Più che un album, un'esperienza. Un'ora di loop liquido, una modernità che si fa sensuale e ammiccante, uno zucchero che lentamente si scioglie sotto un sole ovattato tinta pastello. Non c'è ritmo di sorta, solo i soliti beat dimessi e scostanti: è house senza ritmo e senza colonna vertebrale, da ballare stesi a letto, muovendo gli arti con la stessa lentezza del procedere delle ondate sonore. Avvolge l'orecchio, Anima, lo seduce e non lo abbandona. Riprende anzi il gioco un infinito numero di volte, con un appeal indiscutibile, finanche sfiancante nel suo essere sempre uguale a se stesso, senza variazioni sul tema. Glitch sparsi e caramellati ne sostengono la tenue non-struttura, inserti da house in dissolvenza la rendono catchy, il dub stentato e sciatto fa da contraltare. Non c'è pausa in questo viaggio a tinte rosate, è un unicum che procede sussurando all'orecchio quanto la musica, nel suo essere delicata e gracile, quasi cagionevole, incanta e ammalia.

A seguito di Naima, resa dal vivo all'Ars Electronique di Parigi di Anima, Delay decide di prendersi una pausa dal moniker all'epoca meno conosciuto. I lavori a nome Luomo avevano infatti riscosso ben più ampio successo, con annesse avances di etichette di spessore, quali la Bmg. La fama, però, è ormai consolidata e il trittico di cui sopra testimonia l'indubbia visibilità del genietto finnico.

Passano tre anni e arriva il momento di Demo(n) Tracks. Nel frattempo, viste anche le frizioni con la Bmg riguardo appigli contrattuali che gli impedirono di distribuire i suoi lavori in diversi Stati, Ripatti decide di fondare - anzi, più precisamente, riportare in vita - una etichetta tutta sua: la Huume.
Il nuovo lavoro si segnala subito per un aspetto: la brevità delle composizioni. Non più interminabili suite ambient-dub glitchate, ma brevi quadretti della durata media di tre minuti, nei quali si fondono il gusto di Delay per l'ambient de-costruito e spastico con una sensazione di calore percepita solo in Anima. L'effetto è quindi piuttosto straniante, perché se il dub amorfo rimane - e diventa ancor più colonna portante del tutto - a cambiare sono i sostrati, gli sfondi che si fanno colorati. Le tenui tinte della sfumature cambiano continuamente, mantenendosi sempre però entro un orizzonte di riferimento caldo e accogliente. Non ci sono più le rifrazioni spettrali, le fredde salsedini del Nord. Qui c'è spazio solamente per un "Kasvot Uivat" che ti rassicura, per l'effetto straniante del dub sostenuto di "Kotilainen", per i retro-futurismi di "Demonit" o "Kaikki Hyvin". Nel complesso viene facilitato l'effetto easy-listening, anche se si perde in compattezza e uniformità.
Demo(n) Tracks è quindi un disco più che dignitoso, ma che non vive di quei guizzi del suo fratello maggiore, Anima.

The Four Quarters sarebbe ingiusto definirlo un lavoro minore, non fosse altro perché concentra le intuizioni di "Anima", la sua warmness e il suo calore intrinseco, con strutture - ci sono quattro pezzi della durata media sul quarto d'ora l'uno - più vicine a una dimensione da mini-suite.
Con The Four Quarters forse per la prima volta Vladislav Delay si avvicina a uno sperimentalismo-jazz che troverà solamente quattro anni dopo con Tummaa la sua piena consacrazione. Se ne percepiscono i germogli nelle maree del suono di "The First Quarter", con un sound molto meno orientato all'ambient-dub ma forse ancor più fluttuante.

L'importanza di Vocalcity - pensate a "Tessio" -  è palese nell'impalpabilità tiepida di "The Second Quarter", nella quale già si intuiscono le venature impro, sviluppate poi con più convinzione del terzo e quarto episodio. Il Loscil più isolazionista fa capolino su "The Third Quarters", mentre la coda degli ultimi quindici minuti parla la lingua che verrà poi tradotta dal secondo episodio a nome Moritz Von Oswald Trio. Delay realizza il suo lavoro più strano e forse interlocutorio. Il fatto che sia comunque un gran bell'ascoltare la dice tutta sulla grandezza del personaggio.

Passano tre anni e Delay (ri)propone in Whistleblower, un fluire bislacco di linee di synth, che si disperdono a getto continuo in quello che potrebbe essere definito uno sciame confuso di pulsazioni dub. Il disco è interamente realizzato seguendo la famosa tecnica del processing digitale, una sorta di patchwork dinamico immerso nel suo lento divenire in un universo di microsuoni a corrente inversa. La vera follia è che in tutta questa virulenta astrazione sonora, è intuibile, a ogni singolo passaggio, anche un'incantevole sensibilità al laptop.
Dissonanze che scontrano tamburi dalla tela sfibrata, come accade nel binomio iniziale “Whisleblower/ Wanted To (Kill)”, pullulazioni atonali che incrociano frattaglie cosmiche (“Stop Talking”), o tracce da elettrocardiogramma che cercano di seguire quel groove che esiste solo nei sogni (a occhi aperti) del buon Sasu  (“Lumi”).
I primi sei minuti di “He Live Deeply” sono l’unico momento in cui c’è un effettivo contatto con la realtà, prima che l’ingegno avanguardistico (ri)prenda il sopravvento, sia perché la sezione ritmica mantiene una sua costanza di fondo, sia perché gli svolazzi al synth non seguono impalpabili percorsi. Tuffarsi nel magma instabile di “Recovery Idea” potrebbe essere una delle esperienze più insolite per qualsiasi accanito seguace del settore.

Tummaa suona diverso da ogni progetto che Vladislav Delay abbia mai pubblicato in passato. C'è meno silicio e più sperimentazione nelle sette tracce dell'album. Il pianoforte e il rhodes di Armstrong e i sassofoni e i clarinetti dell'argentino Lucio Capece – l'altro musicista coinvolto nelle registrazioni del disco – vengono trattati con attitudine quasi industriale e Ripatti, dal canto suo, manipola il set di una batteria come fosse un'orchestra avant-jazz da cui estrapolare ogni tipo di suono. Non mancano, ovviamente, i riferimenti al mondo della techno e in generale le improvvisazioni sono distese su lunghi loop (spesso suonati dal pianoforte) che servono a creare un'ammaliante atmosfera.
Già la traccia che apre il disco, “Melankolia”, segna i nuovi confini delle esplorazioni di Vladislav Delay: lo spazio è incontaminato e rumori sparsi in sottofondo creano il vuoto per una straziante linea di pianoforte, accompagnata da sporadiche scariche di silicio. La malinconia artica dei paesaggi scandinavi emerge nell'intro della successiva “Kuula”, prima che un clarinetto trasformi la nenia in un turbine di sapori transiberiani. Su “Toive” emerge l'amore di Ripatti per la trance sciamanica del Miles Davis elettrico, grazie a un groove che cresce fino a esplodere in una bolla di silicio rovente.

Vantaa, ossia Vladislav Delay atto decimo. Apre tutto, Sasu. Testa e cuore. Ti immerge completamente, tenendoti la testa sott'acqua finché non ti accorgi di riuscire a respirare senza bisogno d'ossigeno. Sasu torna in un certo senso alle origini del suo marchio di fabbrica, senza però quella freddezza nel suono che lo contraddistingueva. L'influenza mutuata di Whistleblower si fa sentire, a farne le spese sono i funambolismi avant-. Pare che Delay abbia voluto recuperare un contatto molto più fisico col suono, un contatto che ti dice ambient e dub sottile, in un movimento liquido che tutto tocca e niente bagna.
"Luotasi" apre le danze: andirvieni ambient con dub irregolare, solita e cronica impalpabilità, con le nebbie che non cessano di ondeggiare, "Henki" che si fa più fisica nella struttura, con una colonna vertebrale che gira attorno a un dub dimesso e fluttuante.
Delay costruisce frame visivi con una naturalezza impressionante, processando la grana del suono, levigandola e restituendola pura. Ascoltate i landscape di "Lipite" - forse il brano dove maggiormente si sentono le influenze di Tummaa - o i giochi acquatici di "Narri" per scoprire il magma dei vulcani oceanici. Il synth percorre linee fioche e sommesse, che si increspano in un pullulare di rette spezzate ("Vantaa"), per giungere all'estasi cacofonica di "Lauma", tripudio - come non mai nella sua carriera - di beat sostenuto su sfondi grigiastri in loop.
A riprendere il candore ci pensa la dub-techno sensuale di "Levite", con la splendida chiusura di "Kaivue" a suggellare il tutto.
Non ci sarebbe bisogno di molte parole per descrivere una totalità fatta suono, ma solo la voglia di stendersi e rimanere così: sommersi senza essere in debito d'aria. Mai nulla vi sarà sembrato così quieto e limpido.

Un anno dopo, Kuopio ha struttura, le ossa sono saldissime. Con le solite fantastiche scie che avvolgono. Ma non sono pannelli e drappeggi lasciati free - come negli ultimi due lavori -, quanto funzionali a vestire queste colonne vertebrali, questi puntelli che lavorano di fino. Dio è ridisceso in terra, e mostra al mondo come si fanno le cose belle.
Un suono di una morbidezza impressionante vive e si eleva, viaggia, sovrasta, illumina. Mai si è sciolto così tanto Sasu, che quel sole che ci illumina lo comanda. E' un processo di scioglimento dei ghiacci che è tanto lieve e costante, quanto energico e dirompente. 
Si illuminano, brillano le stalattiti mentre distillano man mano gocce d'acqua. Gli zampilli e i clip clop si fanno sempre più insistenti. "Osottava" si apre come un Alva Noto passato sotto una coltre di zucchero, e si risolve in un rivolo in loop che arriva da una galassia altra: un mantra sinistro quasi orrifico (witch) di una bellezza cosmica.
Il calore distillato di "Kulkee", l'andirivieni telegrafico col beat pressante in sottofondo di "Marsila", caramelle gommose immerse nel glitch per "Hitto". Tutto questo per dire come l'universo di Delay sia diventato pura struttura, colta nella sua essenza più liquida. Il piglio aggressivo di "Vastaa" difficilmente in Delay lo si è mai sentito prima: ruggiti. Se "Hektonen" ricorda vagamente il capolavoro "Huone", il dub immerso nella neve di "Avanne" o gli spasmi di "Kellute" tracciano un filo che unisce il tutto. Forse Delay ha completato qui sia il suo lavoro più pop, sia il suo vertice assoluto. Espressione di un arte in perenne bilico tra colonne portanti e scie dismesse, "Kuopio" eleva il concetto di fusione al suo apice. Non c'è nube all'orizzonte, nessuna tempesta in arrivo. L'aurora boreale, il cielo sopra Kuopio, vivono di una luce che non si spegne. 
E dispensa un calore forse un po' distante. Kuopio è la colonna sonora di uno spazio immacolato. Voi dovete solamente ascoltare in silenzio. La luce verrà a voi.

Nel 2014 esce Visa, primo Lp sulla sua Ripatti. Delay pare quasi far parlare la sua immersione con la sua terra. Non c’è quasi spazio per beat di sorta, e laddove emergono increspature ecco che sono sconnesse, isolate, rimbalzano in moti nosense definendo texture e sfondi gelidi. Parla a braccio Delay, con la voce flebile, e quella sensazione di ghiaccio tiepido che evapora. Con la mastodontica “Visaton” a lavorare su ambient dimessa dagli agenti atomosferici che gioca di sottrazione-dub rispetto a quella “Huone” che molti cuori ha spezzato. Non pulisce più i suoni, Sasu, non deterge i field recordings. Al contrario “Visa” mostra la neve sporca ai lati dei marciapiedi, lasciata a se stessa in attesa di sciogliersi. Come i saggi, non ha più la pretesa di costruire, di rinnovarsi, di ambire a un qualcosa. Ma asseconda quel che vive ogni giorno, guardando fuori dal suo studio. Gli abeti, l'erba brulla e rada, i cervi, i primi fiocchi bianchi autunnali adagiati sul permafrost.
A ruota "Viaton" e "Viisari", trame impro-elettronica la prima, dolcissimi notturni metropolitani la seconda. E ancora "Vihollinen" e i suoi echi di casa Hyperdub con pullulare di voci soffocate dalla lontananza, o lo splendido quadretto in levare di "Viimeinen". Tutto questo è ora Delay, un purista della forma che fa parlare i suoi occhi e le sue orecchie, senza trattare il suono ma lasciandolo libero di auto-farsi.
E così, in questo moto di auto-annullamento e di inchini a ciò che si presenta di fronte a lui, Delay demolisce ulteriormente se stesso, la sua arte. In attesa di una nuova stagione. O di una nuova gelida architettura.

Nel 2020 il ritorno a sorpresa con Rakka. Di mezzo ci sono stati cinque o sei anni di silenzio pressoché assoluto, un ritiro a vita monastica, o quasi. Il che comporta: no social, no concerti, no dischi, no interviste. Nulla di nulla. Un silenzio rumoroso che, a forza di essere reiterato, poteva anche lasciar presagire una pietra tombale sull'esperienza Delay. E invece lui era sempre là, nella sua casetta che tange i confini dell'Artico. Sempre con Agf, sempre a pescare trote o salmoni, registrare suoni. Insomma, tutta quella serie di cose che puoi fare lassù, a Hailuoto.
Cosa rimane di tutto questo? Tutto, eppure nulla. C'è la Natura, sì. Ma non è un disco di field recordings teso a fotografarla. Al contrario: viene presa come ispirazione e pretesto, per raccontarla in maniera differente. Non come orizzonte che tutto governa dall'alto, forza saggia e immanente. Semmai come forza motrice, perennemente in movimento. Una fabbrica, un pulsare sotterraneo che genera-altre-dimensioni. Non è un disco complicato, né particolarmente insidioso, anzi. Le barriere all'entrata sono nulle, l'impatto è immediato. E devastante. Non siamo dalle parti del solito Delay placido. Quello che, laddove concedeva spazio al beat, lo plasmava pulsante, ovattato e rassicurante. Non ci avviciniamo minimamente a quel Delay tutto fioretto, che ritagliava microhouse con precisione nipponica. E non siamo nemmeno in quell'Artico che sprigiona calma e pace, lunghi silenzi e linee dell'orizzonte immacolate. Questa di "Rakka" è l'immersione dentro una crepa. Con suoni - come nei migliori Techno Animal o Pan Sonic - che escono da tutte le parti, frastagliati, spezzati, angolari. Bordate di noise digitale incredibilmente calde, fendenti come nemmeno gli Yellow Swans. Con echi dub, e schizzi di puro industrial. Insomma: un'infezione, un virus che si propaga rumoroso.
Le fiocinate arrivano da ogni dove, in una deriva black-metal (secondo le coordinate che Delay può elargire) che lascia a bocca aperta (e con la voglia di spaccare qualsiasi cosa vi si pari innanzi). C'è "Rakkine", che si propaga - nella sua techno fittissima - a mo' di tormenta, c'è "Rajaat" che è una fotografia di un ghiacciaio che deflagra su se stesso. E poi ancora: il pandemonio di "Rataaja", "Rasite" che flette il mood caotico, lambendo i Boards Of Canada più sporchi e lunari. Se si può immaginare un inferno che conosce il suo lato artico, beh: eccolo.

Questa fonderia - con il ghiaccio che divelle i macchinari - è quanto di più fisico ed estremo Vladislav Delay abbia mai prodotto. Si incunea nelle orecchie con un'onda d'urto impressionante. Se ne esce con le ossa rotte, presi a sprangate - a sangue - da queste rasoiate che si librano impazzite. Non c'è spazio per nessuna esitazione, per nessun indugio. Da questa Apocalisse, da questa rompighiaccio scappi pure chi vuole, finché è in tempo: quello che sta sotto i piedi si sta crepando. Per gli altri: aggrappatevi forte, la nave ballerà a lungo.

Rakka II (2021) non è da meno e ci porta oltre i confini del suono, oltre il grande Nord patria di Sasu Ripatti, tra pulsazioni lancinanti e inferni glaciali. Non è semplice ricordare musicisti che hanno osato spingere la musica elettronica in tali confini estremi, ma di certo le stratificazioni possono ricordare quelle di uno dei capolavori di Tim Hecker, “Ravedeath, 1972”, album innovativo e iper-stratificato, ma infinitamente meno aggressivo dei due “Rakka”.

Vladislav Delay continua a percuotere l'ascoltatore con suoni che sembrano fatti di vera materia, dove il noise e l'ambient si abbracciano per annullarsi a vicenda e rinascere in nuovi orizzonti. In questi suoni caotici c’è la natura nella sua vera essenza violenta e selvaggia, vista senza alcuna banalità romantica bensì nella sua autentica sostanza, forza motrice eterna e inarrestabile che travolge ogni cosa dinanzi a sé.

“Rakkn” è quindi un manifesto di caos digitale, eppur ordinatissimo nelle sue stordenti scosse telluriche. Le pulsazioni diventano compulsive in “Ranno”, dai suoni sempre più bassi e angoscianti, mentre in brani come “Raaa” o “Raato”, i battiti martellanti sono avvolti da suoni ben più acuti che fanno da impalcatura. L’unico momento differente è “Rakas”, stavolta prossimo a una musica ambient debordante di angoscia, vicino ai mondi dei Labradford e del loro progetto parallelo Pan American. E’ interessante notare come nulla in questo brano dia un’idea di stasi, bensì - pur nella lentezza - tutto rimanda a un flusso perenne e inevitabile.

I due “Rakka” possono ambire a essere una delle più autentiche colonne sonore della natura, nella sua sostanza più brutale e relaistica, che la musica elettronica abbia mai potuto immaginare.


Il caldo abbraccio del Nord - Luomo

A conferma di un eclettismo fuori dal coro, Luomo incarna la maschera più bizzarra di Ripatti.  E’ qui che il buon Sasu fonde le sue due anime maggiori. L’elemento creativo dettato dalla mente e l’impulso ritmico suggerito dal cuore vivono finalmente in un unico corpo sonoro. A metà strada tra le deflagrazioni bioniche di Delay e le bombe sganciate con Sistol e Uusitalo, il percorso intrapreso sotto moniker Luomo mostra differenti gestioni del groove, rincorso a sua volta da costanti zigzag elettrici e morbide sovrapposizioni micro-house. L’indomabile finlandese sfida così la propria capacità e dinamicità ai controlli, tessendo la sua personale tela elettronica fatta di sibili e schegge voltaiche, sfarfallii magnetici e bassi smorzati, senza mai rinunciare a pulsazioni in linea retta into club vibranti e smaniose, se non altro proprie dei dominatori neri residenti in quel di Chicago. Luomo delinea quindi la creatura definitiva di Ripatti. Mentre Vocalcity, esordio sotto tale sigla, rappresenta a più riprese il suo lampo di genio, la sua scia più accecante.

Prodotta nei primi mesi del nuovo millennio, la prima opera targata Luomo è un susseguirsi di battiti caldissimi mescolati a crescendo vocali deep-house. La centralità del ritmo sovrasta l’intera struttura, contornata da scappatoie al laptop d’ogni sorta e palpitanti TB. La sola “Market” pone in chiara evidenza nuove diramazioni da seguire. Costrutti ritmati in cassa dritta, accerchiati da micro-pullulazioni elettroniche a incastrarsi in quello che sarà lo scacchiere luminoso dei vari Jonson, Tate e Dhula. Ripatti opta per poche tracce. Vere e proprie escursioni mentali nell’universo dei migliori club del vecchio continente caratterizzano l’album, a tratti sorta di dj-set elaborato in studio (si prende ad esempio l’inarrivabile mutazione tematica in “Class”).
Il non plus ultra di questa eccitante fusione risiede nei dodici minuti della celebre “Tessio”, nella quale il nostro inanella tutta una serie di ripartenze ritmiche ben camuffate da un groove accecante e dalla liquidità amniotica della tastiera, prima che un coretto soul esclami a voce controllata “Baby it's ok, we'll make it better, baby, I, I'll survive, without these women in my life".
Il disco riceve non pochi apprezzamenti dalla critica, non allontanandosi comunque da una circoscrizione e da una platea ben selezionata. La stessa “Tessio” ottiene enormi riscontri tra gli addetti ai lavori, fino a essere inclusa come coda dell’eccellente selezione “Hypercity” di sua maestà Andrew Weatherall, remixata per l’occasione dall’illustre Mathias Schaffhäuser.

Seguono due anni di strabiliante esperienza nell’universo dancefloor, i quali proiettano di scatto l’algido Ripatti verso un modello downtempo decisamente inatteso. The Present Lover è così l’ennesima mutazione dentro la mutazione, la metamorfosi elegante del groove di marchio Luomo. L'introduttiva “Visitor” è per l’appunto il biglietto da visita di questa nuova e intrigante commistione d‘intenti. Stavolta, è la femminilità il fulcro centrale da cui poi poter svolazzare liberamente. E’ la donna il centro del suono.
Ripatti sposa così nuovissime strutturazioni lounge, l’obliquità delle sfumature cede il passo a un immaginario chic e sensuale. L’ossatura del beat è alleggerita da un’effusione romantica del ritmo. Sasu si scopre amante e seduttore, al contempo vittima e carnefice dell’universo femmineo.  E così è tutto un susseguirsi di calde variazioni su tema. La stessa title track evidenzia il nuovo stato d’animo del Ripatti negli abiti del concubino moderno. In “Body Speaking” il linguaggio del corpo espone pertanto L(‘)uomo a inseguire impalpabili orgasmi ritmici interiori. E’ l’apoteosi erotico-sonora del disco, la netta demarcazione dalle linee sintetiche dell’esordio. Il bis di “Tessio”, modellata seguendo le nuove attrattive downtempo, evidenzia a pieno titolo l’esigenza di assecondare l’istinto e accantonare momentaneamente ogni forma di istigazione avanguardistica. Il risultato è a suo modo conturbante ed eccitante.

Pur facilitato da una maggiore fruibilità dell’insieme, The Present Lover resta comunque uno dei momenti di maggior candore per il produttore finlandese, ne mostra per certi versi il suo lato più umano e divertito. Missate poi quattro tracce con l’amico Domenico Ferrari nel trascurabile ma onesto album-remix The Kick, Ripatti torna nei panni de “Luomo” nell’enigmatico Paper Tigers.
Accantonato il morbido richiamo di certa house da aperitivo, il disco si presenta come possibile variazione degli excursus frastagliati con la compagna Antye Greie-Fuchs nel progetto parallelo Agf/Delay. La differenza sostanziale risiede tutta nella maggiore fruibilità del groove e dei vocalizzi elettrici inseriti con elegante maestria e minor imprevedibilità. Ciò nonostante, il disco offre diversi passaggi a vuoto, ben oscurati da un’ottima alternanza di episodi decisamente più ispirati, come la bjorkiana “The Tease Is Over” o la saltellante “Good To Be With”.
Malgrado il susseguirsi di estenuanti collaborazioni e dei più disparati impegni live ottenuti a destra e manca nel Vecchio Continente, con Paper Tigers l’infaticabile Sasu cerca in qualche modo di assestare la propria creatura, mescolando il dinamismo elettronico degli esordi con la lussuriosa compostezza palesata nella seconda fatica, riuscendo solo per metà nell‘ardua impresa di camuffare i primi, evidenti (e ovvi) sintomi di stanchezza.

Convivial esce a due anni di distanza da "Paper Tigers", e per certi versi ne costituisce il seguito ideale. L'album si presenta come un carnevale di suoni, ricchissimo di ospiti illustri: da Catherine "Cassy" Britton, che apre le danze con l'asciutta interpretazione electro-soul di "Have You Ever", al carismatico Apparat, perfettamente a suo agio nella ballata tra Radiohead e Telefon Tel Aviv di "Love You All"; dal redivivo Robert Owens, alle prese con la solita elegante house venata di blues ("Robert's Reason"), a un sorprendente Jake Shears in libera uscita dalle Scissor Sisters, per il quale Luomo ha preparato un funky elettronico degno del miglior Prince.
Ben quattro delle nove canzoni in scaletta ospitano la voce della fidata Johanna Iivanainen. E' su queste tracce che Ripatti mostra più liberamente il lato sperimentale della sua musica, costruendo groove contorti e tappeti ritmici intarsiati di mille colori. Libero dalla presenza ingombrante degli ospiti della prima parte del disco, Luomo si impadronisce del palcoscenico e mette a segno due delle tracce più seducenti dell'intero lavoro, "Slow Dying Places" e "Sleep Tonight", dimostrando ancora una volta che se ci fosse un solo nome da spendere per rappresentare la techno degli ultimi dieci anni, allora sarebbe quello di Sasu Ripatti.

A tre anni di distanza da Convivial, ecco Plus. House sexy, beat quasi sempre pastello, mai irruenza o cattiveria, ma tocchi di musica molto pettinata. Quelle scie - suo marchio di fabbrica - di Anima riemergono qui, tra variazioni monotonali e una sensualissima venatura di pelli a contatto. "Twist" ne incarca il lato più soulful, "Good Stuff" - capolavoro assoluto nella sua discografia - quello più viscerale: struttura loopata e ipnotica, poche frasi e house di corpi che si toccano e si sfiorano. E ballano. Di quelle melodie che fanno venir voglia di muoversi, di sentire ogni singolo muscolo, ogni singola fibra, del proprio corpo coordinarsi in un unicum e in un continuum.
"How You Look" in progressione soft-techy, tra trame in palleggio e qualche dolce glitch sparso, "Make My Day", forse il vero buco nell'acqua di questo Plus. Il robot "Happy Song" spezza la falsa soavità della traccia precedente, in favore dei soliti giochi di ombra sorretti da un beat molto lineare. "Medley Through" è proprio fascino Motown da old school, tra immagini di fotografie ingiallite e scuola Chicago a piene mani. E se fin qui di elettronica in senso stretto non se ne trova poi tanta, "Form In Void" fa fare - ancora una volta - retromarcia verso un suono che guarda al revival synth molto scheletrico (pensate all'ultimo Ford&Lopatin in veste minimale, e quindi Junior Boys). Le conclusive "Spy" e "Immaculate Motive" non aggiungono significativi spunti a un disco che non inventa nulla.

Ma è proprio nella normalità che Ripatti esalta le sue doti da master indiscusso della scena elettronica contemporanea. Un suono sempre vivo e viscerale, che si muove lentamente in rivoli che cambiano colore lentamente. Non c'è verso di rimanere delusi dall'uomo venuto dal Nord; a dispetto della presunta freddezza, verrebbe solo voglia di sentirsi dire "Put your hands around me. Totally".

Un intervallo gelido - Uusitalo

Nel 2000 il nome di Vladislav Delay circola già tra gli adepti della nuova techno. A far crescere il culto del musicista finlandese ci pensa anche il primo disco di Uusitalo: Vapaa Muurari esce avvolto in una veste bianca. Come la neve e il ghiaccio al quale rimandano le quattordici tracce in scaletta: techno "gelida", che si insinua tra le sinapsi grazie a geometrie riconoscibili e uncini pop-ambient.

Dopo sei anni e dopo i successi dei dischi house a nome Luomo e di quelli più sperimentali a nome Vladislav Delay, nel 2006 Ripatti torna a pubblicare un disco a nome Uusitalo, Tulenkantaja. Le atmosfere delle dieci tracce in scaletta rimangono legate alla silent techno che il finlandese ha aiutato a definire con i suoi dischi. Una musica desolante intrappolata in rigide strutture di silicio.

L’anno seguente, nel 2007, esce Karahunainen, il miglior disco di Uusitalo pubblicato fino ad oggi. Lo stile meno rigido e più vario rende possibile contaminazioni con le sonorità dub care a Vladislav Delay: il risultato è un album incredibile, che pur conservando i soliti riferimenti artici dei precedenti lavori, mostra una gamma di bassi sbalorditivi capaci di esplodere come geiser in mezzo al ghiaccio.

Sensualità breakbeat - AGF/Delay

Agf dal 2005 è la moglie di Sasu Ripatti, dal 2006 madre di una figlia. Concentrare la propria ricerca su un ambito ancora una volta diverso. Ed elevarla. Brilla di una luce tutta particolare questo Explode, sfuggente perla nera frutto della collaborazione tra la maliarda Agf e l'alchimista minimal-techno Vladislav Delay. Musica complessa per animi sensibili, suoni secchi, a tratti aspri, violenti breakbeat e cantato erotico che si incastra flebile tra intricate maglie elettroniche.
E' proprio l'interpretazione di Agf a fungere da collante armonico, a rendere fluido un suono che altrimenti rischierebbe di arenarsi causa una oltremodo pronunciata frammentazione ritmica; tutto funziona, però, e alla perfezione.
Ma cos'è questo disco? Più che dal trip-hop, troppo astratta e scarnificata la texture per essere tale, Explode pare attingere dall'influente esperienza Laika/Moonshake, nella reiterazione ossessiva delle battute, nella riproposizione di rumori ipnotici come di radioattive schegge post-kraut-minimaliste.
Evoca paesaggi pregni di angoscia metropolitana, la musica di Explode, menti solitarie che vagano catatoniche nell'oscurità, tra vicoli decadenti, sirene che riecheggiano in lontananza, urla soffocate, una sorta di "Strange Days" dal finale non scritto. E' rappresentazione prima che delizia uditiva, visioni che semioticamente si cibano dei residui dell'evo industriale, rigurgitati nelle vesti di antropologiche testimonianze di una civiltà al collasso.
Il disco si apre con "Do Protest", spirale di sensualità sottovuoto, per poi proseguire con il battito ossessivo di "Explode Baby", una sorta di Can intorpiditi da intense luci al neon. "All Lies On Us" non può essere raccontata per quanto è toccante, solo un'avvertenza: ascoltatela con distacco emotivo o il cuore potrebbe sanguinare. Leggera deriva enyana tra i solchi di "A Distant View", ode postmoderna eseguita in una locanda alla fine dei mondi, suono incontaminato di un menestrello cyberpunk intrappolato nell'entropia dei sensi. Non v'è linea melodica portante, solo schizzi che si materializzano dal nulla, per poi dissolversi improvvisamente. Esemplificative in tal senso la melmosa "Restrict", giocata su apatiche iterazioni percussive, e "Slow Living", traccia numero dieci per la cronaca, claudicante soul music da Marte.
Si torna a un minimo di canovaccio con "Distributor", deliquio psichedelicho suggestionato da rimembranze Bowery Electric, per poi chiudere la partita con i fennesziani romantic drones di "From Morning On". Oscuro, voluttuoso, alieno, quasi capolavoro.

Passano quattro anni, 2009: Symptoms. Synth-pop, trip-hop, dub-techno. La quantità di riferimenti stupisce fino a un certo punto, ciò che davvero salta all’occhio è la padronanza con cui questi elementi vengono fusi fino a raggiungere un livello di coesione complessiva mirabile. Laddove in Explode emergeva sostanzialmente un suono scarno e gelido, la situazione in Symptoms, almeno parzialmente, evolve. Non più, o non solo, secche sezioni ritmiche, impasti krauti aggiornati al nuovo millennio, magie elettroniche ghiacciate provenienti dal Polo Nord. Il nuovo corso si orienta verso lande decisamente più tiepide, tra minimalismo, reiterazioni sonore ed elettronica avvolgente, rumorosa, talvolta sedotta dal dancefloor.
L'iniziale “Get Lost”, che pare uscita da un disco qualsiasi dei Massive Attack, si sgancia dalle produzioni dei due per proiettarci in un immaginario timbrico molto vicino al trip-hop dei tempi migliori, in bilico col dub. I fendenti astrali che adornano il motivo di “Connection” sembrano giungere direttamente dal Sol Levante. E’ impossibile mantenere il controllo all’ascolto di un algido rimbombo ritmico (“Downtown Snow”), i fantasmi del down-beat più acido emergono tra sinistri presagi futuristi e immaginifiche scuciture melodiche (“Outbreak”). “Generic” ripropone sincopi minimal-techno, anticipando “Most Beautiful”, capace di rimandare a quel pop elettronico brumoso di cui gli Air sono maestri.
Reiterazioni oppiacee ammorbano un’atmosfera già tutt’altro che rassicurante (la splendida voce granulosa di “Bulletproof”, momenti di stasi glaciale in “Second Life”), ispirando derive digitali in forma di racconto errante (la lunga e ipnotica “Congo Hearts”). Se acidi momenti sintetici non deluderanno gli amanti del synth-pop (la title track e “Smileway”), la conclusiva “In Cycles” riesce a sposare Fennesz a un gusto tutto nordico nel cesellare groove regolari ma quantomai trascinanti.
Inquietudine urbana e rappresentazione pessimistica di un mondo non troppo lontano.

Ossessioni minimal e viscere techno - Sistol

Assecondando lo spirito più muscoloso della sua musica, Ripatti esordisce, quasi all'inizio della sua carriera,  con il progetto Sistol nel 1999. L'omonimo disco è profondamente influenzato dalla minimal-techno, genere che in quegli anni stava esplodendo come fenomeno di massa in ogni dancefloor del mondo. Granitico e perfino ripetitivo, l'album tratteggia paesaggi essenziali e strutture ritmiche di efficacia scheletrica, lasciando pochissimo spazio alla melodia. Screziato da venature glitch (il rarefatto finale con ”Kotka”), senza grossi sussulti, “Sistol” si attesta su un livello medio di routine techno assodata e piacevole.

Dopo più di dieci anni in cui il moniker viene lasciato da parte, Delay torna nel 2010 con On The Bright Side e la differenza con il suo precedessore è lampante. Lasciate da parte le influenze minimal, l'opera va subito al centro con un'efficacia a tratti devastante. Ritmi secchi, corposi, Vladislav si diverte e lo si sente chiaramente quando le melodie si intrecciano e gigioneggiano in un andirivieni contagioso e ossessionante. Si avverte una profonda passione nei tratti di una musica tormentata, epica, centrata ed efficace. Nonostante il nostro non sia certo un animale tutto sudore e cassa in 4/4, la sua versatilità nel confezionare un prodotto di settore così positivo, è l'ennesima conferma di quanto sia un musicista a tutto tondo. Tracce tirate al lucido, già pronte per divenire anthem da pista (“(Permission To) Avalanche”, “Hospital Husband”), si alternano con accecanti bagliori electro (le delicate tessiture di synth nella title track, gli scuri bagliori dell'inquieta “Fucked-Up Novelty”) ed episodi in cui la spinta sulla carica ritmica non stona minimante (le staffilate di “Contaminate Her” e “A Better Shore”).
Al di là delle singole tracce On The Bright Side mette in luce un Delay ispirato, vivace, capace di sperimentare e proporre musica caldissima, ma al contempo riflessiva, dando sfogo via via a ogni sfaccettatura del suo essere uomo e artista.
A corollario di questa uscita, verranno rilasciati poco dopo due fondamentali 12” in cui artisti del calibro di Redshape, Jori Hulkkonen e Scuba, trarranno ispirazione per rimescolare le carte in tavola e remixare alcune tracce con esiti sicuramente interessanti.

Nello stesso anno la riesumazione di Sistol è completata con la pubblicazione del doppio cd Remasters & Remakes, in cui nel primo disco viene riproposto l'esordio, con l'aggiunta di due tracce dell'originaria sessione di registrazione (“Hojatus” e “Kojo), mentre nel secondo si avvicendano primi della classe come John Tejada e Alva Noto nel trasfigurare alla loro maniera un lavoro già di per sé molto buono.

A prescindere da eventuali sviluppi futuri, Sistol rimarrà il contenitore in cui l'artista convoglierà tutte le proprie frustrazioni con una musica tormentata e madida di sudore.

Trittico di anime in contrasto - The Dolls

Opera a tre mani con l'aiuto di Agf e del compositore Craig Armstrong, l'omonimo esordio di The Dolls è fino a qui l'unica collaborazione di Delay con la consorte al di fuori del progetto Agf/Delay. Come si potrà notare dall'onnipresenza della voce della compositrice tedesca, l'album è un delizioso concentrato di sperimentazione vocale cara ad Agf, influenzato tanto dal classicismo pianistico di Armstrong, quanto dalle divagazioni ritmiche del finlandese. Il tema centrale è l'esplorazione di tutte le vie di interazione possibili fra tre anime, cercando di farle coesistere in qualcosa di vivido e intenso. Diverse soluzioni saranno un richiamo alla carriera solista di Agf, la quale marchia a fuoco l'album con un'interpretazione come al solito sottotono, da vera poetessa del suono quale ha dimostrato di essere fin dai suoi primissimi album.
La perfezione con cui le note di piano vengono compenetrate dalle sperimentazioni a metà fra un trip-hop malato e una spoken-word-music sciamanica rende l'album unico nella carriera di tutti e tre i musicisti.
Atmosfere noir, crepuscolari e decadenti si abbattono fin dall'inizio, mescolando tormenti in chiaroscuro (la nenia “Martini Never Dies”, gli sbuffi improv di “Soul Skin”), frangenti più palpitanti (l'emozionante crescendo di “White Dove”, i battiti pungenti in “Choices” e “Night Active”) e un'ariosità perfino inconsueta (il bell'istronismo pop delle varie “Collect The Blue” e “Kukkuu”). Le similitudini con le secche strutture di Agf/Delay si percepiscono negli episodi più asciutti (“Motor City” e “Favourite Chord” poggiano su un pattern ritmico efficace), peraltro mai completamente scevri da un alone di rarefazione urbana o rasserenati. Dove la radice improv classica prende il sopravvento (“Star Like”, la title track), il registro cambia in favore di uno scomposto affastellarsi di melodie, sbuffi e reticoli di batteria magistralmente suonati da Delay, capace di trasformarsi in un solido performer, dimostrandolo dal vivo nei concerti in coppia con Agf nel biennio 2005/2006.

Ancora orfano di un seguito degno di nota, The Dolls rimane episodio isolato e di grande rilievo nella carriera di Delay, ennesimo progetto parallelo dall'esito quantomeno positivo in cui l'artista dà la zampata vincente, riuscendo a convivere con due personalità artistiche ingombranti.

Impro time - Vladislav Delay Quartet

Cosa si cela, dunque, sotto questo progetto? Essenzialmente la voglia di lasciar libero sfogo alla musica. Debut nasce e si sviluppa come il risultato di session dominate da un solo verbo: improvvisare. Forse più congeniale a una resa dal vivo che a lasciar traccia di sé sul formato fisico, l'album va a scavare gallerie che Delay non aveva mai toccato. Messi da parte dunque l'evanescenza, (in parte) il dub, gli sfondi ambientali claudicanti, qui si viaggia su coordinate che vanno a toccare i precordi degli amanti delle claustrofobie Pan Sonic, virate in salsa da quartetto impro-jazz. È una litania lunga e inesorabile, che va a di pari passo con gli ultimi Æthenor, una litania nella quale si rincorrono rintocchi, suoni spettrali, leggerissime incursioni dub. Un noise dilatato e mai eccessivamente ficcante aggiunge il tocco finale.
"Hohtokivi" gira su se stessa gracile e sinistra, "Minus Degrees, Bare Feet, Tickles" ripercorre gli stilemi degli ultimi Fenn O'Berg, "Santa Teresa" è un'ossessione per clarinetto e dub dilatato, "Des Abends" viaggia su un mare di vetri rotti". A tirar fuori le unghie provvedono però l'esaltante free di "Killing The Water Bed", orgia di intrecci e spasmi rabbiosi, e il dub in prima linea di "Louhos", che incrocia le fila serrate di Capece e le scie di Vainio.
L'intellighenzia si accomoda e suona. A voler essere puntigliosi, si potrebbe dire che la parte iniziale tende a rimanere assestata su binari forse un po' telefonati. Alla fine però, tirando le somme, c'è solo una cosa da dire: vincono loro.

L'architettura a trama variabile - Moritz Von Oswald Trio

A voler essere davvero poco generosi si dovrebbe parlare di un progetto nato secondo coordinate non dissimili da quelle che dovrebbe seguire un trio jazz. Accade, però, che un progetto concepito inizialmente non certo per stare in studio quanto sul palco, abbia partorito, nel giro di un paio d'anni, due tra i lavori più interessanti in un limbo nel quale si incontrano jazz, elettronica, ambient, dub e techno. Pochi anni fa, a causa di un'ischemia in volo, Moritz Von Oswald subì la paralisi della mano destra, il cui tocco felpato le menti illuminate di Delay e Loderbauer, provano, in un certo senso, a ripristinare.
Quando un artista semina per quindici anni, è gusto che, prima o poi, arrivi anche il momento di raccogliere i frutti del duro lavoro. Questo momento è arrivato per Moritz von Oswald e, vi assicuro, sporcarsi le mani non è mai stato così bello. Lui che è una personalità ingombrante, una di quelle cui basta il nome per far arrossire gli esperti del settore, decide di scendere in campo e di giocare duro. Vertical Ascent è il frutto di numerose live session tenute negli ultimi anni in giro per il mondo, show in cui il patron della Basic Channel ha dimostrato a tutti di essere il papà della dub-techno suonata e sudata con passione.
Non è solo il nome del progetto a ricordare il jazz, ma anche il feeling che si respira per l'intero disco: quattro trame senza una nitida struttura, in cui il power trio della techno si lascia liberamente andare a divagazioni più free, in un flusso continuo di ritmo e atmosfere dub. Così inizia "Pattern 1", in maniera bruciante, con il balletto del cimbalo che prende il via e la bassline a inseguirlo, in un vorticoso gioco a due. Passa poco, però, e il pezzo volta faccia: largo a una cassa incerta, tribale, tagliata in due dalla melodia di synth che illumina a giorno. Non fai in tempo a muovere la testa che subito l'atmosfera cambia di nuovo, come se fosse la cosa più naturale del mondo: ecco cosa vuol dire improvvisare.
"Pattern 2" ha decisamente un altro piglio: accantonata la calda matrice dub tipica del suono mauriziano, ci si tuffa a pesce nelle atmosfere gelate di Ripatti. Il ritmo frena bruscamente, l'ambient prende il sopravvento e la melodia lascia il posto a un incedere vagamente industriale. "Pattern 3" rispolvera dei bassi provenienti direttamente da Kingston e monta su una dancehall suburbana, mentre nella giungla di beat si fanno largo piccoli spunti di melodie, tremendamente notturne e metropolitane. Lentamente il suono si dirada e lascia spazio all'ultimo pezzo, "Pattern 4", dove un mid-tempo stilosissimo (il padre di tutti i dubstep) si appoggia su un solido tappeto di synth, che si alza imponente nel finale e cala il sipario.

Vertical Ascent non è un disco che cambia le coordinate del genere. Semplicemente, è un gran lavoro di bassline e arte, partorito da tre delle migliori menti da dancefloor dell'elettronica contemporanea. Il calore umano che aleggia tra le freddi componenti elettroniche di questo disco fa ricordare che dietro alla macchina c'è l'uomo, e dentro l'uomo un cuore pulsante di passione.
Se bisogna cercare difetti, allora possiamo parlare di alcuni screzi compositivi, dovuti a una scrittura incostante, e anche del fatto che è pur sempre un progetto nato e meglio percepito in versione live.
Vertical Ascent, a modo suo, dribbla con eleganza entrambi i problemi e mostra come, a volte, sporcarsi le mani sia maledettamente divertente.

Se l'ascesa verticale del 2009 intrecciava la fila di un suono freddo con un cuore che pulsava vivo, le nuove Horizontal Structures invertono completamente la tendenza. I giochi sonori si colorano di nuovi impianti e nuove sfumature. I substrati ambient dell'esordio vengono addolciti in favore di linee molti più jazzy, di krautismi in dissolvenza - sempre comunque molto gentili, mai spinti - e di una diffusa sensazione di tiepido calore. Il bello di questo disco sta proprio nel sembrare quasi sospeso, come se non affondasse mai davvero il colpo. Ma si badi bene dal considerare questo aspetto un minus: al contrario si gioca di fioretto, in un esercizio di equilibri e studiata pretattica. Un mood chilly ricopre le cinque strutture, sulle quali si inseriscono le chitarre e i doppi bassi di Mr. Tikiman e Marc Muellbauer della Ecm.
L'ambient dimessa e astratta del brano iniziale reca il marchio indelebile di Delay, tra folate e impalpabilità cronica; la seconda struttura gioca di rimpiattino tra la Germania cosmica seventies, beat tribaleggiante e futurismi sonici. Il viaggio, che a un primo ascolto parrebbe quasi estenuante, squarcia il velo di Maya, mostrandosi a viso aperto nei giochi di chitarre quasi funky in loop all'orizzonte, sommerse da un dub in moto ondoso.
"Horizontal Structure 4" è invece forse l'episodio che più si richiama a "Vertical Ascent": giochi di rifrazione, freddezza, specchi e vetri rotti, che lasciano man mano campo aperto a strutture prima jazz e poi al limite dell'improvvisazione. L'ultima traccia chiude il cerchio, avvicinando scenari dark-ambient.
Non ce la si fa davvero a non voler bene a questi tre. Suonano quasi al rallentatore, eppure ingranano la quarta, sorpassano, salutano e vincono per distacco. Se si giocasse a fioretto sarebbe un 15-0.

La violenza del ritmo - Ripatti

Già prodigo di un terzetto di Ep che avevano messo in luce la curiosità del compositore per il footwork, pubblicati in un periodo di straordinaria fioritura del genere, il percorso a nome Ripatti sfocia in Fun Is Not A Straight Line, edito da Planet Mu, trovando infine uno sbocco più espanso, strutturato. RP Boo? Traxman? Jlin? Potete tranquillamente accantonarli, che della loro sensibilità qui non vi è traccia. Quasi in linea con le composizioni abrasive del binomio “Rakka” / “Rakka II” il concetto dietro al footwork di Ripatti premia una visione acida, bellicosa, potenzia il carattere allucinogeno dei bpm e incoraggia al più selvaggio trattamento dei campioni. L'impegno alla base è sicuramente sostanziale.

Vorticoso, irrefrenabile come un uragano colto al massimo della potenza, Ripatti dà al suo footwork l'accezione più violenta, complessa possibile: non manca comunque il divertimento, peraltro esplicitato già nel titolo, eppure tutto sfugge a eventuali canoni di base, garantisce ai suoi pattern ampia manovra di espressione. Il producer conduce con polso da regista la sua creatura, tra snare che tagliano come lame, decontestualizzazioni di riferimenti rap, supporti atmosferici che però non fanno altro che enfatizzare l'aggressivo avvicendarsi dei brani. Con una sola delle tracce a superare i quattro minuti, il piglio di Delay fa sì che il minutaggio sappia essere sempre succinto: anche a privarsi di filigrane soul, di richiami jazz l'assalto sa mantenersi sempre ben chiaro, le singole idee ben presenti.

Se è vero che forse nei momenti più diretti e pop manca quel calore che avrebbe reso le geometrie ritmiche più adeguate al contesto, là dove si punta di astrazione e tecnica il tocco risulta ben più efficace. Divertirsi insomma è fattibile, ma si è ben lontani da casse dritte, linee di velluto, progressioni felpate: qua si deve prima passare da un profondo rituale di purificazione, scaricare la rabbia, il veleno interiore. Non sono più le linee rette ad interessare il producer, e in questa esilarante corsa contro il ritmo, vien quasi voglia di disorientarsi.


Contributi di Antonio Ciarlett, Vassilios Karagiannis ("Fun Is Not A Straight Line")

Vladislav Delay

Discografia

VLADISLAV DELAY
Ele (Sigma Editions, 1999)

6,5


Mutila (Chain Reaction, 2000) 8,5

Entain (Mille Plateaux, 2000))8
Anima(Mille Plateaux, 2001)8,5
Naima(Staubgold, 2002)5
Demo(n) Tracks(Huume, 2004)6
The Four Quarters(Huume, 2005)
7
Whistleblower(Huume, 2007) 7,5
Tummaa(Leaf, 2009) 7,5

Vantaa(raster-noton, 2011) 8
Kuopio (raster-noton, 2012) 9
Visa (Ripatti, 2014) 8
Rakka (Cosmo Rhythmatic, 2020)8
RakkaII(Cosmo Rhythmatic, 2021)7,5
LUOMO

Vocalcity (Force Tracks, 2000)

8


The Present Lover (Force Tracks, 2003)

7,5

Paper Tigers (Huume, 2006)6
Convivial (Huume, 2008)

6,5

Plus (Moodmusic, 2011)

7

UUSITALO
Vapaa Murari Live (Force Inc, 2000)6,5
Tulenkantaja (Huume, 2006)6
Kurhunainen (Huume, 2007)7,5
SISTOL
Sistol (Phantalo, 1999)6
On The Bright Side (Halo Cyan Records, 2010)7,5
Remasters & Remakes (Halo Cyan Records, 2010)7
AGF/DELAY
Explode (Agf Producktions, 2005)8
Symptoms (BPitch Control, 2009)7,5
THE DOLLS
The Dolls (Huume, 2005)7,5
VLADISLAV DELAY QUARTET
Debut (Honest Jon's, 2011)7
MORITZ VON OSWALD TRIO
Vertical Ascent (Honest Jon's, 2009)

7,5

Live In New York (live, Honest Jon's, 2010)
Horizontal Structures (Honest Jon's, 2011)7,5
Fetch(live, Honest Jon's, 2012)
RIPATTI
Fun Is Not A Straight Line (Planet Mu, 2021)6,5
Pietra miliare
Consigliato da OR

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Myspace
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Toive (Wistleblower, 2007)
Notke (Entain, 2000)