Francesco Guccini

Francesco Guccini

Ritratto di un cantastorie

Songwriter schietto e graffiante, autore di testi dall'indiscusso valore letterario che gli sono anche valsi il Premio Montale, Francesco Guccini è uno dei capisaldi della canzone d'autore "made in Italy". Il suo canzoniere ha mantenuto una ferrea coerenza "antagonista" lungo quarant'anni di storia italiana, spaziando da riflessioni autobiografiche a invettive politiche. Un mondo di versi e di suoni, in cui, tra un bicchiere di vino e un eskimo logoro ci si ritrova a viaggiare tra la via Emilia e il West...

di Emmanuele Margiotta

Non è impresa facile descrivere in breve, ricostruire e raccontare la poesia, le parole e la musica di Francesco Guccini. Non è impresa facile perché farlo vuol dire confrontarsi con quasi quarant'anni della nostra storia. Non è impresa facile perché di fronte a personaggi così influenti è difficile escludere, tagliare, omettere episodi, incontri, avvenimenti. Non è impresa facile perché Guccini è un cantautore vero, e come tutti i cantautori veri, ha avuto e ha molto da dire. Forse, allora, la cosa migliore da fare è raccontare Guccini attraverso le sue parole, seguendo il filo invisibile del suo discorso nei piccoli racconti che compongono i suoi dischi, assecondando la sua anima di cantastorie moderno, di raffinato creatore di versi, di cantautore politico

Partiamo dall'Italia, che nella seconda metà degli anni Cinquanta non era l'America. Era l'Italia, appunto. Era la prima televisione, era il festival dei fiori, era Nilla Pizzi. Magari però era anche l'Italia di qualcuno con l'orecchio teso verso terre lontane, verso altre storie, verso altre musiche. Qualcuno che decideva di suonare, magari la chitarra, magari l'armonica. Qualcuno che trovava qualcun altro con cui condividere le proprie passioni per dare vita a esperienze di musica, magari nelle parrocchie, nelle balere, con nomi in perfetto stile anglosassone tipo Hurricanes oppure Snakers.

Guccini nel 1962 partiva per il servizio di leva, trascorreva intere giornate sui monti degli Appennini, suonava in un gruppo chiamato I Gatti (che sarebbero diventati da lì a poco l'Equipe 84). Scriveva già canzoni, continuando ad ascoltare vecchie e nuove storie, vecchie e nuove musiche. Gli echi delle canzoni popolari e anarchiche, ma anche le proteste d'oltre oceano di un ragazzino del Minnesota dalla voce sghemba e inconfondibile. Un certo Bob Dylan.

Sono gli anni di "Auschwitz" e del ricordo dei campi di stermino, di "Noi non ci saremo" di "Dio è morto" (ai tempi censurata dalla Rai ma trasmessa dalla Radio Vaticana) e delle incertezze/speranze sul futuro. Pezzi scritti per altri (Equipe 84, Nomadi), ma che rappresentano le prime testimonianze dell'arte, della poesia e della sensibilità di Guccini.

"Risorgerà il mondo nuovo"

L'impegno sociale e politico e le profonde riflessioni sul senso del vivere caratterizzano in generale tutta la produzione di Guccini, ma emergono in maniera particolarmente forte e con impeto giovanile nei suoi primi dischi. Nel 1967 esce e vende pochissimo il suo Lp d'esordio, Folk Beat n.1. L'album ci consegna un autore ancora alla ricerca della piena maturità artistica ed espressiva, ma contiene alcune delle migliori e più famose canzoni da lui scritte, oltre che indicative del suo modo di comporre attraverso metafore evocative, analogie testuali che si muovono su un terreno musicale scarno, semplice, relegato alla funzione di accompagnamento ("Sono convinto che con le canzoni non si possa far la musica e non si possa nemmeno far poesia" dice lo stesso autore) . Qui troviamo i pezzi "prestati" all'Equipe e ai Nomadi, passando per "In Morte di S.F." ai più nota come "Canzone per un'amica", scritta, appunto, per una cara amica morta in un incidente stradale, fino a quello che viene considerato il suo primo pezzo, "Il sociale e l'antisociale", manifesto accorato del suo odio verso "la vita moderna fatta a scandali e cambiali, rumori, impiegati intellettuali". Ne viene fuori una raccolta impetuosa di ballate e racconti, che riesce a mettere in luce la sua forte personalità e la sua accorata ricerca di giustizia sociale.

A distanza di un paio d'anni dal primo Lp, nel novembre del 1969, Guccini registra il secondo: Due anni dopo. Ricomincia il discorso da dove lo aveva interrotto, ma rispetto al disco precedente troviamo una più accentuata vena intimista ed esistenziale, espressa attraverso testi con una connotazione spiccatamente poetica e narrativa. Un universo intimo e sognante fatto di incontri ("Lui e lei"), spaccati di quotidianità ("Giorno d'estate") e vicissitudini sentimentali ("Vedi cara, certe crisi son soltanto segno di qualcosa dentro che sta urlando per uscire. Vedi cara, certi giorni sono un anno, certe frasi sono un niente che non serve più sentire").

Qualche mese dopo la registrazione dell'Lp, l'America arriva prepotente nella vita di Guccini, o forse Guccini arriva prepotente nella vita d'America. Nel 1970 infatti parte per gli Stati Uniti, attratto da questioni sentimentali (ha una storia con una certa Eloise), ma anche da quel mito a stelle e strisce letto fra le pagine dei libri, sognato al cinema e ora finalmente a portata di mano.
Le aspettative più grandi, però, portano spesso alle delusioni più cocenti, e a volte un sogno è bene che rimanga tale. Così l'esperienza americana si esaurisce fra incomprensioni culturali e sentimentali, tanto da spingere lo stesso Guccini a dichiarare che "l'America era meglio immaginarla che vederla". Nello stesso tempo, però, lo scossone esistenziale gli dà modo di esprimersi, dando alle stampe, sempre nel 1970, la sua terza fatica, L'isola non trovata, album illuminato dai numerosi riferimenti letterari e particolarmente importante nella produzione di Guccini, poiché segna l'inizio della collaborazione con alcuni musicisti che lo accompagneranno a lungo nella sua carriera (Vince Tempera, Ares Tavolazzi ed Ellade Bandini). La chitarra di Guccini, il suo accento e la sua "erre" accompagnano con la solita intimità gli episodi musicali di questo disco dove spesso, come si diceva, la musica non è solo musica e la parola è suono. Un disco dall'arrangiamento ricercato e dalle sonorità suggestive ("Asia", "L'isola non trovata"), ritmate ("Il frate", "Un altro giorno è andato"), nostalgiche ("Il tema", "L'uomo). Tra le tracce, spicca la nostalgia, il ricordo, la riflessione di "Un'altro giorno è andato": "E un altro giorno è andato, la sua musica ha finito, quanto tempo è ormai passato e passerà! Le orchestre di motori ne accompagnano i sospiri, l'oggi dove è andato l'ieri se ne andrà".

"La casa è come un punto di memoria"

Siamo nel 1972 quando esce Radici. Un album attuale, senza tempo, universale nei contenuti. Un album ben suonato, con una folta pattuglia di strumentisti (Vince Tempera, Ares Tavolazzi, Debbie Kooperman, Ellade Bandini, Antonio Marangolo) e musicalmente ispirato, con le sue sfumature folk, le derive delle tastiere e le complessiva buona qualità e architettura degli arrangiamenti. Un album di conferma. Conferma di Guccini come grande cantautore. Conferma rispetto alla sua capacità di fotografare la realtà. Conferma rispetto all'abilità di individuare i bisogni di una generazione in fermento. Conferma delle notevoli capacità espressive, del saper dipingere a colori forti le emozioni.
Radici è un album in cui gli elementi chiave sono il profondo senso di identità, la memoria individuale e collettiva, l'eredità della nostra cultura nazionale, oltre che una maggiore ricercatezza sonora e compositiva (gli arrangiamenti sono di Pier Farri), apprezzabile quantomeno nelle intenzioni.
Difficile, se non impossibile, parlare di questo Lp senza citare "La locomotiva". Pezzo che, ancora oggi, forse è il più amato della sua produzione, il più richiesto, l'immancabile nei suoi concerti, un vero e proprio inno generazionale di protesta. E pensare che è stato scritto in mezz'ora, che è musicalmente essenziale, che non parla del presente, non incita la folla, non parla di rivoluzioni o di sommosse popolari, ma racconta, con grande capacità evocativa, la storia di un macchinista dell'Ottocento, del suo treno, e della sua lotta contro i padroni ( "...e che ci giunga un giorno ancora la notizia di una locomotiva come una cosa viva, lanciata a bomba contro l'ingiustizia!").

Ma Radici non è solo questo. E' anche alcune delle creazioni più ispirate di Guccini, pezzi che raccontano la memoria e l'infanzia, come "Piccola Città", una ballata malinconica che ci proietta in una Emilia del dopoguerra, fatta di nebbie, fumo, case diroccate e vecchi cortili. E' il ritratto familiare o anche la tenera quotidianità e la delicatezza melodica di "Incontro", in cui il lirismo di Guccini colpisce al cuore ("Restano i sogni senza tempo, le impressioni di un momento, le luci nel buio, di case intraviste da un treno. Siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa, e il cuore di simboli pieno"). Lirismo che però talvolta disorienta, come nel caso della "Canzone dei dodici mesi". Esercizio di stile criticato per l'eccessiva ricercatezza, che paga dazio (forse inevitabile) ai tempi, per l'aulica sovrabbondanza di tributi, riferimenti letterari (da Cecco Angiolieri a T.S. Eliot a Chaucer) e che musicalmente ci propone la volontà dell'autore di staccarsi da schemi sonori consolidati, sperimentando derive jazz e classiche attraverso l'utilizzo di strumenti specifici che determinano la sostanziale differenza di arrangiamento dei dodici mesi.
L'album si chiude con il confronto generazionale (ricorrente nei testi di Guccini) de "Il Vecchio e il bambino", in cui l'autore esprime ancora una volta e in maniera decisa il suo legame alle radici, al passato, e il suo progressivo distacco da una modernità che fatica - e faticherà - ad accettare anche nei successivi episodi della sua produzione ("I due camminavano, il giorno cadeva, il vecchio parlava e piano piangeva. Con l'anima assente, con gli occhi bagnati, seguiva il ricordo di miti passati").

Nel 1973, scherzi d'osteria, intermezzi musicali giullareschi ed episodi scherzosi compongono l'album Opera Buffa, registrato tra il Folk Studio di Roma e l'Osteria della Dame di Bologna. Un disco che coi suoi colloqui con Dio, le odi materne, le disquisizioni sul sesso e qualche bicchiere di vino, è tirato fuori praticamente dal nulla. Poco amato e poco apprezzato, anche e soprattutto dall'autore, ha quantomeno il merito di farci scoprire la vena scherzosa di Guccini già ben nota ai frequentatori dei suoi concerti, oltre che la sua immagine libera e scanzonata. Un lavoro disimpegnato, che non riesce però a tacere l'incredibile attualità e la capacità persuasiva che già all'epoca lo vedeva riscuotere gli apprezzamenti di giovani stretti fra la ricerca di valori, un profondo senso di disagio e opprimenti gabbie politiche e sociali. Non viene meno neanche la sua immagine impegnata e "di sinistra", figlia oltre che del suo impegno politico e sociale anche della sua capacità di rompere schemi e rituali consolidati, avvicinandosi fisicamente e umanamente ai suoi ascoltatori e dando spesso, ad esempio, la sua disponibilità a esibirsi in situazioni provvisorie e a prezzi "politici".

Sottotono anche l'Lp successivo Stanze di vita quotidiana. Un album di "semplici canzoni", in cui la sua scarsa attenzione alle variabili musicali viene, se possibile, esasperata, nel tumulto di parole gucciniano. Un album poco apprezzato dalla critica (ormai famosa l'invettiva sulla rivista "Gong" del critico Riccardo Bertoncelli), in cui Guccini guarda dentro e dietro di sé con aria nostalgica e talvolta distaccata. Un Guccini narratore di se stesso, del suo mondo e dei tempi andati, che nella traccia di apertura, "Canzone delle osterie di fuori porta", riesce a esprimersi più compiutamente. Il pezzo e il disco iniziano così: "Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta, ma la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta. Qualcuno è andato per età, qualcuno perché già dottore e insegue una maturità: si è sposato, fa carriera ed è una morte un po' peggiore". Succosi gli aneddoti, anche per quest'album, della convivenza artistica con il produttore Pier Farri (dice Guccini: "Al tempo, Pier era fissato con l'esotismo, le marimbe. Ares Tavolazzi, il bassista, se ne andò quando Pier gli chiese di eseguire 'un suono giallo'... cazzo voleva dire?").

Siamo in un periodo storico e musicale in cui il cantautorato primeggia nelle preferenze del pubblico e della critica. Un periodo in cui le case discografiche ricercano attraverso l'impegno civile e politico dei loro interpreti di assecondare i bisogni di una generazione in fermento, fortemente sensibilizzata alla politica dagli scossoni fine Sessanta-inizio Settanta, dalle rivendicazioni studentesche, dalle lotte operaie. Non stupisce quindi l'interesse per le parole di Francesco Guccini e per il suo impegno "politico" nel raccontare la vita e la quotidianità.

Terreno fertile, dunque, per un artista che vede accrescere esponenzialmente il suo seguito di pubblico, la diffusione del suo messaggio e il potere evocativo dei suoi concerti e delle sue canzoni. In Via Paolo Fabbri 43 del 1976 (il titolo proviene dall'allora domicilio del "nostro") ritrova la grinta (o addirittura la rabbia) di qualche anno prima, la voglia di descrivere e raccontare le sfumature della vita, e lo fa attraverso una tavolozza di colori variopinta per quel che riguarda le tematiche affrontate più che per le scelte musicali. Sono tinte accese quelle di pezzi come "L'avvelenata", con le sue esternazioni ("Se son d'umore nero allora scrivo frugando dentro alle nostre miserie; di solito ho da far cose più serie: costruir su macerie o mantenermi vivo") e le sue schiette confessioni personali ("Io tutti, io niente, io stronzo, io ubriacone, io poeta, io buffone, io anarchico, io fascista, io ricco, io senza soldi, io radicale, io diverso e io uguale, negro, ebreo, comunista! Io frocio, io perché canto so imbarcare, io falso, io vero, io genio, io cretino, io solo qui alle quattro del mattino, l'angoscia e un po' di vino, voglia di bestemmiare").
Ad oggi possiamo considerarla (insieme a "La Locomotiva") il pezzo più famoso di Guccini. Sia per il costante riscontro del pubblico, sia per le leggende e le storie che inevitabilmente derivano da una tale mole di sincere esternazioni. Citiamo un episodio su tutti, quello legato alla figura di Riccardo Bertoncelli. Il critico, risentitosi per esser stato nominato in maniera poco "rispettosa" ("un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate"), si incontra con il cantautore (altri tempi!) per discutere della faccenda. La storia (e gli stessi protagonisti) raccontano che l'epilogo della vicenda siano stati due bicchieri di vino, una chitarra, la decisione di lasciare il testo della canzone esattamente com'era e soprattutto la nascita di un'amicizia, che dura da trenta anni.
Piccole frecciate ironiche, tanto per non smentirsi, Guccini le riserva (nella canzone che dà il titolo all'album) a tre personaggi femminili creati dai colleghi De Gregori, Venditti e De André: "La piccola infelice (Lilly) si è incontrata con Alice a un summit per il canto popolare. Marinella non c'era, fa la vita in balera, e ha altro per la testa a cui pensare").
Ma nella casa di Via Paolo Fabbri c'è spazio anche per le note tristi e delicate di "Piccola storia ignobile", che prova a raccontare l'esperienza dell'aborto e le pressioni dell'opinione pubblica ("Ma che piccola storia ignobile mi tocca raccontare, così solita e banale come tante, che non merita nemmeno due colonne su un giornale, o una musica, o parole un po' rimate, che non merita nemmeno l'attenzione della gente: quante cose più importanti hanno da fare") o per la commuovente quotidianità senza retorica de "Il pensionato" ("Lo sento da oltre il muro che ogni suono fa passare, l'odore quasi povero di roba da mangiare. Lo vedo nella luce che anch'io mi ricordo bene di lampadina fioca, quella da trenta candele, fra mobili che non hanno mai visto altri splendori, giornali vecchi e angoli di polvere e di odori, fra i suoni usati e strani dei suoi riti quotidiani: mangiare, sgomberare, poi lavare piatti e mani").

Guccini incontra ancora l'America nel 1978. Non di persona, ma attraverso un album (Amerigo) in cui si confronta coi suoi sogni e il suo passato. L'Lp e la traccia di apertura ("Amerigo") sono dedicati a Enrico Guccini, uno zio emigrante. Il pezzo è uno splendido quadro sull'immaginario del nuovo mondo, visto sia con gli occhi innocenti e sognanti del bambino ("L'America era Atlantide, l'America era il cuore, era il destino; l'America era Life, sorrisi e denti bianchi su patinata; l'America era il mondo sognante e misterioso di Paperino; l'America era allora per me provincia dolce, mondo di pace") che con quelli stanchi e affaticati del migrante ("fu lavoro e sangue, e fu fatica uguale mattino e sera, per anni da prigione, di birra e di puttane, di giorni duri, di negri e irlandesi, polacchi e italiani, nella miniera sudore d'antracite, in Pennsylvania, Arkansas, Tex, Missouri").
I ricordi del suo periodo americano ritornano nella nostalgica e ironica "Eskimo" (per i più giovani, la giacca distintiva dei ragazzi di sinistra negli anni Settanta), in cui il confronto con gli anni è allo stesso tempo malinconico e spietato ("Bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà: tu giri adesso con le tette al vento, io ci giravo già vent'anni fa"). Minore sia l'impatto degli altri brani ("Le cinque Anatre"), sia l'ispirazione musicale e l'intensità emotiva (la conclusiva "Il Mondo Nuovo")

Vale la pena di citare lo splendido Francesco Guccini & i Nomadi - Album Concerto pubblicato nel 1979. Un disco registrato dal vivo al Kiwi di Modena e al Club 77 di Pavana, molto intenso, carico di ricordi, in cui Guccini, i Nomadi e il pubblico ricordano e ripercorrono la strada fatta insieme attraverso alcuni pezzi particolarmente significativi: da "Canzone per un'amica" a "Noi non ci saremo", fino a "Dio è morto". Degno di nota è anche lo stile delle performance di Guccini, che, fiasco di vino sul palco, irretisce e diverte il pubblico con piglio da consumato intrattenitore. In questi anni, pur mostrandosi sempre saldamente ancorato al formato "ballata folk", Guccini non disdegna anche incursioni in altri territori musicali, dal jazz al tango.

"Il silenzio era scalfito solo dalle mie chimere"

Gli anni Ottanta di Guccini si aprono con un nuovo album, a distanza di tre anni dal precedente, e non particolarmente brillante: Metropolis (1981). Un Lp in cui sullo sfondo di realtà metropolitane (Bisanzio, Venezia, Bologna, Milano) si muovono e intrecciano storie di vita, in cui lo sguardo nostalgico verso il passato incrocia quello orientato a un futuro incerto, a un mondo che cambia ("vedo in me e nei segni che qualcosa sta cambiando, ma è un debole presagio che non dice come e quando"). Particolarmente significative le parole spese dall'autore per la "sua" Bologna: "Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po' molli, col seno sul piano padano e il culo sui colli. Bologna arrogante e papale, Bologna la rossa e fetale, Bologna la grassa e l'umana, già un poco Romagna e in odor di Toscana".

L'album successivo (Guccini, del 1983) ci presenta sei brani "in movimento". E' il resoconto di viaggi e storie inventate, in cui gli scenari sono scenografie che l'autore utilizza come sfondo per gesti ed emozioni quotidiane, attraverso uno sforzo di fantasia che ci guida per mano mentre attraversiamo il ponte che separa realtà e finzione. E' inventato anche l'incontro di "Autogrill", fra un automobilista e una ragazza. Pochi minuti di emozioni, speranze, affetto, metafore, folgorazioni, amore ("Bella, d'una sua bellezza acerba, bionda senza averne l'aria quasi triste, come i fiori o l'erba di scarpata ferroviaria; il silenzio era scalfito solo dalle mie chimere che tracciavo con un dito dentro ai cerchi del bicchiere"), in cui però, alla fine dei conti, le tante domande non trovano una risposta.

A circa un anno dall'album omonimo, nel 1984 esce Fra la via Emilia e il West (verso tratto da "Piccola Città"), che racchiude in due Lp una serie di esibizioni dal vivo a Milano, Modena, Torino e soprattutto a Bologna, in occasione del grande concerto in Piazza Maggiore, al quale oltre a Guccini partecipano altri grandi nomi come i Nomadi, Giorgio Gaber, Paolo Conte. La scaletta è da "greatest hits": "Canzone per un'amica", "Autogrill", "Canzone delle osterie di fuori porta", "Piccola città", "Eskimo", "Incontro", "Vedi Cara", "La locomotiva" sono solo alcune.

Signora Bovary è il disco del 1987. Album contraddittorio, che con la stessa intensità verrà osannato e disprezzato dai fan. Quello che è certo è la discreta architettura musicale dei suoi episodi, oltre che la presenza di alcuni pezzi dalle soluzioni compositive raffinate. Particolarmente significativi per il loro legame con le esperienze familiari dell'autore sono pezzi come "Van Loon", dedicata al padre ("Quanti anni, giorno per giorno, dobbiamo vivere con uno per capire cosa gli nasca in testa o cosa voglia o chi è, turisti del vuoto, esploratori di nessuno che non sia io o me") o come "Culodritto", dedicata alla figlia Teresa ("vola, vola tu, dove io vorrei volare, verso un mondo dove è ancora tutto da fare e dove è ancora tutto, o quasi tutto, da sbagliare"). Notevole per l'intensità poetica anche il tango stile Piazzolla di "Scirocco": "Soffiasse davvero quel vento di scirocco e arrivasse ogni giorno per spingerci a guardare, dietro la faccia abusata delle cose, nei labirinti oscuri delle case, dietro lo specchio segreto di ogni viso, dentro di noi…".

A chiudere il decennio Ottanta esce nel 1989 un altro live ...Quasi come Dumas..., che ripropone in maniera riarrangiata, alcuni dei pezzi storici, oltre che episodi di Signora Bovary (è presente anche una traccia inedita "Ti ricordi quei giorni", datata 1964). Nello stesso anno Guccini pubblica per Feltrinelli anche la sua prima fatica letteraria, "Cròniche epafàniche".

"Custodire i ricordi, carezzare le età"

Gli anni Novanta iniziano per Guccini all'insegna del ricordo, della nostalgia e della memoria, con le negazioni e le incertezze di Quello che non, in cui si esprime il malessere per delusioni e incomprensioni personali e collettive, sentimentali e politiche ("Lo senti il perché di cortili bagnati, di auto a morire nei prati, la pallida linea di vecchie ferite, di lettere ormai non spedite? Lo vedi il rumore di favole spente? Lo sai che non siamo più niente? Non siamo un aereo né un piano stonato, stagione, cortile o un prato"). Ma siamo anche di fronte a un album musicalmente rilevante (forse come nessun altro nella sua produzione) dalle forti influenze jazz e che vede la collaborazione con Lucio Dalla, che scrive le musiche del pezzo "AEmilia".
Guccini ottiene anche il premio "canzone dell'anno" dal club Tenco per "Canzone delle domande consuete" ("E siamo qui, spogli, in questa stagione che unisce tutto ciò che sta fermo, tutto ciò che si muove; non so dire se nasce un periodo o finisce, se dal cielo ora piove o non piove, pronto a dire 'buongiorno', a rispondere 'bene' a sorridere a 'salve', dire anch'io 'come va?' Non c' vento stasera. Siamo o non siamo assieme?").

Nel 1993 un entomologo italiano scopre una nuova farfalla e decide per riconoscenza a Guccini di chiamarla "Parnassius Mnemosyne Guccinii": da qui al nome del nuovo album il passo è breve (Parnassius Guccini).
L'autore dedica una canzone a Silvia Baraldini ("Canzone per Silvia"), condannata e incarcerata per reati politici negli Stati Uniti, attraverso la quale ha modo di recuperare alcune delle tematiche che hanno caratterizzato la sua produzione discografica, come la lotta contro l'ingiustizia, l'ottusità e l'ignoranza ("L'America è una statua che ti accoglie e simboleggia, bianca e pura, la libertà, e dall'alto fiera abbraccia tutta quanta la Nazione, per Silvia questa statua simboleggia solamente la prigione perché di questa piccola italiana ora l'America ha paura. Paura del diverso e del contrario, di chi lotta per cambiare, paura delle idee di gente libera, che soffre, sbaglia e spera").
In "Samantha", ancora una storia di pura invenzione, ma terribilmente reale, un amore adolescenziale dal futuro già scritto, ambientato in una periferia milanese amara e malinconica. Un Guccini ispirato ed evocativo, che conia per se stesso l'appellativo di "burattinaio di parole" ("E io, burattinaio di parole, perché mi perdo dietro a un primo sole, perché mi prende questa assurda nostalgia?").
"Farewell", senza dubbio da considerare fra i suoi migliori pezzi in assoluto, è il ricordo malinconico, onesto e sincero di una storia d'amore colma di semplicità e quotidianità ("Giorni lunghi tra ieri e domani, giorni strani, giorni a chiedersi tutto cos'era, vedersi ogni sera; ogni sera passare su a prenderti con quel mio buffo montone orientale, ogni sera là, a passo di danza, salire le scale e sentire i tuoi passi che arrivano, il ticchettare del tuo buonumore, quando aprivi la porta il sorriso ogni volta mi entrava nel cuore.").

Ancora nel 1993 esce "Vacca d'un cane", secondo romanzo, edito ancora da Feltrinelli (un terzo uscirà nel 1997 per Mondadori, "Macaronì", giallo scritto a quattro mani con Loriano Macchiavelli) e nel 1996 Guccini dà alle stampe D'amore di morte e di altre sciocchezze. Il disco conferma la passione del Nostro per le sonorità e i ritmi sudamericani come la "Cueca" (ballo nazionale cileno) nella "Canzone delle colombe e del fiore", oltre che per la musica popolare e contadina, non è un caso infatti la collaborazione col Coro Stelutis ("Il Caduto"). Ci consegna, poi, classiche ballate alla Guccini come "Lettera", dedicata ai suoi due amici d'infanzia scomparsi: Bonvi e Victor Sogliani, oltre che un paio di pezzi molto amati, come "Cyrano" e "Quattro Stracci". La prima (forse l'episodio meglio riuscito del disco) è musicalmente ispirata (Bigazzi?!) ed emotivamente intensa ("io sono solo un'ombra e tu, Rossana, il sole; ma tu, lo so, non ridi, dolcissima signora e io non mi nascondo sotto la tua dimora, perché ormai lo sento, non ho sofferto invano, se mi ami come sono, per sempre tuo Cirano"); la seconda, in perfetto stile folk-rock, è una splendida escursione autobiografica sul suo stile anni Sessanta ("nata di marzo, nata balzana, casta che sogna d'esser puttana, quando sei dentro vuoi esser fuori cercando sempre i passati amori e hai annullato tutti fuori che te, ma io qui ti inchiodo a quei tuoi pensieri, quei quattro stracci in cui hai buttato l'ieri, persa a cercar per sempre quello che non c'è"). L'album chiude con "altre sciocchezze", tipo la scanzonata "Il matto" e la spassosa "I Fichi", ad alleggerire il clima di pesantezza e a richiamare alla memoria le atmosfere e l'ilarità tipiche delle sue performance dal vivo.

"Io, Francesco Guccini, eterno studente"

Siamo alla storia recente, il Guccini che imbracciava la chitarra e teneva accanto a sé un fiasco di vino continua a imbracciare la sua sei corde e a bere del buon rosso, ma lo fa con una maggiore consapevolezza di sé, della sua musica e dei suoi testi. Un Guccini che si dedica sempre più alla letteratura, ma senza perdere di vista la propria memoria storica.

Tra il 1998 ed il 1999, ancora un live, doppio, celebrativo. "Riconosciuto" ma non amato dall'autore: Guccini, live collection. Poi una serie di impegni letterari, "Un disco dei Platters" (ancora in collaborazione con Lorenzo Macchiavelli), il Dizionario del dialetto di Pàvana, una biografia a cura di Massimo Cotto dal titolo "Un altro giorno è andato", oltre che l'amichevole partecipazione nella parte di un barista al primo film di Luciano Ligabue, "Radiofreccia".

Definito da Umberto Eco "il più colto dei cantautori italiani", premiato con diversi riconoscimenti letterari, tra i quali il Premio Montale "Versi per la musica", Guccini taglia il traguardo del Duemila con un nuovo album, Stagioni. C'è l'enfasi poetica che caratterizza tutta la sua produzione precedente (significativa a tale riguardo la metrica "Autunno": "Un'oca che guazza nel fango, un cane che abbaia a comando, la pioggia che cade e non cade le nebbie striscianti che svelano e velano strade... Profilo degli alberi secchi, spezzarsi scrosciante di stecchi, sul monte, ogni tanto, gli spari e cadono urlando di morte gli animali ignari..."), anche se man mano che si ascolta il disco, l'impressione è quella di una maggiore cura degli aspetti formali della scrittura, di una maggiore riflessione, in pratica di una minore spontaneità creativa.
Stagioni è un continuo bilancio esistenziale che ripropone musicalmente strutture e tematiche classicamente gucciniane, legate anche al filone di opposizione politico-sociale ("Don Chisciotte" su tutte), oltre che piccoli esperimenti nati da collaborazioni con altri musicisti (l'atipica "Ho ancora la forza", con le musiche di Ligabue, ne è l'esempio più evidente) in cui il Nostro, ancora una volta, concentra la sua attenzione sul "dire" piuttosto che sul "suonare".

Un'altra prova letteria nel 2003, "Cittanòva blues" (racconto della Bologna nel ventennio Cinquanta-Settanta) e altre due antologie, Music in pack e Canzoni 64/84, ci portano all'ultima sua produzione discografica (anno 2004), Ritratti.
Un album non particolarmente rilevante sotto il profilo musicale, ma decisamente convincente sotto. Quello narrativo (il migliore fra le sue ultime produzioni). Guccini dialoga con alcuni personaggi storici (Ulisse, Che Guevara, Cristoforo Colombo), affronta con severità e leggerezza temi di attualità ("Piazza Alimonda", che racconta del G8 di Genova e dell'uccisione di Carlo Giuliani, "amara e indelebile, la traccia aperta di una ferita" che sembra riportare alle chitarre evocative de "La locomotiva") e si abbandona a riflessioni personali ("Una canzone" è una dichiarazione d'amore per la musica e la poesia: "La canzone è una vaga farfalla che vola via nell'aria leggera, una macchia azzurra, una rosa gialla, un respiro di vento la sera, una lucciola accesa in un prato"). Guccini regala, infine, anche una outtake del 1971, dal titolo "La tua libertà".

E poi, nel 2012, la parola "fine". Alla veneranda età di settantadue anni, di cui quasi cinquanta passati a cantare sui palchi d'Italia, Guccini incide quello che - garantisce - sarà il suo ultimo album: L'ultima Thule. L'album non spiacerà con ogni probabilità ai gucciniani doc, ma è dominato da pezzi poco riusciti o interlocutori, con due importanti eccezioni: "Su in collina" e "L'ultima Thule". La prima, trasposizione di una storia dialettale partigiana, mescola il freddo dell'inverno e la desolazione della collina emiliana a una morte in guerra che gela il cuore. Senza irritanti accenti eroici, con tono dimesso, Guccini riporta in luce la tragedia di un periodo troppo spesso svuotato del suo lato umano.
La seconda, un po' "Bisanzio" e un po' "L'isola non trovata", ritorna invece sull'archetipo super-gucciniano della terra leggendaria e irraggiungibile, con tutto il caravanserraglio di simboli che il cantautore ci ha associato nei tanti anni di frequentazione. Figlia di una gestazione lunga quasi quanto la sua carriera - era dai tempi di "Radici" che Guccini pensava a "L'ultima Thule" come titolo per il suo album conclusivo, la canzone sfrutta il mito medioevale dell'isola di ghiaccio e fuoco perduta all'estremo nord dei mari per intrecciare un'ultima volta vecchiaia, sogno e memoria fino a che non sia più possibile distinguerle fra loro. Senz'altro la traccia più incisiva del disco, è anche uno degli episodi musicalmente più entusiasmanti dell'intero canzoniere gucciniano: una cavalcata prog-folk in cui tastiere, fiati, percussioni, ghironda si rincorrono e fanno da contrappunto alla voce con energici motivi celtici.

Nel 2022, tuttavia, una sorpresa, chiamata scherzosamente Canzoni da intorto, ovvero da seduzione. Non un disco di nuovi pezzi firmati Guccini, ma un album di cover. Subissato dalle richieste dei discografici, il cantautore decide di accettarle a modo suo, incidendo una collezione di pezzi che sono stati significativi per il suo percorso di ascoltatore e musicista. Accanto a lui nell'avventura, il produttore e arrangiatore Fabio Ilacqua, già distintosi per i lavori con artisti di ambito sanremese. Tutte le premesse fanno temere il peggio, ma sorprendentemente il disco è riuscito — anzi, il più riuscito degli ultimi pubblicati dall'autore.
Sentitosi forse liberato dai vincoli del pop da classifica, Ilacqua confeziona orchestrazioni acustiche ricche, inventive e spesso goliardiche, da qualche parte fra Stormy Six e Capossela. Dal canto suo Guccini, che già prima dell'addio discografico coltivava il desiderio di una raccolta di cover, effettua scelte decisamente personali e rappresentative: canti anarchici e partigiani, canzoni dialettali, temi tradizionali, perfino una ghost track in ucraino che sottolinea l'attualità dei motivi di lotta evocati dalla tracklist. Particolarmente riuscite le riletture del traditional piemontese "Barun Litrun", con uno sviluppo progressive folk che trova nuovo spazio per la ghironda, e della dimessa "Sei minuti all'alba", firmata da Enzo Jannacci e rivista in una coraggiosa chiave habanera.

Se Canzoni da intorto era la sorpresa, Canzoni da osteria (2023) è la conferma: Guccini ha ancora di che cantare, anche se non in parole sue. Inevitabili i paragoni con la precedente uscita, datata 2022 – il team è sovrapponibile, il titolo varia per una sola parola, perfino le due copertine possono confondersi. Si tratta, sotto pressoché ogni punto di vista, di due album gemelli, frutto del ritrovato entusiasmo del cantautore ritiratosi dai palchi ormai un decennio fa.
Molte le vicinanze col primo capitolo anche per quanto riguarda gli arrangiamenti (curati ancora da Fabio Ilacqua) e la scelta dei brani, trasversali a molteplici registri e tradizioni. Aprono e chiudono la selezione i due pezzi più apertamente politici, “Bella Ciao” – che Guccini dedica alle donne persiane e canta parzialmente in Farsi – e “21 Aprile”, sul Golpe dei Colonnelli in Grecia nel 1967.
Racchiusa fra questi due, una pluralità di lingue e stili, tutti debitamente trasposti in “guccinese”: ci sono episodi dialettali (“Maria la guerza” e “La Maduneina dal Baurgh 'd San Pir”, entrambi in bolognese), pezzi in inglese e in ebraico (“The Last Thing On My Mind”, “Cotton Fields”, “Hava Nagila” – che i cultori di Sanremo e Battiato riconosceranno come ispirazione di “Oppio”, portata al festival da Sibilla nel 1983), un brano in catalano dell’autore barcellonese Joan Manuel Serrat, “La Tieta”, che Guccini aveva già inciso in modenese nel 2004 su “Ritratti”. E ben quattro canzoni in castigliano: “Jacinto Ciclana”, con musica di Astor Piazzolla e testo di Jorge Luis Borges (e scusate se è poco), “El caballo negro”, “La chacarera del 55”, “Sur”.
Anche in questo caso, a brillare sono soprattutto la ricchezza e il calore degli arrangiamenti, prevalentemente acustici e assai variegati: si va dallo zumpa-zumpa balcanizzante di “Bella ciao” (impeccabile, anche se oggi un po’ consunto) al valzerino di “Maria la guerza”, fino al bluegrass di “Cotton Fields”, ai necessari stop’n’go klezmer su “Hava Nagila” e allo scherzoso folk-pop che ridà linfa ad “Amore dove sei”, brano del 1970 con cui il cantautore milanese Giorgio Laneve ebbe successo a “Un disco per l’estate”. A colpire di più, forse, è però il pezzo strumentalmente più scarno, la veneziana “Il canto dei battipali”, cantata a cappella con il coro alpino “Orobica” e il solo appoggio del sound design di Ilacqua (leggasi: mazzate di battipalo a scandire le battute).
Se nei passaggi recitati la voce del cantautore un poco zoppica, al momento di cantare l’intonazione è del tutto a fuoco. Che ci sia o meno l’aiuto di un pizzico di autotune, il risultato è ampiamente soddisfacente e, anche se forse meno scoppiettante di Canzoni da intorto, senz’altro meritevole di ascolto tanto per i “gucciniani” di ferro quanto per chi fosse incuriosito dall’ampiezza di spettro e dalla qualità strumentale di queste rielaborazioni, tradizionali e non.

Questo e molto altro ancora ci sarebbe da dire e da raccontare su Francesco Guccini, ma per tutto il "non detto", o meglio il "non scritto", vi rimandiamo all'ascolto dei suoi dischi. Intanto, incorniciamo la sua opera e la sua poesia con le parole del premio Nobel Dario Fo: "Quella di Guccini è la voce di quello che un tempo si diceva il 'movimento'. Oggi, semplicemente, una voce di gioventù. E cioè di granitica coerenza con il proprio linguaggio e pensiero. Nella sua opera c'è un discorso interminabile: sull'ironia, sull'amicizia, sulla solidarietà".

Contributi di Marco Sgrignoli ("Canzoni da intorto", "Canzoni da osteria")

***

Una riflessione sulla poetica di Francesco Guccini

di Marco Sgrignoli

"No, Guccini non mi piace, troppo politicizzato". L'ho sentita molte volte, questa frase o una sua equivalente. Uno scrive "La locomotiva" e da lì in poi basta, sarà per sempre "il cantautore di sinistra". Ho perfino fatto il conto, una volta: le sue canzoni anche solo lontanamente "schierate" sono meno di un quinto del totale. Ma non importa. Non importa, perché sentendo "Cyrano" è facile restare incantati dall'utopia o gridare all'eccesso di retorica; insomma, la reazione è immediata: bello/brutto, amore/orticaria. E allora contano poco tutti gli altri pezzi meno espliciti, meno moraleggianti e a ben vedere anche meno orecchiabili: il Guccio è il poeta dell'Eskimo, della Primavera di Praga e del Che, punto.

Punto un corno. Chi non va oltre al Guccini "sessantottino" se non per qualche sporadico sentimentalismo d'effetto (Canzone per un'amica, Farewell, Incontro) o goliardata di lusso (La genesi, I fichi) non sa cosa si perde. E cosa si fa sfuggire sotto il naso, perché alcuni di questi pezzi nascondono proprio le "chiavi d'accesso" a quello che l'amico Vecchioni definisce il Guccini cantadubbio.

"Incontro", ad esempio: perché non cominciare da qui. La storia è semplice, no? Dopo dieci anni incontrare un'amica (una ex?), a cena da lei abbozzarne un resoconto e poi, inevitabilmente, finire a parlare dei bei tempi andati. Come in un libro scritto male il marito di lei si è ucciso per Natale, ma non è tristezza quella avvolge la situazione: è piuttosto una dolce nostalgia, disillusione, malinconia sottile ("Amerigo").

Una sensazione che è centrale nella poetica di Guccini e si coniuga con altri due temi fondamentali: lo scorrere del tempo e la Verità.
In "Gulliver", il navigatore di Swift ormai vecchio racconta ai nipoti delle sue avventure:

"E sorridendo come sa sorridere soltanto
Chi non ha più paura del domani,
Parlava coi nipoti, che ascoltavano l'incanto
Di spiagge e odori, di giganti e nani,
Scienziati ed equipaggi
E di cavalli saggi
Riempiendo il cielo inglese di miraggi.
"

I racconti di Gulliver sono per chi ascolta solo incanto, miraggio. L'età porta forse con sé la saggezza, ma questa non può essere trasmessa ed è per gli altri indistinguibile dalla fantasia.

"Ma se i desideri sono solo nostalgia
O malinconia di innumeri altre vite,
Nei vecchi amici che incontrava per la via,
In quelle loro anime smarrite,
Sentiva la balbuzie intellettuale e l'afasia
Di chi gli domandava per capire;
Ma confondendo i viaggi con la loro parodia,
I sogni con l'azione del partire
Di tutte le sue vite vagabondate al sole
Restavan vuoti gusci di parole.
"

L'incapacità di capire ricade però su Gulliver stesso, che non sa più discernere tra realtà e immaginazione: il racconto perde di corpo, restano solo vuoti gusci di parole. La Verità è allora impossibile da trattenere, e ancor più da esprimere a parole, al punto tale che nulla possono i poteri accumulativi di età ed esperienza: da tempo e mare non si impara niente.

La Verità si svela invece in epifanie, momenti di illuminazione in cui sembra di poterla cogliere, ma svaniscono prima che sia possibile razionalizzare. Ecco dunque "L'isola non trovata":

"Appare a volte avvolta di foschia, magica e bella,
Ma se il pilota avanza, su mari misteriosi è già volata via,
Tingendosi d'azzurro color di lontananza.
"

Tutto quel che resta delle fugaci apparizioni è il ricordo di questa stupida ebbrezza ("L'orizzonte di K.D."), che si tramuta proprio in malinconia sottile, assieme rimpianto di un'occasione persa e gioia di riviverla anche se sbiadita.
Occasioni perdute che traducono l'incapacità di vivere il presente, perennemente sospesi tra nostalgia del passato e speranza (già in partenza disillusa) di riaverlo in futuro: "Autogrill" è un breve attimo di folgorazione, intuizione di una possibilità di cambiamento, immediatamente scartata preferendo per pigrizia il rimpianto al rimorso; "Lettera" constata che il tempo non ha pietà dei continui rinvii e tentennamenti di chi aspetta sempre l'inverno per desiderare una nuova estate:

"Io sdraiato sull'erba verde fantastico piano sul mio passato
Ma l'età all'improvviso disperde quel che credevo e non sono stato

[...]
Ma il tempo, il tempo chi me lo rende, chi mi da indietro quelle stagioni
Di vetro e sabbia, chi mi riprende la rabbia, il gesto, donne e canzoni,
Gli amici persi, i libri mangiati, la gioia piana degli appetiti,
L'arsura sana degli assetati, la fede cieca in poveri miti?
"

Fra le righe della stessa "Lettera" emerge il mito della Natura e dell'infanzia come condizione di innocenza, "Età dell'Oro" ormai irrecuperabile, che arriva a identificarsi implicitamente con l'estasi senza tempo che è causa e oggetto della malinconia sottile:

"Son tornate a sbocciare le strade, ideali ricami del mondo
Ci girano tronfie la figlia e la madre nel viso uguali e nel culo tondo
In testa identiche, senza storia, sfidando tutto confini
Frantumano un attimo quella boria grida di rondini e ragazzini
"

"La collina" è interamente incentrata su questo dualismo, ma la sovrapposizione si fa totale in "La canzone della bambina portoghese", summa dell'epifanismo Gucciniano. Alla supponenza degli adulti e delle loro certezze, si contrappone l'istante di ineffabile meraviglia vissuto da una bambina di fronte all'immensità dell'Oceano.

"Gli amici vicino sembravan sommersi dalla voce del mare
O sogni o visioni qualcosa la prese e si mise a pensare
Sentì che era un punto al limite di un continente
Sentì che era un niente, l'Atlantico immenso di fronte.
E in questo sentiva qualcosa di grande
Che non riusciva a capire,
Che non poteva intuire,
Che avrebbe capito
Se avesse saputo, lei,
Che l'Oceano è infinito.
Ma il caldo l'avvolse e si sentì svanire, e si mise a dormire.
E fu solo nel sole, come di mani future.
Restaron soltanto il mare e un bikini amaranto.
"

All'opposto speculare, quantomeno per la scelta del protagonista, è "Bisanzio". Qui i temi già analizzati assumono una dimensione epica, tragica, disarmante. Filemazio, dotto di una Costantinopoli in decadenza traccia il bilancio desolante ella sua vita, spesa in nome di una Ragione che non gli ha insegnato come leggere il senso del Mondo, più chiaro a barbari che forse sanno già la Verità.

"Io, Filemazio, protomedico, matematico, astronomo, forse saggio
Ridotto come un cieco a brancicare attorno
Non ho la conoscenza, od il coraggio, per fare quest'oroscopo, per divinar responso
E resto qui a aspettare che ritorni giorno.
E devo dire, devo dire che sono forse troppo vecchio per capire
Ho perso la mia mente in chissà quale abuso od ozio,
Ma stan mutando gli astri nelle notti d'equinozio.
O forse io, forse io ho sottovalutato questo nuovo Dio
Lo leggo in me e nei segni che qualcosa sta cambiando
Ma è un debole presagio che non dice come e quando.
"

Cari gucciniani di "Dio è morto" e "Cyrano", spero che questo excursus attraverso alcuni brani "minori" della sua discografia possa gettare una nuova luce sul finale della "vostra" "Incontro":

"E pensavo dondolato dal vagone:
Cara amica, il tempo prende, il tempo da;
Noi corriamo sempre in una direzione
Ma qual sia e che senso abbia chi lo sa.
Restano i sogni senza tempo, le impressioni di un momento
Le luci nel buio di case intraviste da un treno.
Siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa
E il cuore di simboli pieno.
"

Francesco Guccini

Discografia

Folk Beat N. 1 (La voce del padrone, 1967)

6,5

Due anni dopo (Columbia, 1970)

6

L'isola non trovata (Columbia, 1970)

5,5

Radici (Columbia, 1972)

8

Opera Buffa (Columbia, 1973)

5

Stanze di vita quotidiana (Columbia, 1974)

5,5

Via Paolo Fabbri 43 (Emi, 1976)

8

Amerigo (Emi, 1978)

6

Francesco Guccini & i Nomadi - Album Concerto (live, Emi, 1979)

Metropolis (Emi, 1981)

5

Guccini (Emi, 1983)

6

Fra la via Emilia e il West (doppio cd, live, Emi, 1984)

Signora Bovary (Emi, 1987)

6,5

...Quasi come Dumas... (live, Emi, 1988)

Quello che non... (Emi, 1990)

6

Parnassius Guccini (Emi, 1993)

6

D'amore di morte e di altre sciocchezze (Emi, 1996)

6

Guccini Live Collection (doppio cd, antologia, Emi, 1998)

Stagioni (Emi, 2000)

5,5

Francesco Guccini Live @RTSI (live, Baby Records, 2001)

Ritratti (Emi, 2004)

6,5

Anfiteatro Live (doppio cd, live, Emi, 2005)
The Platinum Collection (triplo cd, antologia, Emi, 2006)

Storia di altre storie (doppio cd, antologia, Emi, 2010)

L'ultima Thule(Emi, 2012)

5

Canzoni da intorto(Bmg, 2022)

7,5

Canzoni da osteria (Bmg, 2023)

6,5

Pietra miliare
Consigliato da OR

Francesco Guccini su OndaRock

Francesco Guccini sul web

Sito ufficiale
Testi